Shy di Max
Porter (Sellerio, 2025) non merita di essere incapsulato in un articolo che
voglia dirne la totalità. La totalità del romanzo (peraltro alquanto breve) respinge
ogni formulazione sistematica; si può parlare di Max Porter solo nella misura
in cui si accetta l’assioma di Walter Benjamin secondo cui l’opera è la
“maschera mortuaria della concezione”. Il rifiuto interno dell’opera di
raccontare una mente, quella di Shy (ci arriveremo), in un modo ordinato
(Porter scrive per frammenti) è parallelo e, ad avviso chi scrive, in rapporto
di interdipendenza con l’impossibilità di proporre una critica che sia
ordinata. Si tratta forse di mimesi, di aderenza all’opera, di una critica (la
presente) che vuole sottostare alle leggi del testo con cui si misura. A dire,
in altre parole, che un meta-linguaggio sarebbe mendace, ridurrebbe la
complessità (nonché il senso di informità, di incompletezza) di Shy allo
sciatto di una spiegazione, di una parafrasi. Diciamo, in via del tutto
generale, che il romanzo racconta una giornata nella vita, più che altro nella
mente, di Shy, che vive a Ultima Chance, collegio per ragazzi con problemi
psicologici. Non c’è un Io che narra ma, analogamente a Lanny, abbiamo
rapporto di voci con statuti ontologici diversi: c’è la terza persona
focalizzata; c’è il discorso diretto degli operatori e degli utenti del
collegio; c’è un refrain in grassetto che insiste, a mo’ di pensiero intrusivo,
ossessione, mettendo in dubbio Shy, spingendolo spesso a considerare l’ipotesi
del suicidio. Affresco eterogeneo che potremmo dire monista (perché non si
sfugge alla presa della mente di Shy) e polifonico (perché l’Io proposto non è
l’Io naturalista ma un Io franto, post-joyciano, internamente rizomatico,
internamente molteplice). Tenendo fede a quanto detto sopra, si entrerà nel
merito di alcuni passaggi dell’opera, senza pretesa di sistematicità o
compiutezza, in mimesi col testo stesso. “Lo
zaino pesa in modo assurdo. Il parquet si lamenta. Ricontrolla: la canna
rollata è messa in diagonale nel pacchetto di Embassy vuoto.” Questo
l’incipit. Viene
spontaneo il paragone, formale e contenutistico, con Bret Easton Ellis. Frasi
brevi, paratassi minimalista. E la canna. Subito si accetta la proposta di
Porter: vivremo frammenti. Il frammento dà e rappresenta il ritmo della vita di
un adolescente disturbato, tale il singhiozzo paratattico che può ricordare
anche alcuni periodi della narrativa beckettiana. Il frammento isola, come a dire
che ogni cellula che compone la mente di Shy fatica a ricongiungersi con le
altre, creando un sistema senza leggi, il caos adolescenziale, il caos del
turbamento psichico. Dunque il frammento è figura retorica, figura fonetica e
figura di rappresentazione.
La
colpa, qualche pagina dopo. Si dice che Shy “ha fatto graffiti, ha sniffato, ha
fumato, ha detto parolacce, ha rubato, ha usato il coltello”. E l’elenco
prosegue. Nell’insistenza dell’asindeto, la virgola che separa ogni colpa ha il
peso di una sentenza di tribunale. Intelligente è Porter nel rappresentare il
senso di colpa di un adolescente. Ci insegna Kafka che da una colpa rimasta
impunita scaturisce il senso di colpa, che non declina nella mestizia del “Mi
dispiace, sono cattivo” ma nella più crudele ossessione di essere, un giorno,
punito, e giustamente. Quella di Porter, con le sue modifiche al corpo testo,
pagine bianche con una riga solo alla fine, il grassetto, la polifonia monista
di cui sopra, è scrittura post-linguistica, post-soggetto. E la grafica, il
layout, la forma materica che cambia descrive il senso del soggetto identico al
linguaggio di cui parlavano autori come Derrida o Blanchot. È il turbamento, è
la violenza, sono i casini che creiamo. “La luna lo pedina. Lo giudica.” Questo
il senso di colpa. Come Adriano della Yourcenar, ma al contrario, Shy si sente
“responsabile della bruttezza del mondo”. La portata delle sue azioni
(ricordiamo l’elenco, “Ha fumato… ecc.”) è cosmica. La mente di un ragazzino è
per natura iperbolica, se particolarmente sensibile. Se particolarmente
sensibile, l’adolescente non riesce a circoscrivere la colpa, il casino che fa,
e la colpa assume uno statuto affatto immeritato, una pesantezza innecessaria.
Sicché il mondo diventa segno, a volte, psicosi, letteralmente. Al che il mondo
ci parla della nostra mostruosità, ci giudica e ci vuole fuori dalle palle. E
noi dietro a dire: Sì, sì, me lo merito. “No,
non ha più fatto pensieri autolesionistici. No, non ha voglia di farsi
riprendere per il documentario sull’Ultima Chance. No, non gli va di essere
accoppiato con Riley per le uscite della raccolta rifiuti. No, non lo pensa
davvero che tutta l’arte sia roba da froci. No, non vuole che sua madre e il
suo patrigno vengano a trovarlo questa domenica”. È il chiudersi a riccio con
l’ambizione di farsi piccoli sino all’invisibilità. La
voce in grassetto: “Confessa che ti piace fare il drammatico, Shy”.
Serbiamo
la voce dei padri delegittimanti. Quando scema, quando ci dà tregua, guardiamo
il nostro dolore, e al nostro dolore guardiamo come una finta, un dramma. Ci
svalutiamo, neghiamo l’importanza della nostra sofferenza e, influenzati, ma
anche più che influenzati, più che influenzati parlati,dall’inferno
degli Altri che non possono accedere a quanto anche a noi è precluso, ci
diciamo che stiamo facendo finta, che è tutta scena per ottenere compassione.
Ed è nel circuito chiuso, perfettamente logico ma non falsificabile, di certe
configurazioni neurodivergenti che ci si inceppa nel “loop” del “Forse fingo”
del “Questo dolore è vero?” Il mondo ci mette in dubbio, il dubbio è tale che ci
infesta, siamo in dubbio, soffriamo di soffrire, pensiamo di soffrire, pensiamo
il pensiero, e non si esce dalla idea ideae. Poi l’onestà bruta: “Non lo
so. Non lo so. Per favore per favooore mi dispiace. Vorrei non essere mai nato.
Vi odio. Voglio morire”. Tanto
Beckett, tanta Duras, tanta Sarah Kane.
Parlando
con l’amico Brod, Kafka rispose che di Dio l’uomo è la giornata no, il pensiero
suicidario. Ma allora non c’è speranza? così Brod. Ce n’è, ce n’è infinita, ma
non per noi. Di cosa può godere Shy, assillato da se stesso e da un mondo che
vuole curare i danni che gli ha procurato? Sì, perché la tendenza, necessaria
alla sopravvivenza del capitalismo, della società a privatizzare il dolore
psichico riduce la spinta rivoluzionaria; questa privatizzazione, pure, è utile
solo ai sistemi sanitari per convincere il paziente che la sua infelicità dipenda
da (nel senso di: pertiene a) lui. La società, nelle maschere delle
sue istituzioni, mai ammetterà che l’ansia e la depressione scaturiscono
(anche) dalle pressioni che esercita sugli individui. E questo, il capitalismo,
sarebbe il migliore dei sistemipossibili? Quello che, per “funzionare”, deve
non far “funzionare” milioni di persone depresse o depresse “funzionali”? Tornando
a Shy e a Kafka: che speranza c’è? Poca, pochissima, e non è per noi. Eppure,
leggiamo: “Fa un ultimo tiro. Chiude gli occhi e assapora il gusto dolciastro
della resina calda del mozzicone. La parte migliore. Poi stringe tra le dita
quel che resta della canna, raddrizza di nuovo la schiena e con un colpetto
delle dita lancia via il mozzicone. Scende dalla panca e guarda torvo il cielo.
Poi sorride e dice: Eh già, bello mio”. Forse solo la resa fatalistica al nuovo
giorno (con la cui attesa finisce il romanzo) può curare il tremore delle ossa,
l’infarto del costato, la paura. Ma in che mondo abitiamo se è proprio
dell’adolescente il rassegnarsi?