Gaccione, la complessità di un poeta e del suo
stile. La rivista
fondata da Angelo Gaccione, che molti conoscono e oggi leggono quotidianamente
on line, non a caso è denominata “Odissea”, a indicare il nostos
procelloso che è stato il percorso di
vita del suo direttore: non tanto un ritorno nostalgico alla terra d’origine,
quanto il ricondurre ogni azione al principio morale che è stato il faro della
sua esistenza, il senso del suo Dasein:l’antifascismo,l’impegno civile voltoa riscattare
la dignità degli esseri umani e della natura
stessa e, in questi anni di proposte belliciste, la fiera opposizione al riarmo
e alla guerra. Nato in Calabria, Gaccione ha studiato alla Università Statale
di Milano negli indimenticabili anni della contestazione operaia e studentesca.
Il suo destino è quello del viaggio, sotto forma simbolica oltre che reale. Del
viaggiatore manifesta l’amore per i luoghi che ha visitato o dove ha trascorso
i suoi anni oppure brevi periodi e da vero Odisseo diffonde intorno a sé quel
sentimento struggente chiamato nostalgia, senza mai venirne travolto. Ogni
città, ogni paese visitato diveniva occasione per stringere amicizie ed episodiche
relazioni umane. Non essendosi mai sentito un déraciné che si tormenta nel
rimpianto, Gaccione ha amato sia la terra dove vive che quella dove è nato. Da
cittadino del mondo, che conosce e accetta la complessità, si muove con occhio
disincantato ed affettuoso, penetrando nel profondo di ogni realtà, traendone
un positivo legame con la vita, come lotta contro ogni sopraffazione. Una
gioiosa fatica (La Scuola di Pitagora Editrice, Napoli 2025, pagine 160 €
16) come ogni auto-antologia, è di per sé il racconto di una vita e gli
interventi di illustri personaggi, che corredano il libro, come il poeta
dialettale Franco Loi, il filosofo Fulvio Papi insieme all’introduzione del
poeta Tiziano Rossi, affermano la sua versatilità poetica e la tempra morale
che traspare da ogni suo scritto. Anche quella splendida e terribile raccolta
di racconti, L’incendio di Roccabruna (apprezzata e introdotta da
Vincenzo Consolo), nasce dalla narrazione delle colpe storiche che hanno macchiato
in un lontano passato la sua terra natia. La cui onta l’Autore sente ancora riflettersi
su di sé, benché gli eventi vadano contestualizzati in un tempo nel quale persecuzioni
religiose e violenze verso gli ultimi e i diversi fossero consuetudini mai tenute
a freno da alcun Habeas corpus. Quel libro è stato un j’accuse
verso i Padri della sua terra, che quelle violenze avevano conosciuto per tradizione
orale o attraverso la Storia ufficiale e le avevano poi colpevolmente rimosse.
Ed ha anche segnato per lui la distanza da quel mondo privo di pietas, dall’oblio
che lo aveva reso un passato da dimenticare, condizionando il suo posizionarsi
sempre in difesa della libertà, dei diritti umani e della non violenza.
In questa raccolta antologica, con buona ragione intitolata Una
gioiosa fatica, incontriamo un Iolirico più rasserenato, che
ripercorre la propria produzione poetica dai primissimi e pregevoli versi dell’età
preadolescenziale, fino ai testi, compresi
nelle sezioni definite ora “Le illuminate”, ora “Le arrabbiate”, ora come “Le sacre”
o “ Le dolenti”, a seconda dello stato d’animo e dell’occasione che li ha
dettati: il rifiuto del male, oppure, gli affetti, le memorie di viaggio, gli
incontri e le frequentazioni di carattere intellettuale o politico. Un Io
che ha trovato pace nell’opporsi alla brutalità che ha gravato come stigma sulla
storia dei Padri, rendendolo erede di quella progenie. “La
poesia mi è appartenuta. Io sono appartenuto alla poesia” scrive Gaccione nell’Incipit,
ed è un’affermazione che si comprende leggendo due brevi testi scritti ancora
adolescente, miracolosamente salvatisi dal turbine della vita, e dai quali
risplende con evidenza un talento poetico precoce per profondità di pensiero e
finezza di stile. Eppure, quell’affermazione può suonare un po’ deviante, se si
conosce la produzione letteraria dell’Autore, che attraversa i più svariati
generi: le opere drammaturgiche, i racconti, gli aforismi, le fiabe, i saggi, un
libro dolcissimo e forse unico nel suo genere, come Lettere ad Azzurra,
scritto da un giovane futuro padre, durante i nove mesi di gestazione della
moglie, fino alla nascita di Azzurra, sua unica figlia.
La
suddivisione della raccolta in sezioni focalizza temi o umori differenti, tutti
espressione di un sentimento dell’esistenza, in tutte le sue forme, fino alla
questione climatica, come supremo valore da rispettare. La sua è la voce di un
laico che rifiuta la violenza, il servile ossequio al pensiero unico e il
conformismo dell’informazione: “(…) veli di sangue per coprire l’infamia/
cadaveri di lusso/ che respirate idiozie […] / per pietà/ tacete!”
(p. 21). Il tono intimamente lirico marca periodi di sofferenza a seguito dell’affermazione
delle proprie idee: “(…) ho pagato il silenzio di generazioni / fino
a mio padre che non si è ribellato abbastanza /Non stupitevi se oggi mivesto di lupo” (p. 28). La chiusura amara della sezione intitolata “Le
illuminate” - per quella eredità illuministica che le caratterizza - suona, nel
lontano 1978, come previsione di Cassandra del tempo presente: “Più nessunacertezza, nel secolo dell’incertezza/può fugare i nostri dubbi. […]
Si spengonogli ultimi lumi del chiaro intelletto […] Nessuna
luce opponeresistenza.” (p. 34). La
sezione “Le milanesi” è una dichiarazione d’amore alla città del cuore, Milano
- “Conosco una città / che molti dicono brutta […] ma non l’amerei sefosse perfetta” (p. 51) - indicando il fascino delle sue segrete bellezze,
scorci della città dove “la notte è degli artisti, il giorno è dei mercanti”.
E il pensiero corre inevitabilmente a Piazza Fontana e alla strage che la
insanguinò nel 1969, la cui doppia verità è messa in luce da due lapidi
dedicate all’anarchico Pinelli, che testimoniano dello stridente contrasto tra la
versione ufficiale di quella morte, fornita dallo Stato e quella di cui
Pasolini si fece interprete, dando voce al sentimento comune della cittadinanza
in quel lapidario e indimenticabile: “Io so”, che puntava il dito verso la
pista nera come responsabile della strage e delle oscure macchinazioni che portarono alla tragica morte dell’anarchico.
L’amore per la terra natia non
gli impedisce di vederne ancora e sempre le discrasie. Con un amaro
senso di perdita, che si muta in dolorosa reprimenda, nella sezione “Le
arrabbiate” Gaccione si rivolge ai suoi conterranei: “Perché,figli
della Magna Grecia, / vi siete inimicati gli dèi / rinunciato alla pietà/
obliato la sacra ospitalità dell’amicizia/ […] e, imitando i barbari, /
barbari vi siete fatti voi stessi?” (p. 67). La Calabria del cuore resta,
nelle sue contraddizioni, una spina sanguinante, come quella di un oscuro
tradimento. Il linguaggio, mimeticamente aderente al tema, è qui ricco più che
altrove, di evocazioni classiche. Un amore per la vita, il suo, che
è rispetto per l’essere umano e per la natura; che si espande a tutte le
attività e relazioni ed emerge in particolare nelle poesie in cui si avverte un’ariosità
grazie all’uso dell’endecasillabo. Il suo ritmo accompagna ora il senso di pietas,
ora l’entusiasmo nella descrizione dei luoghi, ora l’amore, così come nelle
poesie rivolte agli affetti familiari. Tra queste ultime, segnaliamo la divertente
geometria dell’acrostico di pagina 118, nel quale troviamo “combinati”,
sapientemente, i nomi della figlia Azzurra e della nipotina, Allegra. Nelle varie
sezioni (dodici in tutto), il Poeta è sempre attento ad esplorare forme inconsuete,
a cercare nuovi ritmi.
Con varia intensità, il fil
rouge della passione civile percorre l’intera antologia. Intense le
meditazioni di carattere filosofico ed esistenziale sulla vita e sulla morte.
Segnaliamo: “Sotto ogni cielo”, “Testamento”, “Morti in vita”, “Vecchiaia”, “Addio”,
“La conta”, comprese nella sezione “Le diverse”. In “Morti in vita” (p. 123), lo
scherno è rivolto agli ignavi, quelli che Dante aveva aspramente punito,
destinandoli all’Antinferno, per essersi schierati contro il male. Scrive
Gaccione: “(…) da vivi erano così morti / che nessuno siaccorse
della loro esistenza”. “Testamento” è un testo pervaso da una sottile
ironia: da uomo vissuto di libri e tra i libri si concede di dettare un testamento,
affinché le sue ceneri trovino riposo sugli scaffali di una biblioteca, dove potrà
incontrare amici e sodali, gli autori racchiusi in quelle pagine. Nella parte finale del volume incontriamo
versi che più espliciti non potrebbero essere. Gaccione rivendica con orgoglio
la scelta di essersi schierato dalla parte della vita contro massacratori e guerrafondai:
“Io sono uomo di parte, / e sto da una parte sola. […] Opporremo la
nostra gioiosa libertà, / al vostro lugubre arbitrio;/ e finché lascerete in
piedi l’ultima rovina, / noi saremo lì a ricordarvi/ che siamo stati dalla
parte della vita:/ voi no” (p. 133). Questa la sua eredità morale, gioiosa
come solo la libertà può essere.
Angelo
Gaccione Una
gioiosa fatica
(1964-2022), La
scuola di Pitagora, 2025 Pagine
160 € 18,00