In una
campagna sempre più metastasi della città i frantoi sono come musicanti di una
banda ormai sciolta che ne riportano brani sparsi di musica. Musicanti
frastornati, che si confrontano con contrastanti dinamiche di espansione (in
aree pianeggianti) e abbandono (in aree collinari) degli uliveti a fronte dello
schizofrenico mercato globale. In Sicilia gli agrumeti erano i giacimenti di
oro rosso, con due ettari di mandarini un agricoltore accorto riusciva a
mandare un figlio all’università, ma richiedevano impianti specializzati e
cospicui investimenti. Invece gli oliveti, i giacimenti di oro verde, non
richiedevano impianti specializzati. Presenti da sempre, le tracce di una
gestione antropica dell'ulivo in Sicilia datano ben 3.700 anni fa. Gli ulivi erano
ubiqui, crescevano da un ceppo selvatico autoctono anche in terreni impervi e quando
posti fuori dalle proprietà presidiate appartenevano a tutti o quasi. Ancora
negli anni ’50 del secolo scorso, nella piana di Palermo passavano i cambiatori
di olio. Prendevano i pochi chili di olive che la gente raccoglieva da terra,
per le strade e i sentieri dove stavano ulivi non ancora raccolti, e a occhio
davano in cambio una carraffina di olio corrispondente al peso ricevuto. In
attesa del raccolto, ritardato per far maturare al massimo i frutti, non si
lasciavano marcire a terra le olive cadute solo perché attaccate dalla mosca.
Ottobbri, iàmu, è ura di cògghiri
l’alivi direbbe un D’Annunzio siciliano, ma Ora in terra di Sicania
li me viddani li troviamo solo sepolti nei testi delle poesie dialettali di
vecchio conio. Contenitori capienti quelle poesie, ma insufficienti per
contenere la memoria di una epopea che vedeva per due mesi interi tutti i
siciliani impegnati nelle varie operazioni della raccolta, dalle vestitissime
‘femmine’ che raccoglievano a terra le olive che gli uomini buttavano giù a
colpi di ramazzo, ai burgisi, ai grandi possidenti ex nobili in continua via di
estinzione, agli indispensabili sensali, ai vari artigiani che provvedevano
tutti i materiali necessari, legni corde e metalli, via via fino ai frantoiani.
E questo da Capo Passero a Capo San Vito ma con sensibili differenziazioni.
L’ulivo infatti, pianta rustica e adattabile, per molteplici ragioni cedeva il
passo alla presenza degli agrumeti nelle piane e delle aree a frumento nelle
colline, ai noccioleti e ai castagneti in quelle montane, e si adattava ai
terreni pietrosi e marginali lasciando quelli migliori alle coltivazioni più
redditizie.
Si adatta ancora oggi, in piantagioni che non si relazionano tanto
alle condizioni naturali, al tipo di terreno e ai diversi modi di sfruttarlo,
ma ai modi di corrispondere alle premialità delle politiche della PAC, alle
nuove forme di coltivazione poste in essere dai nuovi macchinari e in ultimo alla
scomparsa dei contadini. Al loro posto oggi troviamo
diversi nuovi soggetti, che vanno dalle squadre di raccoglitori a percentuale
nelle aziende agricole, dotati di abbacchiatori e scuotitori a pinza capaci di
raccogliere bel oltre la tradizionale media giornaliera di un quintale/uomo, ai
piccoli proprietari, usciti fuori come chiocciole dopo la pioggia, spesso cittadini
con nessuna dimestichezza con il lavoro di campagna ma motivati sul piano ambientalista
e sul ritorno alla tradizione.
La varietà di attori la si scopre
in tutta evidenza quando si va al frantoio. Qui, a parte i pochissimi che hanno
mantenuto la lavorazione a freddo con macina in pietra e fiscoli, la scena è
quella di un opificio moderno, dove la molitura avviene in un’ora al massimo
contro le intere giornate necessarie nel passato; ci sono impianti che riescono
a fare anche 24 lavorazioni contemporaneamente. Ma l’affollarsi dei tanti
produttori nel giro di poche settimane produce lunghe code di attesa prima che
le olive vengano pesate e messe in macchina. Ed è in questa attesa, in questo
tempo morto del guardare, con il corpo ancora caldo del lavoro intenso della
giornata, che si annida un barlume della memoria della molitura di una volta.
Certo, non ci sono più i trasportatori a spalla né i ‘filosofi’ di mano nodosa
e cervello fino che nell’attesa della molitura discettavano sui come e perché
delle cose del mondo, ma ci sono le persone di oggi.
I vecchi naturalmente, che
sono i figli dell’ultima generazione dei contadini ‘in purezza’, e i loro
figli, persino ragazze, madri, nonne (quando mai si erano viste delle donne nei
frantoi?). Poi ci sono gli immigrati, in maggiorana africani, e i professionisti
scappati dagli uffici, che mai avevano avuto a che fare con la campagna da
giovani e ora si trovano a gestire un bene di famiglia, talora con poche decine
di alberi, ma che sfida a una scelta, occuparsene o venderlo a un villettaro
più o meno abusivo. Professionisti che mai avrebbero pensato di inventarsi
olivicultori se non obbligati perché il padre è morto e bisogna occuparsi di
quanto ereditato. “Noi siamo ormai una famiglia larga sparsa in tutta Italia e
oltre, mi diceva una matura signora, e per un motivo o per un altro sempre meno
riuscivamo a vederci una volta l’anno a Natale. Ma ora che siamo obbligati a curare
l’uliveto, e abbiamo scoperto che fare l’olio ci rende felici, riusciamo a
vederci tutti sdoppiando la data di incontro. Chi può viene a Natale, chi non
può viene per la festa della raccolta”.
Fanno altresì la loro comparsa gli
italiani che abitano e lavorano all’estero, qualcuno magari accompagnato dalla
moglie olandese e la loro bambina anch’essi ormai sedotti dall’uliveto di
famiglia. E così nell’attesa dell’esaurirsi
della coda, un popolo di diversi si aggira da estranei ma guardandosi con
rispetto e solidarietà. Si guardano i cassoni pieni delle olive degli altri, si
confrontano con le proprie, si fanno domande, si confronta la carica di
quest’anno con la meteorologia, la varietà dei miei alberi con quelli tuoi, la
potatura annuale con quella biennale, e si ride, si commenta, si scruta la
partita che viene molita prima della propria, saranno olive da coltivazione
biologica o sono state trattate con antiparassitari? E il mondo di fuori è
scomparso, risucchiato nella grande tramoggia dove si svuotano i cassoni di
olive e negli assordanti macchinari per la defogliatura, la gramolatura e la
centrifugazione. Ne uscirà purificato sotto forma di olio, che scivola silenzioso,
morbido e profumato sotto gli occhi avidi di chi lo ha prodotto. Avidi ma non in
ambasce come quelli del contadino capofamiglia di una volta, che non sempre
riusciva a portare a casa l’olio per il fabbisogno familiare per l’anno a
venire.
Oggi, con i supermercati traboccanti di olio sedicente extravergine a
prezzi stracciati, nessuno corre rischi e dunque nessuno guarda più con occhi
lucidi il fiotto di olio che sbocca sul vassoio di acciaio inossidabile da dove
lo spillerà. Eppure tutti stanno sempre a chiedersi quanto ‘butta’ l’oliva
quest’anno, cioè quale percentuale di olio produrrà rispetto al suo peso, da
dove può dipendere la maggiore o minore resa da un anno all’altro e di una zona
rispetto a un’altra. E tutti sentono il brivido di
muoversi in un mondo che ci racconta ancora la nostra storia, ne colgono i
contorni ancorché molto sfumati, ne tentano nuove interpretazioni. Si lanciano
alla sua scoperta e allo studio, leggono, cercano gli esperti, attingono alle
effimere chat dei social, seguono corsi di potatura, si commuovono alla vista
degli ulivi centenari e millenari, scoprono insomma che esiste ancora un mondo
che fu. Un mondo che è un impeto che muore come un dialetto che nessuno parla
più, inghiottito da quel niente travestito da nuovo che avanza, ma che
manifesta tuttavia non secondarie risorse di resistenza.
Un mondo che corre all’impazzata
incurante dei pericoli che lo minacciano. Noi vecchi non riusciamo quasi più a
parlare di questi pericoli, anzi delle catastrofi che incombono. Forse perché
non abbiamo più la forza necessaria per affrontarli e allora perché piangerci
addosso, fare le Cassandre e renderci la vita ancora più pesante? Meglio
pensare che i giovani sapranno trovare una loro via d’uscita (forse lo fanno
già e noi non lo sappiamo) e restare comunque operosi: per dirla con Voltaire “bisogna
coltivare il nostro giardino”. A sera, la famiglia dei nuovi
agricoltori aspetta i valorosi tornati tardi dal frantoio con l’olio nuovo e
approntano il primo assaggio. L’olio vorrebbe un mese di risettu per
ricomporsi dopo la spremitura, appena un’ora dopo è ancora acerbo, troppo
amaro. Ma i nuovi adepti dell’ulivo giustamente non sanno aspettare e via con
la bruschetta di pane tostato e poi bagnato sul pelo dell’olio versato in un
piatto. L’olio, ancora arrabbiato, si scalda e si scioglie in un profumo che
chiama in causa tutte le fragranze della mediterraneità.
Al mattino il sole chiama alla
sacra discesa al mare, i giovani venuti a dare una mano ai grandi vengono dal
lontano nord, ma non si può smettere, le olive continuano a maturare, i
polifenoli poco a poco si ammansiscono, l’olio perde profumo. Aiutano nonna
Caterina e nonna Simona, che raccolgono le olive ancora a mani nude, per loro
la raccolta è un atto di devozione e ringraziamento. Una bimba gattona per
terra sulla rete stesa sotto un albero, con mucchi di olive formatisi qua e là,
i suoi ditini tentano di prenderle ma le scappano dalle mani, è sedotta dai mille
colori che vanno dal verde al viola. Ogni tanto riesce a prenderne una e subito
la mette in bocca, la soppesa, si accorge che non può mangiarla, la sputa. Una
è molto matura e gocciola un sugo viola chiaro, lo lecca, curiosa e pensosa,
poi la mette via e ne cerca un’altra. Una piccola Cerere sta cominciando a
esplorare il mondo dal lato giusto. Poesia.
Al contempo, intorno a queste
tante e piccole isole di paradiso, c’è la smarrita campagna di oggi, quella che
già mezzo secolo fa Ceronetti vedeva “umiliata, sofferente, che si vergogna di
non poter sparire, nella quale ogni nuovo insediamento industriale è come un
vistoso chiodo nella carne, disperata di non avere difesa. La peste chimica
l’avviluppa completamente, di sopra e di sotto, di dentro e di fuori, animali,
esseri umani, piante, suolo, acque d’irrigazione, acque profonde. La gente che
rimane accetta tutto, con una passività di pollaio: non è felice, ma non sa
reagire all’incantesimo” (Guido Ceronetti, La carta è stanca, 1976). Non
sa reagire al punto che persino l’orrore delle lugubri fattorie fotovoltaiche
viene venduto e accolto come un fulgido esempio di evoluzione tecnologica verso
un ambiente più resiliente. In questa distopia vorremmo sperare che i frantoi e
gli uliveti ripopolati, che stanno sopravvivendo persino alla xylella, diventino
un fortino di resistenza, un altro avamposto per presidiare il futuro. Se
salveremo l’ulivo salveremo il mondo.