Gaza appaltata: Trump e Blair
governatori, Netanyahu carceriere. Il 29
settembre 2025 Donald Trump e Benjamin Netanyahu hanno presentato un piano in
20 punti che viene venduto come pace, ma che è in realtà un ultimatum. La
formula è brutale: o Hamas accetta, oppure Israele “finisce il lavoro”, con
l’appoggio totale degli Stati Uniti. È un diktat costruito non su una
trattativa ma su una minaccia, e l’assenza di Hamas dal tavolo ne svela la
natura unilaterale. Il trucco dei prigionieri Il cuore del piano non è il
cessate il fuoco o la ricostruzione. È la questione dei prigionieri. Israele
promette di rilasciare 1.700 detenuti arrestati durante la guerra e soprattutto
250 ergastolani, molti dei quali condannati per omicidi. Questo numero è la
vera leva di Hamas, la sua “moneta sacra”. Per anni la dirigenza del movimento
ha ripetuto che non avrebbe lasciato indietro i suoi uomini destinati a morire
in carcere. Yahya Sinwar stesso, il leader ucciso e celebrato come martire,
uscì da una cella israeliana grazie allo scambio Shalit del 2011 e da allora
fece del rilascio dei “fratelli” una promessa vincolante. Haaretz scrive con chiarezza:
“The first clause is the most important priority for the Israeli public… The
second is the biggest win Hamas can point to in Trump’s plan, and the main
reason that, from Hamas’ perspective, they should say yes to it” (Amir Tibon,
Haaretz, 30 settembre 2025). Accettare quei 250
significherebbe per Hamas presentarsi, pur devastata dalla guerra, come forza
che mantiene la parola, che non tradisce i suoi prigionieri. In un contesto in
cui Gaza è ridotta in macerie, la liberazione di ergastolani ha un peso
simbolico enorme: vale più di mille dichiarazioni politiche. Per Israele,
invece, si tratta di una concessione calcolata: offrire la vittoria simbolica a
Hamas e poi usarla come trappola, costringendo il movimento a scegliere tra la
fedeltà al proprio mito e il rischio di cadere nell’ennesimo inganno. Netanyahu lo sa. Ecco perché i
suoi canali mediatici stanno spingendo in un’altra direzione: provocare Hamas a
rifiutare. Se Hamas dice no, il premier israeliano potrà presentarsi come colui
che aveva aperto, ma che è stato tradito. Se dice sì, il piano è strutturato in
modo da permettere a Israele di rallentare, sabotare, reinterpretare ogni
clausola, dal ritiro “graduale” ai poteri del futuro governo.
Blair e Trump
Tony Blair, il male riciclato Dentro questa cornice Trump
inserisce Tony Blair come figura di garanzia internazionale. Ma Blair non è un
garante: è un criminale di guerra politico. Il rapporto Chilcot (2016) lo ha
inchiodato: informazioni manipolate sulle armi di distruzione di massa, guerra
in Iraq lanciata senza basi legittime, gestione post-bellica catastrofica.
Chris Nineham, nel volume The People v. Tony Blair, mostra come Blair
abbia incarnato la fusione tra potere politico e macchina mediatica,
trascinando il Regno Unito nella guerra più impopolare della sua storia recente
per fedeltà agli Stati Uniti. Ogni incarico internazionale a Blair equivale a
un insulto alle vittime irachene, afghane, palestinesi. Oggi, l’idea che questo
uomo torni come co-gestore della Striscia di Gaza dice tutto: chi ha devastato
Baghdad viene chiamato a “ricostruire” Gaza. Un piano di commissariamento Il Board of Peace guidato da
Trump e Blair è l’essenza del piano: trasformare Gaza in un protettorato
gestito dall’esterno, con Israele che mantiene la sicurezza dei confini e
decide tempi e modi del ritiro. Gli aiuti e la ricostruzione diventano affare
miliardario da spartire tra imprese occidentali e fondi del Golfo, mentre ai
palestinesi resta il ruolo di manodopera impoverita in una “Riviera del Medio Oriente”
da cartolina.
Perché non è pace Un vero processo di pace richiede
legittimità, inclusione, garanzie imparziali. Qui abbiamo l’opposto: un piano
scritto da chi bombarda, imposto da chi occupa, supervisionato da chi ha già
mentito per giustificare guerre. Hamas viene ridotto a spettatore obbligato,
mentre l’Autorità Nazionale Palestinese appare solo come sigillo decorativo da
riformare a piacimento. Basta leggere le parole di
Netanyahu: “This can be done the easy way or it can be done the hard way, but
it will be done” (The Guardian, 29 settembre 2025). Non è il linguaggio di un
accordo, è la minaccia di una resa. Chiamarlo piano di pace è un
abuso linguistico. È un manuale di commissariamento coloniale, con la crudeltà
supplementare di usare i prigionieri come pedine emotive. Gaza non riceve
sovranità, ma una nuova forma di prigionia, come se 70 anni di colonialismo e
un genocidio non fossero bastati. L’Autrice