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domenica 14 settembre 2025

CINEMA
di Marco Sbrana



Generazione di equilibristi. Nota critica su The Sweet East di Sean Price Williams.
 
Bisogna diramarsi, bisogna scappare.
L’utilizzo della macchina a mano ha duplice funzione: restituire, in un primo momento del film, certo tipo di naturalismo; poi, quando il viaggio di Lillian si fa sempre più picaresco, assolve la funzione di disorientare lo spettatore tanto quanto è disorientata la protagonista.
Film del 2023, esordio alla regia di Sean Price Williams, The Sweet East inizia con la pateticità del maschio. Lillian è a letto col suo fidanzato, hanno appena fatto l’amore; lui - giustamente ridicolizzato da un regista che, vedremo, non tentenna nel prendere posizione e quindi nel politicizzarsi - gioca col preservativo pieno di seme: forse Lillian lo vuole tenere, il condom, come ricordo.
E poi la gita di classe a Washington DC. E, da quella, Lillian scappa. Si allontana dal becero, dal mediocre. Il film seguirà le tappe del suo viaggio: dapprima accolta da un gruppo di punkabbestia, userà un cinquantenne di estrema destra (conosciuto a un evento à la MAGA) come sugar daddy, per poi scappare - di nuovo - e diventare protagonista di un film; sul set viene però raggiunta dai MAGA, e trova rifugio presso un capanno, proprietà di un gruppo di fondamentalisti islamici. E Lillian scappa anche da loro, ma fa freddo, e sviene, e i sacerdoti del monastero presso cui ha ceduto hanno chiamato la polizia. Lillian, infine, torna a casa. Riaccolta dalla famiglia, il tg dà la notizia di un attentato: migliaia di morti in uno stadio. Lillian esce di casa, sguardo in camera, e scompare. Quanto rimane è solo la consunta bandiera americana.
La solitudine è viaggio dentro di sé. Evadere è setacciarsi - sembra dire il film - e la vera evasione è cercare in sé e trovare un altro.
Williams non è politicamente ambiguo: riconosce spessori e superficialità della GEN Z.
The Sweet East ha una strana potenza, che trae in toto dal surrealismo. Gli eventi picareschi, circensi, grotteschi, improbabili, si susseguono senza essere preparati; semplicemente accadono. Questo è il surrealismo: assenza di setup, assenza di spiegazione. Lo storytelling si basa sul setup, la semina di dettagli che vengono ripresi (payoff) nel corso del testo. Il surrealismo abolisce i nessi causali. Perché surrealismo è vitalismo: è la vita che ci prende con frenesia, che ci rapisce - nell’incubo tanto quanto nel sogno migliore. L’intero film di Williams è un’immersione non protetta nell’altrove che una giovane cerca sempre, inevitabilmente, in contrasto con l’aurea mediocritas della sua deiezione. L’abolizione dei nessi causali fa tornare alla mente Alice nel paese delle meraviglie, e l’analisi di Deleuze in Logica del senso: non più kronos - il tempo lineare - ma l’evento puro, che balza fuori dalla catena temporale e causale, il tempo degli stoici, l’aiòn.



Il disorientamento - di norma - funziona se c’è un ancoraggio, non se si inizia si procede e si finisce con il disorientamento. The Sweet East sceglie però consapevolmente di rappresentare il caos senza appigli narrativi. Pare che il regista non sia interessato alla vicenda ma alla restituzione di un clima.
Si parla di noi, della GEN Z, del capitalismo liberale. Mercificati e reificati, viziati dalla cultura capitalista, la nostra unica speranza è la rinuncia alle radici. Il solo modo per scappare dalla macchina (ancora Deleuze) è non porsi più come soggetti (di qui l’assenza di appigli). E la generazione Z è nel caos di un equilibrismo annaspante, giovani che balzano da una parte all’altra, da un limite all’altro della vita, tra l’oblio e l’affermazione, tra un cinquantenne che usa le ragazze per ricreare Lolita a un mondo che vuole solo efficienza e corsa.
Cambio, mi sposto, muto forma, vestiti, attitudine, ma davvero il mondo cambia se io a cambiare continuo? Il desiderio di fuga si accompagna - sembra dire il film - alla impossibilità del cambiamento. E viene, nel finale di The Sweet East, la tristezza di ritrovare la solita, vecchia mediocrità, laddove il mondo aveva fatto promesse. È l’infelicità della generazione z.
Uno spasmodico movimento che è un divincolarsi; inutile, perché  lacci ci legano al letto della nostra cameretta, da cui forse non usciremo mai davvero.