I DAZI COME RICATTO E POLITICA ECONOMICA di Alfonso Gianni
Continuano le montagne russe dei dazi. Non si tratta solo dei
(mezzi) stop and go proclamati da Trump, ma anche del
bizantinismo con cui sono calcolate e applicate le tariffe. Ne ha parlato a più
riprese anche il Wall Street Journal,
e, data l’autorevolezza della fonte e la sua collocazione non certo ostile
rispetto all’amministrazione Trump, c’è da crederci. Tanto è vero che l’articolo
comparso qualche giorno fa sul giornale nuovayorkese dal titolo esplicito: “La
tregua commerciale della Ue con gli Usa rischia di saltare”, è stato ripreso
dai maggiori giornali europei.(1) In
effetti quello che emerge è la conferma del carattere truffaldino dell’accordo
siglato dalla von Leyen con il tycoon
statunitense e che invece la presidente della Commissione ha cercato di vendere
come un sostanziale successo. Per chi la sostiene si tratta di un brutto colpo,
ma soprattutto è la Ue che dimostra ancora una volta la sua inconsistenza come
soggetto politico nello scenario internazionale, al punto da non riuscire a
marcare punti a favore nemmeno sul terreno da sempre suo preferito, ovvero
quello economico e commerciale.
Come
è noto l’accordo di Turnberry prevedeva dazi limitati al 15%. Ma già la
svalutazione del dollaro, che ha perso da inizio anno il 13%, trascinava in
pratica l’asticella verso quel 30%, inizialmente e a più riprese minacciato da
Trump. La cosa non era ovviamente sfuggita al mondo imprenditoriale, come
abbiamo sentito spesso dalle parole del presidente della Confindustria
nostrana, Emanuele Orsini. E il trucco non si ferma qui. Né è particolarmente
diabolico. Anzi piuttosto scoperto e poteva essere individuato fin dall’inizio,
se solo non avessimo un personale politico europeo tutt’altro che eccellente e
soprattutto voglioso di dimostrare, malgrado l’evidenza dei fatti dica il contrario,
che l’accondiscendenza verso le politiche dell’amministrazione Trump sia la
strada migliore per perseguire gli interessi della Ue. Patetica risulta
addirittura la dichiarazione rilasciata dal commissario europeo per il
Commercio, Maros Sefkovic, il quale, pur essendo convinto le controparti
americane si renderebbero conto del problema, non intende azzardarsi “a
prevedere quando saranno in grado di risolverlo”, come se i tempi, in economia
come in politica, fossero un semplice optional.
Il
nocciolo della questione sta nel fatto che le tariffe imposte sulle
importazioni di acciaio e di alluminio, sono molto più alte e vengono estese a
molti beni e manufatti che contengono componenti realizzati con i suddetti
metalli. In questo modo ciò che inizialmente veniva presentato come un dazio
del 15% può arrivare al 50%, cui bisogna continuare ad aggiungere gli effetti
della svalutazione del dollaro, che rimane uno degli obiettivi strategici della
trumponomics, così come descritta nel
famoso paper steso nel novembre del
2024 da Stephen Miran, recentemente collocato da Trump nel board della Fed per ringhiare contro le esitazioni di Jerome Powell
a decidere iltanto sospirato, da Trump,
abbassamento dei tassi di interesse. Nell’insieme siamo di fronte ad un impatto
che non appare sostenibile né dalle imprese europee né dai consumatori
statunitensi.
È
sempre il Wall Street Journal ad
informarci che Bertram Kawlath, presidente della German Mechanical Engeneering Industry Association aveva spedito a fine
agosto alla von Leyen una lettera in cui denunciava la situazione di crisi
nella quale si veniva a trovare il settore rappresentato dalla sua
organizzazione, a causa del fatto che “circa il 30% dei macchinari europei
esportati negli Usa è ora soggetto a dazi del 50% sul contenuto metallico dei
prodotti”. Dal
canto suo, Bernard Krone, a capo del gruppo che costruisce macchinari agricoli,
fa sapere di avere fermato la produzione dei mezzi destinati al mercato
statunitense, con annessi la sospensione e il licenziamento di tutti i
lavoratori impiegati in quelle opere, e di avere addirittura dirottato verso il
Messico e il Canada le spedizioni già in mare verso gli Usa. Non c’è
quindi da stupirsi se il Wall Street
Journal conclude in un editoriale che “Le tariffe sono una tassa che
penalizza la crescita” e dunque “l’unica soluzione è che la Corte Suprema
giudichi le tariffe non costituzionali e le annulli”. Un vero wishful thinking destinato ad andare a
sbattere contro l’attuale composizione della Corte che vede i giudici nominati
da presidenti repubblicani battere per sei a tre quelli designati dai
democratici. Anche
il desiderato ritorno in patria delle imprese produttive dislocate all’estero
non sembra verificarsi. Sempre stando all’autorevole organo di stampa
americano, John Deere che costruisce in Germania ed esporta negli Usa il 20%
dei suoi prodotti si trova sotto la tagliola dei dazi, ma fa sapere di non
avere alcuna intenzione di riportare le produzioni sul suolo patrio. Del resto
anche il segretario al Tesoro Scott Bessent ha l’altro giorno ammesso che non
si può, solo in virtù dei dazi, “schioccare le dita e fare costruire
fabbriche”. In effetti ha ragione, perché la crisi della capacità di produzione
di beni materiali negli Usa non è un fatto degli ultimi anni e quindi non si
può capovolgere per volontà trumpiana nel giro di qualche mese e neppure di qualche
anno.
Tutta
questa disputa tuttavia almeno un pregio ce l’ha, quella di reinserire nel
dibattito il tema dell’economia reale, della produzione e del lavoro scendendo
in terra dal cielo della finanza. Così facendo ci si accorge che le cose non
vanno esattamente a gonfie vele negli Usa, come gli aedi di Trump avrebbero
voluto farci credere. Gli ultimi dati di agosto non fanno inclinare a un facile
ottimismo. Il mercato del lavoro statunitense, storicamente considerato un
eccellente indicatore della vivacità economica del Paese, ha rallentato
fortemente le sue precedenti performance.
Gli ultimi rapporti del Bureau of Labor Statistics segnalano
un netto rallentamento della creazione di posti di lavoro: ad agosto di
quest’anno sono stati aggiunti circa 142.000 nuovi occupati, lontani dalle previsioni degli analisti
che ne pronosticavano oltre 200.000. Il tasso di disoccupazione è salito al 4,4%, il livello più alto dal 2021,
segnalando se non la fine certamente una battuta d’arresto del ciclo espansivo
post-pandemico. Anche il tasso di partecipazione alla forza lavoro è rimasto
pressoché stabile al 62,7%,
evidenziando una tendenza alla rinuncia della ricerca di lavoro. Non a caso l’andamento
dei salari è entrato in sofferenza: la crescita dei salari orari medi è
rallentata al 3,8% su base annua,
inferiore quindi al tasso d’inflazione che ad agosto si è attestato al 4,1%, secondo i dati del Consumer
Price Index, con conseguente
perdita della capacità d’acquisto dei salari reali. Se spostiamo lo
sguardo ai comparti economici, vediamo che ad essere in maggiore difficoltà
sono quelli che riguardano la produzione industriale di manufatti, elemento non
nuovo, come prima sottolineato, ma senz’altro accentuato dagli effetti dei
nuovi dazi imposti dagli Stati Uniti su beni cinesi ed europei, con conseguenze
negative per quanto riguarda i livelli di occupazione. Anche nei settori legati allo sviluppo della tecnologia non si colgono né
rose né altro tipo di fiore: dopo l’ubriacatura dell’Intelligenza
artificiale, molte aziende hanno annunciato politiche di riduzione dei costi
essenzialmente fondate su licenziamenti e ristrutturazioni naturalmente
ispirate al principio del Labour saving.
Secondo Bloomberg, l’unica situazione positiva si verifica nel settore sanitario e assistenziale, che
continua a trainare l’occupazione con oltre 40.000 nuovi posti di lavoro al mese, visto l’invecchiamento della
popolazione americana e quindi la domanda crescente di servizi di cura, che
però può essere soddisfatta, come sappiamo, per i ceti più benestanti.
Tutto
ciò non può non avere conseguenze dirette sulle economie locali. Gravi sono
quelle negli Stati a vocazione manifatturiera, ove si accelera il processo di
desertificazione economica e di pauperizzazione sociale. Ma pesanti processi
negativi si sviluppano anche nelle aree a vocazione turistica visto che l’instabilità
dell’occupazione stagionale nuoce alle famiglie come alle piccole imprese. Infine
torna ad aggravarsi il ben noto fenomeno del debito delle famiglie americane, alimentato dal peggioramento dei salari
e delle retribuzioni reali, che ha raggiunto i 17.500 miliardi di dollari nel secondo
trimestre 2025, secondo la Federal Reserve. Quest’ultima si trova di fronte
a un difficile bivio: da un lato deve contenere l’inflazione che è ancora sopra
target, dall’altro dovrebbe evitare di
comprimere ulteriormente l’insoddisfacente situazione occupazionale. Le
prossime mosse della Fed sui tassi di interesse saranno quindi decisive e forse
conviene attenderle per esprimere un giudizio fondato, sottraendosi alla
girandola delle previsioni o presunte anticipazioni. In sostanza il sogno Maga
si sta trasformando in un incubo non solo per l’Europa, ma anche per i
cittadini statunitensi. S’intende quelli che non fanno parte del famigerato,
più che mitico, 1%.
Quanto
avviene ci riporta, o almeno dovrebbe, ad una lettura di classe dello scenario trumpiano.
Per quanto il tycoon ci appaia fin
troppo sopra le righe, a volte quasi una caricatura di sé stesso, è ben
difficile ritenere che sia lui che il suo
entourage siano tanto privi delle più elementari nozioni di politica
economica da non sapere quali fossero le conseguenze della trumponomics. La
lettura della situazione solo attraverso la guerra dei dazi non aiuta a
comprendere del tutto quello che sta realmente avvenendo, perché questo angolo
di visuale si limita a mettere in luce lo scontro fra Stati e governi,
lasciando nell’ombra quanto avviene nel tessuto sociale. Per cambiare e
migliorare la visuale ci possiamo servire di quanto ci offrono due studiosi
americani, Matthew C. Klein e Michael Pettis. L’uno lavorando a San Francisco e
l’altro a Pechino, ci ricordano una verità che una volta sarebbe stata
ritenuta, almeno a sinistra, quasi elementare: le guerre commerciali sono
guerre di classe.(2) Il
motivo è semplice, quanto il suo esito prevedibile. Gli effetti della
globalizzazione hanno aumentato le diseguaglianze all’interno dei singoli
paesi. Il caso italiano è addirittura limite, con le retribuzioni che in valore
reale sono arretrate nel corso degli ultimi trenta anni. Ma l’accrescersi delle
diversità nelle condizioni materiali e reddituali è accaduto un po’ ovunque,
sia nei paesi a capitalismo maturo che in quelli emergenti. E questo è stato il
trampolino di lancio per arrivare ad una concentrazione di ricchezze che non ha
precedenti nella storia. Solo che nella fase crescente della globalizzazione,
nella quale la Cina svolgeva la funzione di fabbrica per il mondo, gli Usa potevano
acquistare prodotti cinesi a basso costo e di modesta qualità da vendere poi
nei magazzini Wall Mart, permettendo alle classi lavoratrici di fare acquisti
pur mantenendo bassi i loro salari e i loro livelli di vita.
Ma
ora che la Cina compete sui rami alti dello sviluppo tecnologico (dagli
autoveicoli con motori elettrici all’intelligenza artificiale) tale sistema non
può più essere replicato. La crisi del processo di globalizzazione ha generato
il ritorno al protezionismo - e Trump ne è il sacerdote più che il profeta -
visto che la competitività sulla qualità e l’innovazione dei prodotti rimane un
mantra della (falsa) ideologia del capitalismo, il quale di suo, come sappiamo,
tende al monopolio, di cui l’oligopolio è una versione allargata ma spesso
transitoria. Quando quelli che dovrebbero essere le vittime di questo processo
di centralizzazione economica diventano in grado di competere effettivamente e
pure di superare i loro dominatori, la risposta - una volta che il rilancio
della domanda e quindi dell’economia attraverso l’estensione del debito
pubblico e privato ha generato una crisi economico-finanziaria di dimensioni
mondiali - è di tipo difensivo, fondata da un lato sull’elevamento delle
barriere doganali e dall’altro sul sempre più pericoloso ricorso alla minaccia
e alla generalizzazione dello scontro militare. In
questo quadro la classe che detiene le redini del sistema capitalista - in
questo caso statunitense, ma la scena si potrebbe facilmente allargare - non si
accontenta più di avere vinto la lotta di classe, come nella celebre analisi di
Warren Buffet, ma vuole stravincere, con la brutalità di chi minaccia “guai ai
vinti!”; e così la “distruzione creatrice” di Schumpeter affonda in una furia
nichilista condotta tenendo in mano le leve del potere politico, oltre che
economico.
Le
vittime si allargano a popoli interi, specialmente quando si tratta del Sud
globale. I dazi sono un fattore potente di ampliamento delle diseguaglianze, i9nnescano
processi che fanno crescere anche gli interessi sul debito dei Paesi in via di
sviluppo inibendone ogni prospettiva di crescita sociale ed economica. Al
contempo Trump si attiva per organizzare e promuovere l’elusione fiscale da
parte delle grandi multinazionali, e agisce per destrutturare in ogni modo, se
non per liquidare, ogni forma di organizzazione internazionale che seppure
insufficientemente ha cercato di porre qualche freno all’accumulazione
predatoria di capitali. Non c’è rispetto per nulla, non per la salute e la vita
umana, per non parlare del clima, della terra e del vivente non umano. Se a
tutto ciò aggiungiamo i programmi di rimpatrio forzato dei migranti, i blocchi
verso nuovi arrivi la spettacolarizzazione data alle azioni delle forze
dell’ordine al riguardo, si vede che la furia nichilista trumpiana si nutre di
una crudeltà esibita a scopi peggio che intimidatori.
Note 1.Vedi
Paolo Mastrolilli: “Trucco Usa sui dazi può far saltare la tregua con l’Europa”
in la Repubblica dell’8 settembre
2025 2. Matthew
C. Klein, Michael Pettis Le guerre
commerciali sono guerre di classe. Come la crescente disuguaglianza corrompe
l’economia globale e minaccia la pace internazionale, Einaudi, Torino 2021