SUL REFERENDUM di
Giuseppe Natale -
presidente Anpi Crescenzago
Bocciati
i cinque referendum su lavoro e cittadinanza. Il
64,4% degli elettori non ha votato: quorum non raggiunto. Si deve prendere atto, con
consapevolezza critica, della bocciatura dei cinque referendum e interrogarsi
sulle ragioni che hanno convinto le/gli italiani a disertare le urne. Giustamente
la segreteria nazionale di ANPI rivendica, nel suo comunicato del 10 giugno, di
avere “sostenuto la campagna referendaria perché i temi riguardavano questioni
costituzionali centrali: i diritti sociali e civili”. E si ribadisce che questi
temi fondamentali costituiscono la “missione dell’ANPI”: affermazione
importante nella misura in cui impegna l’associazione dei partigiani e della
memoria resistenziale ad operare nel vivo delle questioni della società
contemporanea, e quindi ad essere protagonista e soggetto civico e politico il
più autonomo e democratico possibile. Per quanto mi riguarda personalmente, ho
dato il mio contributo a sostegno del Sì, e ho fatto un salutare bagno di
realtà nel volantinare e confrontarmi con le persone normali. Mentre confesso
l’amarezza per il risultato negativo, ritengo necessario cercare di capirne le
ragioni. Come si sa il referendum abrogativo (art. 75/Cost.) di una legge o di
parti di essa è valido quando vota “la maggioranza degli aventi diritto” (il
cosiddetto quorum: 50%+1), “e se è raggiunta la maggioranza dei voti
validamente espressi”. È uno strumento molto importante di democrazia diretta
da usare, a mio avviso, con intelligenza e con efficacia: il che spesso non è
avvenuto e non avviene. Per la prima volta si erano raccolte 5 milioni di
firme, raccolta senz’altro agevolata dallo strumento elettronico, e con lo
straordinario effetto di trascinamento del quesito referendario di abrogazione
della legge sull’autonomia differenziata: segnale di grande mobilitazione e partecipazione.
Senza però raggiungere l’obiettivo del quorum. Perché? Sono andati a votare 15
milioni di cittadini-e, il 30,6%; non hanno votato il 69,4%. I Sì ai quattro referendum sui diritti e sulle
condizioni del lavoro oscillano tra l’87% e il 90%. I Sì
al quinto referendum (riduzione da 10 a 5 anni di residenza per la domanda di
cittadinanza delle persone immigrate) arrivano al 65,27% e i No a un preoccupante 34,73%. L’affluenza più alta
è stata raggiunta in Toscana (39,09%) e a Firenze (46%); in una posizione
intermedia la Lombardia (30,70%), con Milano che arriva al 35,43%. Il Trentino
Alto Adige guida le regioni con la più bassa partecipazione al voto (22,70%);
seguono la Sicilia (23,10%) e le altre regioni meridionali.
Nei volantini di informazione e propaganda del Comitato
promotore, nel quale il sindacato CGIL è stato il soggetto più attivo, venivano
chiaramente esposte le ragioni per partecipare al voto ed esprimere cinque Sì. Primo quesito: stop ai licenziamenti illegittimi e
ripristino del diritto al reintegro nel posto di lavoro nelle imprese con più
di 15 dipendenti: 3 milioni e 500 mila le e i lavoratori interessati. Secondo
quesito: maggiori tutele per chi lavora nelle imprese con meno di 15
dipendenti: 3 milioni 700 mila lavoratori e lavoratrici. Terzo quesito:
riduzione del lavoro precario: 2 milioni 300 mila persone coinvolte. Quarto
quesito: maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro (600 mila denunce di infortuni
sul lavoro e 1000 morti all’anno!) attraverso la modifica della normativa degli
appalti introducendo la responsabilità dell’azienda /imprenditore committente.
Quinto quesito: riduzione da 10 a 5 anni di residenza per fare domanda di
cittadinanza da parte delle persone immigrate: 2 milioni 500 mila persone
interessate. Alle persone direttamente interessate (9 milioni 500 mila),
bisogna aggiungere quelle coinvolte indirettamente e la cittadinanza attiva e
motivata: si arriva così ai 15 milioni che sono andati a votare. Mi soffermo su
queste cifre e dati per sottolinearne la rilevanza quantitativa e qualitativa e
per fare qualche considerazione in rapporto al mancato quorum. Nonostante
questi numeri, occorre ricordare che, venuto a mancare il referendum abrogativo
della legge Calderoli sull’autonomia differenziata (l. 86/2024) - non ammesso
dalla Corte Costituzionale (sentenza 10/2024, sbagliata secondo molti
costituzionalisti) - la platea elettorale si è drasticamente ridotta: eliminata
la possibilità di esprimere il voto contro la “secessione dei ricchi”, in modo
particolare il Sud, per la sua composizione sociale, si è sentito escluso. Sicuramente
fondamentali, i referendum sul lavoro avrebbero messo in discussione il Jobs
Act, la devastante legge del governo Renzi; avrebbero ripristinati quei
diritti, solennemente riconosciuti dalla nostra Costituzione e conquistati negli
anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, con dure lotte e tanti sacrifici;
avrebbero recuperate almeno in parte dignità e sicurezza delle persone e delle
condizioni e luoghi di lavoro. Eppure, occorre riconoscerlo, questa grande
battaglia referendaria, che portava (e, necessariamente, con forme di lotta più
efficaci, dovrà ancora portare) il lavoro e le condizioni dei lavoratori e
degli sfruttati al centro di una autentica politica sociale e di classe, non
è stata avvertita come propria dalla gran massa montante dei disoccupati e dei
poveri e degli emarginati, e dei pensionati in condizioni assai misere. Sul
referendum riguardante la cittadinanza alle persone immigrate, pesano come un
macigno le politiche degli ultimi trent’anni dei diversi governi, di
centro-destra e di centro-sinistra, che hanno inteso (e ancora intendono) il
grande fenomeno sociale economico culturale delle migrazioni e dell’immigrazione
come un “problema di sicurezza”. Oppure lo affrontano addirittura come pericolo
di “invasione” degli stranieri e di “islamizzazione” della nostra cultura, come
fa l’attuale governo di centro-destra postfascista e “sovranista” usando mezzi repressivi
e razzisti.
Bisognerebbe invece considerare e rispettare il ruolo
lavorativo e civile che svolgono le persone immigrate, in primis i 2 milioni
500 mila che aspettano il riconoscimento del loro diritto di cittadinanza,
ancor più in una società consapevole della sua condizione demografica
(invecchiamento e decremento delle nascite). Nell’interesse generale e per il
progresso del Paese, il filo conduttore di una politica democratica e progressiva
non può non essere che quella che rispetta e tutela e favorisce i diritti
sociali civili culturali uguali per tutte le persone. Domina invece la politica
discriminatoria che incute paura e, dividendo, impoverisce e accentra sempre
più nelle mani di pochi ricchezze e poteri, aumenta le disuguaglianze e
svilisce la dignità delle persone e riduce tutto a merce nella logica di un
capitalismo senza freni, rapace e distruttivo che sta portando l’umanità nel
baratro dell’economia di guerra e della distruzione delle risorse naturali. In
tale contesto, da oltre trent’anni domina il pensiero neoliberistico e le
classi sfruttate e subalterne vengono irretite in una ragnatela di individui
isolati ed atomizzati, in cui egoismi e “guerre” tra penultimi e ultimi
costituiscono gli ostacoli più difficili per una ripresa delle lotte sociali
solidali e per una cooperazione internazionale del 99% degli umani. Sulla base
di questa sintetica analisi, le forze sindacali e sociali, civili e culturali,
spina dorsale di una società democratica e solidale, si devono porre il
problema di fare rete (come si usa dire oggi) e programmare lotte diffuse che
possano anche approdare a proposte e richieste referendarie come strumento
istituzionale di democrazia diretta: ritornare insomma alla tradizionale “lotta
di classe” rivisitata e aggiornata, in primis sui grandi problemi che assillano
l’umanità oggi: ricchezze e poteri accentrati nelle mani di pochissimi da un
lato e dall’altro disuguaglianze e povertà sempre più estese (l’1% contro il
99%), libertà e diritti sempre più violati e ridotti, economie di guerra e
riarmo, genocidi e catastrofi ambientale ecc.
Diversi altri condizionamenti e limiti e ostacoli hanno
certamente concorso a ridurre la partecipazione al voto: il silenzio quasi
generale dei mass media con limitate informazioni alla vigilia delle votazioni,
l’attacco al sindacato che farebbe “supplenza politica” arrogandosi il diritto
di uscire dal proprio ambito, la “politicizzazione” da parte dei partiti di
governo e di opposizione. L’aspetto più grave risiede nel vero e proprio
“boicottaggio” del voto referendario, usando l’astensione come mezzo per fare
mancare il quorum, perseguito spesso dalle classi dirigenti di ogni colore e
anche dalle più alte cariche dello Stato, in modo “trasversale” e da almeno una
quarantina d’anni: dai Presidenti del Consiglio Craxi e Berlusconi al
Presidente della Repubblica Napolitano, fino ad arrivare ad oggi con
esternazioni lesive sia dell’esercizio di voto che del rispetto delle
istituzioni da parte del Presidente del Senato La Russa e del Presidente del
Consiglio Meloni. Quest’ultima arriva a dichiarare: “Vado al seggio e non
ritiro la scheda”. Una vera e propria provocazione che offende il “popolo
sovrano” e calpesta l’art. 54 della Costituzione che stabilisce il dovere di
adempiere le funzioni pubbliche “con disciplina e onore”. Il dato strutturale
che riguarda l’astensionismo è ormai consolidato e dimostra il distacco sempre
più preoccupante tra governanti e governati, tra istituzioni e società. Per
ricordare i dati più recenti: dalle elezioni politiche del 2022 con il 64% di
votanti si è scesi al 48% alle europee e al 42% nelle elezioni regionali della
Lombardia. Non si tratta, secondo me, di crisi strutturale della democrazia e
della partecipazione, ma di una scelta da parte delle classi dirigenti e dei
gruppi di potere economico e politico-partitico di tener lontano il “popolo
sovrano” dal voto “libero e personale, uguale e segreto” (art. 48/ Cost.). Da
quando il sistema elettorale maggioritario e premiale ha sostituito quello
proporzionale e di libera scelta dei candidati e da quando è stata introdotta
l’elezione diretta del sindaco e del presidente di regione, sono stati messi in
discussione i pilastri fondamentali del nostro sistema democratico
costituzionale e partecipativo.
Ritornando sui referendum è interessante notare che l’ultimo,
sulla giustizia, promosso da Lega e Radicali (giugno 2022), ha visto la
partecipazione al voto il 20,4%! Lo ricordo non per consolazione rispetto al
10, 2% in più di voti ottenuti dagli ultimi cinque, ma per dire che esistono
ragioni da vagliare e da considerare attentamente allo scopo di favorire le
cittadine e i cittadini perché vengano messi nelle condizioni di potere
esercitare liberamente il diritto di voto e di potere partecipare e contribuire
direttamente al governo del Paese. Quando le lotte e la partecipazione diretta
e di massa si manifestano, anche i referendum abrogativi raggiungono il quorum:
dei 9 svolti tra il 1974 e il 1995 ben 8 raggiunsero il quorum conseguendo grandi
vittorie civili (ad es.divorzio e aborto). Tra il 1997 e il 2025, su 10
referendum solo due raggiunsero il quorum e si vinse: acqua pubblica e messa al
bando del nucleare: due questioni di evidente interesse generale (e direi
universale) che ancora una volta le classi dirigenti non hanno tradotto in
disposizioni e leggi attuative.Si
intestardiscono invece nel riproporre fonti di energia inquinanti (compreso il
nucleare!) e privatizzazione di un bene comune vitale come l’acqua. Aumentano
così la disaffezione verso gli istituti di democrazia e la divaricazione tra
Stato e Società. Per concludere queste mie considerazioni auspico che alla base
della società civile e della cittadinanza attiva si consolidi e si estenda la
consapevolezza di rovesciare il rapporto tra governanti e governati perché le e
i cittadini non siano considerati sudditi ma davvero popolo sovrano; si
rafforzi la volontà di bloccare la deriva antidemocratica, oligarchica ed
autocratica del governo delle istituzioni; si modifichi il sistema elettorale
in senso proporzionale e costituzionale; si aumentino spazi e strumenti ed
istituti di democrazia diretta, a cominciare dall’introduzione del referendum
propositivo e dell’obbligatorietà di discutere le proposte di legge di
iniziativa popolare.