La Calabria di Panetta, tra
sangue e sole. Nel poeta
calabrese Alfredo Panetta rivive da anni nelle sue poesie in purissimo dialetto
regionale la sua arcaica Calabria, terra bella e amara, devastata come è noto
dal quel criminale fenomeno della ’ndrangheta che oggi dà il titolo al suo
ultimo volume, pubblicato da Passigli Editore, con prefazione di A. Anedda e
nota finale di don Luigi Ciotti. La sua precedente poesia, passata attraverso
almeno quattro case editrici, dalla Moretti & Vitali a la Vita Felice, da
Puntoacapo a Passigli, conta già titoli forti e suggestivi, come (in Italiano) Pietre
di confine, Un nido nel fango, Radici mobili, Tra rovi esogni, e Il crollo del ponte (sul ponte di Genova). Una poesia civile,
sociale, secondo molti anche improntata eticamente e politicamente, che si
caratterizza per un lirismo scabroso, rude, amaro, che nulla risparmia di quel
paesaggio devastato che è la Calabria della ’ndrangheta. Qui parlano i morti,
gli assassinati, le vittime, come in una moderna e tragica Spoon River della
mafia, ma non solo loro, parlano anche i carnefici, i predatori, i carcerieri,
parla il paesaggio che fa da sfondo e da vittima di tanta violenza, e soprattutto
parla l’occhio del poeta, testimone spietato ed empatico, che fa delle scene di
delitti figure di una tragedia in atto, cinematograficamente illuminate, vere e
proprie cruente diapositive della violenza. Lo stile infatti, crudo e intenso,
ricco di metafore e di immagini taglienti, ci parla anche di un paesaggio, come
quello calabro, fatto di prati e fango, rocce, fiumare, che sembra partecipare
degli episodi delittuosi come in quadri potenti in cui cielo e terra sono parte
dell’azione.
Tutto è orchestrato come magma sonoro, fortemente impastato di
parola e materia, lirica e fango, terra e sangue che urlano fame di giustizia.
Le vittime della violenza mafiosa, tutte reali (su ciascuna delle quali vi è
alla fine del libro una nota storica) ricevono per così dire il loro riscatto
etico e lirico dalla voce del poeta. Una memoria come risarcimento che rende
quasi giustizia lirica a persone che non la hanno ottenute in vita. Vi è un
piglio manzoniano (o alla Sciascia) in questo polemos tra vincitori presenti e
vinti, predatori e prede, carnefici e vittime, lupi e agnelli sacrificali, che
rimanda non a una giustizia divina ma a una memoria come riparazione poetica a
tanto dolore. Memoria come resistenza e speranza nonostante tutto, potremmo
dire. Come da piccolo, racconta il poeta ex cacciatore pentito, aveva
cominciato a convertire la sua violenza ludica nei confronti del mondo animale
in totale empatia con quel mondo, in solidarietà panteistica, così oggi
l’empatia con il mondo delle vittime, dei deboli, dei sommersi e non salvati
(per citare Levi) è totale, oltre i limiti della denuncia e dello sdegno etico.
Anche perché è totale l’amore per quella Calabria che con la bellezza della sua
natura e dei suoi paesaggi rappresenta nella poetica di Panetta quasi un Eden
incontaminato, contaminato invece oggi persino nella Lombardia (dove l’autore
abita) e in Germania (come i fatti di cronaca nera hanno attestato) da un
sangue che macchia e deturpa il paesaggio naturale e umano di un grande popolo.
Predatori e predati, dunque. Forse nessuno è innocente, forse anche la materia
(roccia, pietra, asfalto, fango, sangue) diventa complice di tale delittuosità.
È una poesia implosa, per così dire, come risposta etica oltre che poetica alla
‘esplosione’ dei mitra e del tritolo. Tant’è che due belle e forti immagini
poetiche (e di poetica) vengono evidenziate nella prefazione di A. Anedda e
nella nota di Don Ciotti, la “penna come manico di zappa” e “le parole come
raffiche di mitra”.
Cosa può fare un poeta di fronte a tanto strazio? Come già
ci insegna Dante, la poesia può rispondere all’orrore del mondo con l’orrore
della poesia, quando racconta e si oppone a quel mondo senza spargere sangue.
Ecco perché parliamo di mimesi, di poesia mimetica come empatia, perché il
poeta con la crudezza del dialetto, ancora più aderente a quel mondo, si getta
anima e corpo in quella materia esplosiva, e ne parla con una lingua
doppiamente materna: destino, omertà, complicità ineluttabile. È ancora attuale la violenza
fratricida raccontata nella copertina di uno dei primi libri di Panetta, e
citata anche qui, la sanguinolenta lotta tra Rusticanti dell’omonimo quadro di
Goya, essendo la ’ndrangheta un maleficio cresciuto come un bubbone nel
contesto di quel clima, e infestando gli stessi calabresi, fratelli contro
fratelli (“di che reggimento siete, fratelli?” scriveva Ungaretti in clima
bellico). Cadono testimoni di giustizia, cadono pentiti, cadono latitanti,
giudici, ispettori, cadono gli stessi boss, per mano di altri nuovi boss. Questo
canta il libro, come annuncia la quasi epica poesia introduttiva. (“Canto le
muse che non ho. Vite/ freddate dal Grande Predatore…”). Persino i carcerieri
della mafia locale parlano in questo libro dove tante sono le voci, ma unica è
la voce della violenza.
Personaggi famosi come il giudice Scopelliti, Nicholas il
bambino straniero ucciso per caso in un agguato, o meno famosi come il professore
stesso dell’autore, Francesco Panzera. Un gran coro di voci che parlano
dall’oltretomba: il poeta parla per loro, che si auto-raccontano attraverso la
poesia, ma qui è la Calabria stessa (e un pezzo della vita dell’autore) che si
racconta in questo clima torbido e nefasto. Tant’è che questo Inferno prova a
uscire nella luce e nella speranza del suo Paradiso, così come un giorno Madre
Terra insieme alla sua natura incontaminata riprenderà possesso del Pianeta
dopo le devastazioni dell’Umanità. Come dire che della splendida Calabria il
paesaggio di mare, cielo e terra rigogliosa fra le rocce rimarrà quasi tutto
dopo tanta violenza umana, e il ‘fango’ rimarrà solo fango, perché un giorno
forse anche questa mafia avrà la parola ‘fine’ e le sue acque torbide saranno restituite
alla purezza luminosa del ‘mare’. “E avvicinarsi finalmente al mare/come solo i
corsi d’acqua lenta/ sanno fare, perdersi in quell’azzurro/come in un ventre
grande/ che contenga fuoco, terra e tutti i santi/la ragione e la ragione del
mistero/lasciarsi carezzare dalle onde/in un sonno lungo, senza sogni/con la
certezza lieve che non esiste/un prima. E un dopo. Il Bene/e il Male categorie
di profeti falliti./ E la parola fine è una monetina/ in tasca. Nient’altro
(Petra Cappa, trad. italiana).