Tragica
coincidenza od infausto destino, le poetesse Sylvia Plath e Amelia Rosselli,
sua fedele lettrice e traduttrice, videro le proprie vite segnate da tristi
vicende familiari (la Plath fu vittima anche di violenza domestica da parte del
marito/poeta Ted Hughes) che ne avrebbero, in seguito, condizionato pesantemente
il rispettivo benessere psichico. Entrambe orfane di padre in giovane età,
entrambe affette da gravi forme di depressione sino alla sofferta esperienza
dell’elettroshock negli ospedali psichiatrici, le due poetesse sono legate da
una data nefasta: quell’11 Febbraio del 1963 per la Plath e, a distanza di 33 anni, nello stesso giorno, per la Rosselli,
quando posero entrambe fine alle proprie vite. Per quanto il suicidio della
Plath costituisca dibattito tuttora aperto fra gli studiosi, sulle orme del
sociologo Durkheim, ne evidenzierei il carattere sociale del gesto: che sia di
tipo egoistico, anomico, altruistico o fatalistico, esso è un fenomeno sociale,
connesso a cause esterne all’individuo (in Le Suicidie di Durkheim).
Amelia Rosselli
I
dati dell’ISS, aggiornati al 2024, a tal proposito, riportano circa il 6% di soggetti
affetti da depressione nella fascia di età adulta compresa fra i 18-69 anni,
con rischi particolari per le donne, per individui affetti da patologie
croniche e disabilità, per soggetti che versano in condizioni economiche di
disagio, per lavoratori in stato di precariato; per gli anziani oltre i 65
anni, invece, la percentuale raggiunge circa il 9%, dati che hanno visto un
incremento con la pandemia. Così, nella giornata europea della Depressione (sabato
18 ottobre) e a poco più di una settimana da quella dedicata ad essa, a livello
internazionale, non potevo essere indifferente ad una delle pagine più fredde,
lucide e razionali (“Edge”- “Orlo”) di una delle scrittrici più profonde
e creativamente visionarie, nel senso della scrittura, degli anni sessanta e a
cui, Amelia Rosselli si dedicò con zelo, nell’attività di traduzione di alcune
sue opere, fra cui “Ariel”. Nella poesia “Orlo”, proposta qui di
seguito, persino la Luna, immobile, è abituata a simil scenari immortalati
quasi in un dipinto fra il realismo ed il surrealismo ad evocarne la maternità
interrotta ed il raggiungimento della perfezione di sé con la morte, quella
stessa Luna che, invece, nel Lied di Eichendorff, “Mondnacht” (“Notte
di Luna”), farà da sfondo, anche se mai menzionata, ad una esperienza “romantica”
di trascendentale connessione con l’Assoluto.
Orlo
La donna si è
realizzata. Il suo corpo morto veste il
sorriso del compimento. L’illusione di
una necessità ellenica scorre,
fluida, nel tessuto della sua toga, i suoi piedi nudi sembrano dire: “siam giunti
fin qui, è finita.” Ciascun
infante morto, come serpente bianco, ognuno,
avvolto alla propria tazzina di latte, ora vuota. Lei li ha
ripiegati nel proprio
corpo come petali di rosa
rinchiusa nell’intorpidirsi del giardino dai sentori di
sangue effusi dalle
dolci e profonde gole
del fiore notturno. La luna non ha
nulla di cui esser triste, con lo sguardo
fisso dal suo cappuccio d’osso. Avvezza a
certe scene crepitano e si
trascinano le sue macchie nere.