Il complotto dell’arte, raccolta di
saggi che Jean Baudrillard scrisse negli anni ’90 del secolo scorso, ha
provocato per più di un decennio roventi polemiche tra critici, artisti e
appassionati per il tono irrisorio e requisitorio con cui il sociologo francese
metteva alla berlina la produzione pittorica del ventesimo secolo. “Tutto il
movimento della pittura ha rinunciato al futuro e si è volto al passato. Citazione,
simulazione, riappropriazione… l’arte attuale si limita a riappropriarsi in
modo più o meno ludico, o più o meno kitsch, di tutte le forme e le opere del
passato, vicino o lontano, o addirittura già contemporaneo”. Gli strali feroci
di Baudrillard sono rivolti non solo all’arte figurativa, ma anche al cinema:
“un’orgia di mezzi e di sforzi impiegati a squalificare il film con un eccesso
di virtuosismo, di effetti speciali, di cliché megalomani… Più ci si avvicina
alla definizione assoluta, alla perfezione realistica dell’immagine, più si
perde la forza di illusione”. Ecco la grande assente dal panorama artistico
contemporaneo: l’illusione, e con essa l’incanto, l’immaginazione, il
desiderio, l’enigma. Ogni tipo di espressione artistica sembra tesa al “metalinguaggio
della banalità”, a parlare e a straparlare di se stessa, snobbando il mondo
reale, nell’idolatria dell’apparenza e dell’artificialità. “Oggi, tutte le cose
vogliono manifestarsi. Gli oggetti tecnici, industriali, mediatici, gli
artefatti di ogni specie vogliono significare, essere visti, essere letti,
essere registrati, essere fotografati… Oggetti feticci, senza significato,
senza valore, specchio del nostro radicale disincanto del mondo”.
Baudrillard osserva che a partire da Duchamp, per arrivare a Warhol e a
Koons, ci siamo tutti (artisti, critici, pubblico) resi complici di questa derealizzazione
dell’arte, diventata oggetto di consumo prestigioso, come qualsiasi altro
affare commerciale: “Tutta la duplicità dell’arte contemporanea sta proprio in
questo: rivendicare la nullità, l’insignificanza, il nonsenso, mirare alla
nullità essendo già nulla. Mirare al nonsenso essendo già insignificante.
Aspirare alla superficialità in termini superficiali”. A questo punto, l’arte
diventa inutile, riciclata, non smuove più niente, se non interessi commerciali
e finanziari, finendo per produrre gadget estetici funzionali solo al cattivo
gusto universale. Già in altri saggi tradotti in Italia (La sparizione
dell’arte, L’agonia del potere), Jean Baudrillard si era espresso negli
stessi termini, scagliandosi con indignazione contro la subdola prevaricazione
del controllo, della dissuasione, della neutralizzazione,
esercitata in primo luogo dai media, che ci riducono a diventare “dei
riciclati, degli zombi”, affascinati dalla visibilità ubiqua, dalla trasparenza
immediata, dal Grande Fratello internazionale che trasforma la realtà in
un reality totalizzante e totalitario. “Si pretende che la grande impresa
dell’Occidente sia quella della mercantilizzazione del mondo, di aver
abbandonato tutto al destino della merce. È vero, ma bisogna vedere come la
grande impresa dell’Occidente sarà stata piuttosto quella dell’estetizzazione
del mondo, della sua messa in scena cosmopolita, della sua messa in immagine,
della sua organizzazione semiologica… Tutto, anche il più insignificante, il
più marginale, il più osceno, si culturalizza, si museifica, si estetizza”,
trasformando persino la tragedia della sofferenza in spettacolarità virtuale. Se
tutto è per tutti simultaneamente politico, sessuale ed estetico, ecco che non
esiste più politica come mediazione, sesso come amore e piacere, arte come
bellezza. Non esiste più avanguardia perché non c’è nulla da anticipare, né
informazione obiettiva poiché ogni avvenimento si trasforma in spettacolo, non
produzione ma solo ri-produzione. Qualsiasi espressione supera sé stessa,
arriva all’oltre, al “trans” e al “post”.
L’arte e la critica dell’arte sono scomparse proliferando i loro segni
all’infinito, riciclando forme passate e attuali, eliminando qualsiasi criterio
di giudizio: tutto è arte, quindi niente è più arte. Ogni cosa prodotta
viene utilizzata, sfruttata, sacralizzata nell’arte. Non solo nei musei e nelle
gallerie, nei luoghi deputati della cultura: ma ovunque, nelle strade, sui
muri, nella banalità degli oggetti più comuni. Assistiamo a “una proliferazione
di segni all’infinito, riciclaggio all’infinito di forme passate o attuali (il
grado Xerox della cultura), ma dove non esiste più alcuna regola fondamentale,
alcun criterio di giudizio, alcun piacere”. Baudrillard (1929-2007) ha avuto il
coraggio di sottolineare il paradosso cui assistiamo da anni: a un sostanziale
immobilismo, all’inerzia, alla mancanza di ispirazione, profondità e
originalità di chi opera artisticamente, corrisponde una frenesia produttiva,
un movimento convulsivo e proliferante dei prodotti artistici, nella nostra era
“del simulacro e della simulazione”, delle fake news imperanti, in cui il vero
non si distingue più dal falso, e il veicolo del messaggio diventa più
importante del contenuto.
Forse il simbolo più rappresentativo di questa nuova
funzione dell’arte è stato Andy Warhol: “Warhol non appartiene alla storia
dell’arte. Appartiene al mondo, molto semplicemente. Non lo rappresenta, ne è
un frammento, un frammento allo stato puro. Ecco perché, visto nella
prospettiva dell’arte, egli può essere deludente. Visto come rifrazione del
nostro mondo, è di un’evidenza perfetta”. L’arte, perduta la sua autonomia creativa, si definirà come pura tecnica,
industria, artigianato rituale, o sparirà del tutto: “non sarà stata che una
parentesi, una sorta di lusso effimero della specie”. Se nella mistificazione orgiastica di ciò che appare finisce per sparire la
realtà, forse l’unica possibilità di salvezza consisterà nel tornare
all’evidenza del mondo, alla sua concretezza. Il pungente e provocatorio piccolo volume edito da SE si conclude con due
interviste all’autore e con un saggio di Sylvère Lotringer.
Jean Baudrillard Il complotto dell’arte Ed. SE 2020 - pp. 84