Lettera numero 4 Vorrei
adesso riaprire un capitolo della nostra storia recente che è stato
immediatamente derubricato dal discorso pubblico e familiare, come se nulla
fosse mai accaduto, ma che ancora, lo sento, sanguina. Mi riferisco alla
pandemia del 2020, che ci ha per lungo tempo isolati, chiusi tutti in casa, più
felici coloro che avevano un balcone o un pezzo di terra, meno fortunati coloro
che avevano solo una finestra, una casa piccola o una famiglia numerosa. Unico
confronto con il mondo fuori era la televisione che trasmetteva ogni giorno il
numero dei decessi e parlava del virus in termini bellici. Il primo momento,
che ha accomunato tutti è stata la paura dell’invisibile, della morte che
veniva a bussare ad una società che si era dimenticata che la fine esiste. D’un
tratto ci siamo ritrovati soli, le persone sono morte nel totale abbandono in
un letto di ospedale; i vecchi non ricevevano visite e non c’era tempo neanche
per salutare i defunti. Quindi prima è stata la
paura della malattia, il nemico invisibile che si insinuava nel corpo e contro
cui dovevamo essere pronti a combattere; poi è venuta la paura dell’altro, in
quanto potenzialmente malato e dunque estraneo: il distanziamento sociale è
stata la risposta che ha dato un duro colpo a una socialità che già prima della
pandemia non era che superficie. Ricordo lo stare a distanza, cambiare
marciapiede per paura dell’avvicinamento del “nemico”, il salutarsi senza
toccarsi, il nascondimento dei visi, non riuscire più a immaginare se dietro la
mascherina ci fosse un sorriso. Ricordo solo un altro momento di paura
dell’altro essere umano: i giorni dopo l’11 settembre si camminava per le
strade delle città e se si avvistava un velo sulla testa di una donna o una
famiglia che parlava arabo il primo impulso era quello di fare un passo
indietro, atterriti dall’idea di avere di fronte dei terroristi. Come ci
guardavano loro? Penso con la medesima paura.
Dopo avere dato un duro
colpo alla socialità attraverso il terrore e poi attraverso la diffidenza e
l’allontanamento, il passo successivo fu dividere, espellere il reietto. A
questo è servito il green pass. Non mi interessa discettare sul vaccino, se
fosse giusto o meno: so che c’è chi l’ha fatto perché temeva di morire di covid
e chi l’ha fatto perché temeva le ripercussioni politiche; so che c’è chi non
l’ha fatto perché aveva più paura del vaccino che della malattia e chi non l’ha
fatto perché la trovava un’imposizione inaccettabile. Il tutto però ha portato
all’esclusione di coloro che non sottostavano ai dettami governativi e che sono
stati resi sempre più attaccabili. Non si capiva fino a che punto l’esclusione
sarebbe andata avanti: prima non si poteva entrare nei luoghi pubblici come
ristoranti e cinema; nei bar si poteva entrare ma consumando al banco. Poi
hanno imposto di consumare le colazioni fuori dai bar; i ragazzi non potevano
fare sport, non potevano salire sugli autobus scolastici; i genitori non
potevano entrare a scuola a prendere i propri figli; desolanti erano le file
notturne alle farmacie per fare i tamponi fino a togliere il lavoro a
determinate categorie. Le misure che continuamente cambiavano, l’incertezza
della legge, gli insulti hanno provocato panico e rabbia in coloro che avevano
fatto una scelta diversa: fino a dove sarebbe arrivato il governo? ci si
chiedeva. Ci si sentiva dei reietti, per la prima volta era chiaro che l’essere
cittadini non sarebbe bastato. E così la rabbia divenne livore e la minoranza
accettò il ruolo di vittima e la vittima vive sempre la sensazione di essere
pura, di essere migliore, di essere vittima sacrificale.
La divisione ha
spaccato famiglie, amicizie, rapporti lavorativi, il potere ha dato prova di
essere più forte di qualsiasi relazione. Ma non c’è nulla di nuovo sotto il
sole: non è successa la stessa cosa durante il nazismo, nella guerra in Rwanda,
nella guerra in Jugoslavia, per fare solo qualche esempio? Ci si è sempre
scannati orizzontalmente, carnefici resi tali dalla paura e vittime che non
attendevano altro che potersi vendicare. Il potere vive di questo. Dobbiamo
cominciare a sviluppare gli anticorpi necessari a resistere alla volontà di
divisione instillata dall’alto, a riconoscere il meccanismo dell’esclusione e a
rimanere uniti. Ivan Illich raccontava spesso la parabola del
Samaritano, che parla di un uomo che, andando da Gerusalemme a Gerico, viene
attaccato da alcuni briganti e abbandonato lungo la strada mezzo morto. Il
sacerdote e il Levita, uomini appartenenti alla comunità, non si curano
dell’uomo e passano oltre. Poi arriva un samaritano, cioè un nemico, uno che
non presta il culto nel Tempio: si ferma e si prende cura dell’uomo. Dice
Illich “È uno scandalo. [....] Forse l’unico modo in cui oggi potremmo
recuperarlo sarebbe di immaginare il Samaritano come un palestinese che
soccorre un ebreo israeliano ferito. Quello non solo trascura la sua preferenza
etnica, che prevede di soccorrere il proprio simile, ma compie anche una sorta
di tradimento, aiutando un nemico”.
Il Samaritano è il traditore della propria
comunità. Inoltre Illich pone l’attenzione sulla domanda che viene fatta a
Gesù: non “Come mi devo comportare con il mio prossimo?” ma “Chi è il mio
prossimo?” Se comunemente siamo interessati al modo, Illich ci dice che “Il mio
vicino è colui che scelgo, non colui che devo scegliere”. Gesù rompe la
divisione in cui siamo continuamente immessi, distrugge il decoro, sovverte
l’etica, spezza la regola per creare relazione. E allora ricomincio da questo
noi che interpreto come relazione amorosa, fatta di vicinanza, complicità e
nudità; un noi che per diventare tale ha bisogno di camminare insieme, di affrontare
il conflitto, di attraversarlo fino alla fine e di riguardarlo poi, mano nella
mano. Perché esista un noi bisogna superare i tabù, i divieti imposti dall’alto
che impediscono la vera conoscenza del tu perché nello stesso tempo ostacolano
la conoscenza di me, dei miei desideri reconditi e negati, delle mie pulsioni
già giudicate. Dialogare nudi è l’unica risposta per superare una società che è
ancora nel suo funzionamento profondamente religiosa.