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domenica 27 luglio 2025

CINEMA
di Marco Sbrana



Colpa e redenzione ne Il collezionista di carte di Paul Schrader
 
L’asse ontologico-formale dei film di Paul Schrader (e, ovviamente, di quelli che ha sceneggiato per il maestro Scorsese, tra cui Taxi Driver), è quello della colpa. Non è mai, la colpa, come vogliono credere i protagonisti di Schrader, un’esclusiva; è sempre tessuto, struttura, e quindi, nel discorso dell’autore, America. De Niro veniva elevato dall’America, al termine di Taxi Driver, a eroe, dopo la celebre sparatoria finale. Non si curava, l’America, del trauma causatogli con la guerra del Vietnam, né del dolore che Travis aveva a sua volta arrecato. Serviva una figurina da almanacco, e l’America l’aveva trovata in un uomo che - ricordiamolo - per il primo appuntamento con la ragazza che ama propone il cinema porno.
Ne Il collezionista di carte, è un’America che omette, che protegge chi comanda e getta all’inferno chi esegue. Ma, come dice Oscar Isaac, questo non assolve. Non c’è niente, dice, che possa giustificarlo per gli orrori che, come carceriere militare - in sostanza, criminale - commetteva ai danni dei detenuti. Eppure, il personaggio di Oscar Isaac era stato addestrato al fine di estorcere con la forza informazioni che, a dire del capo (un sempre in forma Willem Dafoe, già protagonista per Schrader ne Lo spacciatore), i detenuti “per cultura” non volevano fornire, ma che avevano, bastava insistere. Erano, allora, nelle celle “guantanamizzate” nel 2002, botte, tortura dell’acqua, privazione sensoriale, riduzione alla fame, umiliazione sessuale. E, Oscar Isaac lo riconosce, lui era portato per quell’orrore. Era il perfetto americano pronto a macchiarsi e poi a farsi colpevole, portatore eterno di una colpa, ripetendo, non esclusivamente sua, ma per lui tale fino al momento in cui conosce il personaggio di T. Sheridan.
È al giovane che Isaac pronuncia le migliori parole del film. L’ingiustificabilità. Il corpo che ricorda, che incamera. È tutto, Il collezionista di carte, un film della carne, anche quando esclusa volontariamente dal discorso. Sheridan è figlio di un altro militare dello stesso grado di Isaac. Incarcerato per nascondere chi comandava le prigioni, poi uscito dalla morte come violento, alcolista e, infine, suicida. La madre di Sheridan è fuggita; lui non la vuole più vedere. E, sempre Sheridan, vuole uccidere John Gordon, ossia Willem Dafoe.
Con loro, Tiffany Haddish. Finanziatrice, lei, di Isaac, amica, amante.
Tutto il film si svolge nel contesto del gioco d’azzardo, del blackjack. Una delle prime battute di Isaac è questa, parafrasando: Il blackjack è causalità. Ecco il determinismo morale, ecco l’analogia tra poker e vita, tra debito e debito morale, tra rischio e superamento della soglia.



Ma, più ancora, il concetto di “deriva della forza”. Tutti possono andare in tilt - è Isaac in uno degli splendidi monologhi di Schrader. Quando il giocatore si esalta per le vincite e supera, per rischio, le sue reali possibilità. Quando, con maggiore sforzo - maggiore forza - si ottengono meno risultati. La prigione, in questo, insegna, dice Isaac. E lui la conosce la prigione: è stato dentro dieci anni per i crimini commessi e, prima, come carceriere, comunque dentro, nell’impossibilità di evadere dalle feci, dal tanfo, dal rumore.
Sicché, ne Il collezionista di carte, via via che procediamo nello svolgersi del testo scopriamo sempre più di Oscar Isaac, di Willem Dafoe e della colpa di un’America malata, omertosa, dalla parte dei grandi.
Sheridan, decide Oscar Isaac, non può uccidere Willem Dafoe. Per non farlo e andare a trovare sua madre, Isaac gli offre 150.000 dollari (esentasse). Ed è qui il fallimento della redenzione.


Paul Schrader

Isaac ci viene presentato come metodico e depresso, glaciale e già per forza morto, schiacciato da un debito che, forse, non può saldare. La redenzione, sembra dirci il gesto della consegna del denaro, non è sua, non può essere sua, ma può essere data. Ma Sheridan, dopo aver accettato, rifiuta, e va a uccidere Gordo. Che è più svelto di lui, con le armi.
E arriviamo a un finale assolutamente degno di Taxi Driver. Sheridan è morto, e Isaac deve sistemare le cose. Nei flashback del carcere (quello vissuto da detenuto, s’intende), lo vedevamo, oltre che contare le carte da poker, leggere Marco Aurelio. Regolare i conti con sé è regolarli col mondo che abbiamo contribuito a disorganizzare con la nostra colpa.
Un colpo a testa: inizia Isaac; poi Dafoe; poi Isaac. Il genio registico vieta il tutto alla vista e una panoramica laterale ci svela il farsi del sole mentre, dalla stanza della casa di Dafoe, esce un Isaac quasi morto che, al telefono, denuncia un omicidio.



E solo adesso, solo nella fine del debito, solo nei conti regolati - etica comprensibile e deprecabile a un tempo - può concedersi di amare. Haddish va a trovarlo e, dal vetro separatore, si toccano le dita, dopo che a lungo lei l’ha corteggiato trovando la pietra tombale di un uomo che rinasce solo quando, adesso, si interrompe il ciclo del debito.
Il nuovo carcere - e quindi Isaac è un’altra volta detenuto - è sempre stato, forse, l’unico spazio. Che vieta, pregiudica ma, per alcuni - Isaac è tra questi - concede la vita. Perché l’obiettivo non è mai stato vincere. Chiede Haddish a Isaac perché giochi se non per soldi. Risponde lui: Per passare il tempo. E in carcere ne avrà, di tempo.