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sabato 14 giugno 2025

UNA FEBBRILE PREPOTENTE PASSIONE
di ANGELO GACCIONE

 

Giambattista Falcone

Sono passati troppi anni e non ricordo più a chi avessi chiesto notizie di materiali appartenuti a Giambattista Falcone (libri, foto, lettere scambiate con giovani patrioti come lui, magari con Pisacane di cui era stato segretario e di cui aveva condiviso il medesimo fatale destino); a quel tempo ero un giovane curioso ma ancora piuttosto ingenuo. Ero convinto che nel “Palazzo”, così lo chiamavano tutti, ci fosse un ricco patrimonio con una galleria di ritratti degli avi della famiglia fino al giovane Battistino, come quelli che si vedono nelle magioni storiche dei nobili e chissà quante altre mirabilie. Per noi che abitavamo nella parte opposta della città, che non avevamo mai potuto accedervi, tutti i palazzi delle famiglie benestanti (Giannone, Falcone, Feraudo, Baffi, Sprovieri, Romano…) rimanevano avvolti in un alone di mistero. 


Carlo Pisacane

Per me in particolare il palazzo del principe Sanseverino aveva qualcosa di attraente perché me lo raffiguravo con sale splendenti ed affrescate, ma anche pervaso da una atmosfera lugubre e sinistra: mi figuravo, chissà perché, squartamenti di briganti e congiure. Si favoleggiava addirittura di 365 stanze, una per ogni giorno dell’anno, e la mia fantasia correva, prendeva il volo. Ricordo però, che mi fu risposto che non c’era rimasto nulla perché il palazzo era stato negli anni abbondantemente saccheggiato. In particolare mi fu detto che i familiari avevano cancellato ogni traccia che riguardava Giambattista, che lo avevano rimosso come un appestato, cancellato di lui ogni memoria per non inimicarsi i Borboni, per non perdere i loro favori, rimanere nelle loro grazie; soprattutto per far dimenticare la tragica vicenda rivoluzionaria a cui aveva preso parte il figlio. Per tutte queste ragioni erano stati bruciati libri, lettere, ritratti, ricordi, dello scapestrato figlio di idee repubblicane. Così mi fu detto. Disperso il corpo, disperso ciò che gli era appartenuto. E ne rimasi convinto fino a quando il suo ritratto non mi capitò fra le mani acquistando un vecchio libro a Cosenza. Il ritratto riprodotto in quelle pagine in cui spiccava la faccia di adolescente che ora conosciamo, con i baffetti sottili, il pizzetto, la “mosca” e il cappello alla calabrese dalla cupola a cono alto, è quello che si era fatto fare a Torino alla vigilia della morte. Fino ad allora ricordavo il volto come lo ha lasciato inciso nel marmo lo scultore Giuseppe Scerbo. 


Palazzo Sanseverino - Falcone

Tracce di due lettere le avevo trovate in seguito nel libretto del sacerdote Nicola Romano: Discorso letto in Acri (Tipografia dello Stabilimento S. Lapi, Città di Castello 1888), ora ristampato dalla Poligrafica Francesco e C., segno che non era vero ciò che mi era stato raccontato e che un ritratto e delle lettere erano state conservate e persino rese pubbliche. Di quella che Giambattista invia da Malta, dove si era rifugiato per sfuggire alle ricerche della polizia borbonica dopo l’attentato di Agesilao Milano, allo zio Biagio Giannone, Romano riporta il brano che segue: “Veneratissimo Zio. Scrivo a voi direttamente, conoscendovi solo capace a comprendermi (…) Per voi che sapete quanto era in me potente questa passione, sarà facile argomentare come avea dovuto svilupparsi in questi ultimi tempi. Basterà dirvi ch’io vivea in un continuo stato febbrile che m’impedia persino di studiare; e che spesso mi son privato di tutti i mezzi, anche necessari, per usarli a questo santissimo scopo. In somma ho agito, come si suole, sotto l’incubo d’una prepotente passione, che non può descriversi, ma solo essere compresa da colui che l’ha provata”. 


Il libro di N. Romano

Uno “stato febbrile” e una “prepotente passione” che è comune a tutti i rivoluzionari ed ai riformatori, agli uomini di fede, perché come ha scritto l’internazionalista Carlo Cafiero: “Sono gli uomini di fede che provocano le esplosioni”. Le parole del giovane cospiratore calabrese riecheggeranno quelle del rivoluzionario russo Michail Bakunin che avendo preso parte ai moti del 1848 in Europa, aveva sperimentato lo stesso “stato febbrile”, la stessa eccitata passione. “Era una festa senza fine” scrive Bakunin, ed era così immerso nell’esaltazione di quelle eroiche giornate da divenirne come stregato: “vedevo tutti e non vedevo nessuno…”.



Un’altra preziosa lettera, l’ultima, la più commovente, la scrive da Genova il 24 giugno 1857, nove giorni prima del martirio che si compirà il 2 luglio a Sapri, ed è indirizzata al concittadino Vincenzo Sprovieri. Gli scrive per informarlo di aver dovuto lasciare Torino in tutta fretta e si scusa per non avere avuto il tempo di salutarlo. Si raccomanda che il ritratto che gli era stato fatto in quei giorni nel capoluogo piemontese, venga consegnato alla sua “povera madre”. È quasi un testamento in miniatura vergato prima di imbarcarsi alla volta di Ponza. “Vincenzino carissimo. Trattandosi di cose in cui l’individuo sparisce, son sicuro che mi terrai per iscusato, se partiva senza darti neppure l’ultimo addio. L’amico che ti consegnerà questa mia, ti darà pure il ritratto, che terrai in deposito presso di te, onde portarlo alla mia povera madre. Aveva scritto altra lettera ai miei fratelli, da lasciarla a te pure, e l’ho smarrita, né ho tempo da rifarla. Dirai tu loro, nel caso che non debba più rivederli, il contenuto: essere mio desiderio che imitassero il mio esempio. Ei son dotati d’un indole energica, e volendo son sicuro che faranno ciò che forse non potrò fare io medesimo”. 


Il libro con l'autografo 
esposto al Museo di Acri

Chissà dove sono finite queste lettere e se qualcuno le custodisce da qualche parte. Sarebbe un regalo prezioso se saltassero fuori, ora che un Museo del Risorgimento è stato creato nella sua città di nascita. Possediamo miracolosamente la sua firma autografa: è stata vergata sulla prima pagina di uno dei libri che gli era appartenuto. Si tratta di una copia dei Prolegomeni del primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti, una edizione del 1846 donata dalla famiglia Julia in comodato d’uso, ed ora è esposta in una delle teche del Museo del Risorgimento di Acri dove ho potuto vederla. 


La firma autografa di Falcone

Un libro prezioso, questo, in cui l’autografo riporta Giovan Battista Falcone, formula che non ho trovato altrove. Per esempio il nome che compare sul suo monumento porta semplicemente Battista; in diverse pubblicazioni, compresa questa di Nicola Romano, il nome composto è scritto tutto unito nella formula Giambattista; in altri documenti ancora si trova Giovanni Battista. È una firma ben leggibile con il cognome che termina con dei curiosi svolazzi. Non sappiamo quando vi sia stata apposta, ma si tratta certamente di una data molto posteriore a quella della stampa del libro. Lo si capisce dal tratto grafico elegante e che denota il gesto di una mano sicura; e lo si intuisce facilmente dalla natura del testo. Si tratta, come abbiamo accennato, di un’opera impegnativa del presbitero patriota e filosofo piemontese Gioberti, la cui lettura richiede maturità. E in età matura deve averla affrontata il Falcone, non certo nel 1846 quand’era poco più che un ragazzino.