Come
impedire che l’astensione distrugga i referendum. Il netto insuccesso della prova
referendaria di giugno su tematiche della massima importanza come il lavoro e
la cittadinanza ci costringe - ed è indispensabile che ciò avvenga - a
considerazioni di fondo sullo stato dell’orientamento democratico della società
civile, dove è evidente l’azione corrosiva portata dalle destre. Questa risulta
particolarmente sottolineata constatando la distanza considerevole che ha
separato i Sì al primo dei quattro quesiti sul lavoro (quello relativo alla
reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo anche per
chi è stato assunto dopo il 7 marzo 2015) da quello sulla cittadinanza. I
numeri parlano chiaro: il primo quesito, il più votato tra quelli sul lavoro, ha
raggiunto 13.310.443 voti (comprendendo anche quelli provenienti dall’estero),
mentre quello sulla cittadinanza (sempre con i voti esteri) si è fermato a 9.748.806.
Nella provincia di Bolzano, ove si è votato di meno che nel resto d’Italia, il
No al dimezzamento degli anni d’attesa per conseguire la cittadinanza ha addirittura
superato i Sì con il 52% dei voti. Vi è
chi attribuisce la differenza di quasi tre milioni e mezzo di voti interamente
ai 5stelle lasciati liberi da indicazioni di voto, ma probabilmente le ragioni
di una simile diversità sono più complesse e profonde. Gli studi offerti da
vari centri sondaggistici (mi pare interessante quello fatto sulla città di
Torino) aiutano certamente alla comprensione dell’esito del voto, ma dovrebbero
e potrebbero essere accompagnati - ecco un’occasione da non perdere - da un
lavoro d’inchiesta, che permetterebbe, venendo a contato diretto con la
popolazione, di registrarne finalmente l’effettivo punto di vista, anziché
dedurlo da presunte corrispondenze meccanicistiche tra voto referendario e
scelta politica.
Naturalmente è giusto sottolineare anche alcuni aspetti
specifici che hanno influito negativamente sull’andamento del voto. Tra questi
va considerata senza dubbio la arbitraria cancellazione del referendum
sull’autonomia differenziata operata dalla Consulta sulla base di motivazioni
che sfidano prima ancora la logica più che il diritto. La richiesta di
abrogazione totale della legge Calderoli avrebbe costituito un traino ideale
per portare alle urne i cittadini, favorendo così, anche se certamente di per
sé non garantendo, il voto sugli altri quesiti referendari. Certo la
controprova non c’è, ma gli indizi a nostra disposizione ci portano a credere
che la presenza del quesito contro la legge Calderoli avrebbe potuto
raggiungere e superare il quorum per la sua dimostrata capacità di penetrazione
anche in ambiti elettorali legati alle destre specialmente nel Mezzogiorno. In ogni caso questa vicenda dimostra la
necessità, modificando la legge 352/1970 che la verifica di costituzionalità
dei quesiti avvenga prima e non dopo la raccolta delle firme evitando almeno di
mortificare la volontà espressa, in questo caso, da quasi un milione e 300mila
cittadine e cittadini.
È giusto anche sottoporre a critica il modo con cui
soprattutto le forze politiche sostenitrici del Sì hanno condotto la campagna
elettorale. L’avere messo a un certo punto in primo piano le possibili
conseguenze politiche del voto referendario (tutte peraltro da dimostrare), addirittura
evocando lo sfratto al governo Meloni, ha più che altro nuociuto all’esito della
prova favorendo la chiamata all’astensione. Peraltro questa non è neppure stata
contrastata a dovere, visto che è stata evocata da figure istituzionali le cui
funzioni andrebbero adempiute “con disciplina ed onore” (art. 54 Cost.). Non
solo ma la legislazione ancora vigente, derivante dal Testo unico sulle leggi
elettorali del 1948, la cui validità sul punto specifico è stata ribadita anche
per le campagne referendarie dalla legge 352/1970, ribadisce che atti e parole
che inducono all’astensione, a differenza del comune cittadino, sono
perseguibili con previsione delle pene comminabili.
La Cgil, per bocca del suo segretario generale, ha giustamente
ribadito di essersi mantenuta ben lontana da questo scivolamento dell’asse
tematico e finalistico che di per sé è da considerarsi estraneo alla stessa ratio del confronto referendario. Ma
anche il maggiore sindacato italiano ha delle domande da porsi e delle
riflessioni da fare. La novità, giustamente sottolineata, del ricorso
all’istituto referendario da parte del sindacato in prima persona, è risultata
insufficiente per la rivitalizzazione dell’organizzazione e la sua
trasformazione in un sindacato di strada, un obiettivo per il cui
raggiungimento è ineludibile l’essere sindacato nel senso più pieno e forte
della parola, facendo i conti con le modificazioni intervenute nelle condizioni
e nei rapporti di lavoro. Ma la sconfitta va persino al di là di questi ambiti,
e ci induce a riflettere su l’istituto stesso del referendum abrogativo, cioè
dell’unica forma nella quale si esprime pienamente la democrazia diretta come
previsto dalla Costituzione. Data la direzione che le classi dirigenti hanno
preso - non solo nel nostro paese - di sancire la rottura del rapporto fra
capitalismo e democrazia con rovesciamenti istituzionali che la codifichino, è
decisivo difendere e ampliare la possibilità che i cittadini con un Sì o con un
No producano un effettivo ed immediato cambiamento. È dal 2011, dai referendum
vincenti sull’acqua e sul nucleare (i cui esiti sono stati a lungo boicottati e
che ora le destre cercano di capovolgere) che il quorum non viene raggiunto.
Per di più entro un quadro di astensionismo crescente anche nelle consultazioni
politiche: nelle ultime europee ha votato la minoranza degli aventi diritto.
Il
referendum di giugno ha cozzato contro un muro di silenzio elevato
in nome dell’astensione che è stata contrabbandata come un diritto al pari di
quello del voto. Non lo è. Perché il secondo è un dovere civico. Non vi è da
stupirsi visto che la scelta dell’astensione è stata fatta in passato anche
dalle forze del centrosinistra, e suoi esponenti autorevoli posti in
collocazioni apicali delle istituzioni, come Giorgio Napolitano, avevano
concesso all’astensione l’imprimatur della legittimità. Quindi la recente prova
ribadisce che il principale nemico del referendum abrogativo è l’astensione.
Ovvero il referendum è costretto a una gara impari in partenza, anche perché
alla crescente astensione - che molti definiscono cronica - si aggiunge quella
scelta e organizzata nelle specifiche prove.
Lo riconosceva anche un
organo consultivo del Consiglio d’Europa, la Commissione di Venezia, fin dal
2006, quando scriveva che il rifugiarsi nell’astensione «non è sensato per la
democrazia». Se si vuole salvare il referendum e non assistere immobili al suo
boicottaggio, serve una riforma - necessariamente costituzionale trattandosi di
modificare il 4° comma dell’art. 75 Cost. - dell’istituto referendario che non
può che prendere di mira il ricorso all’astensione. Non penso sia opportuna la
cancellazione totale di ogni quorum, che indebolirebbe proprio la forza di
espressione della sovranità popolare, che è l’anima del referendum e che si
esprime anche attraverso la partecipazione di una consistente massa critica di
cittadini. Né bisogna inventarsi parziali quanto opinabili riduzioni dell’attuale
quorum. Non trovo convincente il cosiddetto “quorum mobile” per cui gli aventi
diritto al voto coinciderebbero con i votanti nelle ultime elezioni politiche,
perché stabilirebbe un nesso assai poco virtuoso fra voto sulla rappresentanza
politica e quello su specifiche questioni dotate di una potenziale
trasversalità, oltre a dare per strutturale l’aumento dell’astensione nelle
votazioni politiche.
Si può invece capovolgere il criterio su cui viene calcolato
il quorum, ricorrendo semplicemente ad una soglia di voti positivi a favore
della proposta referendaria. Il meccanismo è semplice, basta partire
dall’attuale situazione. Secondo l’art.5 Cost “la proposta soggetta a
referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli
aventi diritto al voto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente
espressi.” Bene. Partiamo dal caso limite. Se nella votazione ha partecipato il
50% più uno degli aventi diritto, la soglia di sicurezza per la vittoria del
Sì, cioè della proposta referendaria, è costituita dal superamento della metà
di quel voto, cioè il raggiungimento del 25% più uno degli aventi diritto. Se
si toglie, come propongo, il quorum rappresentato dalla maggioranza della
partecipazione al voto degli aventi diritto, resterebbe quest’ultima soglia,
quella del 25% più uno l’unica da raggiungere e meglio ancora superare, per
dichiarare valida la consultazione e approvata la proposta referendaria. A
questo punto il ricorso all’astensione diventerebbe un puro suicidio perché
anche se raggiungesse il 75% meno uno perderebbe comunque. Quindi il Sì e il No
si troverebbero a fronteggiarsi in aperta e democratica contesa. In questo modo
si tornerebbe a dare valore al referendum abrogativo che i padri costituenti,
dopo non semplice discussione, gli avevano dato: quello della possibilità dei
cittadini di correggere o cancellare direttamente una decisione sbagliata o
ingiusta assunta dal Parlamento, attraverso il voto su una richiesta referendaria,
filtrata attraverso il parere della Corte di cassazione e, preventivamente alla
raccolta delle firme come sarebbe più logico, della Consulta. Si salverebbe
così l’unico strumento di democrazia diretta previsto in Costituzione dallo
strangolamento operato dall’astensione voluta da quelle stesse forze che, in
base ad una maggioranza parlamentare che è tale solo per una legge elettorale
truffaldina, hanno votato quelle leggi.