Appropriarsi della realtà. Wes Anderson e La
Trama Fenicia.
Appena è uscito in Italia (il
28 maggio), de La Trama Fenicia di Wes Anderson ho sentito parlare male.
Critici si scagliavano contro il regista de I Tenenbaum accusandolo di
manierismo. Frase tipica che si sente pronunciare nei riguardi di una pellicola
di Wes Anderson è: “Fa sempre lo stesso film”. Partiamo da qui. Il pittore
Edward Hopper rispondeva così in un’intervista: “Nei miei quadri cerco me stesso”.
Così Wes Anderson. Il percorso artistico del regista è quello verso il
raggiungimento di una lingua perfettamente connotata per raccontar (si) il
mondo. Si tratta, come per Hopper, di un’appropriazione del reale. La realtà
piegata alla forma che Wes Anderson, film dopo film, perfeziona. Di storie (ma
non è questo il luogo per un’invettiva contro lo storytelling) è pieno il
panorama artistico-letterario; le voci tanto penetranti da essere cultura di
massa, oltre che immediatamente riconoscibili, scarseggiano. Ma una di queste è
quella di Wes Anderson. I leitmotiv contenutistici sono accessori di una più
profonda ricerca, che è quella della forma. E la forma (Adorno) è contenuto.
Questo si può rispondere a chi accusa Anderson dimanierismo. Perché, in fondo,
cos’è il manierismo se non coerenza tonale, vocale, stilistica? Perché, mi
chiedo, i critici si lamentano di un artista che trovato una voce così precisa?
Al che, sempre facendo fede a Adorno, una delle scene che aprono La Trama
Fenicia - Benicio Del Toro ferito che fa colazione nella vasca da bagno - è
tanto formalmente compiuta da non essere più solo il come ma anche il
cosa; non già più significante volto alla trasmissione di un significato,
ma estetica che si autogiustifica. Così per tutto il cinema del nostro.
La Trama Fenicia è la
storia di una famiglia disfunzionale. Zsa Zsa Korda, un miliardario che tutti
cercano di uccidere, ha in mente un piano, che concretizzerà dopo trent’anni di
lavoro, la Trama Fenicia, appunto. Se riesce nell’impresa, i proventi di
un’area ora commercialmente inattiva saranno suoi al 5% per i prossimi 150
anni. Ma perfidi burocrati si oppongono, lo ostacolano, danno vita alla
narrazione che, come in tutti i film di Wes Anderson, segue questo schema: la
gargantuesca trama e l’intrigo gargantuesco che, alla fine della fiera, si
riducono a umane troppo umane passioni. La passione de La Trama Fenicia
è il riscatto morale, innescato dall’incontro di Korda con la figlia Liesl, una
suora. La Trama Fenicia nasce per guadagnare; ma Liesl è convinta possa essere
fautrice di buone azioni. Da anni si dice che Wes Anderson è freddo; non lo è.
Le emozioni, è vero, sono stilizzate (stilizzazione accentuata dalla
recitazione piana), ma valgono (ossia, il film emoziona) perché stilizzato è il
testo filmico nella sua interezza, e dunque le emozioni, così rappresentate,
sono coerenti col testo che Wes Anderson presenta. Ma per godere - e capire - i
giochi linguistici, bisogna prima comprendere la lingua.
La Trama Fenicia è un’opera
sulla redenzione morale, dove il sacro diviene tale non perché vicino a Dio ma
perché vicino alla terra. Dopo anni di imbrogli, evasione fiscale, agiti
violenti atti solo al guadagno, Korda - che sta invecchiando - può diventare
buono? Può salvarsi dall’inferno che le visioni in esperienza pre-morte gli
prospettano? Il sacro, ne La Trama Fenicia, è il kantiano “Bene che si
sente”. Così Liesl sul finale: “Quando prego, nessuno risponde”, ma agisce come
pensa avrebbe suggerito di Dio e “di solito, è ovvio”. Come sempre scandito per capitoli, La
Trama Fenicia è un film a sketch che porta avanti la riflessione di Wes
Anderson sulle disfunzioni della famiglia, con un’estetica che rende i
movimenti dei personaggi mosse di ballo sullo spartito di precise panoramiche,
severe carrellate su interni dove ogni dettaglio è saturato di lirismo. Un’opera
di forma, un’opera che afferma con coraggio l’identità tra forma e contenuto.
Un film di Wes Anderson che somiglia a tutti gli altri, nella ricerca
spasmodica di ogni artista (che si rispetti): non quella della grande storia
(già tutte raccontate), ma della voce autentica che possa non più dire ma
cantare. Se il banale, l’uguale, il ridondante sono
cantati, hanno valore?