Africa. Il continente antico in
sedici reportagea cura di Antonella Napoli Non è
casuale l’alternanza scelta per i sedici reportage che compongono Africa, uscito per le Edizioni All
Around e curato da Antonella Napoli, giornalista e analista di questioni
internazionali, direttrice della rivista Focus on Africa. Se si
trattasse di un film si parlerebbe di un montaggio efficace, nel quale
affascinanti scenografie africane si intercalano alla narrazione di guerre,
eccidi e migrazioni forzate, soprusi e sfruttamenti con immagini che nel Congo
ex colonia belga rimandano agli orrori di Cuore di tenebra di Joseph
Conrad. Quasi a offrire al lettore una boccata d’ossigeno durante un’immersione
nella quale l’obbrobrio della violenza non può lasciare indifferenti, e
regalare una speranza che, per quanto consolatoria, non deve distogliere lo
sguardo da questi mille mondi, contraddittori e sfaccettati, riuniti sotto il
nome comune di “Africa”. “Gli africani utilizzano da sempre il mondo naturale come guida, mappa e
strumento nel corso delle loro esistenze”, scrive Antonella Napoli
nell’introduzione ed ecco che il mondo naturale ha le sembianzedella riserva naturale di Mashatu, al
confine orientale del Botswana, fra lo Zimbabwe e il Sudafrica, con “un
paesaggio vario che va dalle praterie alle foreste fluviali, dalle colline
rocciose alle paludi, a numerose creste di arenaria […] che accoglie
elefanti, giraffe, varie specie di antilopi, struzzi e l’uccello kori bustard,
il simbolo del Botswana”,oppure le 115 isole che compongono le Seychelles.
Un insieme di corallo e granito, spiagge, barriere coralline, picchi che si
ergono sopra foreste con l’eccezionale fauna di uccelli marini che vi
nidificano, specie uniche come la tartaruga gigante di Aldabra o i fitti
palmizi di cocco di mare.
A questi “paradisi”, che fanno
pensare all’Eden come la terra vergine degli inizi, quando tutto era ancora
intatto e la storia degli uomini di là da venire, si aggiungono i reportage
dall’atlantica Capo Verde con il suo esperimento di “turismo comunitario” il
cui scopo è “portare le persone interessate a visitare una Capo Verde
differente, senza grandi hotel con piscina e vista mare, ma a contatto diretto
con la realtà locale rurale e che punta sull’ambiente come atout principale”.
A questa scelta si contrappone invece l‘esplosione turistica di Zanzibar e
l’abbraccio della Tanzania con Dubai, uno degli esperimenti più diabolicamente
riusciti di trasformare una città in un luna park permanente. Condensare la varietà di temi che
i sedici reportage, firmati da autori diversi, affrontano è impossibile. Le
molte “Afriche” che descrivano sono complesse e ognuna di loro meriterebbe un
approfondimento a parte. Numerosi sono i rimandi al periodo coloniale, dalla
storia delle lotte per l’indipendenza ai fatti che drammaticamente entrano
nelle cronache attuali, come le marce della morte attraverso il deserto per
raggiungere la costa del Mediterraneo raccontate in Libia, lungo le rotte
dei migranti. Bastano i titoli dei capitoli a segnare quel percorso che per
molti ha le immagini del film di Matteo Garrone, Io capitano: Una via di
fuga attraverso il deserto, Un viaggio disperato inseguendo la speranza, Storie
di chi ce l’ha fatta e chi no, Un flusso ininterrotto di “senza futuro”, I
respingimenti illegali di profughi, il “traffico umano” e il contrabbando
d’organi, Migliaia ogni giorno le persone scomparse nel deserto. Secondo dati recenti il deserto è
un cimitero più affollato del Mediterraneo. E al deserto ci riportano ancora
due bellissimi reportage: Sahara occidentale, la battaglia infinita del
popolo Saharawi e Meroe, la città dei faraoni neri.
Il primo raccoglie le
testimonianze di alcuni sopravvissuti alle mine, tra i 7 e il 10 milioni
secondo stime ONU, disseminate lungo il muro elettrificato di 2700 chilometri
costruito per tenere lontani dai loro territori nel Sahara occidentale, conteso
tra Marocco e Fronte Polisario, i saharawi, tribù nomade che discende da
schiavi africani, beduini arabi e berberi. Questo popolo vive in campi profughi
a ridosso del muro, “trasformati in presidi di resistenza, ma anche in
comunità con scuole, strutture sanitarie e piccole attività commerciali, che
sono l’emblema della battaglia pacifica di una nazione che da quarantaquattro
anni rivendica la propria indipendenza. Accampamenti fatti di tende e di
piccole costruzioni di sabbia che all’arrivo della stagione delle piogge,
quando sono particolarmente abbondanti, si sgretolano […] gli aiuti umanitari permettono alla
popolazione di sopperire alle carenze del luogo ostile, ma il cuore pulsante
che tienein piedi la comunità sono le donne”. Insegnanti,
operatrici sanitarie, donne impegnate politicamente che conducono la battaglia
per l’autodeterminazione “nonostante l’indifferenza della comunità
internazionale, un silenzio che genera un deserto, non solo di sabbia, intorno
alla loro esistenza”.
E sempre a un deserto ci riporta
il secondo reportage, Meroe: la città dei faraoni neri, in un luogo di
forti suggestioni storiche a artistiche qual è la riva orientale del Nilo
Azzurro. Antica capitale del regno di Kush (III sec. a. C.), luogo di
collegamento tra le civiltà mediterranee e quelle africane, patrimonio
dell’umanità dal 2011, è attualmente esposta ai pericoli che derivano dallo
scoppio nel 2023 di una nuova guerra civile tra l’esercito e il gruppo Rapid
Support Forces, che segue quella della regione del Darfur, “dove il
genocidio della popolazione non afro-araba ha portato alla morte di circa
400mila persone”.
Meroe si trova infatti vicina a
una miniera d’oro “gestita dalla Meroe Gold, compagnia che risulta
controllata dal gruppo di mercenari russi Wagner che sfruttano la concessione
fornendo in cambio armi alle milizie”. Oggi l’antica città originaria
non esiste praticamente più, ma i nomadi si accampano ancora tra le sue rovine
e può capitare che “spostando con la mano la sabbia che lo ricopre si
palesano brandelli di pavimento di pietra levigata bianca e nera, a scacchi”
oppure “il bassorilievo di un coccodrillo, carri carichi di prigionieri, il
dio leone Apademak”. Un mondo sommerso che riaffiora, mentre lo sguardo
scivola lentamente “lungo il profilo delle piramidi dei re e delle regine
del regno di Kush, necropoli sontuosa e immobile da più di venti secoli sulla
distesa rossa del deserto di Meroe”. Anche questa è una delle
“Afriche”, che descrisse in modo magistrale Karen Blixen: “L’aria, in
Africa, ha un significato ignoto in Europa. Piena di apparizioni e di miraggi,
è, in un certo senso, il vero palcoscenico di ogni evento”.