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sabato 4 ottobre 2025

COSTITUZIONE 3
di Luigi Mazzella


 
La bolgia mediatica voluta dai giudici.
 
Con l’aberrante interpretazione, data dalla Corte di Cassazione all’articolo 21 della Costituzione, si entra nel vivo di una delle alterazioni più profonde, radicali e sconvolgenti della vita collettiva di un Paese operata non da un sommovimento individuale o popolare ma da una sentenza della Suprema Corte di Cassazione. Fino a quel momento la collettività Italiana si era sempre comportata in maniera abbastanza civile, contenuta nei limiti della moderazione. I giornalisti narravano i fatti di cronaca ponendo attenzione alle “prove” e alla loro possibile veridicità: e ciò al fine di non ledere l’onore e la reputazione dei cittadini con il racconto di eventi infamanti e buttati lì, spesso, senza alcuna verosimiglianza. Dopo quella decisione del più alto livello giurisdizionale, tutto cambiò in un “crescendo” di bolle mediatiche, incrementato da iniziative, spesso avventate, di pubblici accusatori.
Il Paese che era stato fino ad allora all’altezza delle sue buone tradizioni di convivenza e di civiltà decadde a livelli di scontri selvaggi. Il diritto di cronaca che era stato sempre tutelato come un diritto individuale di manifestazione di libertà del pensiero e, in quanto tale, contenuto nei limiti del rispetto dell’onore e della reputazione degli altri cittadini, penalmente protetti, divenne un super potere dei cronisti, una sorta di “licenza” di ingiuriare e diffamare perché considerato da quella sentenza più come un “dovere” che come un “diritto”.
Prima Domanda: che cosa era all’improvviso e inopinatamente cambiato con quella pronuncia giurisdizionale? Lo ius narrandi era stato dai giudici della Corte Suprema sovraordinato non solo a ogni altra manifestazione del pensiero ma a ogni qualsiasi diritto individuale di libertà, considerato meritevole di tutela, anche costituzionale.



Seconda Domanda: Perché? Com’è stato possibile interpretare la norma dell’articolo 21 in modo tale da degradare l’onore, il decoro e la reputazione altrui a livelli così bassi da non meritare più quella tutela pur prevista dal nostro in molte parti dell’ordinamento giuridico? 
La risposta è agevole. Riottosi a consultare il vocabolario (e ve ne erano, già a quei tempi, di ottimi!) i supremi giudici avevano distorto, con la loro decisione, il significato della parola “pensiero” sino a confonderla con “opinione”. Scarsa dimestichezza con il buon lessico patrio e pigrizia mentale erano stati complici di una rivoluzione nei confini dei mass-media, divenuti oltre tutto più potenti e lesivi. L’arzigogolo dei giudici era partito come ovvio da una (cattiva) lettura dello articolo 21 (che recita (testualmente: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
Qualche magistrato aveva rilevato che, a suo giudizio, la norma non prevedeva il diritto di cronaca che sarebbe stato pretermesso e lasciato privo di tutela. Apriti cielo! Il Collegio giudicante non aveva avvertito l’umiltà di consultare il Vocabolario della Lingua Italiana e aveva deciso in base a una scarsa conoscenza della lingua italiana. Aveva del tutto ignorato che:
a) pensiero non era sinonimo di opinione ma designava l’intera attività della mente umana;
b) che quest’ultima si esplicava sia nella formazione delle idee e quindi delle opinioni e convinzioni personali e sia nella creazione di opere dell’immaginazione (racconti, componimenti poetici, dipinti pittorici, sculture, opere architettoniche) e sia nella narrazione con coscienza critica di fatti di attualità e di storia (id est: cronaca e storia).



In altre parole, quei Sommi giudici non avevano capito che il pensiero comprendeva certamente l’opinione ma non si esauriva in essa, includendo altre manifestazioni di attività mentale, tra cui la cronaca.
In altre parole, essi, dopo avere confuso i due termini, hanno costruito un vero “pastrocchio”, nell’erronea convinzione che i Padri Costituenti si fossero dimenticati della cronaca: racconto organizzato dal pensiero di eventi e circostanze.
Terza Domanda: Perché nei tanti decenni trascorsi da quella sentenza il Parlamento non ha ritenuto di porre riparo una così grave confusione terminologica, comprendendo espressamente la cronaca tra le attività mentali del pensiero? Difficile capirlo, anche perché le aberrazioni concettuali (ulteriori e ancora più gravi) non sono finite qui. 
Nell’ovviare alla dimenticanza dei Padri Costituenti il monstrum costruito dai giudici è diventato un invincibile “Golia”. Si è ragionato così: “Se per esprimere un’opinione bisogna conoscere persone e fatti, si deve, in conseguenza, ritenere che chi tesse il racconto non si avvale di un proprio diritto di libertà ma esercita una vera e propria funzione superiore (alias: più che avvalersi di un suo diritto assolve un dovere in favore della collettività). Orbene, trattandosi di un diritto-dovere, lo ius narrandi deve prevalere su ogni altra esigenza di riservatezza o di tutela dell’onore personale”.
Conclusione: I giornalisti hanno avuto dai giudici la licenza di “sbertucciare” chi più loro aggrada, ricevendo onore e gloria! Un motto francese dice: A la guerre comme á la guerre. Il caos mediatico italiano ha origine così: l’ha prodotto non la Costituzione ma la Giurisprudenza in vena legislativa!
E quel che è peggio, nessuno ha protestato (tranne me, vox clamans in deserto, che l’ho fatto già nella mia tesi di laurea e in articoli successivi su “Il diritto di cronaca”). È ora che si ponga riparo al “pateracchio” da troppi decenni accettato come una vera e propria infelicitas Fati.