Il
concetto di capolavoro - Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson Tutta
l’arte, così Schopenhauer, ambisce alla musica. Una
battaglia dopo l’altra è un’opera musicale. Non solo grazie al
lavoro di Johnny Greenwood (già ascoltato ne Il filo nascosto); è il
ritmo narrativo. Il quale ritmo equivale a un lungo (due ore e quaranta)
squillo di tromba che annuncia la rivoluzione. Risulta, Una battaglia dopo
l’altra, come l’esplosione di una bomba. E questa è, di PTA, una
dichiarazione poetica. Come dice Perfidia al bombarolo interpretato da
DiCaprio: Make it bright. Ci
torneremo. Ma il testo non racconta una rivoluzione; la annuncia, com’è chiaro
nel sublime e semplice finale. Concepito
come un tema musicale, Una battaglia dopo l’altra descrive le peripezie
di un vecchio gruppo di rivoluzionari, i French 75 che, dopo sedici anni di
vita borghese, nel rimpianto della rivoluzione fallita, vengono stanati dal
colonnello Lockjaw, per un suo fine personale che non riguarda la lotta
reazione-rivoluzione ma l’ambizione più bieca, più umana.
Troppa
umanità, nel tema musicale che l’opera incarna. Ambizione e rabbia e violenza.
Eros e Thanatos. Politica e sangue. È un film totale, un romanzo mondo con la
stessa ambizione di tutti i romanzi-mondo (come quelli di Pynchon, e si ricordi
che Una battaglia dopo l’altra si ispira a Vineland). L’ambizione
di testi come Infinite Jest di Wallace (che PTA ha conosciuto), L’arcobaleno
della gravità (Pynchon) o 2666 (Bolano) è salvare tutto, salvare
tutti, mediante il racconto di tutti. Perciò
si dice che Anderson è postmoderno: perché rizomatico, proliferante. Solo la
linea narrativa del sensei di Benicio Del Toro potrebbe fare da stand-alone. Scandito,
ritmato. L’inizio con immagini, scene di un flusso, sorta di montage
(come poteva essere quello celebre di Bogart e Bergman in Casablanca) ma
postmoderno, frenetico, violento. Rabbioso. La
rabbia. La rabbia è infinita. Fanno qualcosa di questo rimpianto, dice il padre
morente a Tom Cruise in Magnolia. Del sopruso, dell’oppressione, i
French 75 hanno fatto rabbia di classe, lotta armata. È Vineland.
Senza Reagan; con Trump: spesso inquadrato il confine col Messico, e l’atrocità
del muro. Ché tutto è politica (così già in Licorice Pizza, il film
dell’incontro laddove questo è il film dello scontro). Ché tutto è politica ma
soprattutto il sesso. Ecco perché il binomio Eros/Thanatos. La rivoluzione è
sessuale.
Scopiamo
mentre esplode, invita Perfidia. Il
testo di Anderson propone una fusione tra politica ideologica e passione, di
nuovo all’insegna della totalità postmoderna di cui sopra. Violento
e frenetico. Auto che si inseguono e fucili. Sparatorie. E grottesco, elemento
su cui Anderson aveva eretto Ubriaco d’amore e Vizio di forma (adattamento,
un altro, di Pynchon). Benicio Del Toro che invita al “respiro del mare”; i
codici rivoluzionari dimenticati. La gag è interludio; l’interludio, pure, non
interrompe ma è parte costituente della sinfonia. Abbiamo
Bob Ferguson (DiCaprio). E tu sei smarrito, gli dice la madre dell’amata
Perfidia. Bob è in ritardo. Bob è un cazzone. Bob è un junky. Che forse è più a
suo agio nel conformismo borghese. Si spupazza, lo vediamo, la figlia Charlene
(poi Willa). È un bombarolo; non un logistico, non un ideologo. È uno che urla Viva
la revoluciòn! e Fuck the police! Non è uno che riflette sulle
implicazioni della rivolta. È uno che si adagerà nella bambagia, tra canne e
alcol, dimenticando i French 75. Perciò ha senso, anzi è corretto che
non sia lui il padre biologico di Willa/Charlene, che nasce, come dimostra il
test di paternità cui la sottopone Lockjaw, dalla violenza necessaria di
Perfidia (“La lotta armata è l’unica via. Non venitemi a dire di votare e di
lottare pacificamente”) e la reazione di Lockjaw. Nasce dalla dinamica sessuale
che subentra nel rapporto di rivalità tra due ideologie opposte. E con Lockjaw
(Sean Penn), nuovo gioco sul ridicolo.
Il ridicolo, pure, che perturba. In
Lockjaw governa il gesto, il tic, quello di Kafka nella lettura di Benjamin: il
gesto come svelamento dell’automatismo dell’apparato. In più, tutto nasce
dall’ambizione di Lockjaw di affiliarsi a una setta di suprematisti bianchi,
che non accetterebbero mai di avere un membro padre di figlia meticcia
(Perfidia è una “fica nera”, a suo dire). E perciò Lockjaw cerca di ucciderla.
Di qui gli inseguimenti, di qui le battaglie del titolo. A coronare una
bromance di stampo tarantiniano, Del Toro, sensei: salvatore, alleato e (“Non
capita spesso di salvare un ex French 75, per ben due volte!”) catalizzatore.
Una
battaglia dopo l’altra, costato duecento milioni alla Warner, è un
blockbuster politico. Cosa possiamo volere di più? Il
cinema di star (DiCaprio e Penn), fatto con tanti soldi, è cinema altissimo se
si impegna politicamente, perché intercetta più frange di pubblico con il ritmo
narrativo di un film “che prende”, un intrattenimento che deve pensare a rientrare
nei costi di produzione e a conservare il valore artistico intrinseco. È un
obiettivo editorialmente folle; raggiunto. Qualità così alta PTA non l’ha mai prodotta,
se per “qualità” intendiamo arte, veicolazione (il concetto di “arrivare”) e
politica. Una battaglia dopo l’altra è un film perfetto (la storia
postuma e le nuove ricezioni decreteranno se sia o meno un capolavoro) per il
casting di star e qualità; per il ritmo frenetico e quindi qualità di script;
l’assenza di orpelli e la sola direzione; i più generi mescolati (il melò
all’azione alla commedia) e per l’attualità, che non è sublimata, che le manca
poco per essere cronaca. Una
battaglia dopo l’altra significa eterno ritorno. L’uomo nella Storia e il suo
ripetersi.
Un genocidio non basta; ne facciamo un altro. E le nuove
generazioni, depresse, sono nate in mondi distrutti da padri folli e
rivoluzionari falliti. Ma sta a noi puntare la pistola contro i padri (come
Willa nel finale), senza fidarci del loro nome, pretendendo il codice, offuscati
come siamo tanto da non sapere più qual è il vero volto del padre che a questa
inerzia ci ha ridotto. Se il
mondo finisse domani, Una battaglia dopo l’altra lo ricorderemmo tra le
montagne. Perché
Paul Thomas Anderson non scrive l’epigrafe di un mondo allo sbaraglio; dà forma
al grido di chi il mondo lo vuole salvare.