Realtà
e personificazioni ctonie e mitologiche, nell'ultima prova narrativa di Roberto
Caracci. Caron
dimonio, con occhi di bragia, loro
accennando, tutte le raccoglie; batte
col remo qualunque s’adagia. (Dante,
Inferno, C.III, vv.109-111). In
misure, contesti e modalità sempre diversi, al centro di questi racconti, della
raccolta Come te stesso di Roberto Caracci (Editoriale Delfino 2025), è
Caronte. Tranne l'ultimo. In che senso? La prima notte dei pipistrelli:
due cani, due pipistrelli, un uomo e una donna. È forse la prima notte di
nozze? Non è del tutto certo ma è certo che lui la vuole possedere. Lei
preferirebbe rimandare: è prostrata, dopo la festa, forse, di nozze. E poi una
scena l'ha scossa: due cagnacci si sono azzuffati, a lungo e con ferocia in
cortile. Lava i piatti, rigoverna la cucina, mette in ordine, fa la doccia...
poi vanno a letto. La finestra è aperta, fa caldo, è estate, due pipistrelli
s'infilano nella stanza. Lei sta per urlare ma lui blocca con una mano il grido
sulla bocca. Si alza, prende la scopa, colpisce e ammazza le due creature
alate, spargendo piume e sangue, dopo aver mandato in frantumi il lampadario
facendolo crollare a terra. È una catastrofe e la messa in scena di un
sacrificio: con un lungo coltello da cucina, lui finisce e scotenna le povere
creature e ne getta gli avanzi dal terrazzo. Il
dramma è raccontato in prima persona, dal punto di vista e di ascolto della
donna. È nel suo vissuto drammatico, una sorta di incubo raccapricciante, che
entriamo nella sua cattività che da paura diventa terrore, orrore, in un crescendo
rossiniano, che sale al parossismo fino a spegnersi in un adagio
paradossale.Siamo
in un appartamento borghese di una qualunque periferia urbana. La protagonista
vive e noi con lei, una brutalizzazione visionaria dell'ambiente. Si comincia
con la zuffa canina, poi arrivano i pipistrelli, due pezzi di notte, due
stracci neri e umidi, che ruotano a zig-zag nell'aria della stanza,
urtano i muri, si adagiano con un fruscio appena udibile al cuscino. Poi ci si
mette il valoroso Alfonso. Alfonso
è il marito. Paragonato a una biscia, a un orso, grugnisce, ringhia, soffia con
il naso, morde nel tentativo di possedere la moglie riluttante, sopra e sotto
le lenzuola. L'arrivo dei pipistrelli scatena in Alfonso una rabbia belluina e
una violenza senza freni che innesca una metamorfosi demoniaca, contrassegnata
dagli occhi iniettati di sangue di Caron dimonio. Conclusa
l'ordalia del sangue e delle piume, la donna rimane paralizzata, supina sul
materasso come su di una lastra di marmo. Non le resta che cedere alla
furia erotica di Alfonso, trasformato in un demone/angelo alato, ormai spinto
oltre l'imbestiamento. Nelle spire vorticose di una grottesca
condensazione/sublimazione/transfert si affida al volo dell'immaginazione:
«immaginavo di decollare verso la sciame baluginante degli astri, fasciata
dalle ali enormi di un pipistrello che aveva il volto della persona a cui
sussurravo, ripetendoglielo fino a convincermene prima del sonno, "Ti
amo".» (Roberto Caracci, Come te stesso, p.27).
Il
secondo racconto, Inseguimento a due voci, è una narrazione a specchio
in cui il protagonista si capovolge e assume le fattezze demoniache
dell'antagonista. In questo caso, l'antagonista/protagonista ha gli occhi
neri, i capelli lucidi di gel e porta a un braccio un tatuaggio che
raffigura due angeli che volteggiano nello spazio tenendosi per mano.
Nella prima sezione del racconto lo sorpassa in montagna rombando e facendogli
un gestaccio, nella seconda gli sferra un calcio nella schiena imprimendogli
nella schiena l'impronta del suo scarpone.Nel terzo racconto, Delitto senza castigo,
ci sono tre esiti diversi della medesima storia: un omicidio, un suicidio, una
fuga. Al
centro della narrazione c'è un lavavetri, in una stazione di servizio in
autostrada, in tuta da benzinaio, che senza chiedere il permesso lava i vetri
delle automobili parcheggiate presso l'auto- grill: alzato un tergicristallo,
attende l'obolo per il servizio non richiesto. Il Nostro eroe, assolutamente al
verde, non glielo dà. Nel
primo esito il lavavetri s'infuria e piega in due il tergicristallo della Panda
scassata del Nostro. Il Nostro stacca il tergicristallo e glielo infilza in
gola uccidendolo. Nel secondo e nel terzo esito, il lavavetri si limita ad
augurargli, in un napoletano rozzo, di provincia, di precipitare nell'acqua del
mare, come poi accade. Basso e tarchiato, il lavavetri, faccione squadrato
da bulldog, ha uno sguardo da predatore, i suoi occhi grigio-verdi,
sono gelidi e inespressivi come quelli di un rettile. Nel
quarto racconto, L'addomesticamento del lupo famelico, il lupo è la
Morte che viene riportata a più miti consigli dalla trasformazione del Lupo
cattivo in cane domestico e viene anch'Ella addomesticata con una reciproca
accettazione. Favola emblematica, si svolge nella mente di un bambino come
sviluppo ed elaborazione della paura della Morte come paura del Lupo. Il lupo
non ci mangia se noi gli diamo da mangiare: questa è la scoperta di un bambino
avventuroso, nonché inventore e scrittore. La Morte-Lupo, la Grande Bestia,
è rappresentata con denti digrignanti e il rosso sangue degli occhi,
striati di nero, che, con la sua benefica metamorfosi, assume venature di verde
smeraldo.
Nel
quinto racconto, Tepore d'inverno, si tratta della storia di un viaggio
rocambolesco, ancora una volta narrata in prima persona, dentro il punto di
vista/ascolto/contatto di uno studente ginnasiale, con il groviglio dei suoi
libri, verso la scuola, in un autobus pieno come una scatola di sardine.
Caronte, in questo caso, assume le fattezze di un bigliettaio che sgrida e
incita i poveri passeggeri a non rimanere fermi come muli ma ad
andare avanti: una parola, quando non c'è spazio nemmeno per uno spillo!
Anche Lui riscuote le monete (come il lavavetri e come il Caronte pagano) ed ha
un faccione con una criniera sale e pepe. I suoi occhi sono tondi e
vitrei, da civetta, con una pupilla gelida. Infine diventano rossi
da rapace quando puntano il Nostro narratore / protagonista che ha un
contatto fisico ravvicinato e prolungato, fino al rapimento (tanto da
trasmutare l'autobus sgangherato e traboccante in un'astronave lanciata negli
spazi siderali), con la ragazza dal caschetto d'oro. Scatta e si
scaraventa sui due l'aspro, ancipite rimprovero/incitamento ad
allontanarsi progredire. Se
Caronte sprona con le parole e picchia con il remo chiunque esiti o rallenti
l'ingresso nella barca che, attraversando l'Acheronte, conduce nell'aldilà, il
nostro bigliettaio esorta a procedere e sgrida i passeggeri che si bloccano
all'ingresso o nei punti intermedi dell'autobus.
Nel
sesto racconto, Il tunnel tra le dita, un bambino scava un buco nella
sabbia, lungo la spiaggia del mare, che diventa un tunnel che entra in contatto
con il tunnel di un amico. Ma il Nostro (sempre più un alter ego
dell'autore, un altro te stesso) non si accontenta e continua a scavare
e a coltivare con l'immaginazione lo scavo di nuovi tunnel fino a costruire un
labirinto. In
questo caso non c'è un demone ma solo un monello, tale Diego, che insulta e
cerca di ostacolare l'attività scavatoria del Nostro, senza riuscirci. Il
protagonista diviene il Caronte di se stesso che in se stesso trova la
coscienza per un cambiamento. Con il suo ingegno e la sua tenacia riesce a
scavare e a trovare le sotterranee vie dell'altrove. In questi personaggi dei
racconti di Caracci ritroviamo alcune caratteristiche che richiamano sia il
Caronte pagano sia quello cristiano. Nel VI Canto dell'Eneide di
Virgilio e nel III dell'Inferno di Dante, Caronte è sia guardiano
implacabile e severo custode sia psicopompo, traghettatore, mediatore
dell'oltre. Sia per Virgilio sia per Dante oltre alla barba e ai capelli
bianchi, gli occhi sono infuocati dall'ira.Al centro del centro del libro, Caracci smette di
raccontare il racconto ma si mette a raccontare il raccontare cioè ci recapita
il suo metaracconto, un'altra forma di racconto. Lo scrittore si chiede, nel
corso del racconto, che cosa significa raccontare: rivelare la realtà
o inventare storie o tutte e due le cose? «raccontare
è come passeggiare, errare, vagabondare. Raccontando esco e non vado da nessuna
parte, vado e basta. [...] Così il primo oggetto del tuo racconto può essere
tradito, senza alcun senso di colpa, sopravanzato da altri oggetti, a loro
volta destinati a essere traditi, perché non indispensabili. E se l'oggetto del
raccontare è la tua stessa vita, prima o poi sarà quella vita, semplice e
angusta, ad essere scavalcata e tradita, sostituita da altre vite, che sono
comunque le tue, perché 'potevano' essere le tue.» (Ibidem, p.68).
A una divaricazione narrativa in una
molteplicità di sbocchi/percorsi ci avevano già abituato scrittori come Calvino
o Borges ma non con la radicalità di una equazione così paradossale tra realtà e
allucinazione. Mai come in questi racconti la narrazione lucida, minuziosa, iper-realista
di Caracci s'imbatte nel visionario- parossistico e fa i conti con il simbolico.
È una stratificazione simbolica che si può disporre su diversi piani. Uno di
questi è quello mitologico. La narrazione stessa propone ironicamente figure
come il Minotauro, il Lupo di Cappuccetto Rosso e di San Francesco, Polifemo,
Pulcinella, Mangiafuoco, mostri, maschere, diavoli, pianeti ctonii, gassosi,
labirintici, della mitologia e della fiaba. Ho individuato Caronte come una
figurazione inconscia, a un incrocio di questo passeggiare/errare della
narrazione riflessiva e della riflessione narrativa di Caracci. Una figurazione
comica, cosmica e drammatica, duplice, ambigua e ancipite: minaccia, arresto e
impedimento, ma anche passaggio, promozione. Nell'ultimo
racconto questa figurazione sembra essersi risolta nella stessa narrazione. Non
appare più necessaria. Il giovanissimo scavatore non ha bisogno di
chiedere il permesso o l'aiuto di nessuno. Ha imparato come si fa. E come
Dante, nella Vita Nuova, spiega a un gruppo di donne gentili che
lui, d'ora in avanti, può fare a meno di tutto e di tutti, anche del saluto di
Beatrice, per celebrare il suo amore: gli basta scriverlo, elaborarlo nella e
con la scrittura. Così: «domani avrei continuato a scavare, e così ancora
dopodomani, e tutti i giorni successivi. Io stesso non sapevo quale percorso
avrei compiuto. E non lo volevo neanche sapere. Sarei andato avanti. Nessuno
avrebbe potuto fermarmi, né Diego né il sole cocente. Me ne sarei dato tutto il
tempo. Sarebbe stato il mio labirinto, la mia trincea, la mia strada.» (Ibidem,
p.124).