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giovedì 13 novembre 2025

POETI
di Francesca Mezzadri


 
Tra silenzio e fuoco: la soglia umana del divino.
 
Nella silloge Le cose invisibili di Francesco Aprile (Edizioni Dialoghi, pagg. 78, euro 14), si dispiega un percorso poetico che assomiglia più a un itinerario spirituale che a una semplice raccolta. Ogni testo è una tappa di trasformazione, una pagina del diario di chi attraversa la notte dell’anima per ritrovare, nella parola, un barlume di verità.
Fin dall’inizio, in A Est della Montanara, la parola appare come luogo di conflitto: dono e condanna insieme. Ho regalato ad altri parole che meritavo, / ne ho ricevuto i silenzi che meritano loro. Una dichiarazione di poetica: la parola come strumento di conoscenza che, nel momento stesso in cui illumina, ferisce. Il linguaggio si fa corpo, materia che pesa e che resta, come accadrà più tardi nel doloroso Il Dono. Nei testi successivi si alternano visioni corali e confessioni intime. Giugno trasforma la sconfitta in immagine di grazia: L’esercito sconfitto è un campo di girasoli / allineati, col capo chino. La perdita si tramuta in epifania, in umile bellezza. In Ritratto di famiglia, il poeta si spoglia davanti ai defunti, trovando nella loro nudità la misura della verità: In essi la nudità è più vera e Maggiore. La morte, qui, è vicinanza, non assenza. Il tono diventa profetico in Il Dono: l’io lirico scopre in sé un potere medianico - Mi hanno dato orecchie / per chi non parla più - ma il carisma è una condanna. Questo dono / non salva, non consola, non guarisce. / Solo pesa. 



È la consapevolezza che ogni conoscenza autentica è anche perdita dell’innocenza, una croce che non si sceglie. Con Chi sei, che bussi? La voce si fa dialogica, interrogando l’ombra di sé. Il poeta non trova risposte, solo il riconoscimento del proprio timore: Se ho vissuto per amore…? / Per paura. È una confessione laica, in cui la verità coincide con la vulnerabilità. Il silenzio piccolo e Preghiera inversa introducono la riflessione più alta: il silenzio come grembo del senso, la preghiera come negazione del rito. Non darmi volto… Non tendermi la mano…: la liturgia si rovescia in gesto umano. È qui che la poesia si fa teologia negativa, accettazione del mistero invece che bisogno di risposta. Con Fuoco al Cielo l’immaginario si fa alchemico: il fuoco brucia la materia muta e la trasforma in luce. E con Metamorfosi dell’occulto l’autore compie la propria trasmutazione: dall’alchimia dei segni alla purezza dell’umano, dall’incantesimo alla pietà. Da Ruah (Rugiada) in poi, introduce un tono più contemplativo e terreno. Ruah (soffio, spirito) riprende il tema biblico della creazione e lo piega alla fragilità dell’io: “Io sono / solo / un uomo”. L’essere si riconosce frammento del Tutto, non padrone ma parte.
Veronica e i testi contigui costruiscono una scena medianica, quasi teatrale. La voce di una donna che “soffre per amore” parla dal vuoto, invocando aiuto. Il poeta ascolta e risponde con empatia disarmata: Anch’io soffro, Veronica. / Per errore. È il punto in cui la compassione diventa comunione.
In Fame piena e Resta in attesa l’esperienza mistica assume toni di corporeità: la fame, la presenza, l’alito sul collo sono epifanie sensoriali del divino. Che tu veda la mia fame già mi sfama- la conoscenza si compie nello sguardo, non nella risposta.



Domanda aperta suggella la scelta della non-conclusione: Anima, lascia che il mistero resti.”La verità non è nell’esito, ma nella disponibilità a restare nella domanda. È un’etica dell’attesa, preludio a Il canto degli angeli, forse il testo più luminoso: “Non portano messaggi, ma presenza”. Gli angeli non annunciano, ma esistono: come la poesia, sono la bellezza inutile ma necessaria del restare.
La memoria domestica riappare in I gigli della sabbia, dove l’infanzia e la figura di Zia Ada restituiscono il senso dell’origine. I gigli, la sabbia, il tè al gelsomino diventano emblemi della diversità accettata: Quando fa male, è lì che prendi forma. La poesia si riconcilia con le proprie ferite.
In Ho peccato abbastanza, il poeta si confessa con ironia sommessa e tono liturgico. Non cerca espiazione, ma riconoscimento: Ogni volta che torni insonne / dal letto di paglia / brucerei l’incenso. Il rito diventa gesto interiore, privo di chiesa ma non di fede.
Con Il riflesso del cielo si raggiunge la contemplazione finale: il mare come specchio che “inghiotte e risputa ciò che ha tenuto ma non gli appartiene”. È una visione di libertà dolorosa, la consapevolezza che l’anima non può trattenere nulla, nemmeno sé stessa.



La Ricetta


Ci sei?
Per un attimo ho sentito l’odore
Del tuo sugo caldo -
Quel vapore lento che saliva
E diceva: “Resta ancora qui.”
Ci sono,
non come vuoi, ma ci sono.
Abbassa il fuoco:
le patate si disfano
se le cuoci distratto.
Mi manchi.
A volte vorrei solo
Il tuo profumo in questa stanza.
Ci sono, nei gesti:
quando lavi il basilico,
quando ti si appannano gli occhiali
prima di assaggiare,
quando aggiungi il sale
con paura di sbagliare.
Da piccolo
Mi tenevi stretto.
Ora stringi gli altri.
È lo stesso battito.
È una ricetta senza tempo,
che cuoce ancora, altrove.
Dov’è Dio?
Nel modo in cui ascolti
Senza chiedere perché.
Dio è dove smetti
Di voler capire tutto.
Cosa devo cambiare?
Dimmi la verità.
Smettila
Di pensarti rotto.
Smettila
Di volerti giusto.
Ama anche le crepe:
Dio passa da lì.
E ora gira.
Gira in senso antiorario,
come facevo io.
Perché?
Così si confondono
Il tempo, la fine, il presente.
E quando sarà
La cena giusta,
la riconoscerai
dal profumo.
 
“La Ricetta” racchiude l’intera architettura spirituale della raccolta, trasponendo il divino nel gesto quotidiano. La memoria materna, il profumo del sugo, il basilico lavato sono icone di una teologia domestica: Dio non abita nel dogma, ma “nel modo in cui ascolti / senza chiedere perché”. La fede si rivela come disponibilità a non comprendere, come amore per l’imperfezione: “Ama anche le crepe: Dio passa da lì”. È la stessa poetica del frammento di Ruah, ma riscattata nella tenerezza. La lingua qui si fa narrativa, quasi prosastica, ma conserva la densità simbolica del resto del corpus. La cucina diventa rito, la ricetta liturgia, il profumo epifania. Il poeta conclude non con una risposta ma con un gesto: “Gira in senso antiorario”. È un ritorno al mistero, alla circolarità del tempo e dell’amore. Dalla prima all’ultima poesia, il percorso compiuto è quello di una trasmutazione: dal dolore alla compassione, dall’alchimia oscura alla semplicità quotidiana, dal silenzio alla presenza. L’io poetico attraversa la perdita, l’attesa, la domanda, per approdare a una fede senza religione, a una spiritualità umana, incarnata. Lo stile, pur libero, è sempre rigoroso: sintassi breve, lessico alto e terreno insieme, ritmo interno più musicale che metrico. Si avverte una parentela ideale con Rilke, Caproni, Gualtieri e Campo, ma la voce resta autonoma, più terrestre, nutrita di polvere e sale.