Cosa
significa essere poeta in tempo di guerra? Questo l’incipit del primo
verso del componimento della poetessa Hend Joudah,
fondatrice e direttrice della rivista 28 Magazine di Gaza, una delle
dieci voci gazawi appartenente alla raccolta poetica Il loro grido è la mia
voce, curata da Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti, in
collaborazione con i traduttori Nabil Bey Salameh (per la resa dall’arabo in lingua
inglese) e con Ginevra Bompiani ed
Enrico Terrinoni, per la traduzione in italiano dall’inglese, corredata dagli interventi
conclusivi del giornalista americano Chris Hedges e della scrittrice e saggista
palestinese-americana Susan Abulahwa (Fazi ed. pagg. 141 Fazi 2025).
Il filosofo
Adorno avrebbe risposto a tal quesito, 81 anni fa, assieme al filosofo Max Horkheimer,
nell’opera Dialektik der Aufklärung (Dialettica dell’Illuminismo, 1944),
con una osservazione critica circa il poetare in tempi di sterminio e
genocidio, la pagina più buia della Storia, quella di Auschwitz, un’attività
che non sarebbe stata possibile a livello spirituale, per gli atti di barbarie
perpetuati da una parte cieca dell’umanità all’umanità stessa. Adorno avrebbe
riconsiderato, in seguito, il suo pensiero, nella sua opera Negative
Dialektik (Dialettica Negativa, 1966), sviluppando nell’ottava e
dodicesima meditazione sulla Metafisica, l’idea del non-identico quale
fondamento della verità, in contrapposizione alla dialettica hegeliana
dell’unità, ossia il non ridurre alla totalità di sistema, mediante
identificazioni, il particolare e, affidando all’arte lo spazio aporetico di
apertura all’alterità e di tensione costante verso un altrimenti. La poesia costituirebbe, in tal modo, lo
spazio fisico بيت(bait), nel
duplice significato di “casa” e “verso”, come ci suggerisce, in prefazione, lo
storico israeliano Ilan Pappé, in cui il dolore possa esprimersi in tutta la
sua drammatica potenza spirituale e materiale, denunciandone le contraddizioni
socio-economiche e politiche su scala globale.
Hend Joudah
Se per Hend
Joudah, il poeta in guerra vive una condizione di alienazione, costretto
a negare la propria essenza poetica per senso di vergogna nei confronti della
Natura e delle anime innocenti tristi o uccise e, la poesia “significa
chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati, ai bambini pallidi prima e
dopo la morte”, per la scrittrice Ni’ma Hassandi
Rafah, impegnata nell’uso delle arti per la cura dei bambini vittime di
traumi di guerra, la poesia è un inno al sacrificio di dolore materno in cui
una madre a Gaza “si erge come uno scudo di fronte alla morte… e fa il pane
con il sale fresco dei suoi occhi… e nutre la patria con i suoi figli”.
Ni'ma Hassan
La terza voce gazawi è affidata al poeta Yousef Elqedra, sfollato nell’accampamento della
“zona umanitaria” di al-Mawasi e colpito da un raid aereo israeliano in cui quaranta
tende sono andate distrutte e ventidue persone hanno perso la vita, fra cui
otto bambini. Nei suoi versi emerge un tratto peculiare del popolo palestinese:
la sua resistenza e resilienza, al contempo, mediante la personificazione della
tenda che “non è una casa ma è una promessa d’attesa… Il vento scuote la
tenda, la tenda abbraccia la pioggia e la pioggia lava via tutto, ma non la
memoria di chi ci vive. Così la tenda rimane in piedi, a testimoniare che la
fragilità è l’altro volto delSumud”.
Yousef Elqedra
Per Ali
Abukhattab, trasferitosi in Norvegia, dove tuttora vive esiliato, la poesia
rappresenta una via di fuga, è aggrapparsi al vento seguendone la sua logica,
lui che è stato costretto a fuggire in Egitto in seguito alle minacce da parte
di Hamas: “al vento la sua logica… e tu cammini contro la salinità del
tempo…intrecci la tua morte con mani di buchi, ti aggrappi al sibilo del vento”.
Ali Abukhattab
Una sorte totalmente ingiusta è
toccata, invece, alla poetessa e fotografa di Raineh, Dareen
Tatour, condannata dal tribunale israeliano, per incitamento alla
violenza, in seguito alla pubblicazione in rete nel 2015, della poesia “Resisti
o popolo mio, resisti loro”. In Allucinazioni
di una poetessa prigioniera condannata per terrorismo inserita nella
raccolta in questione, leggiamo:“le vostre armi saranno annientate e
la poesia rimarrà viva, la poesia nella mia prigione è nutrimento, è acqua e
aria… amando la vita rimarrò io per scrivere di me e di chi soffre lettere di
verità”. Credo siano versi cruciali a confermare le tesi adorniane
sull’importanza dell’arte e della scrittura, in questo caso, quale
testimonianza di sofferenza di un popolo e al tempo stesso, ancora di salvezza,
spazio in cui esprimere le contraddizioni storiche per le quali si fa urgente
una nuova indagine metafisica, una dialettica atta a comprendere il mondo.
Dareen Tatour
Nel componimento dello scrittore Marwan Makhoul, New Gaza, ritorna, invece, il
tema del sacrificio materno ma, questa volta, si fa intenso il senso di colpa
che divora la madre partoriente, la quale invoca perdono al nascituro: “quindi
perdonami, sono come una gazzella quando partorisce, che teme la iena appostata
dietro la fossa quindi vieni in fretta, poi corri il più lontano possibile
affinché il rimpianto non mi divori… E Dio sa che tu e chi è come te
siete ancora feti ingenui e non lo sapete”. Ma è nella sua poesia Versi
senza casa che la scrittura, quale atto di resistenza, si fa potente; così
leggiamo nei versi finali: “potremmo non cambiare questo mondo con ciò che
scriviamo, ma potremmo graffiare la sua vergogna.”
Marwan Makhoul
In esilio negli Stati Uniti dal
2023, Yahya Ashourè Honorary Fellow presso
l’Università dell’Iowa. Una delle poesie, proposte dalla raccolta e intitolata Porgi
l’altra guancia, è una vera e propria denuncia del Cristianesimo, di chi
non crede più in Cristo: “questo mondo bianco, che non crede più in Cristo,
ti implora, Gaza, con le sue parole: Porgi l’altra guancia”, per cui la
pace, agli occhi del poeta, sembra quasi un atto riduttivo, ma necessario, che
mai però potrà riscattare “la morte dalla tua fronte, o Gaza”, eppure,
il poeta, rivolgendosi a Gaza, in sembianze umane, la esorta a resistere, a
gioire, a continuare a vivere nel sentimento di “Sumud”.
Yahya Hashour
Il 20 ottobre 2023, in seguito ad
un ulteriore bombardamento aereo israeliano, muore la poetessa e biochimica Hiba Abu Nada. Di lei, sento di volere condividere, in
particolare, alcuni versi scritti pochi giorni prima della sua scomparsa e che
fanno della poesia, uno spazio immaginario di desiderio di luoghi senza
assedio, di posto paradisiaco senza dolore, ove regna l’amore eterno: “noi
lassù costruiamo una seconda città… nuove famiglie senza dolore né tristezza,
giornalisti che fotografano il paradiso e poeti che scrivono sull’amore eterno:
nel Paradiso c’è una nuova Gaza che si sta formando ora senza assedio”.
Hiba Abu Nada
Soffermandoci sul titolo della
raccolta Il loro grido è la mia voce, essoè tratto dalla poesia
del giovane scrittore Haidar al Ghazali, “un
essere umano normale, un palestinese normale, un abitante di Gaza normale che
vive un genocidio da un anno”, questa la sua presentazione al pubblico lettore.
Composta il 25 aprile 2024, riporto di seguito, alcuni versi della poesia, in
cui si pone un quesito universale semplice, un invito all’umanità ormai
smarrita: “Perché non diventiamo un solo mondo, perché non cresciamo insieme?...
Insegnate ai vostri figli che il corpo della terra è uno e che i confini della
terra sono un’invenzione”;esattamente un anno prima, al Ghazali
aveva esortato l’umanità, rivolgendosi ad un Tu generico, nella poesia L’alfabeto
degli Universi: “Vieni che sistemiamo l’alfabeto degli universi, io sono la fenice
stanca delle storie di cenere…”.
Haidar al Ghazali
Non ultima per importanza, ma per
impianto grafico voluto dai curatori stessi, è la voce del poeta e docente
gazawi di Letteratura inglese Refaat Alareer.
Anch’egli vittima il 6 dicembre 2023 di un bombardamento israeliano, compone la
poesia If I must die (Se devo morire), pubblicata in rete pochi
giorni prima della sua scomparsa. Essa è stata tradotta in tutto il mondo e
costituisce l’idea fondamentale della raccolta di poesia da Gaza in oggetto: “se
devo morire, che porti speranza, che sia una storia”.
Refaat Alareer
Ed è in nome della Poesia e della
sua funzione dialettica di apertura verso l’altro che il loro grido è la mia
voce!