Il
quadro di fondo rimane quello a suo tempo delineato dalla resa ai meccanismi
perversi di quella che è stata definita “globalizzazione” e dei processi
dirompenti di finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza di
una visione industriale. Fattori che da decenni pesano in maniera esiziale
sulle prospettive dell’economia italiana. Tanto più in tempi nei quali si è
aperta la polemica sul ruolo e peso di un turismo senza controllo, gestito
corporativamente da privati fautori di disuguaglianze e spacciato come
possibile fattore di crescita. Loris Scarpa, coordinatore nazionale del settore siderurgia della FIOM
CGIL centra l’obiettivo in un suo intervento pubblicato dal “il Manifesto” e sviluppato
a proposito dell’accordo “storico” vantato da ministro Urso per la presunta
decarbonizzazione della produzione nello stabilimento ILVA di Taranto.Sostiene Scarpa
(riassumo ripetendo il titolo redazionale): “Non avremo neanche l’acciaio
per il ponte, ammesso che si faccia”. Questo perché l’accordo (se così vogliamo chiamarlo) evita
un ragionamento di politica industriale che affronti il problema di produrre e
consumare acciaio in questo Paese. Produzione di acciaio che rimane il fattore
determinante per la produzione industriale di un paese come l’Italia in tempi
di deficit europeo e di dazi made in USA.Il tema complessivo è quello della
produzione industriale in calo costantemente da 20 mesi.C’è un virus che non
abbandona il corpo cronicamente debilitato dell’economia italiana. Si chiama
recessione e, anche se i valori delle analisi statistiche non lo accertano
formalmente, in realtà agisce sotto traccia e continua a proliferare.L’Italia è un paese
senza progetto, tale e quale l’Unione Europea.Vale allora la pena ritornare su questi
(decisivi) argomenti con alcune osservazioni. La situazione italiana può essere, ancora una volta
schematizzata in relazione alla nostra storia industriale dal dopoguerra in
avanti.Si tratta di argomentazioni già sostenute in varie
sedi ma mai come in questo caso “repetita juvant”.
Il punto di partenza
non può che essere quello degli anni ’70: la fase di avvio dello “scambio
politico”, attraverso l’operazione “privatizzazioni” realizzate in funzione
clientelare rispetto alla politica.Negli
anni’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti
(ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e
all’inizio degli anni ’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati
incostituzionali i prestiti, l’IRI trasformata in S.p.a.L’esito più grave della fase dello “scambio politico”
infatti, si realizzò in una condizione di totale assenza di un piano
industriale per il Paese, mentre stavano verificandosi almeno quattro fenomeni
concomitanti: 1) L’imporsi di
uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di
qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione; 2) La perdita da
parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione
industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori
dei quali a Genova si diceva con orgoglio “produciamo cose che l’indomani non
si trovano al supermercato”; 3) A fianco
della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il
mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione
tecnologica. Anzi si sono persi settori fondamentali in quella dimensione dove
pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia.
Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva
dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un
fattore questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire
un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per
leggere correttamente la crisi;
4) Si segnalano
infine due elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle
principali infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade e
porti e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in
molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e
incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio. In questo
contesto registriamo l’abbandono del welfare (ridotto a bonus come spot
elettorali), la privatizzazione della sanità, la crisi del sistema delle
autonomie locali ridotte a scorribande personalistiche con l’elezione diretta
di Presidenti (definiti erroneamente Governatori) e Sindaci. Si potrebbe
proseguire ricordando l’asservimento politico del sistema informativo, il
clientelismo culturale e l’attacco all’indipendenza della magistratura, ma ci
fermiamo a questo punto. 5) È assente una
discussione seria sull’energia (da porsi in particolare relazione con l’analisi
della situazione internazionale). Riprendo ancora Scarpa: “L’Italia ha una
buona parte della produzione di energia nelle rinnovabili, come le centrali
idroelettriche ed è un’unicità europea. Ma la paghiamo più cara. Perché? Le
centrali idroelettriche sarebbero da potenziare perché il gas è un vettore di
transizione non un vettore finale. Le non-scelte che si stanno facendo in
questo senso gravano sul settore industriale”.
6) Sono questi
riassunti in una dimensione molto schematica i punti che dovrebbero essere affrontati
all’interno di quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia
completamente abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi. Sarà soltanto
misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare a parlare
d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che una
sinistra capace di rovesciare il proprio paradigma storico dovrebbe porre
all’attenzione generale senza tema di apparire “controcorrente”.