di Alessandro Pascolini - Università di Padova
Grande risonanza e attente analisi ha ricevuto il messaggio del presidente
Donald Trump del 30 ottobre, contenente l'affermazione: "A causa dei programmi di sperimentazione di altri paesi, ho incaricato
il Ministero della guerra di iniziare a testare le nostre armi nucleari allo stesso livello." Abbiamo imparato che le dichiarazioni
del presidente americano non vanno prese alla lettera e che spesso contengono
"verità alternative", per cui il suo intervento, forse, intendeva
riaffermare la forza e preparazione della forza nucleare degli Stati Uniti a
fronte delle altre potenze nucleari. Comunque, la pubblicità all'intervento di
Trump ha riacceso l'attenzione dell'opinione pubblica sui test nucleari,
eclissata dalla lunga moratoria di tali esplosioni. È importante sottolineare che la forza nucleare
di un paese si fonda su tre elementi fondamentali, tutti indispensabili: le
testate esplosive, i loro vettori e i
sistemi di comando e controllo nucleare. Per garantire la credibilità della
strategia nucleare di ciascun paese occorre che ognuno di questi elementi venga
mantenuto efficiente, affidabile, sicuro e protetto da interferenze esterne,
con i potenziamenti resi possibili dagli sviluppi tecnologici. Questo richiede
una manutenzione e un ammodernamento continui, con specifiche verifiche
sperimentali e simulazioni. Mentre i test dei vettori (missili, aerei, ...) e
dei sistemi di comando e controllo avvengono regolarmente senza limitazioni
legali, i test esplosivi delle testate sono limitati da trattati
internazionali, bilaterali e norme unilaterali, oltre a rimanere inaccettabili
all'opinione pubblica: una loro ripresa avrebbe gravissime ripercussioni a
molteplici livelli.
Le tre fasi dei test nucleari
Una tipica arma
termonucleare attuale è composta di circa 6000 parti, di cui solo 300
riguardano il complesso dei componenti nucleari, comprendente sia il primario a
fissione che il secondario a fusione. La messa a punto degli ordigni richiede
quindi lo sviluppo delle tecnologie necessarie per la funzionalità dei singoli
componenti e serie di verifiche ed esperimenti, fino al raggiungimento delle
caratteristiche previste. Tutte le parti non nucleari vengono ovviamente
studiate in laboratori con i metodi specifici delle tecniche individuali, ma lo
sviluppo delle armi a implosione richiede anche di provare effettivamente
esplosioni a piena potenza, per verificare il corretto accoppiamento delle onde
d’urto prodotte dalle lenti di esplosivo con la compressione del materiale
fissile, e per controllare il preciso sviluppo dei vari stadi delle armi con
componenti a fusione. Dal 1945 al 2017 (data dell'ultimo test nord-coreano) le potenze nucleari
hanno effettuato complessivamente 2412 test nucleari esplosivi per un'energia
equivalente a 510 Mton di esplosivi convenzionali, circa 50 mila volte quella
della bomba che ha distrutto Hiroshima. La prima fase di sperimentazione, con test nell’atmosfera a varie quote, nello
spazio, in mare e al suolo, ha avuto gli obiettivi: studiare gli effetti delle esplosioni
nelle diverse condizioni ambientali e sulle varie strutture civili e militari; verificare
la fattibilità di armi di nuove concezioni; miniaturizzare le testate per impieghi
con missili e artiglieria. La seconda fase si è basata su test sotterranei, in
gallerie minerarie dismesse o, preferibilmente, in pozzi scavati ad hoc (pozzi larghi un paio di metri e
profondi fin oltre un kilometro). La prima esplosione sotterranea, americana,
ebbe luogo nel 1951. Ulteriori test portarono presto gli scienziati a
concludere che le prove sotterranee avevano un valore scientifico di gran lunga
superiore a tutte le altre forme di sperimentazione, essendo meglio controllate e fornendo maggiori
informazioni. Inoltre, erano più accettabili all'opinione pubblica e
avevano minore impatto ambientale e sulle relazioni diplomatiche. Francia e
URSS svilupparono la tecnologia necessaria nei primi anni '60, mentre gli
inglesi utilizzarono strutture americane.
Questa fase, durata
fino alle moratorie unilaterali degli anni '90, ha compreso: campagne
pluriennali per la messa a punto e verifica di nuovi concetti per una varietà
ordigni; lo sviluppo di tecnologie per esplosioni a scopo civile; lo studio dettagliato
delle proprietà della materia nelle speciali condizioni di super-criticità e
alle temperature e pressioni dell’esplosione; la taratura di codici per
simulazioni cibernetiche del comportamento dei componenti delle varie armi. La
presente terza fase impiega simulazioni ed esperimenti non esplosivi o
subcritici in speciali laboratori, a verifica dello stato operativo delle armi
della riserva; per il controllo dell’efficienza, resa e sicurezza delle armi in
condizioni marginali; per lo sviluppo di nuove versioni e ammodernamenti dei
modelli base; per studiare proprietà particolari dei materiali fissili e dei
processi coinvolti nella fusione nucleare.
La sperimentazione
attuale
Mantenere l’arsenale
nucleare sicuro, inviolabile e affidabile rimane una necessaria priorità per
gli stati con armi nucleari, anche per estendere al massimo la vita operativa
degli ordigni. Mentre non sono rese note le specifiche attività svolte a tal
fine dagli altri paesi nucleari, la National Nuclear Security Administration (NNSA) del
Dipartimento dell’energia americano presenta biennalmente al Congresso il suo programma di gestione e governo dell’arsenale nucleare (Stockpile
Stewardship and Management Plan - SSMP), un ponderoso e dettagliato documento che permette di comprendere la
varietà delle operazioni necessarie, la molteplicità delle strutture coinvolte,
la forza lavoro e i costi necessari. Queste informazioni fanno intuire, per
analogia, i possibili programmi delle altre potenze nucleari.
Il programma SSMP mira
a una comprensione scientifica sufficientemente dettagliata del processo
esplosivo nucleare per identificare, comprendere e correggere eventuali
anomalie che potrebbero emergere durante il ciclo di vita delle armi. La valutazione
dell’arsenale nucleare si fonda essenzialmente su due attività
scientifiche: la sperimentazione e la simulazione.
La simulazione delle esplosioni nucleari si basa sull’enorme quantità di informazioni raccolte nei
test esplosivi e sulle precise conoscenze scientifiche raggiunte in laboratorio
sui diversi processi di un’esplosione nucleare e sui materiali. I
progressi nello sviluppo dei codici e nei metodi numerici consentono complesse
simulazioni tridimensionali ad alta fedeltà per modellare fenomeni dinamici
come la turbolenza e l’idrodinamica complessa. La necessità di un'enorme potenza di calcolo ha portato allo sviluppo del calcolo 'exascale', un’architettura
parallela basata su nodi composti sia da
CPU (central processing unit) che da GPU
(graphics processing unit). Il primo sistema exascale del laboratorio di Livermore, El Capitan, impiega oltre 11 milioni di processori, raggiunge 2 exaFLOPS
(miliardi di miliardi di operazioni in virgola mobile al secondo), e dispone di 5,4 petabyte (milioni di miliardi di byte) di memoria, per una potenza
di 30 MW. La sperimentazione fornisce dati
reali sui processi fisici e controlli
empirici per migliorare e validare i modelli di
simulazione, informazioni essenziali per definire i codici di progettazione
e per prevedere le prestazioni delle armi nucleari. Esperimenti 'idrodinamici'
esplorano la fisica dell’implosione dall’innesco
all’inizio della reazione a catena e forniscono dati sul comportamento di sistemi
dinamici in scala reale, in particolare sul
funzionamento della fase di compressione e la regolarità spaziale e temporale
dell’implosione. In un test idrodinamico, esplosivi ad alto
potenziale detonano attorno a una massa di materiale inerte (U-238 e Pu-242) al posto dei corrispondenti
isotopi fissili, all’interno di una camera spessa e a tenuta d’esplosione. Quando
l’intensa onda d’urto colpisce la massa, il comportamento del materiale viene
misurato da apparecchiature diagnostiche avanzate (anche impiegando raggi X e
neutroni) installate in tutta la camera.
Il termine 'idrodinamico' è dovuto al fatto che l’esplosione è sufficiente a
portare il materiale campione allo stato fluido, ma non di plasma. Si chiama invece 'idronucleare' un test in cui si fa implodere del reale
materiale fissile, ma non si mantiene la condizione di ipercriticità tanto da
raggiungere un’esplosione di piena potenza: l’energia rilasciata va da misure
piccolissime, anche inferiori a milligrammi equivalenti di TNT, fino a qualche
kilogrammo equivalente. In queste condizioni il materiale raggiunge la
temperatura di fusione, ma non quella di sublimazione e non si crea un plasma.
Per evitare una piena esplosione si sostituisce parte del nocciolo nucleare con
materiale non fissile conservando le dimensioni geometriche; lo sviluppo della
catena neutronica viene misurato con precisione e scalato per determinare
quello della bomba completa. In pratica la strumentazione e le procedure per un
esperimento idronucleare non differiscono da un test sotterraneo a piena
potenza, per cui gli Stati Uniti hanno sospeso questi test con la firma del
Trattato CTBT. Esperimenti subcritici, ossia su materiali nucleari
speciali in condizioni tali da non raggiungere
la criticità e iniziare una reazione a catena, condotti presso il Nevada National Security Site, permettono di studiare la risposta dei
materiali fissili (in particolare
plutonio) a onde di compressione di diversa potenza e le loro
proprietà -anche non-nucleari - in situazioni eccezionali. Per lo studio dei
regimi fisici che si susseguono nelle armi a fusione (trasporto della
radiazione, implosione del secondario, ignizione e resa) si fa ricorso anche a
processi di fusione inerziale: piccole capsule, per lo più sferiche e a più
strati, contenenti deuterio e trizio vengono illuminate istantaneamente da intensissimi
impulsi laser da molte direzioni in modo da raggiungere per compressione
densità temperature sufficienti a innescare le reazioni di fusione. Il più
grande di questi apparati, l’enorme National
Ignition Facility, a Livermore, concentra sul bersaglio l’impulso di 192
giganteschi laser operanti nell’ultravioletto, fino a energie superiori a 1 MJ
(https://ilbolive.unipd.it/it/news/raggiunta-lignizione-fusione-termonucleare). Il programma
americano è particolarmente imponente: vi sono impegnate oltre 62800 persone
presso vari laboratori del Dipartimento dell'energia e nel 2025 ha richiesto
circa 6 miliardi di dollari.
Trattati per la
limitazione dei test nucleari
La
sperimentazione attuale e i programmi di sviluppo (e di non-proliferazione) devono
rimanere all'interno dei limiti posti dai vigenti trattati. La massiccia
successione di esplosioni nucleari atmosferiche comportò la produzione di un
crescente fallout radioattivo su
tutto il pianeta. Associazioni di scienziati iniziarono a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle potenziali
conseguenze sanitarie, mentre organizzazioni pacifiste si battevano con
campagne pubbliche per il bando dei test e l’eliminazione delle armi nucleari.
L’evento che definitivamente sensibilizzò l’opinione pubblica mondiale sulle
esplosioni nucleari, forzando i governi a prendere posizione, fu l’esperimento
americano Castle Bravo del marzo 1954, che contaminò una vastissima zona
del Pacifico. Dopo varie sterili iniziative
diplomatiche, nel luglio 1963 iniziarono a Mosca seri negoziati fra
UK, URSS e USA e, non riuscendo a risolvere il problema di una soddisfacente
forma di verifica per i test sotterranei, il 5 agosto del 1963 si giunse al Trattato di bando
parziale dei test (Partial Test-Ban
Treaty - PTBT), che entrò in forza il 10 ottobre
1963. Il trattato proibisce esplosioni nucleari
nell’atmosfera, nello spazio esterno e sott’acqua ma non limita i test
sotterranei. Il PTBT ha attualmente 125 parti (10 firmatari non l’hanno ancora
ratificato); fra i paesi con armi nucleari, non hanno aderito al trattato Cina,
Corea del Nord e Francia; la Francia continuò i test nell’atmosfera fino al
1974 e la Cina fino all’ottobre del 1980; i test nord-coreani sono stati tutti
sotterranei. Nel
1974 l'URSS e gli USA raggiunsero trattati bilaterali per limitare la potenza
dei singoli test sotterranei a una resa massima di 150 kton, sia per obiettivi
militari (Threshold Test Ban Treaty -
TTBT) che per esplosioni a scopo pacifico (Peaceful
Nuclear Explosions - PNE), con un limite di 1500 kton per la resa aggregata
di un gruppo di esplosioni di un dato programma pacifico. La ratifica dei
trattati (11 dicembre 1990) richiese la stesura di protocolli con rigorose
forme di controllo e verifica, incluse ispezioni in loco per test di resa
prevista superiore a 35 kton. L'obiettivo di un bando totale dei test
venne mantenuto vivo da organizzazioni di scienziati e movimenti pacifisti e
ambientalisti e ripetutamente richiesto da gran parte dei paesi non nucleari
nelle conferenze di revisione del Trattato di non proliferazione (NPT) e del
PTBT. Dal 1990, azioni a livello diplomatico e della società civile portarono
alla sospensione unilaterale dei test, prima dalla Russia (ottobre 1991),
seguita dalla Francia (aprile 1992) e da un riluttante George H.W. Bush
(ottobre 1992), coinvolgendo necessariamente anche i recalcitranti inglesi. Nel nuovo contesto politico internazionale, la Conferenza per il disarmo,
dopo quasi tre anni di intense trattative e complessi negoziati, giunse il 22
agosto 1996 alla redazione di una bozza definitiva del Trattato per il bando
completo dei test nucleari (Comprehensive
Test Ban Treaty - CTBT), che, grazie a un escamotage diplomatico per
superare il veto dell'India, venne approvato dall'Assemblea generale dell'ONU e
aperto alla firma il 24 settembre 1996. A oggi, il trattato è firmato da 187 stati e ratificato da 178,
tuttavia, come previsto dall’articolo XIV, il CTBT entrerà
in vigore solo dopo l’avvenuta ratifica da parte di 44 stati con capacità
nucleare avanzata. Fra questi, mancano le ratifiche di Cina, Egitto, Iran,
Israele, Russia e Stati Uniti, mentre Corea del Nord, India e Pakistan non l'hanno
neppure firmato (http://ilbolive.unipd.it/it/blog-page/protetti-dal-trattato-che-non-ce).
Il CTBT vieta “qualsiasi esplosione di prova
di armi nucleari o qualsiasi altra esplosione nucleare”, ma non fornisce una
definizione tecnica precisa di cosa costituisca un’“esplosione”. Ciò ha
lasciato spazio a interpretazioni contrastanti, portando a una divergenza
significativa tra le potenze nucleari. Gli Stati Uniti sostengono da tempo il
cosiddetto standard dello “zero yield”, secondo cui il trattato proibisce
qualsiasi esperimento che produca una reazione a catena nucleare autosostenuta,
per quanto piccola o breve, e spesso hanno sostenuto che altri stati producano
test idronucleari. Per assicurare l’implementazione del trattato, incluse le forme di
verifica e controllo, è stata creata una Commissione preparatoria dell’Organizzazione per il CTBT (Comprehensive
Nuclear-Test-Ban Treaty Organization - CTBTO) con sede a
Vienna. La commissione
ha sviluppato una rete globale di rilevamento (International Monitoring System - IMS) con 337 stazioni per segnali sismici e idro-acustici, rivelatori di
radionuclidi e di infrasuoni, a coprire tutto il mondo.
Il sistema internazionale di controllo è in
grado di individuare e riconoscere esplosioni nucleari anche di limitata resa; questa
alta sensibilità del sistema IMS ci assicura della sostanziale tenuta del CTBT,
dato che la moratoria dei test viene rispettata da tutti i paesi e che gli
unici test dal 1998 sono stati quelli della Corea del Nord. Il CTBT continua a
svolgere un ruolo cruciale nella complessa e, per troppi versi, insoddisfacente
situazione attuale, garantendo la stabilità del sistema di protezione dal
disastro nucleare. La posta in gioco è estremamente elevata: se venisse meno la norma internazionale che, da
quasi trent’anni, scoraggia qualsiasi sperimentazione atomica, l’equilibrio
globale ne uscirebbe profondamente compromesso. È probabile che un singolo
cedimento aprirebbe la strada a una serie di test da parte di altre potenze
nucleari, alimentando una nuova e pericolosa corsa agli armamenti, questa volta
orientata a costruire testate sempre più avanzate. Un simile scenario non solo minaccerebbe
la stabilità internazionale, ma intaccherebbe anche l’intero sistema di non
proliferazione faticosamente costruito negli ultimi decenni.
Affrontare questa sfida è dunque un compito
politico e diplomatico oltre che tecnico: richiede trasparenza, dialogo e un
impegno rinnovato a preservare una delle norme sul controllo degli armamenti
più importanti dell’età contemporanea. Solo così si potrà impedire che la
crescente diffidenza tra stati finisca per
sgretolare uno dei pilastri della sicurezza globale.


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