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domenica 13 luglio 2025

CINEMA
di Marco Sbrana

 

Note su Dogman di Matteo Garrone
 
Prefigura, la prima scena, il climax del terzo atto. Garrone apre con il rauco abbaiare di un pitbull; luci, poi: il pitbull è bianco e un uomo magro, quasi smunto, dalla voce sottilissima, lo chiama “Amore” e lo invita a calmarsi. È Marcello nel suo negozio di toelettatura “Dogman”; Marcello interpretato da Marcello Fonte (condividono il nome, personaggio e attore). Marcello addomestica il pitbull, che smette di abbaiare. Sintesi cinematografica, sintesi formale. Garrone, osannato anche all’estero, dove ha prodotto lo sfortunato Il racconto dei racconti, costruisce in pochi secondi, quelli di apertura, il fuoco semantico del film tutto. La gabbia, l’animalità, la cura e l’irresistibile tenerezza di Marcello. Ci troviamo in un quartiere limitrofo che guarda la vita cittadina solo da lontano. È radura, è sabbia. Muove il film nei toni del seppia, scoloriti come il mondo che rappresenta, in una totale sovrapposizione di contenuto e forma. La puzza che proviene dai personaggi abbruttiti della borgata coincide con l’effetto grumoso di una forma, quella post-neorealista, che non si concede orpelli, e quindi - considerando il finale - neanche spettacolarizzazione della violenza. Perché, laddove la brutalità è narrata con brutalità, il sovrapporsi di contenuto e forma giustifica anche le atrocità che Garrone inquadra. Entra in scena l’altro protagonista, Simone, che pippa cocaina nell’attività di Marcello, contro il volere di questi. Ecco che Garrone definisce il tema del rapporto di potere. La sudditanza, la gerarchia, saranno al centro del testo.


Marcello è un uomo che si sottomette alle lune storte di chi ha più muscoli; è uno sconfitto che si muove, figura magra, emaciata silhouette, in spazi derelitti come derelitto è il mondo che lo attornia. Ma, e questa sarà la forza del finale, Marcello è puro, incontaminato. Si prende cura della figlia adempiendo al dovere di padre separato; non rivendica; non si lagna della penuria. Si cura dei cani che sono figli suoi, i suoi “amori”. La subalternità del personaggio rende il corpo attoriale di Fonte perfetto: voce stridula, volto storto, come un Quasimodo senza gobba, debole, ferito ma sempre gentile. L’opera è pervasa da un generalizzato nichilismo: homo homini lupus hobbesiano nell’ecosistema del quartiere, da cui non si esce mai, che diventa la gabbia di Marcello e compagnia, come per i cani le gabbie dell’attività “Dogman”. Non una volta che Garrone conceda respiro. Mai che la camera si distacchi troppo dai personaggi; macchina che, invece, li segue ravvicinata, con l’effetto di sporcizia che si amplifica dal momento che ci vengono esposti con violenza i volti franti, alla Belmondo senza fascino, dunque solo fratturati e cagneschi, dei criminali borgatari. Nel mezzo dell’orrore che Simone incarna (è capace, quasi mostro della Universal, di spaccare a testate un’antipatica slot-machine che gli ha rubato i soldi), Marcello è il santo redentore, figura messianica pura e a tratti idiota, un misto tra il principe Myskin di Dostoevskij e un bambino che sembra aver visto solo gli aquiloni e che, pure nel fango, solo aquiloni vede. Ma il rischio della bontà è farsi trascinare, è l’impossibile “No”. Simone si presenta da Marcello e lo assolda per una rapina da cui Marcello non ricava che una collana valutata 150 euro dal compro oro. In più, a fine “missione”, Marcello è dovuto correre a casa delle vittime, perché l’amico di Simone, il vero cane, il vero pitbull, ha messo nel freezer il barboncino che non quietava l’abbaiare. E Marcello lo ha salvato con acqua calda, massaggio cardiaco e alitate.



Simone e Marcello approfondiscono il legame quando, per esempio, dopo il night club dove Simone l’ha portato (sempre facendo capire al nostro chi è il padrone e chi il servo), sparano a Simone e Marcello lo salva grazie alle competenze che mette in pratica coi cani. Colori seppia, realismo terminale, gli echi pasoliniani abbondano. Poi, il troppo.
Simone vuole fare un buco nel muro della toelettatura per entrare nel compro oro. Marcello si rifiuta, lo conoscono tutti in quartiere, gli vogliono bene, è l’unica casa che ha. E Simone se ne fotte, gli promette denaro e, minacciandolo di mazzate, dice a Marcello di obbedire. Ma quando poi Marcello si ritrova a dover collaborare coi poliziotti, avveduti del fatto che il crimine è stato commesso da entrambi ma che Marcello è stato costretto, il Myskin proletario non fa il nome di Simone.


Matteo Garrone

È la dipendenza reciproca, è la paura di ritorsioni, è l’ancestrale e vetusto sentimento di “non dover tradire un amico”, anche quando questo amico ti minaccia e ti promette denaro che, quando torni in quartiere un anno dopo, non vuole darti. Per Marcello, dopo l’anno di carcere, la vita si è estinta. Sbattuto fuori da ogni bar e ostracizzato dai borgatari, ogni bontà in lui si spegne.Ha un piano, dice a Simone a cui ha appena regalato della cocaina purissima (Marcello lo rifornisce da una vita, acquistando la droga da terzi). Far venire da “Dogman” i trafficanti, e insieme pestarli quando si girano per pesare il carico. Simone accetta. Ma gli tocca anche accettare di nascondersi in una gabbia per cani. Reticenza; insistenza di Marcello; reticenza; insistenza di Marcello. Che finge i pusher siano arrivati per mettere fretta al pitbull che, forse odorando il sangue che verrà, si prepara a pestare, salvo prima chiudersi nella gabbia che Marcello serra con il lucchetto. Marcello non è più Marcello. La voce acuta è la voce di un uomo distrutto che ora distrugge, e che sevizia, e che tortura, perché ha subito troppo. Ma Simone è forte, riesce a liberarsi; Marcello, però, gli dà un colpo in testa. E lo cura (ecco di nuovo la simbiosi tra i due, il desiderio del piccolo Marcello, dello striminzito Marcello di farsi accettare dal titano), ma lo uccide anche, dopo che gli ha legato alla gola una catena infissa sul muro, quella per i cani più feroci.



Brucia il cadavere, Marcello, e urla, verso il campo da calcetto dove i borgatari corrono, che ce l’ha fatta. Perché sì, per tutti Simone era un problema. Nessuno risponde. Marcello corre indietro, doma il fuoco, ritorna al campo e tutti si sono volatilizzati. In groppa il cadavere del ciclope, Marcello ansima nel vuoto, nel silenzio, e siede presso un cane, uno dei suoi amori, che Marcello non chiama “Amore” e che da Marcello si allontana. Dopo un primissimo piano, un campo totale. La solitudine di chi si è perso, di chi ha valicato il confine che i padri ci invitano a non superare mai. La vendetta compiuta coincide, per Marcello, con il suicidio della figura buona e scevra di malizia che abbiamo visto curarsi dei cani.
Ora nient’altro che qualcosa che somiglia a quell’uomo. Ma che quell’uomo non sarà mai più.