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mercoledì 3 settembre 2025

LEZIONE DI DIGNITÀ


Valerie Zink

Non posso più indossare questo tesserino senza provare vergogna e dolore”. Valerie Zink è una fotoreporter. Per otto anni ha collaborato con Reuters e le sue immagini sono state pubblicate dal New York Times, da Al Jazeera, dai principali media internazionali. Ma oggi, dopo l’ennesimo massacro israeliano contro cinque giornalisti, ha scelto di dire basta: ha lasciato l’agenzia. E lo ha fatto con parole che sono un’enorme lezione di dignità: “Negli ultimi otto anni ho lavorato come collaboratrice per l’agenzia Reuters. Le mie foto sono state pubblicate dal New York Times, da Al Jazeera e da altri media in Nord America, Asia, Europa e altrove. A questo punto è diventato impossibile per me mantenere un rapporto con Reuters, dato il suo ruolo nel giustificare e consentire l’assassinio sistematico di 245 giornalisti a Gaza. Devo almeno questo - e molto di più - ai miei colleghi in Palestina. Quando Israele ha assassinato Anas Al-Sharif, insieme all’intera troupe di Al Jazeera a Gaza City il 10 agosto, Reuters ha scelto di pubblicare l’infondata accusa israeliana secondo cui Al-Sharif sarebbe stato un operatore di Hamas - una delle tante bugie che i media come Reuters hanno ripetuto e legittimato con diligenza. La disponibilità di Reuters a perpetuare la propaganda israeliana non ha risparmiato nemmeno i suoi stessi giornalisti dal genocidio in corso. Altri cinque giornalisti, tra cui il cameraman di Reuters Hossam Al-Masri, sono stati uccisi questa mattina in un attacco all’ospedale Nasser. Si è trattato di un cosiddetto attacco “double tap”: Israele bombarda un obiettivo civile, come una scuola o un ospedale, aspetta che arrivino soccorritori, medici e giornalisti, e poi colpisce di nuovo. I media occidentali sono direttamente responsabili per aver creato le condizioni in cui tutto questo può accadere. Come ha scritto Jeremy Scahill di Drop Site News, “ogni grande testata - dal New York Times al Washington Post, da AP a Reuters - ha funzionato come un nastro trasportatore per la propaganda israeliana, ripulendo i crimini di guerra, disumanizzando le vittime, abbandonando i propri colleghi e ogni presunto impegno verso un giornalismo vero ed etico”. Ripetendo le invenzioni di Israele senza nemmeno verificarne la credibilità - abbandonando volutamente la responsabilità più elementare del giornalismo - i media occidentali hanno reso possibile l’uccisione, in due anni e su una sola striscia di terra, di più giornalisti che nella Prima e Seconda guerra mondiale, in Corea, Vietnam, Afghanistan, Jugoslavia e Ucraina messi insieme. E questo senza nemmeno parlare della popolazione affamata, dei bambini dilaniati, delle persone bruciate vive. Il fatto che il lavoro di Anas Al-Sharif avesse vinto un Premio Pulitzer per Reuters non è bastato per spingerli a difenderlo quando le forze d’occupazione israeliane lo hanno inserito in una “lista nera” di giornalisti accusati di essere militanti di Hamas o della Jihad Islamica. Non è bastato nemmeno quando Al-Sharif ha implorato protezione alla stampa internazionale, dopo che un portavoce dell’esercito israeliano aveva diffuso un video in cui dichiarava apertamente di volerlo uccidere, dopo un suo reportage sulla carestia. Non è bastato neppure quando è stato davvero assassinato, poche settimane dopo. Reuters non ha avuto nemmeno il coraggio di raccontare con onestà la sua morte. Ho apprezzato il lavoro che ho svolto per Reuters in questi otto anni, ma ora non riesco a immaginare di indossare quel tesserino stampa senza provare una profonda vergogna e dolore. Non so nemmeno da dove cominciare per onorare il coraggio e il sacrificio dei giornalisti a Gaza - i più coraggiosi e i migliori che siano mai esistiti - ma da oggi in poi, ogni mio contributo sarà guidato da questa consapevolezza”.