Caro
Angelo, leggere le lettere che hai
ricevuto a seguito del tuo articolo sul cimitero di guerra mi ha stretto il
cuore, come una mano invisibile che ti soffoca piano, senza fretta. Sai cosa mi
colpisce più delle parole? Il livore. Quel livore freddo e vischioso che
striscia in ogni riga, tipico di una battaglia dei sessi che ormai ha l’odore
rancido delle guerre di trincea. Secondo molte di queste lettrici,
il mondo sarebbe ancora dominato dal patriarcato, e chi tra le donne osa
pensare in modo diverso sarebbe «omologata al maschile». Come se il pensiero
dovesse portare la gonna o la cravatta. Ma vedi, io non ci sto a questa favola.
Non siamo uguali, uomini e donne, né biologicamente, né culturalmente. E la
cultura attuale ha spinto la donna a rivendicare il potere sul ventre, fino a
fare dell’aborto un diritto intoccabile, un totem della libertà assoluta. Ma
c’è una contraddizione che stride. Se davvero la donna è il simbolo della vita,
della maternità, della cura, come può rivendicare con tanto orgoglio il diritto
di negare la vita stessa? E non parlo qui dei drammi autentici, ma di
quell’ideologia che eleva la negazione della vita a bandiera di progresso. Il
punto, Angelo, è che oggi nessuno - né uomini né donne - osa più pronunciare la
parola sacrificio. Ci dicono che puzza di chiesa e caserme, di un mondo
sorpassato. Ma io continuo a credere che senza sacrificio non esista alcun
amore autentico. È facile, oggi, prendersela con i patriarcati estinti, coi
monumenti ai morti, coi cimiteri di guerra. Molto più difficile è guardarsi
allo specchio e chiedersi: Cosa siamo diventati, noi, oggi? Cosa resta di noi,
quando la libertà si riduce al diritto di scegliere solo sé stessi, mai
l’altro? Vedi, caro Angelo, il punto forse è tutto qui: abbiamo trasformato la
libertà in un’arma, in un aborto della coscienza. Stefano Torre