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ARCA

GOOGLE, FALLACE DIVINITÀ VIRTUALE
di Claudio Zanini

 
Tra i molti versi dell’intenso libro di Adam Vaccaro, Google. Il nome di dio, mi hanno colpito quelli dedicati al novello oracolo postmoderno: Alexa (anch’io ne ho un esemplare). La si interroga, dunque, questa novella Sibilla, aspettando la risposta. Pausa ansiosa, quindi, s’ode quel languido risuonar vocale che par rivolgersi esclusivamente all’intimo tuo, segreto. Voce di simulacro incorporeo che allude alle strabilianti cose che potrebbe dirti, inducendoti a immaginarle in favolosi sogni, non a percepire l’esiziale inganno che t’irretisce. (Nota: nel film Her, (2013) di Spike Onze, uno scrittore s’innamora di una virtuale ma suadente voce femminile. Finirà amaramente disilluso quando Her gli dice che ha un paio di milioni d’amanti come lui.) Il poeta, però, non si lascia sedurre, anzi svela, con crudele sarcasmo il raggiro. Lo smaschera: Alexa, “piccola madonnina sul comodino” d’apparenza innocua è tremenda creatura dell’orrore plasticato. Voce, “che non puoi vedere né sentire” d’algoritmico nitore, perfetta nel suo vuoto suadente e nell’assenza di corpo e anima; “madonna-universo di miliardi di stelle, stelline madonnine” (27). Insieme ad altri sofisticati marchingegni, Alexa è generata dal potente dio Google, che chiede al fedele di affidarsi totalmente a lui: “venite a me, fanciulli (…) credete in me, solo in me”, (24). Divinità virtuale e in ogni luogo che, sebbene prometta un universo di merci, non riesce a concedere neanche “un po’ di pio pane di pace” (28) a un diseredato in fila al “Pane quotidiano” e dispensa soltanto illusioni e speranze fallaci.
Alexa, dunque, come il Bimby prodigioso che “frulla, t’impasta e ti cuoce” (29) non solo il cibo ma anche la tua carne e il tuo cervello, in un turbinio inarrestabile; come l’oggetto microscopico di plastica, metallo ed elettroni ignoti, che “ti entra nella carne, nella testa nel cuore con bit di un ago / capace d’infilzare anche l’ego che si crede più immune” (25); e i mille nuovi Canali TV, ciascuno esclusivo per te utente consumatore, in cui si può “dimenticare ogni angusto pensiero” e ricevere falsità spacciate per unica verità (26). Quindi, l’infinita litania delle strepitose occasioni: “solo 99 euro al mese, anzi 89, (…) solo 69, ma l’offerta finisce” (30) inesorabilmente domenica per ricominciare il lunedì; e, ancora, l’armonia intatta sebbene nauseante dei vari mulini bianchi “dove non si sente il grido di milioni di morti di fame” ma è ribadita “l’importanza di depilarsi (…) deodorarsi e profumarsi (17/18). Un martellamento di “deliranti spot ininterrotti di 1000 TV” (54) che sfinisce ma non finisce, una sorta di costante colonna sonora che frulla il nostro cervello e avvelena la mente.
Sono versi duri e amaramente sarcastici della prima sezione del suo testo, Cuore nero, titolo che, non a caso, richiama alla mente Cuore di tenebra dove Conrad descrive l’infamia e l’orrore della colonizzazione in Congo. Anche qui si tratta di colonizzazione delle nostre menti, che Vaccaro mette lucidamente allo scoperto: “impareremo a essere / più rispettosi / più sospettosi / più patriottosi / più esclusi / più ansiosi forse / più ammansiti o / più annientati …” (40) e “italiani educati come bambini / in fila rieducati come topini / come marmotte pietrificate” (41); e così via. Impiegando magnificamente il medesimo lessico del linguaggio mellifluo e insinuante, ma stravolgendolo contro il sistema che lo produce e mostrandone gli inganni, Vaccaro svela quella strategia di livellamento sociale che, come diceva Pasolini, tende a “deformare la coscienza (dell’individuo) fino a un’irreversibile degradazione”. Uno stordimento esiziale in cui, tuttavia, scrive Vaccaro, presto dell’”ala gelida del male potrai sentire anche i denti – che dei sapori dell’amore amano il suo caldo sangue” (33); in effetti, “volano avvoltoi su noi come fossimo carogne da spulciare” (16). Sono “intelligenti cretini” i cinici dominatori d’una realtà dove “maiali che grufolando ci succhiano la pelle e l’anima” (50), “spacciano falsità come unica verità”; sciacalli famelici e assetati si nutrono “persino della tua pietà” (51).
Oltraggiata, la lingua viene ridotta a miseri stereotipi anglicizzanti, a cliché vuoti di significato. Siamo, infatti, costretti a leggere e sentire questi orrendi suoni: runner, startapp, easy, smart, light, like, wireless in tilt, trendy, ecc. (17), oppure a subire l’inflazione delle faccine gialle, simpatiche icone che però riducono il senso, allegramente lo svuotano. Sostituendola, immiseriscono la lingua.



Tale impoverimento è sintomo palese di quella mutazione antropologica, prodotta dal neoliberismo, che Pasolini aveva previsto: “mostruosa omologazione alle regole di un pervasivo mercato globalizzato, un adeguamento generale dell’umano alla sola dimensione del consumo” con i suoi mortiferi feticci, la tragica riduzione della complessa bellezza del mondo a una manciata di algoritmi prodotti da un Potere avido e totalizzante, funzionali al modello di sviluppo neoliberista che ci vogliono imporre.
Siamo, dunque, soffocati dalle spire del gergo di “rimbambilandia”, squallido e conformista, appiattito su un misero presente e funzionale al mercato globalizzato.  Opposta e rara è invece la parola poetica che, scrive Vaccaro, deve assumere un ruolo etico, incidendo il reale come “un coltello impietoso che divida il male e il bene”.
Si è già accennato a come l’autore impieghi gli stessi neologismi di questo perverso lessico torcendolo contro sé stesso. Con sarcasmo lo cita - adottando il tono scandito dell’invettiva e dell’amara ironia - smascherandolo in sequenze in cui interrompe la fluidità del verso mediante un ritmo sincopato, fratture d’arbitrari a capo (enjambement anche a mezzo d’una parola), ripetute allitterazioni, inceppamenti e pause ansiose nell’ordito del discorso.
La scrittura poetica di Vaccaro, tuttavia, non è solo fiera invettiva e denuncia, in quanto si avvale di molteplici registri espressivi, coinvolgendo il lettore in un flusso emotivo dove la parola si manifesta sia come materiale corporeo dagli aspetti bassi e triviali, sia come lingua lirica in grado d’esprimere emozioni e sentimenti e “sappia ancora dire di me e di te”. Possa essere, in poche parole, autentica comunicazione tra umani soggetti, e dire quell’indicibile che mai, nessun algoritmo potrà ingabbiare.
Se povertà e vuoto di senso caratterizzano il lessico del linguaggio dei cosiddetti social, il medesimo vuoto permea la condizione umana cui il poeta si rivolge con testi d’appassionata e dolente partecipazione.  



Vaccaro tratteggia con crudo realismo figure di diseredati avvolti dal vuoto, di vinti “muti dietro al nulla” (Marina e Renzino) (19), relitti umani che hanno “già visto il vuoto” (il ragazzo che si occupa “di arte della sopravvivenza” (21); di rappresentanti un’umanità misera rintanati come topi sotto un “ponte pieno di niente” (Pietro-Mohamed) o dentro un tubo di ferro; oppure di emarginati come Rosina, desolata creatura sotto “un cielo lattemiele e gelo della tv” che chiede a lei 9 euro per i bambini dell’Africa mentre spudoratamente cresce la ricchezza dell’oligarchia “dominante del vento iperliberista”, di coloro che “salvano il capitale dalla caduta del saggio di profitto, ammassando miseria a miseria, disperazione a disperazione” (54); mentre “il denaro (diventa) (…) mina vagante nelle mani d’invisibili croupier sul tavolo dell’immenso magma di debiti imposti / al mondo” (49) e di coloro che perseguono la logica chimerica e perversa dell’infinita crescita del PIL.
Fronteggia questo rovinoso panorama contemporaneo, infida “palude senza guida e senza idee”, il recupero della tradizione attraverso il ricordo di paesaggi dell’infanzia: la natura della campagna molisana, “la piazza e / la linea della collina che incorona / il limite del / mondo”; un aspro “paese di sassi… (con) sentori di vita e d’infinito” dove sgorgava una fonte “la cui acqua poteva dare l’illusione di tergere tutti i peccati e gli orrori del mondo” (63). Sono concrete e vitali memorie di sapori, aromi, sensazioni che evocano sullo sfondo un appassionato slancio verso l’utopia di un possibile altrove giusto e armonico.
Ecco, ancora Ciao bella ciao, canzone partigiana e voce dell’anima smarrita che immagina “un cielo ancora possibile, - unico tra passato presente e futuro” (55), ora negato ma costante presenza nel pensiero e, soprattutto, nel cuore del poeta. Un ideale possibile vivificato dal ricordo della Resistenza, che risuona nell’esortazione di Vilma, staffetta partigiana: “forza! La vita è vostra e nelle vostre mani, ragazzi!” (57). Poiché c’è ancora spazio per “fondamenti d’inventio e bisogni di ricostruzione tra ridenti pori e colori di libertà” (58).
Un bagaglio ricchissimo di ricordi che, dunque, non sono mai riflusso nel rimpianto del passato, bensì rielaborazione costante del vissuto e consapevolezza della necessità d’agire nella storia presente.
Il poeta, infatti, rivedendosi ragazzo, chiede a quel lontano sé stesso: “profumami ancora origano molisano questo mio stare qui” (64).
Questo “qui”, è l’oggi di Adam Vaccaro che, alla conclusione d’un percorso individuale - dalle radici mai recise nel cuore di una natura contadina, al tempo presente nel fervore della metropoli milanese -, vive il suo attuale impegno aprendolo all’altro (per esempio, con l’associazione culturale Milanocosa) con la medesima passione. La sua poesia si rivolge a un interlocutore che intende scuotere e indignare esortandolo alla lucida critica e al dissenso nei confronti di una società che si riempie la bocca di valori che costantemente infanga e tradisce.
L’ultima sezione, Cuore bianco, si apre con la considerazione: ora sono “ricco e immenso in ogni cosa”, dopo “la conta delle spese e dei presagi”; vale a dire, dopo l’attraversamento di una vita (60), scrive l’autore in un sonetto di suggestione e misura dantesche.
Nel suo denso itinerario esistenziale persiste il pensiero costante delle “forme di un’utopia (…) resistente nella mente”, “un’utopia impossibile imprevista e resistente” cui corrisponde la volontà indomita di chi non s’arrende e si esprime aprendo bianche ali e “spiccando voli negati che il cuore continua a inventare” (62), e “polvere di morte che (…) si alza e ritrova il volo” (65); come il fiore d’autunno che “non smette di parlare della primavera” preannunciandola.
Infine, in chiusura, ci sono le poesie dove la speranza si realizza, quasi il progetto d’un mondo nuovo acquisisse una forma vitale, reale e viva, nei nipoti, nuovi nati. Il linguaggio si fa meno aspro, più dolce e trasparente. Smussa le asperità dell’invettiva, quasi illuminandosi in attimi d’infinito (vedi Chiara luce, 71). Oltre la trama d’un sistema che vorrebbe pietrificarlo nei suoi infallibili algoritmi, scopre il tempo ignoto nel mistero della nascita (72); riconosce una temporalità che ubbidisce soltanto ai ritmi della natura e agli spazi dell’affettività. In parallelo, alla delicata e nitida presenza dei nuovi nati, si delineano le affettuose immagini del padre, “viso pulito di staffetta militare” in Croazia. Lo rivede in una vecchia foto, con quel “sorriso rimasto in me”… nel “disfatto viso di ritorno a casa dal tuo inferno tedesco” (75). Cui si aggiunge il ricordo del nonno, seduto sulle sue ginocchia, “radice viva che resiste e batte ancora qui, intatta” (76). Un canto alla Vita e una commossa rievocazione paterna concludono questa intensa vicenda poetica. “Un percorso che da un inferno risale ad attimi di un possibile paradiso”, come scrive lo stesso Vaccaro nella sua nota finale.


Adam Vaccaro
Google. Il nome di dio
Puntoacapo Ed. 2021 pagg. 101 

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Libri
NOTIZIE DA PATMOS
di Chicca Morone

Fabrizio Bregoli

In questi tempi di reclusione le persone si dividono in vari gruppi, ma sostanzialmente in due diversi modi di approccio alla problematica: c’è chi resta ipnotizzato da internet, radio, televisione in attesa di notizie sempre più allarmanti e chi invece è riuscito a capire che il tempo dedicato precedentemente al lavoro quotidiano può essere utilizzato per migliorare il rapporto con se stessi, studiando nuove strategie e nuovi metodi di programmazione della propria vita. Una vita che forzatamente cambierà, non è detto in peggio. Personalmente ho trovato il tempo - oltre che per riordinare le pile di libri accatastati un po’ ovunque - per rileggere sillogi apprezzate, ma non abbastanza.
Presiedendo il premio letterario “Rodolfo Valentino - Sogni ad occhi aperti” sono costretta ogni due anni a un impegno non indifferente nella lettura dei testi che giungono nella segreteria de Il Mondo delle Idee: per mia fortuna (o determinazione granitica sulla scelta dei colleghi che non subiscano il fascino delle lusinghe) la giuria che ogni volta si compone è costituita da amici la cui correttezza è al di sopra di ogni sospetto.
Così, quando è giunta la raccolta “Il senso della neve” di Fabrizio Bregoli c’è stato un incrociarsi di telefonate e di commenti più che positivi sulla silloge, un percorso morbido e suadente con un doppio registro tra l’io poetico e ciò che io non è. Esisteva un unico problema: la postfazione recava la firma di Tomaso Kemeny, giurato storico. L’anima di Salomone si era eretta fra di noi e aveva sentenziato che sarebbe stato sufficiente Tomaso si astenesse e il risultato sarebbe stato raggiunto senza ledere le possibilità di vittoria degli altri concorrenti. In effetti “Il senso della neve” ha raggiunto votazione piena e l’autore è stato festeggiato con vera simpatia il giorno di San Valentino 2017.
Così è entrato a far parte della giuria per la edizione seguente… lavorando a spron battuto, con cognizione di causa e sollecitando noi veterani con una certa intensità.
Laureato in ingegneria elettronica (settore solitamente frequentato da individui desiderosi di perfezione e controllo) risultava poeta anomalo per l’umiltà con la quale si era dedicato non solo alla propria produzione, ma anche alla lettura e recensione di autori contemporanei con una lucidità e uno charme decisamente personale.
Notizie da Patmos” è il suo attuale neonato “bambino di carta” in attesa che la produzione continui, vista la vena poetica incessante.
La parte che più mi ha colpito è quella dedicata prevalentemente a un dialogo serrato con un’altra figura, quella del padre, se non proprio biologico, almeno identificato in un essere diverso da sé.
Non può non risuonare il verso di Kalil Gibran “Tu sei il genitore di te stesso”: Fabrizio si è generato e continua a generarsi un crescendo di immagini realizzate sulla carta, sul web, di persona.
Un essere unico, entusiasta come scrittore quanto come amico: un vulcano di emozioni e di reazioni a quanto lo circonda senza mai forzare un concetto, possibilista senza scendere a compromessi.
Inutile descrivere quanto l’uso della parola sia perfetto: dalle liquide poste in felice alternanza con le labiali per dare quel senso di morbidezza, di avvolgimento e calore; alle sibilanti che premono con forza nell’imprimere la volontà di riscatto, il tutto perfettamente coordinato in modo da rendere l’intera poesia un vero e proprio canto. Anche le doppie vengono usate con maestria per dare movimento al verso e renderlo ancora più vivace.
L’uso di ogni parola è ovviamente organizzato dall’ingegnere che c’è in lui, che si affaccia di tanto in tanto, ma che viene tenuto a bada dal poeta, pattern di sicuro dominante nella sua natura.
Patmos, prima di essere la poesia del compianto Pasolini sulla strage di piazza Fontana, è un’sola greca dove esiste la grotta dell’Apocalisse: lì Giovanni scrisse l’ultimo libro della Bibbia percependo da una spaccatura nella roccia (la stessa da cui tramandano sia nato Mithra?) la voce di Dio.
Che Fabrizio sia in stretta connessione con l’inconscio collettivo in cui navigano parole magiche e sapienziali nessuno ha dubbi e confesso, con un po’ di invidia, che questa sua facoltà va ben oltre qualsiasi interpretazione critica dei suoi scritti.                                                                                               

Fabrizio Bregoli
Notizie da Patmos
Ed. La Vita Felice
€ 14,00


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Libri
L’intelligenza dei sensi in Gianluca Costanzo Zammataro
di Veronica Chiossi


Veronica Chiossi

S
e il mondo è un inventario di tenebra e bellezza, serve un osservatore affatto speciale per esplorare questa misteriosa coniugazione: Gianluca Costanzo Zammataro assolve pienamente a tale compito nella sua prima opera poetica, Futuri contingenti (Manni, 2020). L’autore indaga incessantemente e senza timore di cambiare prospettiva le porte della realtà, per spalancarle con la potenza del verso. Quello di Costanzo Zammataro è in parte memore della tradizione, un verso musicale e ritmato, in un’alternanza di composizioni ermetiche (se è vero che la poesia è un «segreto», come scrisse Ungaretti) e chiare, immediate, luminose, forse a suggerirci che è anche l’indagine dell’ombra, e non una fuga da essa, a mostrarci la luce delle cose. La natura è fisica, a contatto con l’Io, che è sia vicino che distaccato nel suo guardare, ma sempre prossimo alla dimensione del dire e fare poesia. Il fonosimbolismo e la lingua talvolta aulica sono portatori di significato come nella lirica più alta di d’Annunzio e Montale.
Molteplice la tipologia tematica della raccolta. L’ironica demistificazione dell’amore dell’epigramma di apertura, in cui l’affetto è un «brodo che ci lessa contento», e di Riflessione, in cui l’oggetto d’amore è una presenza silenziosa, che scarnifica le parole e per usare un correlativo oggettivo, le «disossa», per accogliere solo una quieta contemplazione. Il male, in cui si riconosce umilmente e senza clamori che la sofferenza del singolo è fragile, non altera il fluire del mondo ed è al massimo «una folaga con l’ala rotta» nello scorrere degli eventi terreni, per cui non vale la pena avere «tristezze tracciate ove arrotolarsi tipo un gatto» e si giura di «comporre solo cose non umbratili» e di sorridere dei «mariti ciccioni» affacciati sulle piazze in un normale giorno di festa. Il desiderio di eternarsi nella natura, la relazione fra gli enti, la circolarità del tempo e del ricordo, il conflitto di ogni poeta sulla possibilità di una poesia scevra da patimenti e sul conseguente auspicio di sigillare le «camere del cuore», la ricerca di sacralità nel creato di Pensiero teologico dal fiume, in cui il lettore, come la trota nelle acque del vivido ritratto, esce vivificato e rinnovato, e Zygaena filipendulae, dove poeta e falena si scelgono: l’una per riposare le ali, l’altro per divampare con volontà simbiotica come il rosso delle sue maculature. Lo sfumare delle gerarchie e diversità fra uomo e animale nel dolce dipinto domestico della Gatta Linda, la struggente epifania dell’infanzia, «uno slalom vite/gelso vite/gelso vite/gelso» nel profumo del suolo bagnato in Ricordo di un temporale, il richiamo alla teologia medievale di Futuri contingenti, una sorta di cosmogonia inversa che sortisce un effetto straniante.
Il solido filo conduttore resta tuttavia la celebrazione della natura, che con la sua forza si avvicenda nel caleidoscopio del reale incorporando galli cedroni, orsi, gruccioni, codirossi e boschi antropomorfi in cui putrefazione e fecondità, rinascita e sfacelo sono uguali punti di luce nella meravigliosa matrice della vita.

La copertina del libro

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LA FAMIGLIA FAZZARI
di Luigi Bianco

La copertina del volume

Antonio Froio da Stalettì (antica cittadina di preziosi resti greci-bizantini e di notorietà medioevale per le originali comunità monastiche-civili di Cassiodoro) ha il sentimento passionale dell’artista puro (si è anche laureato all’Accademia di belle arti di Catanzaro) e la passione civile-tecnica (è ingegnere, lavora per le Ferrovie dello Stato) per occuparsi di chi ha operato e opera nell’interesse comune. In prima battuta opera egli stesso. Grato della sua amicizia (piena d’integrità morale e onestà) ho donato decine di migliaia dei miei libri più preziosi alla biblioteca di Stalettì: voluta da Froio e installata in un bellissimo e spazioso palazzo vicino alla casa dei Fazzari.
Antonio non è un politico o un amministratore comunale ma sa offrire la sua intelligenza per utili e importanti operazioni per il bene di tutti.
Fazzari, dunque. Achille Fazzari e la sua famiglia. Dopo circa dieci anni di silenziose e faticose ricerche oggi Froio ci regala un librone storico-biografico sul calabrese più influente in campo regionale- nazionale
(anche internazionale) dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento: dalle rivolte garibaldine e dalle guerre d’indipendenza all’unità d’Italia, fino alla breccia di Porta Pia e alla questione romana tra Stato e Chiesa. Ricostruendo le origini familiari di Achille, ci troviamo davanti a uno spaccato di vite imprevedibili, di cui ancora oggi ci sono tracce e monumenti tangibili. Basti dire in banalità che l’acqua minerale Mangiatorella (la bevo tutti i giorni) nasce dall’intuito imprenditoriale di Achille Fazzari quando nei boschi di Stilo scopre che una fonte sembra avere proprietà curative e nei primi anni del Novecento si adopera per l’imbottigliamento e la diffusione di quell’acqua riconosciuta e accreditata ufficialmente dalle autorità competenti e fatta trovare sulla tavola di re e politici europei.  
L’esempio è tuttavia riduttivo. Nella seconda metà dell’Ottocento e nei primissimi anni del Novecento Fazzari ha frequentato e influenzato tutti i più importanti capi politici (da De Pretis a Giolitti). Scriveva a re e principi cercando appoggi ed altro. È stato due volte deputato. Soprattutto era il compagno più fedele e intimo di Giuseppe Garibaldi. Ha combattuto al suo fianco nell’ascesa dalla Sicilia verso Napoli. Ha vissuto con lui a Caprera. Ha trovato navi e uomini per portarlo, quando Garibaldi era malato, da Caprera a Napoli: scomodando tutti i personaggi influenti della città. Fazzari aveva una vitalità straordinaria e passava -politicamente- da destra a sinistra pur di ottenere quello che desiderava (cercando -soprattutto negli ultimi anni- di difendere gli interessi del Sud). Tutti i giornali dell’epoca parlavano di lui. Conscio delle sue mancanze culturali, faceva valere le sue doti di imprenditore acquisendo con la forza, con aste non sempre chiare, o con incroci di matrimoni familiari, terreni che trasformava in commercio di legname e soprattutto in estrazione di carbone (ritenuto migliore e più conveniente di quello francese e tedesco). In contemporanea creava strutture di conforto -anche fonti termali- e di bellezza sfarzosa per attirare i personaggi più noti (da principi a politici ad attrici e giornalisti). Ancora oggi in Calabria si parla della Ferdinandea (e il paese è ancora lì, nel vasto territorio che scende da Chiaravalle a Serra San Bruno, fino Stilo) come di una meraviglia o di un affare poco chiaro per le miniere e i tratti ferroviari dismessi, per le numerose industrie -ghisa, ferro, argilla che avevano portato lavoro a molte persone- e per invenzioni geniali al fine di produrre energia elettrica. Naturalmente non vanno dimenticati i tanti soldi elargiti dalle banche dopo relazioni spesso burrascose. É stupefacente come sia diventato proprietario di una vastità di terreni dove i Borboni, all’inizio dell’Ottocento, avevano costruito le prime industrie belliche. Tutte le banche italiane gli hanno fatto prestiti ingenti: compresa quella banca Romana finita nello scandalo che ha trascinato con sé politici, industriali e lo stesso Achille Fazzari. Non a caso ho incontrato per la prima volta il nome Fazzari quando negli anni 70 la televisione italiana dedicò alla banca uno sceneggiato dal titolo esplicito: Lo scandalo della Banca Romana.
Antonio Froio con serietà esemplare- ci ha restituito tutte le straordinarie vicende della famiglia Fazzari (il fratello di Achille, Raffaele, è stato per 25  anni sindaco di Stalettì) con una valanga di fonti per me mai vista in altri libri. Ogni capitolo è corredato da altrettante pagine di note e di fonti (dagli archivi storici ufficiali a quelli privati e personali, dalle cronache di tutti i giornali del tempo ai casellari giudiziari dei tribunali e delle prefetture, fino alle fonti carcerarie, dalle tante lettere e ingiunzioni delle banche e alle banche, e ancora la corrispondenza infinita con politici, capi di stato, Papi, autorità ecclesiastiche).
Achille Fazzari è stato eletto due volte deputato (1874 e 1886) ma dopo pochi anni entrambe le volte si dimette senza mai tralasciare la sua attività politica. Nel 1900 stupisce tutti scrivendo e pubblicando
La Costituente (considerazioni politiche per riformare il governo del paese): un documento indispensabile
anche per la regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa. Un documento che potrebbe ancora essere attuale (ogni tanto in Italia si parla di una Costituente e si è anche fondata e affondata) ma il rigore di Froio evita ogni riferimento al presente, con un distacco etico difficilmente riscontrabile negli storici ufficiali. Per lui parlano le fonti. Il suo lavoro ha lo scopo di fornire agli storici di professione uno strumento esaustivo per poterne trarre le conclusioni che più piacciono. Ha lo scopo di fornire a Stalettì uno stupefacente punto fermo senza pregiudizi e giudizi morali su uno dei suoi figli più illustre. Io poeta mi sento spiazzato dall’inesauribile tenacia di un artista di valore che ha sacrificato la sua passione artistica per restituire in modo organico le vicende di una famiglia povera. Una famiglia che ha donato alla Calabria e all’Italia la forza di una persona determinante per tante situazioni politiche-sociali-umanitarie-imprenditoriali senza avere la cultura di personaggi autorevoli pronti a dialogare e a scontrarsi con il suo entusiasmo.
Io poeta sono affezionato a quella persona che ritorna a Stalettì (lui che aveva vissuto nei luoghi del potere: Firenze, Piemonte, Roma) dopo lo scandalo della Banca romana e scrive nel 1894 lo statuto per una “colonia di pescatori e agricoltori nel golfo di Squillace”. Per me, una sana ribellione dopo la triste conoscenza del potere mai riconoscente. In quella colonia tutti erano uguali. Non circolavano libri e persone che volevano imporre il loro sapere o le loro prediche. Tutto in comune. Si viveva di quello che il lavoro donava. Senza capi ma con particolari riguardi per gli ammalati, i bambini, gli anziani.
Vivere con poco, e in onestà, in un Sud povero ma ricco di bellezze naturali e storiche. Il mio sogno.
L’amico Froio non si sbilancia: non certo per mancanza di coraggio. Riporta lo statuto come fatto di cronaca o storia ma non gli dà importanza: com’è giusto per uno studioso che si attiene alla verità delle fonti (la comunità è rimasta solo scritta) e non vuole indirizzare il lettore. Con così esorbitante materiale, il lettore non ha bisogno di maestri che gli spieghino fatti chiari.
Nella pregevole introduzione l’amico Antonio Froio è ancora una volta chiaro e definitivo: “Ora che il libro è stato ultimato auspico che le notizie e i fatti, in esso riportati, contribuiscano a chiarire se la famiglia Fazzari abbia interferito con la storia d’Italia, e se alcuni dei suoi componenti meritino gli onori e il diritto di farne parte. Sono certo che il lettore attento dedurrà liberamente le sue considerazioni e che queste daranno anche le risposte ai miei interrogativi”.
Caro Antonio, sia onore, un grande onore, alla tua chiarezza, alla tua fatica, alla tua onestà. Da poeta, ho deposto un fiore sulla copertina del tuo librone, e aspetto. Purtroppo non c’è più un Garibaldi che possa passare da Copanello -come ha fatto con Fazzari- per stringerti la mano. Pazienza?

Antonio Froio
Fazzari.
La famiglia Fazzari di Stalettì
a Nunziato ad Achile, amico di Garibaldi
Ed. Il Coscile, 2018

Pagg. 408 € 20,00

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CONVERSAZIONE CON ROBERTO VILLA
 di Laura Margherita Volante
 
Roberto Villa
Roberto Villa nasce a Genova, vive e opera a Milano svolgendo innumerevoli attività dalla Comunicazione alla Fotografia con una laurea in Elettronica spaziando non solo nell’etere, ma anche superando qualsiasi dicotomia nella tridimensionalità Leonardesca: Arte Scienza Tecnologia.
Un incontro, una collaborazione culturale, un’amicizia fra due forti personalità: Roberto Villa e P.P. Pasolini. Un incontro inciso nello spirito di Roberto Villa tanto da commemorarne la memoria attraverso mostre e allestimenti fotografici ad continuum. L’incontro fra Pier Paolo Pasolini e Roberto Villa avvenne a Milano nel 1972. Fu lo stesso regista a invitare il fotografo a seguirlo in Iran e nello Yemen, per seguire le fasi di lavorazione del film nel suggestivo scenario delle città di Isfahan e di Sana’a e molte altre. “L’Oriente di Pier Paolo Pasolini, Il fiore delle mille e una notte” sono impresse nella scrittura fotografica di Roberto Villa. “Il fiore delle mille e una notte” è tra i lungometraggi più complessi di Pasolini, una storia d’amore tormentata fra due giovani, Zumurrud e Nur-ed-Din, storia raccontata anche grazie la collaborazione del regista con Dacia Maraini, la scenografia di Dante Ferretti e le musiche di Ennio Morricone. Roberto Villa rimase sul set per ben cento giorni e, oggi, attraverso i suoi scatti, esiste uno straordinario documento su Pasolini e la sua troupe al lavoro sul set del film, che il grande regista ha scelto come ultimo capitolo della sua Trilogia della vita. Quella del Nostro è la prestigiosa testimonianza di una rappresentazione fra realtà, atmosfera fiabesca e sogno di libertà, nello sfondo dell’opera di Pasolini. Naturalmente l’attività intellettuale e artistica di Roberto Villa non si esaurisce qui come ben dimostra il suo eccezionale ed eccellente percorso umano e culturale. Ho scelto lo scorcio visionario di due personalità, che hanno realizzato con il loro impegno una svolta significativa nel linguaggio espressivo di un’arte oltre la sceneggiatura oltre la fotografia.

L.M.V. Fotografia, cinema, letteratura e saggistica, una nuova visione della cultura attraverso la linguistica. È stata la sua un’esperienza maturata dall’incontro con Pasolini oppure un “altere ego” magicamente espresso in una collaborazione dove il cinema va oltre la fotografia e la fotografia oltre la sceneggiatura in un altrove? 

R.V. Nel Novembre del 1972, a Milano, ad una tavola rotonda sulla televisione ed il cinema ho avuto l'occasione di incontrare Pier Paolo Pasolini. Cessata la tavola rotonda, avevo avvicinato Pasolini per dirgli del mio interesse sui meccanismi della comunicazione audiovisiva ed i problemi del linguaggio cinematografico, cose che lui aveva trattato in molti articoli di saggistica. Gli avevo detto che sarei stato interessato ad incontrarlo per parlarne ed ascoltarlo su questi temi. Era rimasto sbalordito, nessun fotografo gli aveva mai chiesto di parlare di semiologia e di linguistica. Senza esitare mi aveva dato il suo indirizzo di Roma, dicendomi anche della sua prossima partenza per girare “Il fiore delle 1001 notte”. Poi, aggiungendo ad alta voce, ma quasi parlando fra sé e sé, mi disse che, se fossi stato interessato, avrei potuto raggiungerlo in Medio Oriente sul set. Lì avrei potuto vederlo al lavoro nell’applicazione delle sue idee sul cinema, e parlarne.
  
L.M.V. La Fotografia oltre il “click”. Quale il ruolo del fotografo oggi per una nuova veduta del mondo?

R.V. La fotografia, come la scrittura, come il suono, può servire per banale comunicazione o per attività più sofisticate ed impegnative come quelle artistiche. Uno strumento di comunicazione ha una sua specificità che l'utilizzatore, l'artista, può utilizzarlo "creativamente" se lo conosce profondamente, se ne conosce la storia soprattutto comparata a tutti gli strumenti che producono immagini nell'arco del suo tempo, ma soprattutto, se l'artista ha la cultura per essere tale e se usa quella comunicazione, come tutti i grandi, per il sociale.

L.M.V. I linguaggi espressivi coniugano un bisogno di Bellezza “per salvare il mondo”. Come può l’essere umano raggiungere tale dimensione in questa reale complessità sociale dove emergono brutture e bruttezza? Quale la via per recuperare umanità, quella stessa che Pasolini ci indicò con i suoi scritti e non solo?

R. V. Ogni sistema linguistico può essere usato creativamente o nei soli limiti dello strumento se chi lo usa non ne ha coscienza. Il tema della "bellezza" nella fotografia non è un tema concettuale ma banalmente mimetico, cioè è "bello" l'oggetto od il soggetto fotografato e non altro. In altri termini non esiste una sola fotografia al mondo sulla quale si siano scritti saggi, articoli e fatte analisi come per il quadro di Velázquez "Las Meninas" del 1656 e, se la fotografia nasce nel 1839, pur avendo luminosi esempi in tutto lo scibile, in questi 180 anni di vita, ha prodotto solo macchine ma non cultura perché chi l'ha praticata, nel migliore dei casi, non ha saputo andare oltre la documentazione di eventi. Pasolini ha studiato sempre, fin da ragazzino, è stato presente alla realtà sociale l'ha interpretata ed ha trasformato la lingua, con gli strumenti della conoscenza, in strumenti creativi per dire a tutti i livelli possibili del sociale cose diverse denunciando, contemporaneamente, i limiti degli strumenti ed i suoi personali.
Difficile esempio di autocoscienza.

P.P. Pasolini

L.M.V. L’Arte per essere libera spesso non raggiunge né visibilità né popolarità, per cui artisti e scrittori di valore rimangono sconosciuti in uno stato di frustrazione, disistima, demotivazione. Chi perde l’uomo o l’artista?

R.V. Nel 1949, a dodici anni, su costose, riviste USA scopro che, un lontano parente di Edison, Claude E. Shannon, con Warren Weaver, avevano elaborato "La teoria dell' informazione" e leggendola, con il vocabolario a fianco, comprendo che chi vuole occuparsi di comunicazione nel mondo dell'arte non può non conoscerla, sia per "leggere" quello che è stato "scritto" da sempre e quello che viene sempre scritto in tutte le sue forme. Quando chi si autodefinisce artista non opera con conoscenza non può, inevitabilmente, uscire dal suo piccolo spazio poiché non è in grado di differenziare le sue proposte da quelle di tanti altri come lui. Artista è una definizione attribuita dalla società, non è una corona che ci si impone propria sponte. Artista, individuo e società sono perdenti se non comprendono queste semplici regole.

L.M.V. Casa della Fotografia e non più Sala di esposizione. Quali le prospettive?

R.V. Casa è il luogo proprio della famiglia e quando chi fa fotografia decidesse di "Mettere Casa" potrebbe cogliere l'opportunità di avere un padre-maestro di riferimento da cui imparare e dei figli-allievi a cui insegnare, nonché una "Cucina-Laboratorio" dove sperimentare le forme del pensiero, un pensiero rivolto al sociale e non un pensiero in forma di idioletto. La sala espositiva è una sala di "Convegno" dove i convenuti vengono per apprendere non già per sentire quello che già sanno ricavandone solo noia.

L.M.V. Fotonarrazione su Pasolini fra scatti e ciak. Cento giorni nello Yemen. Vuole dirci cosa ha significato per lei lavorare in uno scenario, immagino, così suggestivo?

R.V. Il dialogo con Pasolini è stata una avventura conoscitiva ed accrescitiva per me e che Pier Paolo ha molto apprezzato. Il contesto da fiaba è stato un contesto scenografico e coreografico unico per la sua autenticità. La decisione di portare "in giro per il mondo" quel lavoro è un compito che mi sono assunto per far conoscere anche ai più semplici, il pensiero ed il cinema straordinario complesso di Pasolini, dove nulla è nell'apparenza, ma questa è una icona, un segnale, che manda ad altri significati.

L.M.V.  Il suo ricordo è indelebile dal momento che la sua documentazione di circa 300 foto è molto viva tra finzione e linguaggio della realtà.  Quando è autentica dunque una foto?

R.V. La selezione delle 300 foto è la limitazione che mi sono imposto, per raccontare il film, che ha dato origine a ben 8.000 (ottomila) scatti. Tutti digitalizzati e parte dell'archivio generale di oltre un milione di immagini realizzate in soli 15 anni di attività fotografica professionale, iniziata il 1970 e cessata il 1984.
Teoricamente la fotografia "è sempre autentica" poiché rappresenta sia l'oggetto- soggetto dello scatto sia se stessa ma, fuori dallo "scatto", come tutto, è soggetta a manipolazioni che la trasformano in qualche cosa d'altro. Anche quando fotografa una "finzione" la fotografia è autentica poiché è un processo di comunicazione che non interpreta. La fotografia è "l'impronta digitale della cultura di chi fotografa". Pasolini parlava di "Linguaggio della Realtà" per una serie di complesse considerazioni che nulla avevano a che fare con una immagine "mimetica" del reale e che ha molto ben chiarito in una serie di saggi ed articoli, raccolti un testo "Empirismo eretico", il mio incontro con Pasolini è nato per le mie conoscenze di quei lavori e la richiesta che gli avevo fatto se avesse voluto parlarne. C’è uno scatto, unico, realizzato nel 1973, a Esfahan, in Persia, a Pier Paolo. Fra lui e me c'era un dibattito in atto sul concetto di linguaggio del cinema. Pier Paolo sosteneva che il Cinema è "il linguaggio della realtà" ed io che è "solo un linguaggio". Ho colto PPP con una mano sulla cinecamera, vicino era un attore con il ciack, me lo sono fatto dare e l'ho porto a PPP, dicendogli "Pier Paolo prendi, ti faccio una foto", mentre lo prendeva Pier Paolo mi ha detto "... ma è una finzione", ho risposto, "sì, anche il cinema è una finzione". Lui, ricordando il nostro dibattito, ha sorriso ed io ho scattato. Quando ho incontrato Pier Paolo a Roma, per alcune riprese a Cinecittà, gli ho mostrato una selezione delle foto del film e, con quel genuino stupore di cui era capace, aveva detto: “Hai raccontato le Mille e una notte dove io sono l’attore e tu il regista, un film che non avevo visto. Una fiaba nella fiaba”.


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Tomasi di Lampedusa. I Racconti
di Mila Fiorentini
G. Tomasi di Lampedusa

Negli ultimi due anni della sua vita, dal 1955 al 1957, anni intensi quanto dolorosi di malattia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa riunì tre racconti e uno scritto autobiografico, oltre le otto parti che comporranno il romanzo postumo, il Gattopardo, anche se solo di recente, in seguito al ritrovamento di alcuni manoscritti originali, è stato possibile analizzare i testi, fare una verifica filologica e ricostruire i testi e il percorso del suo pensiero. Il libro che racchiude i quattro scritti ci restituisce quattro “Sicilie”, quattro aspetti dell’autore, indovinando un magma più o meno evidentemente autobiografico e aiutandoci a leggere il romanzo di una vita in una chiave più ampia. La scrittura è agile, suggestiva, a tratti più vicina a quella del romanzo ottocentesco, in altri casi più veloce, quasi un diario intimo e storico ad un tempo - le due componenti sono sempre intrecciate in Tomasi di Lampedusa - avvicinando i testi all’istantanea del racconto breve, ora al reportage, allo scritto storico. Vero è che anche nel cedimento alla fantasia, basti pensare alla figura mitologica della sirena, c’è sempre un lavoro di documentazione in questo caso del mito che soggiace impreziosendo e rendendo credibile la novella. I racconti al di là del gusto personale e di una lettura gradevole, restano a mio parere un ottimo testo critico, anche se autocritico, per conoscere lo scrittore, nei lati più reconditi e un clima siciliano che bene completa il panorama degli autori dell’isola. Pur essendo scritti a fine Anni Cinquanta guardano sia nel linguaggio, sia nelle tematiche, sia nell’inclinazione ad esempio in riferimento all’amore e all’eros, più ad una letteratura ottocentesca o primi Novecento. Questo tono ha certamente una spiegazione nella figura dell’autore, duca di Palma e principe di Lampedusa, nato nel 1896, formatosi su scritti illuministici e raccolte di relazioni militari, un bambino solitario, più interessato alle cose che alle persone, per sua stessa ammissione; nonché nella terra siciliana dove lo stile dell’aristocrazia è sopravvissuto più a lungo che altrove e la vita sociale nelle case disegna una sua comunità e quasi un mondo parallelo. In effetti il primo e più corposo racconto, Ricordi d’infanzia, ritraggono attraverso la casa anche in senso simbolico il mondo interiore e sociale dell’autore. Le sue quattro case, in particolare la residenza, il Palazzo Lampedusa a Palermo distrutto nei bombardamenti del 1943 e la casa estiva di Santa Maria in Belìce, stabiliscono in confini dell’intimità dello scrittore. Il testo è corredato di foto, cartoline, disegni e suggerisce un’immersione in un mondo scomparso, fisicamente quanto in termini di atmosfera, prima tra tutte la scansione delle stagioni con i suoi rituali fissi, oggi confusi, in particolare il senso della villeggiatura, un vero e proprio trasloco, le gite, gli ospiti e una cosa curiosa, tipica del luogo: il sostegno offerto alle compagnie girovaghe di teatro che a casa Tomasi ricevevano anche l’ospitalità in un teatro privato. Tra gli aspetti più interessanti del racconto lo sguardo del bambino che si perde incantato negli spazi immensi e anche un po’ smarrito e l’osservazione sul mondo degli adulti, mettendo a confronto la propria famiglia e gli ospiti. Le case di villeggiatura un tempo restituivano infatti l’ambiente familiare e la società del luogo, basti pensare alle Smanie per la villeggiatura di goldoniana memoria o, per restare in Sicilia, il romanzo inquietante di Leonardo Sciascia Todo modo o ancora Un bellissimo novembre di Ercole Patti. Emerge nel racconto la memoria tenera, la nostalgia struggente dell’infanzia, di quelle estati che noi tutti ricordiamo, che hanno un sapore indimenticabile di ristoro misto a una vena di malinconia. La scrittura prende forma nella primavera del 1955 e il tema della memoria non prende a modello Proust. In un periodo difficile, trova invece consolazione nella lettura de La vie de Henry Brulard di Stendhal, scritto autobiografico incompiuto che diventa la linea guida di Tomasi di Lampedusa. In tal senso sono emblematiche le sue parole: «Cercherò di aderire il più possibile al metodo di “Henry Brulard”, financo nel disegnare le “piantine” delle scene principali». Le descrizioni tipiche del romanzo classico ci restituiscono un quadro vivente degli ambienti Belle époque, una vera testimonianza del gusto dell’epoca, con uno spirito critico e perfino ironico.
Segue il racconto La gioia e la legge, racconto breve, un apologo che risente dell’eco di Pirandello. La trama è semplice e narra dell’impiegato Girolamo, onesto a giudizio dei colleghi, che ottiene in regalo per meriti un panettone di sette chili. Felice del riconoscimento, dopo anni di dura fatica, rientra presto a casa, desideroso di “scannare” quel dolciume. La moglie Maria proibisce di sacrificare la vittima perché il dono spetta all’avvocato Risma, dei cui servigi Girolamo usufruì. Doppia beffa. S’intuisce che il legale vive nell’agiatezza opulenta, pagato dal buon Girolamo per quel consulto legale. Per l’apparenza si sovverte l’etica e si diviene camaleonti per convenienza. Il prototipo del siciliano attento all’occhio del mondo e alla rispettabilità formale trionfante.
La Sirena, il più noto, conosciuto anche come Lighea, dal nome scelto dalla moglie dello scrittore, scritto dopo una gita sulla costa meridionale della Sicilia, mette insieme curiosamente il reale anche con una sfumatura politica, il vecchio professore di cui si narra, e il surreale, l’amore per una sirena che diventa struggente metafora della dimensione onirica che ci regala emozioni e dolori e che è straordinariamente credibile. È l’intreccio tra Eros e Thanatos che designa gli amori impossibili. Pubblicato nel 1961 da Feltrinelli, racconta una vicenda che ha inizio nel 1938 in una Torino invernale dove si incontrano due persone molto diverse, entrambi siciliani: un illustre classicista, Rosario la Ciura, professore in pensione; e il giovane Paolo Corbera di Salina, di nobili ascendenze, laureato in legge e mediocre giornalista della Stampa, ferito nel morale dopo l’abbandono da parte di due donne, le tote, in seguito alla scoperta di non essere la sola relazione.
Nonostante il divario culturale e generazionale, e le asprezze caratteriali del professore, dall'incontro, avvenuto in un bar di via Po, il giovane riesce a conquistare la simpatia del professore. Dal rapporto sincero e complice nasce a poco a poco l’intimità e il professore gli confesserà come durante un soggiorno ad Augusta, preparando un concorso, durante un periodo di studio matto e disperatissimo, incontrerà qualcuno che gli cambierà per sempre la vita.
Chiude il ciclo I gattini ciechi o Il mattino di un mezzadro, titolo con il quale è apparso nella prima pubblicazione, la cui materia è la più vicina a quella del Gattopardo e che avrebbe dovuto costituire lo spunto di un secondo romanzo di matrice politica, sulla fine del latifondismo in Sicilia e l’incapacità di una rivoluzione borghese, dove tutto cambia senza che nulla cambi, anzi con la consapevolezza che la storia sappia solo peggiorare. Dopo l’età dei Gattopardi (Tomasi di Lampedusa), dei Leoni (Florio), ci saranno generazioni più rozze che si crederanno il sale della terra, come i precedenti, come scriverà l’autore nel suo romanzo.


Giuseppe Tomasi di Lampedusa
I racconti
Feltrinelli Ed. 2017

Pagg. 197 € 9,00 

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IL TEMPO NON HA RUGHE
di Angelo Gaccione

Annitta Di Mineo

Il nuovo libro di Annitta Di Mineo

Il tempo, il dolore, l’infinità: tre sezioni a temi forti compongono questa nuova raccolta poetica di Annitta Di Mineo dal titolo Il tempo non ha rughe e in cui la riflessione sul lato perentorio e ultimativo della morte ha un peso e una presenza cardinale. Dentro questi tre postulati, da sempre materia privilegiata della poesia e dei poeti, non poteva mancare l’amore, speculare al dolore e all’evolversi del tempo. Il tempo, la più effimera di tutte le cose e che rende tutte le cose effimere. Allora forse la parola poetica, la sua estrema necessità, è il solo antidoto, o il tentativo disperato della memoria di opporre un fragile argine, di fargli lo sgambetto, e provare a lasciare qualche sedimento. Il sedimento che la poesia tenta caparbiamente di lasciare è un patrimonio tutto immateriale fatto di sentimenti, di echi, di ricordi, di evocazioni, di nostalgie, di pene che possono transitare da un’anima all’altra solo se queste anime riescono ad entrare in risonanza e contaminarsi. Ed è quello che tentano di fare questi versi di Annitta, a volte con pochi secchi e contratti versi:

Firmamento/
Inganna destino/
Con stella fredda/

(“Stella fredda”)

che evocano antichi moduli orientali, o la tecnica espressiva dell’aforisma:

Il dolore/
Esige delicatezza/
Chi lo conosce/
Avverte/

(“Delicatezza”)

o in maniera più ampia e distesa come nei testi “Voglio ancora”, “Girandola”, “Ciclone”, “Pietra”, “Far lucere”, che sono fra i più belli e densi e di sicuro i meglio riusciti. Vale la pena riprodurre quest’ultimo per intero, che è un impasto di antica sapienzialità tutta mediterranea e che ci consegnano un memoriale passaggio di testimone. Una resistenza al tempo. Appunto.

Anche mio padre
piantava alberi d’ulivo
per lasciarli alla vita.
Io e mia sorella
con occhi caldi
traccia delle sue mani
immerse nella terra
versiamo alle figlie
come l’olio in una lumera
per continuare a far lucere
le chiome delle sue piante.

(“Far Lucere”)

La copertina

Annitta Di Mineo 
Il tempo non ha rughe
C.A.S.A. Edizioni, 
Pagg. 112 € 10,00


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CLAUDIO ZANINI - EBBREZZA VS HYBRIS
di Gabriela Galzio

Avevo letto la raccolta di poesie Ansiose geometrie di Claudio Zanini quando, recentemente, l’autore mi ha dato il suo penultimo romanzo La scimmia matematica. Subito mi hanno colpito i punti di contatto e l’intima relazione tra le due opere; cosa poco consueta, trattandosi di testi d’ambito differente: l’uno poetico, l’altro di prosa in forma di romanzo. Ho notato che, in breve, i due libri, entrambi coesi e compatti, al di là dei differenti generi, convergono in una medesima poetica e visione del mondo; in “Ansiose geometrie”, infatti, nella scommessa tra limitato-illimitato, finito-infinito, giardino concluso e giardino incompiuto, Zanini sceglie di stare dalla parte della “cartografia audace delle allodole; così anche ne La Scimmia matematica, l’Autore si schiera a favore delle spazialità affettive e degli Elementi di un’inquieta geometria, è dalla parte della Scimmia e della continuità filogenetica con l’umano, o, nel finale quasi western, s’identifica nell’ebbro pellerossa (da Franz Kafka, Desiderio di diventare pellerossa), sferzato dal vento del mare che trasfigura nella sconfinata pianura. Tra il caos e l’ordine, rigido e arbitrario degli uomini in odore di hybris, Zanini sceglie l’ordine morbido e curvilineo della Natura che non bisogna accarezzare contropelo. Come in Ansiose geometrie, “forse segrete e auree proporzioni/nasconde il bosco prossimo a Guardea”, così nel romanzo è intatto l’incanto della selva vivida di Ardea. (Con rime di nomi - ”Guardea/Ardea” - e assonanza di selve). In entrambi i libri l’Autore, rispetto alla hybris, sceglie l’ebbrezza. (Insomma… c’è hybris e hybris) Anzi, quell’insofferente desiderio di liberazione che mi pareva di avvertire più sommessamente in “Ansiose geometrie”, ne “La Scimmia matematica” viene apertamente confermato dai valori trasmessi all’Io narrante dal personaggio di Zagreo: “…ebbrezza della libertà e pienezza della passione amorosa”.
Sappiamo come Zagreo ricordi il Dyonisos-Zagreus cretese, dio dell’ebbrezza e divinità tutt’altro che marginale, ma non tutti sanno che, nella mitologia prepatriarcale, Dioniso figlio avrebbe dovuto succedere a Zeus padre (come in precedenza Cronos era succeduto a Urano, e Zeus a Cronos). Ma con la patriarcalizzazione questa trasmissione si interrompe, si blocca, direi, contro natura, non saranno più le forze giovani a succedere a quelle ormai vecchie, ma il vecchio Padre rimarrà ipostatizzato, così Zeus, così Jahvè (che chiederà il sacrificio del figlio), così il Dio cristiano che il figlio lo metterà in quella croce che prima rappresentava il vivissimo albero! Narro tutto ciò almeno per due buoni motivi: uno, perché anche nel romanzo di Zanini le forze giovani e selvagge, nel mondo degli uomini rimangono emarginate, ma non soccombono e anzi profetizzano un futuro riscatto: “Tuttavia verranno altri, anche se ora non sappiamo chi siano, né da dove possano giungere. Vedi, sono convinto che nel cuore d’ogni uomo guizzi una scintilla che, se alimentata, può diventare un incendio”; due, perché nelle note dell’Autore è detto esplicitamente: “Questo scenario di citazioni, rimandi, allusioni e fantasie ho inteso far percorrere dalla corrente sotterranea di antichi miti che, nel profondo del nostro inconscio di cosiddetti postmoderni, permangono e non soccombono agli artifici e alle occorrenze del presente ma, come Zagreo, gli sopravvivono e lo attraversano, offrendogli significati e interrogazioni”. Di questa vasta mitologia inconscia che ci portiamo dentro, taluni personaggi ne sono pervasi, ad esempio l’avvenente, seducente Cloe, sinuosa felina “dalla fulva criniera”, ritratto davvero magistrale di un’Afrodite sfolgorante in terra, vera femme fatale, e guida segreta al destino del protagonista: “Quando ti vidi emergere nudo dal mare”, rivela Zagreo, “pensai che ti avesse mandato uno strano destino. Poi decisi che avresti dovuto percorrere la tua strada con le tue sole forze verso lo svelamento. Ti misi accanto Cloe che avrebbe dovuto guidarti con discrezione…”. E invece lei, giustamente, lo fa con tutte le sue migliori arti afroditiche della seduzione, perché è l’unica con la quale la geometria, ossia il logos razionale, si sfa… come già del resto ai tempi di Gilgamesch, quando Ella dormì con Enkidu per civilizzarlo e il settimo giorno si riposò!
Dunque, destino e svelamento, siamo nel campo del divino, della trascendenza, come il metafisico pi-greco e la tanto agognata quadratura del cerchio, che allude alla tensione mai risolta di coniugare cielo e terra. Apparentemente vincerà anche in questo caso la teologia dei dominanti, ma il mistero della geometria rimarrà inviolato: “Comunque, sono quasi contento che abbia vinto il teologo. Grazie a questa assurda vittoria, il segreto della geometria è rimasto tale, malamente inguainato entro uno stupido vestituccio dogmatico. Il campo resta libero per ogni altra spericolata escursione del pensiero”. Oltre l’assurda vittoria teologica, più in generale, il romanzo assurge a teatro dell’assurdo con tanto di gran finale grandioso e terribile della bora: “In effetti, tutta la vicenda vissuta ad Ardea aveva dissimulato coloriture teatrali, scenografie stupefacenti, modalità melodrammatiche da dispendiosa messa in scena”. In questo libro, vengono toccate le corde dell’assurdo, l’assurdo dell’autorità (anche kafkiano degli scarafaggi), del surreale (l’apparizione fuori contesto del tacchino), del grottesco (come le membra scomposte in sgraziate movenze da burattino, da marionetta disarticolata), dell’espressionistico (“… il piccolo genio gettò la testa all’indietro, poi allungò le dita sui tasti e la madre piegò la bocca emettendo un suono melodioso…”). Tutto il romanzo è attraversato da una sottile e lucida ironia che non cede mai alla banale comicità (vorrei precisare che io stessa ho avuto modo di  curare un lavoro sul comico nella letteratura tedesca, comprendendovi Kafka proprio per la sua ironia dell’assurdo). Di questa ironia fa parte anche il ricorso a certo linguaggio aulico, compreso il nome del protagonista, Arcadio, “…loro (si mescolavano in) una disordinata canea famelica. Io non mi inframezzavo entro queste mischie promiscue dove si rimediavano proditori colpi ai garretti, distribuiti più per imperizia che per volontà malevola”. Un’ironia che non risparmia niente e nessuno, non il connubio clero-finanza mondiale, non i poeti (con gli allusivi “Ossimori d’Ippia”), men che meno l’istituzione dei premi, e che arriva a toccare il suo vertice nell’irrisione delle filosofia teologica, per la quale, di contro alla coscienza ottenebrata dell’orango, assistiamo al mirabile salto ontologico dell’uomo a immagine di Dio!
Un libro eretico, dunque, memore delle atrocità e iniquità dell’Inquisizione, e immune da dogmi e fondamentalismi, ma anche attraversato da una critica della civiltà finanziario-capitalistica globalizzata (incarnata dal banchiere Krumm). All’inizio del libro l’Io narrante è l’indolente, a tratti kafkiano, sfigato, afflitto da senso di colpa, protagonista, che viene calato nel caleidoscopico mondo arcano di un albergo, di sapore borgesiano, prisma di mille sfaccettature; in esso si susseguono enigmi, anomalie, presagi, profezie, e ancora, miraggi, illusioni ottiche, apparizioni, misteri creati ad arte per alimentare la suspense; ma nel corso del libro questo mondo magico rivela la sua carica simbolica quale espressione della trascendenza di cui il protagonista, con la sua stessa anomalia corporea, è portatore; sul finale, egli si spoglia della sua vecchia e gloriosa uniforme color sabbia e, qual bel principe azzurro finalmente liberato, può indossare “l’abito di velluto blu in cui si riconosce (specchiandosi), in quel bel giovane snello che gli sorride pieno d’entusiasmo”. E qualcuno potrebbe azzardare l’impianto magico del romanzo, con elementi occulti cinque-secenteschi o tratti dal realismo magico borgesiano, con tanto di animale magico-surreale e finale metamorfico-fiabesco. Ma questo, forse, potrà essere l’abbrivio per un nuovo romanzo.    
      
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I leoni di Sicilia, la saga dei Florio
di Mila Fiorentini


 I leoni di Sicilia (Editrice Nord, Pagg. 437 € 18,00) di Stefania Auci, trapanese di nascita e palermitana di adozione, pubblicato dalla Casa Editrice Nord rievoca la saga dei Florio, come recita il sottotitolo del romanzo, primo volume di una saga familiare dedicata al celebre clan siciliano, caso editoriale internazionale i cui diritti di traduzioni sono stati venduti in Francia, Germania, Olanda, Spagna e Stati Uniti.  Cinque edizioni in un mese lo dimostrano. Una finzione storica ben documentata, frutto di una scrupolosa ricerca storica senza perdere il gusto del romanzo, che nella forma e nello stile, così come nella trama e nello scavo psicologico dei personaggi. Leggendo questo testo voluminoso ma scorrevole, che di tanto in tanto indugia nelle descrizioni, si ha la sensazione di immergersi in un romanzo classico come se ne scrivono sempre meno. Il libro si articola su quattro piani, rispettivamente, la storia di un caso imprenditoriale tutto italiano; la storia di una famiglia, che è anzi tutto la storia universale di un amore e delle difficoltà di qualsiasi impresa umana affettiva, con un’analisi acuta dei tratti psicologici che dialogano con la società; il ritratto di un mondo sociale in evoluzione, tipicamente siciliano, anzi palermitano, così attento all’occhio del mondo che arriva anche in camera da letto; infine, il quadro storico di un’Italia che cambia nel corso dell’Ottocento, dai privilegi nobiliari, ai moti rivoluzionari, dalle spinte indipendentistiche prima verso lo straniero, poi verso il potere aristocratico, fino all’Unità d’Italia. In tal senso all’inizio di ogni capitolo che segue gli affari della famiglia nel corso dei secoli, dalla fuga dalla miseria al successo internazionale, senza arrivare all’apice della dinastia, un affresco delle vicende storiche, sintetico quanto scrupoloso inquadra il singolo decennio, come un prologo per altro di grande piacevolezza. L’avvio della storia prende spunto dal proverbio siciliano “Chi esce, riesce” nell’ultimo anno del Settecento, quando Paolo Florio, dimostrando di avere una grande lungimiranza, dopo una notte di terremoto, decide di trasferire il fratello Ignazio e la cognata Giuseppina, da Bagnara Calabra a Palermo, il primo passo, forse azzardato e avventuroso che avrebbe portato i Florio a diventare “I leoni di Sicilia”. Il nome è legato a quello che sarebbe diventato lo stemma di famiglia, non certo nobile all’origine, un leone che si abbevera ad una sorgente nata dalle radici dell’albero di china che fece la fortuna della famiglia. All’inizio siamo appunto a Bagnara Calabra, il 16 ottobre 1799 quando l’ennesima scossa di terremoto, nel silenzio della notte scuote la casa dove vivono Paolo Florio, figlio di Vincenzo Florio e orfano di madre, sua moglie Giuseppina, il loro figlio appena nato, Vincenzo, il fratello di Paolo, Ignazio Florio e la piccola nipote Vittoria, orfana di un altro fratello dei Florio, Francesco, che poi contro il volere della zia si sposerà per trovare una sua indipendenza.  Dopo la paura, inizia il viaggio a bordo di uno “schifazzo”, indispensabile per commerciare via mare e una “putia”, un negozio di spezie a Palermo, con la decisione di trasferirsi in città, lì dove c’era una grande comunità di bagnaroti.  Palermo era sì una piazza vivace, ricca e piena di opportunità soprattutto dopo l’arrivo dei Borbone, Ferdinando IV di Napoli e Maria Carolina d’Asburgo, scappati da Napoli in seguito alla rivoluzione, quanto una città difficile, classista, dove il titolo nobiliare vale più di ogni altra ricchezza diventando in certi casi una vera ossessione. Nel 1799 i giacobini del Regno di Napoli si erano ribellati alla monarchia borbonica istituendo la Repubblica Napoletana I Borbone sarebbero tornati a Napoli nel 1802 facendo terminare l’esperienza della repubblica con una feroce repressione. In quell’autunno del 1799 Paolo Florio, intuendo i tempi nuovi, desiderava di meglio per sé e per la sua famiglia. Stabilirsi dunque a Palermo, allora uno dei maggiori porti del Mediterraneo, dove due anni prima Florio e Barbaro, avevano preso un magazzino, un piccolo “fondaco”, dove stivare le merci che acquistavano lungo la costa per rivenderle in Sicilia, sembra la scelta vincente e così di merce in merce lungo i decenni si costruisce la fortuna chiacchierata dei Florio. L’inizio è con le spezie, soprattutto cannella e chiodi di garofano, ma anche, pepe, cumino, anice, coriandolo, zafferano, sommacco, cassia, spezie utili non solo in cucina ma anche come farmaci, cosmetici. “Profumi e memorie di terre lontane che in pochi hanno visto” e che dopo, le prime diffidenze e ostilità locali, conquistano i palermitani. Ignazio muore presto lasciando inconsolabile la vedova Giuseppina con tanta ostilità di aver lasciato il luogo natìo dal quale non si riprenderà mai, mentre deciderà pur non essendo stata felice con il marito di rinunciare all’amore del cognato. Solo alla fine della vita troppo breve di Paolo si renderà conto di un amore inascoltato, riversando tutto il suo affetto non scevro da morbosità sul giovane Vincenzo che prenderà in mano il destino della famiglia, costruendo una fortuna. Sposerà solo al terzo figlio, unico erede maschio, Ignazio, Giulia, dopo anni di scandalo. La linea degli affari si sposterà dalle spezie alla seta, quindi al cortice, l’albero della china per curare le febbri, allo zolfo, al pizzo - la dentelle francese - quindi il tonno e la sua lavorazione fino al Marsala che decreterà il successo internazionale della famiglia come oggi ancora la conosciamo. Già con la tonnara di Favignana ci sarà una grande svolta, con la conservazione per la prima volta del tonno sott’olio. Interessante seguendo l’economia, le regole locali del commercio, e l’evoluzione del prodotto di punta di successo sul mercato, l’evoluzione di una società che si va delineando. Così ad esempio l’allevamento dei bachi da seta sulle foglie di gelso tra Messina e Catania era un’attività a bassa redditività in Sicilia rispetto a quanto avveniva in Oriente che poi i Florio riescono a sfruttare, dando colore alla seta. Da sottolineare anche il quadro storico che emerge, filtrato attraverso le vicende di una famiglia siciliana, che mostra ombre e luci, meno evidenti nello studio della storia sul piano nazionale come si è abituati a leggerla, con una luce piatta per così dire. In tal senso si capisce ad esempio perché è la nobiltà in Sicilia ad essere maggiormente avversa al re, che è lo straniero, e che impone regole nuove mettendo in discussione privilegi consolidati nel tempo, diversamente dal popolo per il quale cambia ben poco.  Infine ed è la parte più avvincente che fa della Auci una vera narratrice, ma che lascio al lettore il piacere di scoprire, le dinamiche psicologiche dei sentimenti, i grovigli familiari che restano, al di là dei costumi e del contesto, universali, trattati con gusto storico e capacità di parlare in modo universali. Alla fine in bocca resta la dolcezza e la vittoria di una grande famiglia, antesignana di un made in Italy sui generis, che mette al centro gli affari ma dichiara che essi non potrebbero essere tali senza il supporto dell’amore. Una grande storia di sentimenti che sfida e vince le convenzioni sociali.

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Lo straordinario romanzo mitomodernista
di Giuseppe Yusuf Conte
di Tomaso Kemeny
 
Giuseppe Conte


Il poeta Giuseppe Conte, con I senza cuore (Giunti, Firenze, maggio 2019) ha pubblicato un eccezionale romanzo che non esito a nominare come “mitomodernista”. In Le terre del mito (Longanesi, Milano, 2009), il poeta aveva concesso alle stampe le sue esperienze di viaggiatore-esploratore dei miti dell’Irlanda (mito celtico), delle Orcadi (mito di Odino), di Pafos (mito di Afrodite), di Kanchipuram (gli dei dell'induismo), di Taos (miti dei pellirossa), di Assuan (gli angeli dell'islam). In questo libro le avventure di una galea genovese ampliano le energie del mito anche su mari e oceani.
La narrazione viene affidata al diario di bordo dello scrivano Oberto da Noli e così le azioni e gli eventi vengono evocati dal punto di vista di questo personaggio secondario la cui prospettiva conferisce una relativa oggettività al narrato e permette al poeta di comporre una storia perfettamente strutturata, ma aperta e, allo stesso tempo, incompiuta. Così il protagonista, Guglielmo il Malo può proseguire la sua avventura in cerca del senso della vita senza che questa venga descritta, rimanendo virtuale. Guglielmo aveva contribuito alla presa di Gerusalemme nel contesto della prima crociata e ha portato a Genova il vaso di smeraldo verde regalato dalla Regina di Saba a Salomone, mitico vaso in cui Gesù Cristo avrebbe consumato l'agnello pasquale.
Un vecchio mercante ebreo, Moses Ben Yoshua, gli rivela come il vero vaso dell'ultima cena si trovasse al nord. Preso dall'ira, dopo avere ucciso l'incolpevole israelita, Guglielmo parte alla ricerca dell'autentico vaso in cui Nostro Signore avrebbe cenato. L'abate di Landervennec, Padre Brendan gli rivela l'esistenza di un manoscritto “Historia Vasis Esmaragdo”. Il manoscritto narra come Grandon, re della Cornovaglia, sì innamorò follemente della regina maga Malgven che per concedersi esige, come prova d'amore, l'assassinio del re Sverdlun, suo marito, e possessore del vaso esagonale.
Poco tempo dopo dall'essersi concessa, la maga fugge col vaso e una valanga d'acqua travolge la città di Ys dove regnava con Grandon. La loro figlia, Ahys, si trasforma in una sirena che seduce i naviganti per poi ucciderli e strappare loro il cuore.

La copertina

Qui si evidenzia un raffinato parallelismo, a centinaia di pagine di distanza, tra la crudeltà di Ahys e la sete di vendetta di Giannetta Centurione, promessa sposa di Corrado Fieschi. La ragazza si ribella ai voleri della matrigna Ermellina e del padre Bonifacio Centurione, mercante genovese, e prima delle nozze, mai celebrate, si lascia sedurre dal bell’ufficiale Astor Della Volta che rifiuta, in seguito, di sposarla per imbarcarsi sulla galea capitanata da Guglielmo il Malo. Prima di partire Astor attira Giannetta in un tranello e, insieme a Primo Spinola, vice-comandante e l'ufficiale Lanfranco Piccamiglio la stuprano. I tre verranno trovati assassinati e privi del loro cuore. Il titolo del libro I senza cuore, è quindi una forma di ambiguità assai produttiva, riferendosi alla crudeltà umana e, allo stesso tempo, alle tre colpevoli-vittime. Del resto, l'avventura sui mari di Guglielmo il Malo è costellata di morti. Partiti nel 1116 da Genova in 193, l'equipaggio si trova ridotto a 103.
Tra i memorabili eventi quello dell'incontro con il vascello pirata vichingo e la conversione del mastro d'ascia Giuseppe Bruna, che disgustato dalle violenze e dagli omicidi avvenuti sulla galea, col nome di Yusuf Abdel Rahim diventa un pacifico sufi islamico.
In conclusione il poeta ci offre un giallo storico miticamente illuminato dal vaso di smeraldo (solo alla fine si suppone che fosse il contenitore dell'agnello consumato all'ultima cena da Giuda Iscariota, in quanto moltiplica trenta volte i preziosi in esso collocati, allusione ai trenta denari ricevuti da Giuda per il suo tradimento).
I tre elementi in ER, fondamento dell'immaginario mitomodernista, “l'erotico” (le vicende di Giannetta e Ahys), “l'eroico” (l'incrollabile volontà di Guglielmo di scoprire il segreto della vita e del vaso di smeraldo), “l'eretico” (“Historia Vasis...”), qui risaltano per la straordinaria energia narrativa di Giuseppe Conte, il poeta in grado di tracciare un percorso narrativo inseparabile dai miraggi del sacro e della bellezza.

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EBREI RILUTTANTI
di Gabriele Scaramuzza


Il 20 maggio 2019 ha avuto luogo la presentazione di Ebrei riluttanti, con interventi di Enrico Arosio e di Marta Boneschi, oltre che dell’Autore; nello stesso giorno è apparso sul “Corriere” un bell’articolo in proposito di Paolo Mieli. Ben fatta mi sembra poi la presentazione di Giulio Busi, Un’autobiografia corale, su “Il Sole 24Ore” del 2 giugno 2019. A una certa età, come si dice, non si è propensi a spendere “quel che resta del giorno” senza un motivo attendibile. Nel mio caso c’è l’interesse per il libro, la stima per Sandro Gerbi, certo: per la sua grande capacità di lavoro culturale, per le competenze per me inarrivabili, per i suoi libri che ho letto - in modo particolare Tempi di malafede; ma anche per la curiosità di conoscere cose a me poco note, ma da me non così lontane. Indro Montanelli, ad es.: a lungo, in tempi incredibilmente lontani, ho conservato ritagli dei suoi articoli sul Corriere; Gerbi se ne è occupato non poco, a lui è dedicato anche l’ultimo capitolo di Ebrei riluttanti. Questo notevole giornalista è stato tra le mie attrazioni adolescenziali, presto lasciate cadere - cosa di cui beninteso ora non mi pento: per me i Giardini pubblici restano i Giardini pubblici; chiamarli Giardini Montanelli mi suona fuori luogo, di troppo. La figura di Montanelli conserva tratti ambigui ai miei occhi, malgrado certe recenti rivalutazioni della sua figura anche laddove non ce le si aspettava. Ma i motivi che mi hanno indotto a recarmi lunedì scorso alla Libreria Hoepli sono vari, e intrecciati. Tentare di enumerarli mi fornirà qualche traccia per questa mia segnalazione. Parto dal titolo: “Ebrei” evoca tante cose, a me lontane (non sono ebreo), ma anche a modo loro prossime, culturalmente e per vicende personali. Il termine rinvia oggi innanzitutto, è scontato ma non irrilevante, alla Shoah, cui ho dedicato non poche letture. Essa segna il culmine di un destino che da sempre ha accompagnato la storia di un popolo; ma anche il culmine di possibilità distruttive che appartengono da sempre al genere umano in quanto tale. Con entrambe le cose dovrebbero tutti fare i conti. Ebrei, inoltre, sono scrittori, artisti, filosofi che mi hanno appassionato: Franz Kafka in primis, Vasilij Grossman, ora Imre Kertész. Sono inoltre ebrei pittori a me consoni quali Modigliani, Chagall, Soutine, Rothko; musicisti quali Mendelssohn, Mahler e Schönberg, per non dire di tanti eccelsi interpreti della musica. Non a caso mi ha subito coinvolto nel testo di Gerbi il passo in cui si accenna a Un sopravvissuto di Varsavia; tanto più che proprio non credevo ci potesse essere ancora qualcuno, tra il pur colto pubblico presente lunedì, che non l’aveva ascoltato. Ho letto Ebrei riluttanti tutto d’un fiato: il ritmo narrativo tiene, le immagini vi fanno da utili e suggestivi complementi. Come di ogni storia ci si chiede “come va a finire”; e il fine qui è lieto, malgrado tutto. Il testo è inoltre ricco di temi, situazioni, ambienti, personaggi, coinvolgenti. Ci incontro nomi significativi, storicamente o anche solo soggettivamente: György Lukács (cui è dedicato un capitolo), ma anche Paolo Treves, ad es. Ci ritrovo luoghi celebri e termini sintomatici; situazioni storiche risapute, atmosfere lontane dalle mie, e in cui pur mi sono imbattuto. L’elenco sarebbe troppo lungo, non ne vale la pena; vi è comunque qualcosa che mi sono annotato, e cui voglio tornare. E qui passo a “riluttanti”, il secondo termine del titolo; prendendo le cose da lontano. Al mondo degli ebrei riluttanti ascrivo la maggioranza degli ebrei che ho conosciuto: ebrei che non hanno scelto di esserlo, né per nascita, né per libera e consapevole scelta da adulti; ma che le circostanze hanno costretto a considerarsi tali, e tanto più a mantenersi tali, sotto l’urto degli eventi attraversati. L’ambiente che incontro nel libro mi riempie di ammirazione e di stupore, tanto è radicalmente lontano da quello in cui sono vissuto. E questo non tanto perché non sono ebreo, quanto perché socialmente, economicamente, culturalmente, sul piano della mia personale e ristretta Lebenswelt direi, mi è estraneo. Ma qui dovrei dire: “mi è stato estraneo”, giacché i casi della vita, gli studi, la professione, gli incontri, l’estendersi degli interessi, mi hanno pur portato a fare i conti con quel mondo per me inarrivabile: sul piano culturale innanzitutto, ma anche in altri sensi: quello dell’economia e della finanza, per non dire della storia milanese, in cui mi sono imbattuto. Nel mondo ebraico che ho avuto l’occasione di conoscere prevale, ripeto, il tipo dell’“ebreo riluttante” cui Gerbi si riferisce. In questo contesto è significativo quanto Sandro Gerbi stesso nel corso del suo romanzo afferma (e vale a mio parere anche oltre i limiti della sua famiglia, cui propriamente si riferisce): nei più giovani “il filo della comune origine sta diventando sempre più esile: l’assimilazione incombe, ma nessuno ne fa una tragedia”. Che proprio nessuno ne faccia una tragedia non credo però: è vero solo per lo più, non del tutto: so di ebrei, anche italiani, che alla propria origine restano legati (anche al di là di ogni adesione religiosa, di articoli di fede, di precetti ebraici); sentono vivo “l’orgoglio dell’appartenenza” (così ho sentito dire), contrastano matrimoni misti, partecipano ai riti, sentono una comunità intorno a sé, oltre a conservare forti legami con Israele, anche al di là della solidarietà verso questo o quel governo. È più evidente che altrove, a quanto posso capire, nel mondo ebraico la scissione tra persone “di fede”, profondamente religiose (non necessariamente nel senso degli ebrei di Mea Shearim o di via Poerio), e persone che non lo sono affatto, e lo dichiarano, e ciononostante hanno un forte senso del proprio esser ebrei, partecipano ai riti, onorano le ricorrenze ebraiche, e contribuiscono a tener viva una tensione morale e civile (che nella mia ottica ha origini ebraico-cristiane) che si va facendo purtroppo rara. In cosa possa consistere la loro identità è un problema tuttora aperto, ai miei occhi - e non semplice, e non solo di oggi. Aggiungo un rapido cenno ad altri tipi di ebrei incontrati, a mio uso beninteso, senza alcuna pretesa di oggettività, tanto meno di completezza. Ebrei per caso (nati ebrei per caso: nessuno di noi d’altronde può scegliersi il mondo in cui nasce): staccati dalle origini, che hanno trovato accoglienza, lavoro, riconoscimenti in un mondo più ampio. Per molti di loro solo le persecuzioni, i pogrom, le leggi razziali, la shoah li hanno costretti a sapersi ebrei, loro malgrado. Erano assimilati, in tutto; e per lo più sono tornati a esserlo. Ebrei consapevoli di esserlo, ma per mentalità e formazione cosmopoliti, liberali, di destra o di sinistra, magari convertiti per forza di cose ad altre religioni (tipici i casi di Mahler o di Husserl). Ottimi professionisti, uomini di alta cultura, grandi artisti, abili commercianti, insostituibili economisti, banchieri… Pensavano di potersi salvare con la loro onestà e bravura, col loro impegno nel lavoro. Furono amaramente sconfessati dai fatti: nessuna assimilazione li ha salvati da persecuzioni in nome di ideologie razziste a sfondo biologico. Ho conosciuto ebrei conservatori, so che taluni furono fascisti (allo stesso in cui molti italiani lo furono); presumo che altri ebrei lo sarebbero stati, se fossero stati cittadini italiani (e dunque partecipi alla vita politica italiana), o se le leggi razziali e le persecuzioni nella RSI non li avessero costretti a rendersi conto della loro situazione. Tra questi la stragrande maggioranza non era credente né praticante. Di ebrei di autentica fede, praticanti, non ne ho incontrato nessuno che tale si fosse esplicitamente dichiarato. Quasi tutti gli ebrei a me noti hanno sposato non ebrei, contribuendo alla situazione rilevata da Gerbi, e da cui sono partito. Vale però quanto ho sopra aggiunto in proposito: ebrei che rifiutano ogni assimilazione ve ne sono, e che restano, credenti o meno, fedeli alle proprie origini. In un primo momento ho pensato mi fosse agevole scrivere questa segnalazione (sarebbe troppo chiamarla recensione). Non è stato così: la riflessione su Ebrei riluttanti ha riaperto in me un problema enorme, non scontato; e che mi portato a tornare su temi metafisico-religiosi, del resto mai sopiti in me. Problemi cui il mondo ebraico dà più evidenza, ma che a livelli e in contesti diversi si pongono, a quanto vedo, per altre religioni (e per agnostici come me): quella sorta di scollamento tra appartenenza religiosa o culturale, etica (vuoi ebraica, vuoi cristiana o altro), e fede; su di un piano diverso tra autentici credenti e praticanti, o indifferenti che tuttavia appartenenti a questa o quella religione si dichiarano. Da tenere presente sullo sfondo è che in nessun caso (come noto) si può dissolvere la realtà religiosa, di qualsiasi natura essa sia, in un mondo morale, etico-politico, sociale, storico; non si renderebbe ragione della peculiare, irriducibile, sostanza della religione. La prima cosa che, leggendo, mi è venuto da chiedermi è cosa resti dell’essere ebrei oggi: certo, il retaggio di un passato di eventi che suscitano tuttora sgomento e pongono interrogativi forti - per l’autore, per i tanti che a titoli diversi vi sono stati coinvolti, per tutti. Ma in positivo cosa può sopravvivere? una millenaria tradizione morale, culturale, religiosa, che ha segnato e tuttora segna in modo indelebile la nostra storia, certo; ma ci si può chiedere che farsene ora, cosa la realtà in cui viviamo ne sta facendo. Non trovo molto di questo nel testo di Gerbi, e tuttavia poche parole (relative al ritorno in aereo verso Tel Aviv dopo aver sorvolato il Monastero di Santa Caterina nel Sinai) hanno aperto uno spiraglio – beninteso solo in me, sicuramente andando oltre quanto Gerbi intende. Voglio riprendere qui quelle parole: “Finalmente, non più il gracchiare della propaganda, bensì il silenzio della devozione e un senso di pietas per i defunti di tutte le guerre”. Posso aver frainteso, certo; ma il sentir rivivere (oltre il mondo che possiamo simbolizzare nel termine “propaganda”) termini che un discutibile “laicismo” sembra dare per scomparsi mi ha piacevolmente sorpreso, oltre che ripropormi interrogativi - e cercare risposte. Interrogativi che si dovrebbero porre a qualsiasi essere si dica pensante.  

Sandro Gerbi
Ebrei riluttanti   
Ulrico Hoepli Ed. 2019
Pagg. 158, € 16.90 

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Libri
Marie e il Signor Mahler
di Gabriele Scaramuzza


Marie dunque, e con lei Gustav Mahler: il titolo segnala subito le polarità entro cui si muove il romanzo. Racconti che si intrecciano, si rispondono pur da rive lontane. Universi non così inconciliabili tuttavia, contrariamente a quanto a tutta prima si è portati a credere.    
Il mondo del Maso Egger, a Toblach/Dobbiaco (Maso Trenker in realtà, ancora oggi visitabile: io stesso, con emozione, ci sono andato): lì, e solo lì, tutto accade, ma anche lì convergono le vicende, lontane e prossime, che fanno il romanzo. In parte inventate, in parte accadute (il lavoro di documentazione compiuto da Capriolo si avverte chiaramente): fantasia e realtà, storia inventata e riferimenti precisi alle vicende mahleriane si travasano l’una nell’altra, si influenzano vicendevolmente; e questo è uno dei motivi che danno vita al testo. Marie, adolescente, non priva tuttavia di una sua pur aurorale maturità, abita un ambiente contadino, chiuso, tradizionalista, cui fa da cornice il paesaggio incantevole della Val Pusteria, denso di suggestioni e di promesse, tra boschi e monti. A storie locali e personali, ma non così staccata da esse, fa da contrappunto la più ampia storia della famiglia Mahler: i rapporti personali tra Alma e Gustav, i toni mutevoli della loro convivenza; la storia della grande musica, e più in generale della cultura europea, di cui Mahler è protagonista indiscusso - tra Vienna, la Germania e New York; la Moravia resta tuttavia uno sfondo imprescindibile: Mahler è nato a Kalištĕ, ma è vissuto a Iglau/Iihlava, si sa. Spiragli della storia politica e sociale dell’epoca fanno capolino già nei rapporti tra la famiglia sudtirolese ospitante e la famiglia altolocata dei Mahler; ma scivolano come su uno sfondo velato, solo sottinteso. Assume rilievo invece l’esser ebreo di Mahler, cui dà spicco l’endemico antisemitismo incarnato da Andreas, cugino di Marie.
Gli eventi narrati stanno tra il 1908 e il 1911. Mahler ha lasciato l’Opera di Vienna per dirigere al Metropolitan, ma ogni estate, fino al 1910, torna a Toblach, a comporre. Da lì l’ultima estate si sposta a Monaco per la prima, grandiosa, esecuzione dell’Ottava Sinfonia; ci sono ogni anno i ritorni a New York - che infine lascia, per andare a morire a Vienna. È da questa fine che prede l’avvio il romanzo (Prologo, 1911 si intitola il primo capitolo), che poi torna al 1908, retrospettivamente; e di lì prosegue in modo lineare, malgrado l’irrompere di un passato che ne sconnette i tempi.   
Teatro privilegiato degli eventi è, nelle vicinanze del Maso Egger, la “casetta nel bosco”: luogo di giochi infantili di Marie, che Mahler elegge a proprio rifugio per comporre. Lì nasce lo struggente Canto della terra, in cui trova espressione (qui e in seguito, di Mahler, cito solo le parole che Capriolo gli mette in bocca) “la malinconia dell’autunno, la protesta amara e sferzante contro la vanità delle cose, la grande, profonda nostalgia che la bellezza suscita nei nostri cuori…”. Ma in quella casetta vengono composti anche la Nona Sinfonia e i primi abbozzi della Decima, che resterà come noto incompiuta. Aggiungo che tra le mie prime e più forti impressioni non solo mahleriane, ma musicali in genere, annovero Das Lied von der Erde; nel romanzo non mancano poi cenni ai Lieder eines fahrenden Gesellen: tra i miei primi affetti c’è stato Ging heut morgen übers Feld, il cui motivo è ripreso nella Prima Sinfonia.   
Nel Maso ritornano anche le musiche più amate, da Schubert (che anche Marie approssimativamente suona su una cetra) a Wagner; Mahler privilegia qui Tristan und Isolde - di cui viene citato non solo il celebre preludio, ma anche “la mesta melodia del pastore nel terzo atto”. A un certo punto Mahler dichiara “… tutte le opere che ho composto sono mosaici di citazioni più o meno trasfigurate, vasti, intricati cimiteri lungo i cui sentieri tortuosi si profilano le lapidi dei miei predecessori”. Tra gli autori che cita, accanto a musicisti rilevanti per lui quali Schubert o Wagner, c’è anche Verdi: nel suo Mahler Quirino Principe ricorda l’amore di Mahler per Falstaff; e una sua conferenza di anni fa (nel centenario della morte di Verdi, presumo) a Villa Simonetta, che mi è rimasta impressa, ha avuto per oggetto i luoghi mahleriani in cui Verdi riecheggia: così ad es. in un passo del primo movimento della Quinta Sinfonia è riconoscibile il motivo di “Così alla misera” dal secondo atto della Traviata.
Nelle composizioni di Mahler tuttavia non è presente solo la grande musica del passato. Vi troviamo anche, straniati ma vivi, reperti di musiche popolari. Nessun musicista più di lui - nella mia ottica - ha saputo restituire il senso di queste musiche tanto a torto disprezzate. Il suo interesse non è quello di un etnomusicologo; bensì quello di un musicista che nella sua musica vuole esprimere il significato vissuto della musica (il senso-per-noi, direi), di ogni musica che lo ha toccato. E tra queste ci sono musiche suonate da bande e da organetti di Barberia, canti, ritmi di danza colti nei cortili e sui prati; ma come distorti, straniati appunto: “Che c’è di più demoniaco di quel Ländler, con la sua reductio ad absurdum di ogni innocente spontaneità?”, si chiede a proposito della sua Nona Sinfonia. Subito dopo afferma che le sue partiture “pur nel loro ossequio non soltanto apparente alla tradizione” hanno qualcosa di “eternamente inconcluso, problematico, vorrei dire di tragico, se tragedia significa attraversare i conflitti senza poter mai ricondurli a una piena conciliazione”. La citazione in Mahler è deformazione, intesa tuttavia a dar risalto alla intensa espressività che quanto è citato nasconde in sé. Riandando alla sua Jihlava - “una città di guarnigione, attraversata dai suoni delle fanfare e delle marce militari” - racconta della banda che, pur nella sua modestia provinciale, gli schiuse “l’universo dei suoni. Quando sfilava per le vie, l’eco delle sue marce fragorose mi attirava in strada come il più irresistibile degli incantesimi”. E ancora: “quando evoca la banda, la mia musica assume sempre un tono di spettrale ironia”; le musiche da banda, dice, gli suscitano una “nostalgia divorante”. “Come se ogni marcia, anche la più allegra, fosse una marcia funebre più o meno abilmente travestita; perché la fanfara per me significa infanzia, e l’infanzia significa morte”.  
In queste musiche trova voce “l’oscuro groviglio delle radici”, che pervade tutta la vita: possono essere (per Marie non meno che per il musicista) l’odore della terra e del fieno, lo scroscio dell’acqua, i profili delle montagne, le voci degli animali; ma anche le musiche popolari che hanno animato l’infanzia. È illusorio poter sfuggire a quell’“oscuro groviglio”; a Marie Mahler confessa di esser stato perseguitato “per tutta la vita dalla fanfara militare di Iglau. Non c’è modo di sfuggire alle proprie origini”, anche per chi (come lui) si è sempre vissuto come “uomo che non ha patria”.          
Al centro di Marie e il Signor Mahler c’è il musicista, certo; ma forse è meglio dire: l’ininterrotto dialogo con lui, condotto da Marie. Non è possibile fare di Marie una mera controfigura dell’autrice, non poche cose le separano: l’ambiente e le storie personali, la visione del mondo - così almeno viene spontaneo intuire. Eppure non è difficile supporre che l’amore di Marie verso Mahler come musica e come persona - la capacità di penetrazione, di empatia, di riconoscimento, e almeno in parte gli interrogativi, le perplessità, le fertili esitazioni - appartengano anche a Paola Capriolo; e ai suoi lettori sperabilmente. Che anzi l’autrice trasponga in Marie il proprio desiderio, irrealizzabile, di un confidente rapporto con Mahler, fatto di comuni ascolti, di scambi di parole, quali hanno luogo nella casetta nel bosco in cui Marie appunto è accolta, attesa. Le pagine del romanzo - nelle scelte lessicali, nei modi della scrittura, nella Stimmung che le pervade - sono venate di nostalgia (“l’ambiguo piacere della nostalgia”, troviamo scritto). La stessa nostalgia, voglio immaginare, il cocente rimpianto (ma perché non aggiungere anche malinconia, istinto di tenerezza, sublimata rassegnazione), che la musica di Mahler risveglia in chi tra gli ascoltatori vi si immedesimi.    
È Mahler, lo confesso, ad avermi spinto a leggere Marie e il Signor Mahler: l’amore per Mahler, che resta tra le poche costanti della mia vita e, lo so, mi accompagnerà per il mio ridotto sempre. Per restare entro i confini segnati da Quirino Principe, certamente apprezzo Richard Strauss, ma è in Mahler che più pienamente mi riconosco. Tra l’altro in lui scorgo analogie con Dostoevskij, che Mahler amava. Prendere in mano questo romanzo è stato per me un modo di riprendere Mahler, tanta sua musica che mi ha segnato. E insieme com’è ovvio anche gli scritti su di lui che ho letto.  
Quanto all’autrice, l’ho incontrata una sola volta: non ricordo l’anno, ma è stato in occasione della sua laurea. La conoscevo di nome ed ero incuriosito della sua presentazione (non ricordo però neppure l’argomento della tesi). Mi è rimasto, genericamente, un tono, il modo del suo esser presente; ma l’impressione più netta mi si collega alla parola attenzione (non trovo un termine più proprio): percepiva in modo più intenso del solito l’attenzione rivolta a lei, la ricambiava, finché la sentiva viva; altrettanto spiccatamente avvertiva il suo venir meno – segno per me allora di sottile sensibilità. Ma tutto questo dovrebbe esser detto meglio, lo so.
Degli scritti di Paola Capriolo, infine, ho letto poco, e in anni lontani: fanno parte dei troppi rimorsi di cui è lastricato il mondo, ampio, del mio non-letto. Scorrendo la sua nutrita bibliografia scorgo tuttavia testi che mi catturano, che avrei dovuto conoscere; col mondo di questa narratrice devono esistere insospettate Wahlverwandtschaften, se un suo scritto verte su Maria Callas, e un libro ha per titolo Vissi d’amore; non li ho mai visti, ma mi propongo di leggerli presto: risvegliano vecchi amori (verso Maria Callas conservo una riconoscenza infinita), e la mia pervicace “loggionite”. Mi attraggono poi le sue traduzioni di Metamorfosi, Il Castello, Il Processo: Kafka è un altro degli autori in cui più mi riconosco. Leggerò questi libri, sempre che me ne resti il tempo.

Paola Capriolo
Marie e il signor Mahler
Bompiani 2019
Pagg. 239, € 17,00 
  
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43 Poesie per Genova
Una mappa in versi
di Mila Fiorentini

Un’idea apprezzabile, un libro dedicato a Genova all’indomani della tragedia della caduta del Ponte Morandi, che si è tradotta in un piccolo gioiello, una sorpresa per la cura dell’edizione e l’idea originale, concorso di collaborazione per la città tra il Comitato di Genova della Società Dante Alighieri - che con Genova ha un forte legame - e l’editore Oltre-Gammarò di Sestri Levante. Il volume, a cura di Francesco De Nicola, che ha svolto un lavoro egregio di rifinitura e di utile introduzione alle diverse sezioni-quartieri della città, raccoglie 43 poesie di poeti del Novecento che hanno scritto su Genova, nessuno per questa occasione, neppure i viventi. L’aspetto vincente è che non si tratta di un libro commemorativo dedicato alla tragedia ma alla bellezza di Genova, alla sua contraddittorietà, una guida emozionale lunga oltre un secolo attraverso i poeti nativi o che vi hanno soggiornato, un viaggio altresì nella poesia del Novecento, battendo un sentiero insolito di ricerca raffinata e insolita rispetto ai grandi nomi - che non mancano - noti ai più. Completano il libro le eleganti fotografie in bianco e nero che ci accompagnano tra vie e viuzze, piazze e quartieri della città. Molto ben curate le introduzioni ai diversi capitoli, con note estremamente sintetiche che riescono a introdurci nella città, nei poeti che leggeremo e che spesso con una frase colgono il senso di una poesia. Guida nella guida senza pedanteria. Il volumetto ha anche un’istanza sociale nella scelta di versare, al netto delle spese di produzione, il ricavato sul conto corrente aperto del Comune e dedicato all’emergenza seguita al crollo, che ha fatto il giro del mondo.

Alfred Noack
Genova, strada per Carignano

Il cammino del lettore è scandito dai vari quartieri, partendo dalla Val Polcevera, legata al ponte che passava sul fiume omonimo, al lungomare, ad esempio, per continuare nel centro della città e sulle alture, al Castelletto, quindi alla stazione di Porta Principe e via dicendo.
Dopo la breve introduzione apre la rassegna Giorgio Caproni che la chiude altresì con Litania per una “Genova sempre nuova/Vita che si ritrova”, lunga composizione in distici del poeta livornese di nascita, trasferitosi nel capoluogo ligure a dieci anni con la famiglia. Anche una volta trasferito a Roma, Genova resterà nel suo cuore, e si rinnova l’emozione ogni volta che torna a trovare la madre tanto che afferma di voler salire in Paradiso con l’ascensore del Castelletto. Accanto a lui altri poeti noti come Camillo Sbarbaro, Dino Campana, Eugenio Montale, il genovese Edoardo Sanguineti o il cantautore Bruno Lauzi e autori importanti ma più legati ad un mondo di ricerca quali Enrico Morovich, fiumano vissuto a Genova gli ultimi decenni della sua vita come impiegato al porto ed apprezzato tra i migliori scrittori surrealisti italiani. E così è per Marc Porcu, nato a Tunisi da famiglia sarda, poeta e traduttore molto apprezzato, morto nel 2017, molto legato a Genova dove ha partecipato diverse volte al noto Festival della poesia, a partire dal 1988. Genova è infatti una città cara ai poeti e ai cantautori che sono andati spesso a braccetto come nella poesia di questo autore Genovantotto: “Benedetta sia Genova/dove anche i ciechi vedono/il mare/nel dolce rumore delle tue voci. /Sulle strade del mondo/ pure io/ spesso ho incontrato “il male di vivere”/ pure io/ ho bruciato per amore/ e in tasca ho  un “osso di seppia”/in memoria delle cinque terre./ Benedetta sia Genova/per questa sera/ dove l’aria è fatta di parole e di musica.”
Nervi. Collegio Emiliani

Dal libro in effetti Genova è soprattutto mare, parole e musica, i suoi vicoli stretti, le sue contraddizioni, lontana dalla bellezza classica, è una città spesso ferita dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione, dal traffico e dall’inquinamento, dal suo fascino nascosto che si mescola al dolore, all’odore di frittura. Il canto in versi o sulle note a Genova viene dal mare e questo libro è anche una testimonianza controcorrente dell’attualità della poesia che dimostra tutta la sua modernità per l’aspetto di sintesi, di visualizzazione in una società dell’immagine e del video, in grado di trascendere le mode e di invecchiare più lentamente della letteratura di prosa.
Non resta che andare o tornare a Genova e con il libro in mano seguirne la mappa.

Francesco Ciappei
Veduta da Castelletto

43 Poesie per Genova
a cura di Francesco De Nicola

Oltre- Gammarò Ed. 2018 € 12,00

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Leone l’Africano
di Ilaria Guidantoni
La copertina del libro

In questa immaginaria autobiografia, viene narrata l'avventurosa e singolare esistenza di Hassan al-Wazzan, dapprima viaggiatore e ambasciatore di sovrani maghrebini, poi, dopo essere stato catturato da pirati siciliani e donato al pontefice rinascimentale Leone X, geografo sotto il nome di Leone l'Africano. Circonciso e battezzato, la sua esistenza, disegna la storia del Mediterraneo costellata di popoli in conflitto e dialogo ad un tempo, contaminata da usi diversi, alla ricerca di una pace difficile a trovare. D’altronde fino a quasi tutto l’Ottocento le scorribande dei pirati non si sono fermate, facendo razzie su entrambe le rive e utilizzando la conversione come leva sulla psicologia del prigioniero, il ricatto amoroso nel caso delle donne. Il viaggio scandisce, con le sue tappe, le sezioni del libro: Granada in Andalusia, terra di confine e di scontro tra l’Europa e il mondo arabo-musulmano; Fès in Marocco, fuggendo Grenada riconquistata, dove si avverte la presenza dei nomadi Berberi e dei Romani, prima dell’arabizzazione; quindi il Cairo che già ha il sapore d’Oriente; fino a Roma, dove il cardinale Pompeo Colonna trama contro Clemente VII e poteri diversi si confrontano, come quello non ortodosso di Giovanni dalle Bande Nere.
Leone l’Africano è a Roma “il figlio dell’Africano” appunto e in Africa “il figlio del Roumi”, ovvero del cristiano della chiesa romana, passando attraverso quella terra di mezzo che è Cartagine, fino ai bianchi Minareti di Gammarth, a Nord di Tunisi. Una geografia storica suggestiva quella che emerge da Amin Maalouf, grande scrittore libanese, classe 1949, cristiano maronita, residente a Parigi dal 1976, di espressione francese, che lavora spesso sul dialogo tra culture diverse. Al di là della finzione emerge un grande affresco storico, ricco di documentazione e di informazioni, ma soprattutto dello spirito della civiltà mediterranea e della sua ricchezza di luoghi diversi; oltre che un mosaico di personaggi ben disegnati sotto il profilo psicologico che fa di Maalouf un vero narratore e romanziere, oltre al suo impegno di studioso e saggista. Il protagonista che emerge è una figura complessa che porta in sé ed accoglie la differenza come ricchezza, fil rouge della riflessione di questo autore, in altri romanzi come Gli scali del Levante o Il periplo di Baldassarre. Non si avverte in leone l’Africano l’astio, ma l’opportunità del rapimento del quale è stato oggetto e l’accento più che sull’essere uno sradicato è posto sulla capacità di riuscire ad essere un cittadino del mondo mediterraneo. Questa varietà si annuncia nella prima pagina del libro, una sorta di prologo poetico - d’altronde la scrittura di Maalouf è di grande eleganza e al contempo di estrema semplicità e scorrevolezza - nel quale il protagonista si presenta “Io, Hassan figlio di Mohamed…, io, Giovanni Leone dei Medici, circonciso dalla mano di un barbiere e battezzato dalla mano di un Papa, mi si nomina oggi l’Africano, ma non sono d’Africa, né d’Europa, né d’Arabia.” E continua dicendo che lo si ricorda come cittadino di varie città sebbene sia figlio della strada, della carovana e la sua vita sia una inaspettata traversata. Certamente il tema del nomadismo come apertura è molto forte e in un passaggio del libro si dice che da lontano una carovana è un corteo ma da vicino un villaggio, nel senso di una comunità, dove le differenze, lontano dai luoghi di origine, in un territorio che è di tutti e di nessuno pieno di incognite, sono azzerate. In tal senso non c’è per Maalouf una terra promessa intesa come stato da occupare e nel quale radicarsi ma un paese nel quale si è a proprio agio con se stessi. La patria è nel senso arabo, un patrimonio immateriale, inciso nel dna e trasmesso dagli affetti e dai ricordi familiari, prima e più che un luogo. Così Hassan alias Leone dichiara che dalla sua bocca “sentirai l’arabo, il turco, il castigliano, il berbero, l’ebraico, il latino e l’italiano volgare, perché tutte le lingue, tutte le preghiere mi appartengono. Ma io non appartengo a nessuna di esse. Io non sono che di Dio e delle terra…”.
Un libro che è ad un tempo l’occasione per una ricognizione storico-culturale e una storia di grande attualità.
La storia infatti, è noto, si ripete in un dialogo alternato di sopraffazioni con alcune variabili che sono sempre le stesse, sia i governanti conquistatori o dittatori, come la paura della cultura che rende consapevoli e liberi, come il divieto del sesso e dei piaceri che rendono meno vigili, come Maalouf racconta parlando di Grenada tra il 1490 e il 1491 dell’era cristiana. La stessa Reconquista cristiana dalla quale nascerà poi la cosiddetta Santa Inquisizione si avvale delle stesse armi e stratagemmi dell’arabizzazione, imponendo di fatto alle persone la sottomissione o l’esilio.
Se, come si racconta nel libro, a Costantinopoli Santa Sofia fu trasformata in moschea da Maometto II, ad Algeri i francesi distrussero molte moschee e poi una volta cacciati videro le loro chiese trasformate in moschee.
Le vicende di Leone l'Africano ci guidano di città in città attraverso gli aromi intensi e i colori abbaglianti dell'Africa, con i suoi mercati policromi, le corti variopinte e i giardini di sogno, poi a Roma nei suntuosi palazzi del Vaticano, in piazza San Pietro brulicante di folla, dentro la Città Eterna abbandonata ai lanzichenecchi nel noto sacco di Roma nel 1527.
Nello stesso modo quasi tutte le civiltà giunte al loro apogeo cominciano un lento ed inesorabile declino. Così fu per Atene quando cominciò la guerra con Sparta, così Roma distrusse Cartagine, una grande civiltà, e fu sopraffatta da popoli rozzi, con un’umiliazione ancora più grande di quella che aveva inferto. È così che Leone l’Africano quando arriva al Cairo trova una città che da secoli era “la prestigiosa capitale di un impero, la sede di un califfato. Quando l’ho lasciata non era più di un capoluogo di provincia. Mai, senza dubbio, ritroverà la gloria passata”. E così è stato.

Amin Maalouf
Leone l'Africano
Ed. Bompiani, Pagg. 360  


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FESTA AL TRULLO
di Mila Fiorentini
 
La copertina del libro
Modernità, ossessionata dai click. È il mondo di Internet anzi dei social, un fenomeno devastante che decreta il successo a seconda del pubblico che si riesce ad intercettare. La priotià sembra essere quella dei fowller, dei seguaci. Chi non appare e non è riconoscibile, non esiste. Una legge spietata del mercato che al mercato riduce il successo e, soprattutto, il valore. Le persone non hanno più una loro consistenza se non quella determinata dal pubblico che riescono a raggiungere. Più ‘adepti’ si hanno più si ha un potere. Festa del trullo, il primo romanzo di Chicca Maralfa, che ci accompagna in Puglia in compagnia della protagonista Chiara Laera, famosa influencer di moda, che sta preparando una festa per il lancio del marchio ciceri&tria, ispirato ad un piatto tipico salentino, un simbolo, di Vanni Loperfido, stilista emergente anch’esso pugliese, emigrato al nord in cerca di fortuna, motivo per cui Vanni non è visto di buon occhio dai suoi compaesani, è quasi un ossimoro fra tradizione, radici locali, identità territoriale - l’unica rimasta - e globalizzazione. I sapori e i ricordi locali fanno da contraltare alla globalizzazione omologante, ad una vita nella quale si è in contatto senza riuscire a comunicare. Dopo aver acquistato un trullo e il terreno che lo circonda e averlo ristrutturato, grazie a un architetto milanese e un geometra del posto, Chiara chiama il posto C - Trullo e la festa avrà luogo proprio qui, nella sua proprietà in Valle d’ tria. Per avere maggior risalto mediatico decide di affidarsi ai social network 
creando un set felliniano 2.0, grazie soprattutto alla presenza di alcuni personaggi locali: troviamo, ad esempio, Elisabetta a pulire le cicorielle e Franchino lo spaccapietre dei trulli. La festa sembra andare come tutti avevano previsto, ma c’è chi - radicato nelle vecchie tradizioni - non accetta il cambiamento, tanto da reagire con gesti estremi, provocando un tragico epilogo. Il romanzo è l’unione tra tradizione e modernità, raccontata in modo frizzante e divertente, una caratteristica che rende le pagine del libro scorrevoli e piacevoli, senza però nascondere una chiara critica del recente fenomeno degli influencer che sta prendendo sempre più piede nella nostra società. Ed è proprio grazie alle descrizioni dettagliate di questi luoghi e personaggi del sud, che Chicca Maralfa riesce a immergere e a far vivere pienamente al lettore le vicende raccontate e ad allontanarlo un po’ dai social per riportarlo verso la concretezza di un libro e della lettura. Il testo che ha un passo veloce, una scrittura piacevole e un po’ ammiccante, riunisce tutti gli ingredienti di questa società dove il marketing impera in questo caso con il mito del Salento e la ricetta di cucina alla fine del racconto, come il tocco noir, confermano quello che è la società contemporanea.

Chicca Malfa
Festa al trullo
Les Flâneurs, 2018
Pagg. 190 € 14
  
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Poesia
Perché mi hai abbandonato
di Pierfranco Bruni 



Tutto visse
ai piedi della Croce
il Venerdì della Passione.
Nel giorno del canto
delle Palme
Cristo pregò per i popoli
della Terra Promessa.
Fu vana la parola
e si udì una sola eco
"Perché mi hai abbandonato"?
La Colomba del settimo giorno
prima della Pasqua
volò nei deserti e incontrò
la Rivelazione.
Maria si disperò
tra le spine e raccolse
il suo pianto
tra le mani di sabbia.
Fu l'infinito
o fu soltanto l'incipit!

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Libri
Sabun il romanzo di Alae Al Said   
di Mila Fiorentini


Tenerezza e crudeltà, un ossimoro che disegna i confini del primo romanzo di Alae Al Said, nata a Roma nei 1991, da genitori palestinesi, residente a Milano dove studia Scienze politiche e Relazioni internazionali, che rivela una narratrice appassionata e matura. Nel libro la storia di una famiglia attraverso i vari punti di vista dei personaggi che sono le voci dei singoli capitoli e soprattutto attraverso gli occhi e il cuore della protagonista, Asia. Un romanzo sugli affetti e la centralità della famiglia e dell’amore nella vita di ognuno, dove la Palestina resta un’esperienza impressa nella memoria atavica di tutti i palestinesi come un dolore e un attaccamento profondo. Senza perdere mai la vena narrativa, scorrono prima sullo sfondo, poi nel cuore della vicenda, le diverse Intifada ed emerge tutta la crudeltà della guerra e del suo carico di odio che trasforma, anche i cuori più teneri. La guerra, lungi dall’essere igiene del mondo, si manifesta sempre come un mostro che ci deforma l’animo nostro malgrado. La critica ha rilevato in questo romanzo, «come nelle opere di Susan Abulhawa, la vita quotidiana dei palestinesi, costretti a vivere sotto la crudele occupazione israeliana»: il ritmo è quello universale dell’uomo con la vit ache scorre tra lavoro, amori tra giovani, difficoltà economiche, e in questo angolo della terra l’emigrazione verso l'occidente alla ricerca di progetti di vita degni di questo nome, oltre i conflitti generazionali. In un passaggio del libro si dice che l’Italia è per i palestinesi quello che l’America è o è stata per gli italiani. Il romanzo intreccia il profilo intimo della protagonista con un disegno attento della sua psicologia di bambina, ragazza e poi donna matura all’andamento corale della vicenda nel suo complesso. La scrittrice in modo partecipativo ed emozionale ci restituisce un affresco della situazione di soprusi patita dai palestinesi a causa dell’occupazione militare israeliana. Concordo a tal proposito con Diego Siragusa, che firma la prefazione, e che scrive che «questa prima opera di Alae Al Said ha il merito di farci partecipare alle vicissitudini reali dei suoi protagonisti e di accompagnarci alla comprensione storica e politica della tragedia di un intero popolo che non intravede ancora una soluzione», diversamente da molti libri che lasciano poco spazio alla coscienza del lettore. Il libro inizia con l’infanzia della protagonista, difficile, umile, ma gioiosa grazie agli affetti e ai giochi con uno dei fratelli. La semplicità e la fantasia dei bambini, la loro irrinunciabile voglia di sognare si concretizza in un piccolo giocattolo costruito con materiali di recupero (in copertina) che viene rievocato con nostalgia e tenerezza nell’ultima pagina del libro. Lascio i particolari di questo capitolo, come la vicenda complessa e i singoli personaggi ai lettori, perché il piacere della lettura è anche nella scoperta di un’avventura molto articolata che appassiona. Direi che il libro mostra il valore profondo dell’infanzia, il suo ruolo determinante nel costruire le nostre radici e il punto di riferimento al quale appoggiarci o tornare durante la vita nei momenti più bui. I primi capitoli sono di grande delicatezza e danno poi il titolo al libro, Saboun, sapone in arabo perché il padre della protagonista ha un laboratorio artigianale di saponi. Questo mondo delicato, di fatica e amore, di regole condivise, di grande rispetto e dialogo tra genitori e figli, pur nel rigore di una visione tradizionale della vita. Progressivamente quel piccolo mondo antico della città di Nablus viene inquinato.  Asia non sa che il 1987 è l'anno in cui la sua vita cambierà. Prima di quell'anno, la sua amicizia con Leila era splendida, il saponificio del padre portava avanti la famiglia e i giorni scorrevano sereni, nonostante l'occupazione. Ma a causa di un segreto tra le due amiche, a causa della loro  incoscienza, della loro innocenza, faranno un errore. Questo le porterà a vivere un dramma, che cambierà tutto. Nel racconto della guerra e delle guerre ho ritrovato tanti libri della letteratura contemporanea mediorientale che non possono prescindere da questa dimensione qualsiasi sia l’argomento del libro, la ragione per la quale l’autore scrive e comunque posso affermare che per ogni uomo e donna del Medioriente di oggi il conflitto armato è al centro della propria esistenza. L’autrice è dotata di una scrittura veloce, ben fruibile eppure molto densa che raccoglie una miriade di informazioni e di particolari fino all’ultima pagina. Un libro dove non c’è nulla di superfluo.

Alae al-Said
Sabun
Ed. Zambon

Pagg. 270 € 15

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DICHIARAZIONE DI POETICA
di Nicolino Longo
(In chiave scientemente patafisica)

Nicolino Longo

Con questo scritto ironico-teorico del poeta Nicolino Longo “Odissea” apre un confronto sul laboratorio poetico e le loro visioni di quanti al lavoro poetico hanno dedicato la loro esistenza creativa.
                                                                                                                          
Esistono varie poetiche, così come pure vari metodi per soppesarle. Per me, in quanto a preferenza e valutazione (checché ne dicano i letterari, ed enechetici, “patres patrati” oggi imperanti, alla brava, in Italia), la vera poesia è soltanto quella che mira direttamente al “nocciolo” delle cose, e che non si perde, quindi, mai in truismi, datismi, locuzioni perifrastiche o tautologiche, né tanto meno in aberranti e abominevoli coniazioni di alessandrinismi, o di trash contemporaneo. Essa dev’essere inventività, peregrinità, musicalità  e sapienzialità dai connotati filosoficamente argomentativi, didascalici o surrealisti, e risolversi, preferibilmente, in pochi, agili e scattanti versi per ogni testo, nonché avere (o, quantomeno, tendere ad avere), a proprio registro sentenziale-orfico-contenutistico, la dicotomica, precipua prerogativa di “commuovere” o “stupire”, in modo da porgere sempre il fianco al “pectus” o alla “cogitatio” e, contestualmente, ben prestarsi (anche se la miglior poesia, a volte, è proprio quella che impone, mediante l’allettante e allattante disambiguazione, la rilettura) all’ “acamatica” assimilazione o introiezione mnesico-matetica (e mai mnemotecnica). Solo i testi che sortiscono (presso il fruitore-lettore/ascoltatore) uno di questi effetti (o, ancor meglio, entrambi, medesimamente) possono, a mio avviso, assurgere, “in toto”, a vera e propria dignità poetica, e a conglobazione di un’ “opera aperta”. E a ciò si può addivenire -come ampiamente testimoniato da tanta poesia antica, moderna e contemporanea- sia attraverso la singolarità e profondità del “portato lirico”, che a mezzo la perspicace e dirompente valenza artistica dell’epigramma: specie quando questo (che, qual forma satirica, “castigat mores ridendo”) ha anche carattere ludico-lusorio o, più latamente, “vis poetica” sublimantesi in quella “comica”. Ogni raccolta di versi (dal momento che nessun “emittente”
-ossia, nessun poeta- potrà aggradare a un lettore per tutte le sue poesie, e che ogni lettore  dovrà almeno esserne attratto da una) deve porgersi, pena la sua non validità, quale un’edenica, iperuranica, catartica, feerica e proteiforme “areŏla”, in cui ogni componente  l’ “orizzonte d’attesa” (ossia, del pubblico) deve poter trovare, dunque, quando non possibile un “bouquet” (configurantesi nel “precipitato” d’una “ghirlanda poetica”), almeno un  solo “ánthos” (ossia, una sola “poíēsis”), la cui  sgargiante/olezzante “corolla” (ossia, portato poetico) ne titilli i propri “muscoli papillari” (ossia, dei recessi del cuore o intrapsichici). Infatti, ci si può invaghire, perdutamente, di un poeta anche quando questi è autore di soli pochi ma bene azzeccati versi (ed autorevoli contributi in tal senso molto spesso provengono -quali “tetragone” staffilate dialettiche o estrinsecazioni di lampi di genio- anche da poeti minori: ma non dozzinali). E, per converso, anche di poesie anepigrafi, purché configurantisi nella fattispecie di quelle “bene azzeccate”.

Nicolino Longo

Tuttavia, oggi, la nostra assai praticata e amatissima “versa oratio” può presentarsi anche quale “recta oratio” (più che sovente farraginosa o “camp”) messa in versi, o versi costruiti, astrusamente e pleonasticamente, a secco, senz’alcuna valenza semantica o logico-sintattica, con deliberata finalità che nessuno ne debba percepire la totale pochezza o cacografica nullità, spesso complici (a discapito dello sprovveduto lettore) persino, per non dire soprattutto, alcune grandi editrici. E tutto ciò avviene (fautori e veicolatori provetti, ovviamente, quegli ormai ubiquisti e, spesso,  grafo/logo/rroici “vati” o “idiot lettré”) sotto le flagiziose, mentite spoglie dei molteplici, evoluenti,  neosurrealismi e sperimentalismi avanguardistici, o idio/socio/letti, o di quei paralogismi già di per sé torrenziali e desamantizzanti sproloqui o scialacqui di parole, nonché spudorate e improvvide storture (o solecismi) grammatico-lessico-sintattiche, esotismi, geremiadi o eco/ego/cripto/lalie grafico-poetiche, sovente sconfinanti, o slatentizzantisi, in un intemperato, sciatto e istrionesco italianese o mal riveduto “paroliberismo” d’antan, o d’accatto, capace di far rècere (e recedere) persino chi anche da poco avesse assunto un’overdose di antiemetici. E, inoltre, sono proprio quei poeti, o maldestri linguai,  di siffatta risma che (a detrimento di quelli meritevoli) mietono, dappertutto, oltracotantemente, impunemente e impudentemente, allori, e fanno razzia di premi letterari, complice, ovviamente (oltre che l’ostentazione di acribia elocutoria in ordine alle loro apofantiche elucubrazioni tematiche e stilematiche),  certa  critica    (o criticume) letteraria, o intellighenzia, irreggimentata e fagocitata (in obbrobriosa succubanza) da quell’oggi imperante e imperversante economia di mercato: meccatronicamente e massmedialisticamente protesa, ormai, solo verso una “pantocratrice”  massimizzazione e malconcia, nonché deleteria, standardizzazione.

Salterio diurno del
XVII sec.

Subdolo andazzo, questo, che, in un futuro non molto remoto, dovrà pur essere “profligato” (come “casistica litterarum docet”) dalla “sentenza” dei posteri, che (scevra da ogni interesse di parte e, in assenza quindi d’ogni condizionamento “ex ante”) commuterà in “sintropia” l’attuale esiziale e abominanda “entropia letteraria”, fonte, per l’appunto, dell’anzidetta anetica ed efferata disparità di trattamento. Quanto  ai versi, essi devono tutti,  possibilmente -nell’ambito della loro giustezza e spessore morfosintattico, nonché metrica accentuativa-, dipanarsi (corroborandosene) in metafore, anfibologie, antitesi, calembours, apoftegmi, ossimori, sinestesie, antanàclasi, allitterazioni, o in allettevoli “hysteron proteron”, ecc., di “nobile e splendida fattura”, e non aver mai cadute di tono o di stile, di modo che tutti, nel “corpo” di uno stesso testo (anche se di lungo respiro), possano presentarsi “intelaiati”, para/ipo/tatticamente, con una stessa, identica potenza espressiva e stilistica (vedasi, ad esempio, “Il canto dell’odio” di Olindo Guerrini, alias Stecchetti, o “A livella” di Antonio De Curtis, alias Totò), o, tutt’al più, essere (a partire da quelli incipitari) ognuno il gradino che, in una sorta di “climax ascendente” (“lirico” o “epigrammatico” che sia), conduca al summum di un “distico” completivo, o epesegetico, ad effetto (o d’un epifonèma), la cui “deflagrazione orgasmica” in potenza e bellezza poetica, o “mozione -effettata- degli affetti” che dir si voglia, dev’esser tale da compensare, esaustivamente, e intrigantemente, ogni carenza artistico-contenutistica di tutti gli altri versi che, nella fattispecie, avrebbero solo funto da “piedistallo” ai principali (come, ad esempio, in molti dei sonetti scespiriani).
In sintesi, a me aggradano i libri intelligentemente e profondamente lirici, filosoficamente e perspicacemente surrealisti, ironicamente ed epigrammaticamente aforistici, nonché ossimorici (possibili solo, ovviamente,  a quegli uomini elitariamente e portentosamente “baciati”, o bis/“unti”, dalla  ninfa Egeria, nella loro ascesa in Parnaso, e non di certo, a quelli, invece, raccomandantisi a S. Giovanni Della Croce). Ciò, comunque, non presuppone od impone che io ripudi, a priori o onninamente, gli altri generi poetici: massime quando questi, come alluso in cappello, non pecchino di prosasticità o vezzo di “topoi”, e siano sorretti da quegli eufonici “tratti prosodici o soprasegmentali” che discernono sempre, senza aporia (e, quindi, apoditticamente), la vera poesia da quella “stichica”, “kitsch” o “cacofonica”, nonché dalla prosa (épatante o abborracciata che sia). Ovviamente, non sono solo e sempre le rimalmezzo o interne, o quelle baciate o alternate, incatenate o incrociate, o gli omeoteleuti, a far buona poesia: che, molto più spesso, invece, prorompe da quel versiliberismo, avente, a proprio assetto e sostegno metrico, solo -magari- ictus, paragrammi, assonanze e consonanze interne, o il silenzio, eloquente delle pause, imposto dalle cesure. La buona poesia, affinché sia tale in ogni sua sfaccettatura, deve, in ultima istanza (oltre che parlare, appunto, anche con gli spazi bianchi intraversi o interlineari), sempre proporsi (a scanso di eventuali oblatratori garrimenti, o “mitragliate” di acrimoniosi attacchi stroncatori, da parte di “zoili” in preda a “deliri erotomatici”) quale tessitura innovativa e originale, non già per “ciò” che dice, essendo stato già tutto detto in millenni di versificazione (“nullum est jam dictum, quod non dictum sit prius”), bensì per “come” lo dice, e suscitare sempre, in  chi la legge o ascolta (e, prim’ancora, in chi la scrive), come un senso di empatica ed estatica “parestesia” al cuore o in prossimità dell’erogena forchetta sternale, o conca di miele che dir si voglia, e, nel contempo, l’auto-obiurgazione di non esserne stato egli stesso autore (e, in chi la scrive, il sesquipedale, ovante e ineffabile gaudio di esserlo stato al posto di altri). Hoc erat in votis, ossia, questo è tutto quanto atteneva, “stricto sensu”, al mio estuosamente auspicabile “modus poetandi” (il “trobar ric”), ben lungi, è ovvio, dall’ampollosità da me scientemente, e marcatamente, profusa -in acerrima opposizione al succitato “trobar clus” e suoi affini- a impalcatura e imbastitura di tutta la presente “patafisica discettazione”, per la quale neanche impetro venia in quanto so per certo che nessun lettore, una volta addentratosi nei meandri della medesima, avrebbe poi la costanza o la negligenza di sfidare tanto “sadismo pseudo-letterario” da arrivare, masochisticamente, in “chiusa” a gratificarsene (della venia): effettualmente, per nessun componente l’orizzonte d’attesa non varrebbe il gioco la candela. 
                                                                                                            
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Il Racconto
LA MIGLIORIA
di Patrizia Moretti


Il bosco e la campagna su cui si esibivano a ornamento vigneti e colture realizzate dalla mano dell'uomo, si erano dipinti con i colori dell'autunno ormai inoltrato. Presto sarebbe arrivato l'inverno a cancellare tutto, ormai mancava poco. Poi di nuovo la primavera avrebbe messo fine alla finzione di morte apparente.

Questi i pensieri che attraversavano la mente dell'uomo, anche se esposti in maniera più semplice, perché lui era una persona dai concetti modesti e dalla parlata composta da frasi brevi: Poche parole d'italiano inserite in un contesto dialettale. Quel giorno Montano, l'avevano chiamato così in onore di non si sa chi, si sentiva un po' sottosopra. Si era alzato già con la sensazione di stranezza che gli partiva dalla punta dei piedi per giungere spavalda allo stomaco; infatti con il passare delle ore il malessere senza nome si era acuito. Era uscito di casa per cercare sollievo, e mentre percorreva la stradina sterrata che attraversava i campi, il malessere lo aveva spinto a soffermarsi su quel fazzoletto di terra che l'aveva visto bambino e poi adulto, e che ora raccoglieva le sue riflessioni.
Lui non aveva mai visitato altri luoghi, non ne aveva sentito la necessità. Neanche riusciva ad immaginare i paesaggi nascosti dietro alle montagne che si ergevano fiere in fondo alla valle. Sapeva che c'era un mare, che bagnava lunghe spiagge che d'estate si affollavano per diventare rumore. Sapeva che c'erano città grandi e piccole; aveva sentito parlare dai suoi compaesani del caos che vi regnava, ma non poteva immaginarlo. Per lui esisteva un solo modo per tirare avanti. Oltre al vigneto le arance e i limoni, c'erano le capre e il maiale, le zappe, le potature e il raccolto gettato nei grossi cesti da trasporto. C'erano le arnie che si era costruito e le sue amate api con cui produceva un miele prezioso. C era il vento che soffiava di notte tra i filari secchi e i rami dolenti a ricordargli che lui e tutta la sua famiglia erano in balia dei capricci della natura. Ciò che contava era soddisfare il bisogno del cibo, provvedere alla mera sopravvivenza, la cura della malattia quando si manifestava. Tutto il resto erano fatuità. Aveva sentito questa parola un giorno che si era intrattenuto un po' di più in paese, e l'aveva adattata a tutto ciò che non era essenziale. 
Da quel momento appena qualcosa gli sembrava discostarsi dalle sue abitudini: "sono solo fatuità" diceva compiaciuto.
Così negli anni aveva circoscritto la sua zona comfort obbligando anche i suoi cari, per paura? ignavia? indolenza? Ad adeguarvisi.



Fino ad ora; poiché in quel giorno l'uomo mentre metteva passo dopo passo, badando a coordinare bene i movimenti sentiva nascere in sé una sensazione indefinibile. Per quanto la sensazione gli fosse sconosciuta fu certo che non fosse fatuità. Quasi giunto in paese, si sentì sollevato. Avrebbe comprato le sue sigarette, la solita marca, ne avrebbe stretta una fra le dita, soffermandosi prima di accenderla, e tutto avrebbe preso il solito andamento.
Mentiva a sé stesso e in qualche modo ne era consapevole. Ma iniziava a esser stanco negli ultimi tempi faceva una certa fatica a muoversi, il respiro si faceva corto e le forze disertavano.
Alla sigaretta non avrebbe mai rinunciato, al piacere di stringere quel piccolo rotolo di carta nel palmo della mano, striato dalla sporcizia figlia della fatica, e a quei quattro passi in paese. 
Appena a casa si sarebbe ristorato abbandonandosi sull'unica poltrona presente, il simbolo della sua autorità. A nessuno era permesso di utilizzarla. Continuava intanto a rimuginare. Da un po' c'era un pensiero che lo assillava, qualcosa che non capiva. che riguardava le sue donne. Due creature dall'aria ingenua e fragile, che inaspettatamente l'avevano pugnalato alle spalle. Traditrici come la sigaretta che stava gustando. Moglie e figlia se n'era andate, l'avevano abbandonato senza preavviso, mentre la sigaretta gli aveva divorato i polmoni. Ora le due fedifraghe erano tornate, ricomparse un mattino dopo mesi di assenza, neanche una parola per scusarsi. Sua moglie e sua figlia, due estranee.
“Ma che si fa così? Prima te ne vai, dopo tutti gli anni passati assieme, senza dire una parola e senza lasciare una traccia. Poi tornate, e mi sfruculiate con sorrisi e moine. A me non mi si compra, se pensate che dimentichi non mi conoscete. Mi avete lasciato solo per mesi e ci ho fatto l'abitudine. Fingerò ancora di esserlo, nonostante la vostra presenza. Alla solitudine si fa il callo, alle false moine no, non ci voglio fare l'abitudine”.


Così aveva pensato Montano dal giorno che se le era ritrovate di nuovo in casa. Inoltre, sua moglie e sua figlia gli erano sembrate stranamente preoccupate e non ne aveva capito il motivo. Le domande a cui non sapeva rispondere non erano le benvenute. Ora si sentiva spossato, desiderò più che mai tornare a casa e buttarsi sul letto, stringersi nelle coperte e chiudere gli occhi per dare sollievo alle membra malandate.
Per rientrare prese il sentiero che solo lui conosceva così bene. Una stradina dissestata nascosta da rovi selvaggi, che attraversava una parte di bosco. Come per un presagio voleva godere ancora un po' della natura, prima di rifugiarsi tra le vecchie mura. Se qualcuno gli avesse chiesto che cosa amasse di quella casa, lui, colto di sorpresa, non avrebbe saputo che rispondere. Gli era stata consegnata così dai suoi genitori, come tutti i suoi pensieri e le sue convinzioni, e ciò significava che non avrebbe mai avuto il permesso di modificare un pur se minimo particolare. Ne sarebbe andato del suo
benessere morale. Per lui questa specie di rassegnazione era stata facile, molto meno per chi gli viveva accanto.
Sua moglie, esasperata dopo anni di sopportazione, aveva chiuso dietro di sé la porta in legno massiccio, seguita a breve distanza dalla figlia. Erano andate lontano, in città diverse, per inseguire la fatuità. A lui non era rimasto che confortarsi con tutte le vecchie usanze, le certezze che non lo avrebbero mai tradito.

Finalmente a casa, Montano, si gettò sul letto, e senza una parola chiuse gli occhi per consegnarsi al sonno. Erano passati molti giorni e lui non si era più mosso. Moglie e figlia lo accudivano amorevolmente, mentre attorno a loro c'era un susseguirsi di gente a chiedere notizie. Amici, parenti, era arrivato anche il fratello dal nord, e i conoscenti, dai paesi vicini. Alcuni si fermavano più degli altri per gustare una tazza di caffè e condividere apprensione e chiacchiere.
Nel dormiveglia Montano udiva sussurri ma la sua mente rimaneva avvolta dalla nebbia dell'incoscienza. Aveva perso la nozione del passato e del presente e tanto meno poteva immaginarsi un futuro, ormai giaceva su quel letto inerme, un sondino lo alimentava e mani amorevoli lo curavano per tenerlo in vita in modo dignitoso. Montano non aveva mai pensato alla morte, era un pensiero che gli era sembrato lontano, era qualcosa che poteva capitare solo agli altri. E ora mentre se la trovava davanti l'accolse come qualcosa di dovuto e anzi le andò incontro e mentre un brusio di voci conosciute facevano da sottofondo, sentì quella inconfondibile del padre mentre gli ordinava -
“Vai ragazzo vai a cogliere le verdure per tua madre che deve prepararci la minestra”. E lui corre dopo aver fatto un cenno di assenso al padre che con i piedi ben piantati sulle pietre del pianerottolo lo controlla. Papà con i calzoni di fustagno liso, le braccia conserte e quell'aria sempre incazzosa.
“Corro papà”, pensò “basta che non t'arrabbi”.
Ma ora il padre era sparito, e man mano i ricordi che gli mulinavano in testa, si mescolavano a immagini e pensieri una volta sepolti. Vide i campi e le terre su cui la sua schiena si era spezzata, la strada principale del paese, l'unica, e lei che gli veniva incontro. Era giovane e bella, i fianchi larghi accompagnavano i suoi passi spostandosi ritmicamente da sinistra a destra, da destra a sinistra. Avvertì urgente il desiderio di esplorarli. Lo stesso che lo aveva colto quando si erano conosciuti. Si chiamava Rosina, ma era rimasta un sogno. Non gli era stato possibile approfondire la conoscenza - Sono promessa a un altro uomo. - gli aveva detto al secondo incontro, e non si erano più visti.
Quello era stato l'unico vero rimpianto della sua vita. Chissà come sarebbe stato sposarla. Forse meglio forse peggio, non l'avrebbe mai saputo.
Oh, ma ecco sua moglie. È il giorno delle nozze, anche lei ha fianchi prosperosi resi ancora più larghi dall'abito bianco. Ma il suo sorriso è diverso, promette cose buone. E quelli sono i suoi figli! Sono così piccoli, - ma come - lui li ricordava ormai adulti. 




E invece eccoli lì che gli si fanno attorno, e sembra che vogliano chiedere qualcosa. ma lui non ha tempo deve correre agli ulivi c'è stata tempesta e non sa quali siano i danni. Avrebbero voluto una carezza ma lui anche di quelle è stato avaro. Non è stato in grado di elargire carezze, e pensare che non gli sarebbero costate nulla.
Mannaggia a San Donato, o mamma mia, mamma mia che ho fatto.
E un urlo roco quello che uscì dalla gola di Montano dopo tatti rantoli e sospiri.
I presenti nella sala si zittirono, e cauti si alzarono per avvicinarsi al malato. - vuoi vedere che si sta riprendendo sussurrano speranzosi e anche la moglie, seguita dalla figlia mosse alcuni passi allungando il collo. Ma il più anziano e saggio intervenne “Ma che dite, non sapete che questa è la miglioria”. Esclamò quasi seccato da tanta ignoranza.
“E che sarebbe questa miglioria?”
“La miglioria è l'ennesima beffa della morte. Vi fa credere che il malato stia meglio in realtà è l'ultimo affanno di vita, lui si illude noi ci illudiamo e intanto lei se lo porta via”.


In piedi, stretti l'uno all'altro a cercare conferme e rassicurazioni tutti si avvicinarono cauti al malato, per verificare.
Intanto Montano correva tra i greti di fiumi, passava accanto a cespugli maliziosi che gli morsicano le carni, come quando ci andava ad amoreggiare, e pensa che ora è veramente stanco. Anche la morte è faticosa, come se non fosse bastato vivere. Ora è accanto alla sua amata quercia, dai rami possenti che sembrano le braccia di una divinità, ci si appoggia. Finalmente è al sicuro, e intanto si fa buio e lui non vede più niente. Ai presenti non restò che constatare che il braccio dell'amico per qualcuno, o del padre, del fratello, o del compagno di vita, penzolava inerte da un lato del letto.

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CONVERSAZIONE CON ALICE CAPPAGLI
INTORNO AL LIBRO "NIENTE CAFFÈ PER SPINOZA"
di Mila Fiorentini


Dai libri che amiamo è possibile ripartire sempre non è un vero e proprio sottotitolo, è una sorta di ‘strillo’ per usare un linguaggio giornalistico un po’ desueto, che bene illustra il messaggio centrale, il monito di questo romanzo, un romanzo nel romanzo, anzi una biblioteca in un libro che ricorda l’idea di Borges. Un romanzo che nasce dalla lettura, nello specifico della vicenda, e che racconta come il libro sia una via di fuga, un’altra, anzi infinite vite, una compagnia per non essere mai soli, uno strumento di amicizia che tesse relazioni forti. Così anche la cultura, la filosofia, lungi dall’essere una disciplina accademica, è la riflessione stessa dell’uomo e non può che essere per tutti, indispensabile per vivere, proprio come il cibo, che racconta una civiltà, ne è una delle espressioni essenziali, ben oltre una semplice faccenda di cucina. Attraverso una storia delicata, il valore dell’amicizia che si costruisce dalla lettura, esercizio condiviso di ascolto e umiltà.
Abbiamo incontrato l’autrice, Alice Cappagli, livornese e violoncellista alla Scala di Milano, nella scrittura ha trovato la via per la giovinezza, per recuperare quel tempo che non ha vissuto pienamente, maturando appunto la consapevolezza che da un libro si può sempre ripartire. Inizia a suonare il violoncello 50 anni fa, seguendo il Classico in contemporanea al conservatorio. A 17 anni i primi concerti, a 19 anni il diploma quindi suona con l’orchestra giovanile italiana come primo violoncello; alcuni mesi a Firenze al Maggio o all’ ORT. A 21 anni vince tre concorsi, al San Carlo di Napoli, alla Fenice di Venezia e alla Scala di Milano. Sceglie Milano dove arriva nel gennaio del 1982, entrando a far parte della Filarmonica di Abbado dalla Fondazione, seguendo le tournée internazionali del teatro in USA, Canada, Argentina, Russia dai tempi di Gorbaciov in poi, Corea, Giappone, perfino Ghana, il Kazakistan e, ovviamente, l’Europa. Dopo due figlie quando ormai autonome, si iscrive all’università Statale di Milano laureandosi in Filosofia nel 2005. Per un po’ collabora con l’università soprattutto in Estetica e Filosofia della Musica (un filone di Piana, di teoretica che si trasferì però poi in Calabria.)È RSA ed è stata diversi anni RLS per collaborare ad una ricerca sulle malattie professionali dei musicisti.

Come nasce il romanzo?
“Il romanzo nasce dal mio desiderio di recuperare un pezzo di vita che ho lasciato a Livorno.
Si era interrotta bruscamente, travolta dagli eventi e dalla mia cronica impazienza di divorare il tempo, tempo che sto ripescando con gioia ma anche con un certo timore perché ci sono dentro rimorsi e nostalgia a cui non vorrei dare spazio. 
Per questo Livorno è così viva, perché si è depositata sul fondo dei miei desideri.”
In effetti la Livorno del romanzo è quanto mai viva, senza nulla di oleografico, è vissuta dall’interno.

Questo romanzo racconta innanzi tutto il valore della lettura, accanto alla storia di un amore che crolla – una capannuccia di stuzzicadenti – la storia di un’amicizia e di una città, che è protagonista animata e non solo sfondo. E non è una città qualunque, da sempre meticcia, è un porto di mare e di genti dove da sempre convivono tante confessioni. Nel libro c’è il sapore del mare, il vento e la luce della casa… che simboli sono?
“Il sole e il vento passano attraverso il corpo esattamente come la musica, e cambiano qualcosa: la temperatura, a volte la pelle, l’umore, i pensieri.”

Livorno, col suo mercato generale coperto, la terrazza Mascagni e Villa Fabbricotti, le chiese affacciate sul mare, è anche una lingua. Nella tua scrittura si nota la toscanità, non solo nelle inflessioni – ne leggiamo alcune barrocciaio, tenere bordone, girata, fare le bucce, essere alle porte coi sassi, sbertucciato, gingillarsi, pioviscolare, – magari espressioni in italiano oggi desuete. Ci racconti qualcosa in tal senso?
“Einaudi me lo ha fatto notare. Non è stata una scelta voluta quella della toscanità nella lingua ma spontaneamente legata all’ascolto. Sono una musicista e quando penso ad una storia l’ascolto: ogni personaggio ha un suo tema, come in Giacomo Puccini in particolare, dunque un suo linguaggio rispetto al quale il direttore d’orchestra, il regista, il narratore, non deve comunque imporre il proprio timbro ma mettere in comunicazione.”
In fondo è una grande opera sociale a livello culturale.

Quanto alla tua scrittura vorrei capire in particolare come la partitura musicale ne faccia parte.
“La musica fa parte della mia vita, mi scorre dentro per forza, ed è il ritmo dei pensieri o delle parole che mi capita di scrivere. Incluso il romanzo, che si attiene all’alternanza dei movimenti così come fa la composizione musicale. Ho tenuto presente, come accennato, il leitmotiv nel linguaggio e nei temi dei diversi personaggi proprio perché nell’opera è un aspetto importante e non solo in Wagner ma anche nel romanticismo europeo. Non solo le parole, ma anche gli accenti e le dinamiche timbriche contano, si pensi a Puccini, o anche a Mascagni, livornese”.

Quanto c’è di te, domanda troppo banale quanto inevitabile?
“Vicissitudini piuttosto burrascose, divorzio e poi un altro matrimonio con una vita completamente diversa. Secondo marito violoncellista come me. Fu lui a insistere perché gli facessi vedere dove ero nata e dove avevo studiato e vissuto. Diversamente non so se avrei avuto il coraggio di parlare di Livorno o di tornarci. Riprendere il filo è sempre un gesto molto significativo.”

Il libro è un inno alla lettura, come un modo di vivere. In effetti i libri sono sempre un punto di partenza e di rinascita e creano amicizie solidali. Un libro nel libro. E il senso della filosofia come consapevolezza del vivere.
“I due personaggi principali del romanzo sono l’incarnazione di due momenti chiave dell’esistenza ma chi sembra giovane in realtà ha il segno dell’abitudine e l’opacità della rassegnazione, e chi sembra vecchio ha la vitalità instancabile della ricerca di senso. Dallo scambio si generano delle rinascite. Come dall’infaticabile lettura e dalla sete di leggere ancora, sempre qualcosa di meglio, gradino dopo gradino verso una verità che forse non si raggiunge. Ma che va cercata. In particolare la cecità di uno dei protagonisti è un concetto, non sempre una condizione. Vedere da dentro è più acuto che vedere da fuori.”
E in tal senso il tema della caduta della vista che apre la porta sulla visione interiore è un tema antico, da Tiresia alle interpretazioni cristiane, fino allo splendido romanzo di José Saramago, Cecità, dove una sorta di virus si diffonde come la peste nell’omonimo romanzo di Albert Camus ma è una malattia sociale, morale. La moglie del protagonista del romanzo dello scrittore portoghese, il medico in quello dello scrittore algerino d’espressione francese, con la solidarietà restituiranno il benessere, così come la protagonista del romanzo Niente caffè per Spinoza ‘rendere’ una capacità di vedere al vecchio professore e riacquisterà da parte sua il gusto della vita.

A cosa risponde la scelta dei filosofi e poi finiremo proprio con il titolo?
“Alla mia formazione certamente che mi ha convinta dell’importanza del pensiero occidentale. La Filosofia è la scienza principe dell’Europa madre di ogni scienza ed è la culla dell’identità europea, non riducibile ad un sistema economico, ma nutrita da un’identità ideale.
Spinoza è un filosofo che da sempre mi ha affascinata anche se non c’è una scelta ‘ideologica’ specifica e l’interdizione del caffè è la prescrizione medica per il professore che del nettare aromatico sente grande nostalgia e cerca complicità nella sua giovane ‘dama di compagnia’.”
Lei gli legge i filosofi e gli riordina la casa, lui le insegna che nei libri si possono trovare le idee giuste per riordinare anche la vita. Perché lui è un anziano professore capace di vedere nel buio, lei una giovane donna che ha perso la bussola e che si rivolge all’agenzia di collocamento per trovare un lavoro e un’occupazione alla sua vita che sta andando in pezzi. E mentre il sole entra a secchiate dai vetri, mentre il libeccio passa “in un baleno dall’orizzonte al midollo, modificando i pensieri e l’umore”, il profumo della zuppa di lenticchie si mescola ai Pensieri di Pascal, creando tra i due un’armonia silenziosa e bellissima. “Bisogna che io legga nelle cose piccole verità universali. Ma mi occorre la sua collaborazione”, dice il Professore a Maria Vittoria e sembra il dialogo de Il piccolo principe con la sua rosa, quando quest’ultima lo invita alla responsabilità della sua felicità. Chi si prende cura degli altri in qualche modo li lega a sé in una reciproca complicità.
Con lo stesso piglio livornese gioioso e burbero, Maria Vittoria cucina zucchine e legge per lui stralci di Pascal, Epitteto, Zenone, Hume, Kant, Spinoza, Sant’Agostino, Epicuro. Il Professore sa sempre come ritrovare le verità dei grandi pensatori nelle piccole faccende di economia domestica e Maria Vittoria scopre che la filosofia può essere utile nella vita di tutti i giorni. Ogni lettura, per lei, diventa uno strumento per mettere a fuoco delle cose che fino ad allora le erano parse confuse e raccogliere i cocci di un’esistenza trascorsa ad assecondare gli altri. L’amicizia tra due personaggi molto diversi è cimentata dai libri perché ogni testo è un universo fatto per tutti, che ognuno capirà a suo modo.

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L’AMANTE SIRIANO
di Mila Fiorentini
La copertina del libro

Un romanzo che, attraverso una passione travolgente e sofferta, disegna il dialogo tra occidente e oriente, la lacerazione di un’appartenenza a due mondi contraddittori che lasciano una cicatrice non sanata in uno dei due protagonisti, l’eterna questione dell’attrazione e della difficoltà di convivenza tra mondi sociali diversi. Scritto con una penna vivace, leggera, a tratti pungenti, è un racconto divertito della scrittrice, evidentemente con molti spunti autobiografici, senza il peccato di autoreferenzialità. Divertente il gioco dei riconoscimenti, almeno di uno dei personaggi, camuffati al punto giusto. Una storia che si dipana sullo sfondo di Parigi, personaggio a sua volta, della vicenda e del ‘mondo arabo’ non così circostanziato ma vissuto dalla parte di un’europea con molta onestà. Godibile per una lettura di evasione, amaro per il tratto psicologico e psicotico che si nasconde dietro la veste mondana dei personaggi, che tratteggia una società irrisolta, nevrotica, appassionata quanto insoddisfatta.
Il testo risente dell’attività giornalistica dell’autore sia nello stile, sia nel tratteggio veloce di ambienti, luoghi, profili umani e diventa un affresco ironico e a tratti sarcastico del mondo intellettuale, dei suoi vezzi, capricci, tic e in parte illusorietà, che Rosita Ferrato smonta ma nello stesso tempo dichiara irrinunciabile dal punto di vista dell’attrattività. Per chi conosce quel tipo di ambiente fatto di frequentazioni provenienti da luoghi e vivai sociali quanto mai vari, che alla fine non si mescolano mai davvero, un modo di guardarsi allo specchio; per chi vive alla giusta distanza tra questo mondo internazionale e ‘pensoso’, un’occasione per scoprirne il fascino e il lato oscuro.
Il vento d’Oriente soffia su Parigi e travolge Lee, una giovane giornalista mossa da aspirazioni tanto concrete quanto sognanti. Come l’incanto prodotto da un genio appare Amir, poeta e scrittore siriano, personaggio affascinante, colto e misterioso.
Lee e Amir, che il caso fa ritrovare anni dopo il primo fugace incontro, molti anni dopo, iniziano a frequentarsi e giorno dopo giorno si scoprono, ma soprattutto modificano la loro indole: lei, da forte e indipendente, diventa sempre più fragile e schiacciata dalla personalità di lui; mentre la solida figura di rifugiato ed eminente intellettuale di Amir si sgretola sotto gli occhi di Lee, trascinandola con sé in un mondo non più esotico ma ambiguo e oscuro.
Tra gli affari che i due intraprendono insieme e l’ombra eterea e tetra della moglie di Amir, bellezza algerina priva di contorni, assente nel quotidiano ma presente in ogni anfratto dell’uomo, il finale brusco si tinge di toni tragici.
Un amore noir come forse è ogni passione assetata che rischia di essere autodistruttiva, un incantesimo che si trasforma in un maleficio. Impossibile non pensare a elementi autobiografici, eppure ben dissimulati, in un intreccio di aspetti narrativi immaginari o confusi come tali che fanno della Ferrato una vera narratrice, oltre la giornalista.

Rosita Ferrato
L’amante siriano   
Neos Edizioni 2019
Pagg. 128 € 13,50

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La dualità dell’Edipo post-coloniale
di Valentina Tatti Tonni

La copertina

La rivalutazione dell’inconscio nel saggio del filosofo Livio Boni parte dal tema della colonizzazione per arrivare in tempi più recenti al terrorismo islamico. Il testo, a partire da tre capitoli e tre tappe storico-geografiche quali l’India, l’Algeria e il Madagascar, fa leva sulle due potenze europee, Francia e Gran Bretagna che più di tutte hanno portato avanti missioni imperialiste volte a tradurre il confine umano dell’Altro.
La centralità di questa analisi critica fa riferimento al pensiero di Ernest Jones per cui il colonizzato sarebbe arcaicamente attaccato alla figura della madre-patria inglese la cui componente femminile-materna annulla quella paterna in un simbolismo matricentrico che induce l’Edipo a una figura mortifera e per questo onnipotente, tanto cara a Recaimer e che il lettore ritroverà negli studi sull’India di Girindrasekhar Bose, di Sudhir Kakar che ripenserà la psicoanalisi considerando la componente culturale e religiosa dell’India che estende il campo del pensabile ai valori della metafisica, e di Owen Berkely-Hill che invece tentò di inquadrare la declinazione in un’attitudine aggressiva di fondo. Simbolismo e dualità che trovano nella storia i suoi significati intrinseci, la cui evoluzione manipolata si emancipa grazie all’idea coloniale di un padre bianco e dominante che fa della tesi dell’inferiorità (che Sormering già nel Settecento definì “insulto all’umanità” non riscontrando di fatto alcuna differenza sostanziale tra la morfologia del cervello dei popoli africani e quelli europei) la mediazione perfetta con il femminile-materno.
Se in passato Wundt si occupò della psicologia dei popoli andando ad indagare tutti quei fattori storici e sociali che influenzavano lo sviluppo dei processi mentali nelle varie popolazioni, l’idea di una lotta per la sopravvivenza si ritrovò anche nel pensiero di Spencer con quella superiorità biologica derivata dalla razza, che sarà poi declinata in bianca o ariana, affermata sulle altre.
La tesi freudiana secondo la quale la società ha plasmato le pulsioni umane in conformità di regole e principi alla base della società civile che nel piano politico è volta a liberare l’individuo dall’oppressione della classe borghese dominante, ripensa e integra nel dibattito la possibilità di una psicoanalisi, da Freud e Lacan, valutata sul marxismo, da Adler, e da cui prenderanno spunto, negli anni Venti del Novecento, gli istituti di ricerca sociale, da Fromm e Marcuse, come la Scuola di Francoforte.
Nella decolonizzazione francese dell’Africa rientrano i discorsi sul razzismo e le lotte dei movimenti afro-americani ben accolti da Octave Mannoni e Frantz Fanon.
Mannoni, anticipato da Adler e influenzato da Sartre, riconoscerà nel colonialismo l’imperativo per cui alla dipendenza deve seguire l’inferiorità e in cui “il soggetto si aliena allo sguardo altrui, indossando parossisticamente il ruolo che l’altro gli presta”. Per cui, come in Lacan, la violenza mi seduce in quanto sono l’altro idealizzato da me e con cui non potrò coincidere. Un nemico intimo e trasversale di cui si farà portavoce anche Ashis Nandy.
Dipendenza che, nella cultura malgascia, avrebbe ricreato secondo Mannoni un transfert che dai morti-antenati risaliva ai colonizzatori in modo che il loro arrivo fosse in qualche modo atteso, “addirittura desiderati nell’inconscio dei loro assoggettati”.
Nella Martinica Fanon si batteva contro un colonialismo mentale, vissuto in prima persona e dal quale si sarebbe formata una nevrosi collettiva ripristinabile solo a partire dal marxismo. Ripartendo e integrando le riflessioni di Sartre si passa dall’alienazione di un corpo che dovrà emanciparsi alla difesa della Negritudine, in una supremazia singolare che sta nella classe.
Interessante in definitiva anche la tesi conclusiva tra post-colonialismo e prescrizione della soggettività dove Boni colloca Fethi Benslama il quale porrà l’accento sull’eterogeneità dell’Islam concependo una psicopatologia del terrorismo contemporaneo. La figura del “supermusulmano” si annichilisce nell’atto del sacrificio descrivendo così la dominante mortifera del desiderio jihadista in cui va a subordinarsi la morte dell’Altro e il sentimento di onnipotenza, valorizzando con un ideale ogni tipo di ferita narcisistica che aderisce a un “incesto uomo-Dio” in cui l’essere umano “pretende confondersi con il suo creatore”. Ciò che, in sintesi, Benslama prefigura come il “disagio della civiltà”.

Livio Boni
L’inconscio post-coloniale: geopolitica della psicoanalisi
Mimesis Edizioni 2018
Pagg. 145 € 12 

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Storia del Mediterraneo in 20 oggetti
di Mila Fiorentini

La copertina del libro


Un modo insolito di raccontare la storia del Mare bianco di mezzo per dirla alla maniera araba, gustoso, divertente, pieno di informazioni curiose, dallo stile leggero, corredato da simpatici disegni: un’edizione molto curata, un libro che rappresenta un supporto di studio o anche solo un intrattenimento da leggere a capitoli anche in ordine sparso.
Dove arriva il Mediterraneo? Sarebbe limitante dire che si arresta alle sue coste. La sua influenza, i suoi caratteri, la sua anima, come i suoi sapori e i suoi odori, invece, spaziano e non si può fare a meno di sentire echeggiare l’idea di un continente liquido, del lago salato di Predrag Matvejevitch (al quale è un omaggio il capitolo sul pane) del Breviario mediterraneo e il mediterraneo come somma di mari e di civiltà di Fernand Braudel. IL Mediterraneo è oltre se stesso, fino a dove arriva il suo influsso. C’è dunque il vento del Mediterraneo in Scozia e nell’Inghilterra post imperiale romana. C’è Mediterraneo sulle vie della seta. C’è Mediterraneo nei galeoni spagnoli come su quelli olandesi e inglesi che solcano nel Cinquecento l’Atlantico e il Pacifico. C’è Mediterraneo dappertutto, appendice ultima dell’estrema grandezza e complessità del continente-mondo asiatico, bacino della cosiddetta civiltà occidentale. Come raccontare allora la storia di questo mare globale, una categoria universale dello spirito, senza disperdersi nei mille rivoli del racconto? Un modo è partendo dalla quotidianità del Mediterraneo vissuto attraverso i suoi oggetti. Dei semplici oggetti, che narrano una storia millenaria, di lungo, lunghissimo periodo, che consentono di scandire i tratti di questo mare che si frappone fra le civiltà, spesso legandole e mischiandole. L’elenco sarebbe infinito: in queste pagine i due autori ne hanno scelti venti, a partire da quello, ai loro occhi, più antico e più rivoluzionario: il remo. E poi ancora: la bussola, la moneta d’oro, il container, la chitarra, la paella, il corallo, l’abaco, gli ex voto, i vestiti di seta… sull’esempio citato dell’illustre scrittore croato di Predrag Matvejevic. Senza nessuna pretesa di sistematicità, una piccola rassegna che testimonia il Mediterraneo quale chiasmo dei popoli e crocevia di scambi, in una parola, luogo di migrazioni. Dalle barche antiche ai barconi nel Mediterraneo si è cercata fortuna, da sempre. E se ci sono tempi nei quali questa parte di mondo ci sembra soprattutto un luogo di divisione, ripercorrerne la storia, aiuta a capire e rintracciare le radici comuni. L’inizio è nel segno del pane che, diceva Diogene Laerzio, è l’inizio dell’universo. Con esso si parla di grano menzionato sulle tavolette di argilla di Uruk, Ebla e nei geroglifici di Tebe e Menfi. Probabilmente è originario della Mesopotamia, coltivato in Egitto, come in Sicilia e in Tunisia, mentre i Greci si spostavano per trovare il grano; i Romani invece lo scoprirono relativamente tardi: prima c’era la puls, la polenta. Con il pane nasce il forno che a Pompei diventa un’istituzione. Il pane non è solo cibo, è sinonimo di condivisione, di accoglienza, al quale il mondo ebraico e cristiano hanno poi dato un significato sacro. La coppa invece rimanda al vino che nel Mediterraneo ha il suo habitat ideale e che, come il pane, acquisisce un forte significato metaforico, tra sacro e profano, raccolto dal mondo cristiano. Con la padella, come poi con il cuscus, si associa contenitore e contenuto. E’ così che in Spagna nasce la Paella, piatto a base di riso, coltura introdotta dagli arabi e per questo per un periodo proibito dalla chiesa, con cipolla e fagioli bianchi e fagiolini verdi. Interessante a questo proposito, al di là delle varie informazioni, il senso del piatto unico e tipico invenzione in qualche modo della modernità, per il bisogno di identità che le nazioni, che si formano nell’Ottocento, necessitano. Sul mare la notte fa paura, non solo per il buio e quello che evoca ma per la difficoltà di orientarsi, tanto che la navigazione antica era per quanto possibile lungo costa. Ecco che l’ingegno si aguzza per fare luce con lucerne, dove c’è l’olio oppure candele di grasso animale o sego e di cera, fino alle versioni moderne. Per avere poi una luce stabile sorgono i fari, altro simbolo mediterraneo, in origine semplici cataste di legno alle quali veniva dato fuoco, poi architetture con una loro specificità. Tra le curiosità il porta profumi che molto prima di diventare un oggetto di lusso è quasi un antidoto al male, ai miasmi, in particolare alla peste che flagella il Mediterraneo. La rete raccoglie la grande varietà nel tempo e nei diversi paesi con molta evoluzione nel Medioevo e un posto particolare merita la tonnara che racconta l’incontro del mondo arabo anche nei termini con il Mediterraneo del nord. Nel mare nostrum nasce anche la chitarra che si dimostrerà uno strumento straordinario musicalmente sia per la versatilità, prestandosi si alla musica classica, sia a quella tradizionale e poi nel tempo recente al rock e al pop, contribuendo a dare l’immagine tradizionale della Spagna, sia per la vicinanza al gusto del pubblico, riunendo interpreti molti diversi tra di loro, basti pensare che Nicolò Paganini, oltre il violino, suonava anche la chitarra e anche Luigi Boccherini scrisse composizioni per la chitarra. Non poteva mancare la valigia simbolo dei viaggiatori nel tempo; così come l’anfora per il trasporto nelle navi di vino, olio e molto altro di non solido finché il container non ha cambiato il volto dei porti.
Il corallo è e soprattutto è stato una delle ricchezze del Mediterraneo che, considerato a lungo una pianta in mare e una pietra a terra, è stato poi riconosciuto come animale. E se di valore si parla non si può dimenticare la moneta, associata in primis all’oro. Andando per mare il problema dell’orientamento era centrale e la svolta è avvenuta con la bussola, la cui ambiguità del termine svela la sovrapposizione delle civiltà in questo grande lago che vide Amalfi protagonista, anche se le prime bussole sembrano venire dalla Cina, ancora nella forma primaria di ago galleggiante, per poi necessitare dell’intervento degli arabi per dare una forma più moderna. Nel XIV secolo le bussole erano già diffuse nel Nord Europa. Più intellettuale il capitolo sull’abaco che ci porta non solo sulla tecnicalità del conteggio ma sul senso dei numeri e del contare rispetto all’uomo. In termini di cultura, tra i protagonisti del teatro mediterraneo i pupi con i loro cicli delle storie dei paladini, tradizione tutta siciliana anche se con antecedenti e corrispondenze nel Mediterraneo che vengono omessi nel libro. Il Mediterraneo, luogo di incontri e scontri, vede anche un grande commercio di un oggetto che non necessariamente è di per sé un oggetto di questo mare ma che ha attraversato il mare in tutti i sensi. Poi ci sono le catene che sono una scusa, al di là della fabbricazione a Bologna dove c’era una produzione interessante, per parlare della schiavitù che dall’antichità è arrivata al secolo scorso: in particolare con il caso singolare degli eunuchi che sono diventati simbolo di orgoglio e di cultura mediterranea, celando storie di disperazione legati ad un altro oggetto, le cesoie. Tornando più direttamente a contatto con il mare, in secoli di navigazione, il mare è anche un museo a cielo aperto di navi e il tema del relitto acquista un fascino epico. In effetti di naufragi si parla e non si può citare il barcone, termine più moderno che racconta le migrazioni moderne. Interessante l’excursus storico che racconta il flusso originariamente dal nord al sud in un primo tempo, in particolare per quanto concerne gli ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna di Isabella di Castiglia nel 1492 (anno della morte di Lorenzo il Magnifico e del primo viaggio in America di Cristoforo Colombo). Infine sul tema dell’acqua impossibile non citare la fontana da sempre ornamento di palazzi in tutto il Mediterraneo legata simbolicamente al giardino, inteso come Paradiso, soprattutto nel mondo arabo dove il problema era la conservazione dell’acqua. D’altronde le città antiche e quindi le civiltà sorgevano lungo i fiumi perché una città senz’acqua era destinata a morire, basti pensare alla fine di Cartagine quando Roma distrugge l’acquedotto che aveva precedentemente eretto (ndr) e a quanto, anche nella Roma dei Papi, la gestione dell’acqua fosse questione di potere.


Amedeo Feniello - Alessandro Vanoli
Storia del Mediterraneo in 20 oggetti
Ed. Laterza 2018

Pagg.187 con illustrazioni e rilegato


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Lilia Zaouali
L'islam a tavola Dal Medioevo a oggi
di Mila Fiorentini

Lilia Zaouali

L’incontro delle cucine dei popoli conquistati dall’islam, la nascita di un modello gastronomico, la circolazione delle mode culinarie, le norme religiose, gli alimenti, le ricette: un modo di avvicinarci a una cultura millenaria che appaga la mente e la gola, non un libro di cucina, non solo, anche se ci sono ricette e versioni regionali di piatti tradizionali. Un’occasione interessante e piacevole per avvicinarsi divertendosi ad un’altra cultura e rileggere la propria. Spesso infatti i piatti hanno una corrispondenza tra paesi diversi ed è difficile stabilire da dove sia partito il viaggio. Il testo è una piacevole lettura che può essere affrontata come una passeggiata curiosa tra abitudini e tradizioni che ormai sono anche sulle nostre tavole e un percorso storico sociale colto, nel quale ci accompagna la scrittrice Lilia Zaouali, storica e antropologa di formazione, tunisina, che oggi vive a Roma. Una penna leggera, gradevole che scorre e consente anche una lettura per capitoli. Il libro è ben documentato con una bibliografia ricca e referenziata, dal Corano agli scrittori antichi che raccontano il genere letterario dei libri di cucina nel mondo arabo. La cucina di questa parte del mondo, 21 Paesi per l’esattezza, dalla Penisola Arabica con i paesi del Golfo, al Medioriente, al Magreb, passando per l’Egitto e alcuni paesi arabi, raccontano anche la storia dell’Europa, soprattutto quella mediterranea e costruiscono un ponte con la cucina indiana e il mondo delle spezie indo-cinesi, oltre che i rapporti con il mondo persiano con il quale c’è stato uno scambio importante. Il libro, di facile lettura, è ben articolato e curato, soprattutto nella trascrizione dei termini dall’arabo, spiegati in modo chiaro senza mai diventare didascalico o troppo accademico. Molte le ricette, curiose e varie, proponibili anche nella vita quotidiana, almeno in parte, che sono spesso lo spunto per un’informazione, un aneddoto. La nostra passeggiata nel tempo e nello spazio parte dalle cucine della corte dei califfi di Bagdad dal X secolo, età alla quale risale il libro più antico, dove i piaceri della buona tavola erano abbondantemente coltivati, e dove confluivano e si mescolavano le tradizioni alimentari di arabi, persiani e asiatici, oltre che di bizantini. Si tratta di una ricca e raffinata civiltà gastronomica che si irraggiò in tutto il mondo islamico, dal Vicino Oriente all’Egitto al Nordafrica, fino all’Andalusia. Una grande varietà di tipi di pasta, di piatti in agrodolce, di salse - fra cui quella che oggi conosciamo come ‘scapece’ -, di cuscus, di dolci e persino di vino, affollano le ricette tramandate dai testi medievali. Interessanti alcuni spunti tra i quali le regole dell’alimentazione secondo i precetti coranici, dalle carni, con il solo divieto rigoroso del consumo di maiale, anche per motivi igienici e di bestie morte o non uccise in modo rituale, dell’uso del sangue; delle indicazioni sui metalli per le posate e l’annosa questione del vino che la Zaouali spiega in modo critico, all’’eresia’ vegetariana perché sarebbe un peccato non godere di quanto Dio ha dato all’uomo; oltre l’osservanza del digiuno, saum, nel mese sacro del Ramadan; il modo di mangiare, utilizzando ad esempio solo la mano destra.
Un’attenzione importante nei libri medioevali è riservata alla descrizione di utensili con una grande varietà e alle norme igieniche oltre alle proprietà curative dei cibi e delle spezie. Trionfo della cucina araba le spezie non solo di origine locale; il celebre cuscus, questa l’indicazione per la trascrizione più comune in italiano, sulla cui origine ci sono dei dubbi e le varie tipologie, integrale e non e a grana fine, media e grande: entra nei dizionari occidentali nel Medioevo dove potrebbe essere stato portato dai berberi nord-africani in Andalusia. Un posto onorevole sulla tavola lo occupa il pesce sia d’acqua salata, sia dolce, cucinato in vario modo e anche conservato sotto sale o sotto forma di salsa che ricorda il garum o il liquamen dei romani. Un piccolo campionario, sottolinea la Zaouali, ci arriva dai libri dell’Andalusia del XIII secolo dove curiosamente i gamberetti sono inseriti tra locuste e lumache. Grande attenzione è riservata alle carni e alle salse come, ad esempio quelle fermentate che oggi si sono perse. Tra i condimenti diffuso l’olio di oliva e di sesamo (in Marocco anche quello di argan) e il grasso della coda di montone o il burro chiarificato. Molto noto l’agrodolce e l’uso dello zucchero che nel medioevo era considerato una spezia preziosa, soprattutto nelle zone orientali vicino ad esempio all’Afganistan dove veniva coltivato. Presto si diffuse in Yemen e in Egitto la coltura della barbabietola da zucchero. Curiosa la presenza di pasta e paste per lo più cotte con salse e brodi, di alcune delle quali non si conoscono esattamente le origini, come ad esempio alcune simili a trofie che troviamo a Genova con nomi che richiamano diciture arabe: i fidāwish da cui fedeli, i cui artigiani produttori erano riuniti nella corporazione dei Fidei. Anche i dolci costituivano un importante ornamento della tavola oltre che del gusto. Tante le preparazioni legate alle verdure, delle quali le melanzane sono le regine e attraverso la nomenclatura e la storia delle parole, come in questo caso, si rintraccia la provenienza. Il termine arabo badhinjān è di origine pharsi come molti altri perché l’origine è persiana e in Italia giungono in Sicilia, con la presenza degli Arabi per diventare mala insana mentre la parola ‘petonciano’ deriva proprio dal termine arabo e l’ortaggio è stato introdotto e diffuso nel nord dagli Armeni a Venezia. Anche l’Andalusia gode di un ruolo centrale per l’invasione dei berberi del Nord Africa che portano molte abitudini. Interessante è anche il largo uso della frutta nella preparazione del riso, e di piatti di carne, da albicocche, prugne e melograna, molto diffusa, come qui si usava nel Rinascimento. E ancora una larga diffusione nel mondo arabo ce l’hanno, con grande varietà, i bārida, letteralmente piatti freddi, ovvero gli antipasti.
Interessante la storia sociale, gli scambi tra popoli che si ricostruisce attraverso la tavola che da Bagdad a Cordoba ha un importanza centrale così come nel mondo arabo perché, al di là di alcune regole, la cucina è il trionfo del piacere del quale l’uomo gode liberamente. In questo ampio continente ‘liquido’ che è il Mediterraneo la cucina non prende in modo rigido la veste di cucina araba, intesa come arabo-musulmana, quanto di cucina nazionale, libanese, siriana e così via al cui interno le influenze proveniente da popoli e religioni diverse si fondono e si contaminano. Ovviamente molti i riferimenti alla Tunisia, patria della scrittrice.

La copertina del libro

Lilia Zaouali
L'islam a tavola. Dal Medioevo a oggi
Ed. Laterza, 2019

Pagg. 226 12,00 euro

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BESTIE SULLA SCENA
di Tomaso Kemeny

La copertina del libro

La scrittura di Angela Passarello è subordinata alla fruizione sottovoce, quella discreta della poetessa. Gli animali, oggetto dell'evocazione e protagonisti delle avventure, mucche, galline, orsi, capre, e compagnia bella, paiono attori in un film mentale muto, con il commento fuori campo dell'autrice. Il mutismo degli animali è una pagina bianca invasa da parole in cammino nella foresta spazzata via da una folata di vento che porta via le ali di una farfalla, fa scivolare sulla strade della perdizione una lumaca, fa agitare la pelle liscia delle mucche. Le galline fuggono dall'aia starnazzando, i serpenti si attorcigliano su ciò che resta degli alberi, le lucciole luccicano come lanterne magiche, la cavalletta fatica a muovere le zampette, le scimmiette improvvisano dispetti e ruberie ai turisti. C'è da inforcare gli occhiali da sole per non farsi abbagliare dal mondo animale che illumina un paese che rifiuta la metafora, l'allegoria e persino il simbolico. Si tratta di un mondo che sfida l'abbondanza delle autobiografie, più o meno narcisistiche, e traccia la planimetria della vita interiore della poetessa, la cui smisurata immaginazione prende, nella scrittura, corpo e durata.

Angela Passarello
Bestie sulla scena
Edizioni il Verri, Milano 2018

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Libri
L'abisso di Eros  
di Mila Fiorentini

La copertina del libro

L’abisso di Eros, pubblicato da Ponte alle Grazie, dallo studioso del mondo classico Matteo Nucci, segue le tracce di Eros e dei suoi comprimari, prima fra tutti Peithò, la seduzione. Nucci ama la Grecia che conosce e riconosce come una sua patria e lo si avverte sensibilmente non solo per l'istruzione in merito quanto per la passione e la dimestichezza con i luoghi, e la percorre in lungo e in largo attraverso i suoi autori e immergendosi nei suoi paesaggi, anche in quelli più lontani dalle mete turistiche. Per il suo libro sceglie una forma mista: un po’ saggio, un po’ racconto, aspetto originale soprattutto, per la bella scrittura nella quale si perde volentieri con il sapore di un romanzo, un andamento lirico senza compiacimento. Questa scelta ha il pregio di non annoiare, di sedurre per l'appunto, anche se rende impegnativo il percorso fuori dallo schematismo dei testi didattici. Il libro è ricchissimo di spunti e informazioni ma soprattutto è la suggestione senza tesi che ci trascina. L’autore esprime chiaramente la sua posizione alla fine ma non ha una tesi in mente da dimostrare. Dal Malcom Lowry di Sotto il vulcano all’Esiodo della Teogonia, passando per Omero, Saffo, Platone, Tucidide, esplora gli effetti di Eros, forza primigenia, divinità fluida, sessualmente indifferenziata, creatura giovane eterea quanto travolgente. C’è tutta una parte del libro dedicata all’erotismo dell’educazione, che ha il suo esponente più illustre in Socrate (nonostante la sua bruttezza i suoi allievi lo amavano pazzamente) raccontandoci una società molto diversa non solo dalla nostra e da quella odierna ma assolutamente originale. Un grande spazio è lasciato all'analisi di Platone che conosceva a memoria Omero per altro e ai suoi miti, attraverso la lettura di alcuni dialoghi e la sua teoria dell’anima, oltre il falso mito dell’amore platonico. Le testimonianze sono moltissime, dal commediografo Aristofane ai poeti lirici greci, analizzati in modo sintetico e messi in relazione uno all'altro, passando da un discorso all'altro e raccontando una Grecia estesa anche alla Magna Grecia, Sicilia, Calabria e parte della Campania. Stupisce che in Grecia la coppia divenuta paradigma dell’amore infinito sia quella formata da Menelao e Elena (Elena quella che era fuggita dal marito, che torna a casa solo dopo una guerra. Il punto che Elena torna, e con Menelao invecchiano felici e contenti, tremendamente moderna). Stupisce anche ed è forse l'aspetto più interessante del libro che è la grande attualità del mondo greco, il suo carattere fondante e universale come lo è l'amore per la vita. Particolarmente acuta l'analisi delle diverse dimensioni della passione amorosa tra Afrodite-Venere ed Eros, due divinità molto diverse quanto oserei dire complementari, oltre una serie di aspetti connessi che il mondo pagano individua in diverse divinità come Pan. Mi pare altresì importante sottolineare come Nucci superi un certo manicheismo nel guardare la cultura classica e anche alcune semplificazioni dovute all'assunzione di una categoria prevalente con una funzionalità di comodo. Mi riferisco ad esempio alla figura di Ermes padre di Pan che nel partorire questo figlio mostruoso, brutto esteriormente dalla potente carica sessuale che si inebria nella 'controra' rivela anche chi è nella parte dimenticata dalla storia e con essa, in fondo, tutta l'ambiguità e la potenza di Eros. È sì il messaggero alato degli dei, detentore dell'ermeneutica, altresì è il dio dei pastori e dei viaggiatori, oltre che il dio del l'inganno e delle frottole. Anche la conclusione a cui arriva Nucci è spiazzante: la perfetta unione afrodisiaca è impossibile, “per amarsi è necessario tradirsi. Lottare e disperare. Lasciarsi prendere dall’ira e dall’orgoglio. Salvare la propria dignità. Eppoi rincorrersi.”
Matteo Nucci 
L'abisso di Eros 
Ponte alle Grazie, 2018
pp. 283, euro 16, 80

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Polifonia trapanese, un collage di voci per una città
Mila Fiorentini

Trapani. Centro storico

Polifonia trapanese, pubblicato nel 2018 da Margana Edizioni di Trapani, 281 pagine, 14,00 euro, è una raccolta collettiva di racconti che fa parte della collana “Cristalli di sale”: una polifonia trapanese, nativa o di adozione per narrare questa falce tra due mari, dal nome greco. Un’idea originale e interessante, che spazia nei generi dall’articolo storico, al racconto autobiografico, storie fantastiche o documentate che fanno vedere anche gli stessi luoghi o realtà sotto diverse angolature e modalità, una sorta di Esercizi di stile alla Queneau. Sicuramente ci sono voci davvero gustose che trascinano il lettore, con qualche inserzione un po’ più forzata o così personale da non riuscire a raggiungere l’orizzonte universale. Un modo comunque originale di viaggiare e soprattutto di cogliere lo spirito di un luogo, con un taglio sociologico, legato alla mentalità, all’ascolto degli altri. Il libro, nato dalla volontà di testimoniare un presidio letterario cittadino, raccoglie nove testimonianze, rispettivamente di Salvatore Mugno, scrittore, indaga il lato oscuro della città con opere su Mauro Rostagno e Giovanni Falcone, con il suo Rosebud, pensieri e aforismi che seguono gli anni dal 1994 al 2011; Salvatore Costanza, storico che ha tratto spunto dal suo studio dedicato a Trapani, La Liegi del sud, raccontando in modo davvero gustoso questa città di mare, legata alla pesca, alle saline e ai coralli; Mariza D’Anna, si ritrova nella città dei nonni dopo anni trascorsi tra la Libia e Genova e stila un reportage di viaggio ispirato a Gli italiani  di Luigi Barzini, con un focus soprattutto su comportamenti, vizi, peculiarità degli abitanti; Peppe Occhipinti, con un io narrante al femminile in stile Moravia la storia di una Ragazza con la treccia e la sua rabbia quando scopre di non essere più giovane; Giacomo Pilati, immagina di tornare allievo di prima elementare alla Scuola Umberto di Savoia e racconta attraverso il suo Alfabetiere, una città attraverso lettere e parole; Antonio Rallo, ne L’ammiraglio e il capitano racconta il personaggio storico di Marino della Torre, prendendo spunto dalla Biografia dei trapanesi illustri del Di Ferro; Isidoro Meli, palermitano residente a Trapani, sceglie un’ottica ‘straniera’ per riflettere sul pensiero dello scrittore inglese Samuel Butler e la sua teoria del ‘novunque’; Daria Galateria, francesista che prende in affitto un appartamento con una terrazza affacciata sul porto e ne scrive in modo brioso; e Ninni Ravazza, appassionato di storie di mare, sceglie lo sfondo del porto peschereccio e un cucciolo randagio per raccontare uno dei lati più tipici della città. Non so se perché aprono le porte a questo viaggio e fanno respirare il lettore l’impatto iniziale con la città ma La Liegi del sud e Sessantamila protagonisti, sono davvero una guida strepitosa per visitare la città più araba d’Europa, nel tempo e nello spazio, miniera di informazioni.


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René Magritte. l’uomo con la bombetta
di Claudio Zanini


Una bella e interessante mostra su Magritte, dal 16.09.2018 - 6.01.2019, presso il LAC di Lugano. A cura di Xavier Canonne, Julie Waseige e Guido Comis

La figura umana è un’assidua presenza nei dipinti dell’artista belga René Magritte (Lessines 1898/Bruxelles 1967). Si tratta di un borghese composto e irreprensibile, inappuntabilmente abbigliato con camicia bianca, cravatta, bombetta e soprabito scuro. Quasi una divisa. Un prototipo d’uomo seriale, rappresentato frontalmente o di spalle. Quest’uomo ha spesso davanti al viso una mela o qualche altro oggetto che lo copre (lo sostituisce). Il frutto (perfetto, sferico) ha la stessa importanza del viso. Quando si vedono gli occhi, lo sguardo impassibile è fisso davanti a sé, nel vuoto. In La presenza dello spirito (1960), l’uomo è affiancato da un pesce e un uccello che hanno la stessa sua dimensione; non è sostanzialmente diverso da loro. È uno di loro.  Figura, dunque, spersonalizzata e reificata. In Camera d’ascolto (1958) un’enorme mela occupa interamente una stanza. Sostituisce il proprietario; ha la medesima, perfetta impassibilità. Magritte si riconosce in questo tipo umano, ne subisce la medesima alienazione.
Nella famosa conferenza La ligne de vie, tenuta ad Anversa nel 1938, si proclama fieramente avverso alla società borghese capitalista e fautore della rivoluzione proletaria, l’unica, a suo avviso, in grado di trasformare il mondo. Inoltre sostiene che soltanto il Surrealismo può liberare quelle capacità e forze spirituali latenti nell’uomo ma soffocate dalla morale religiosa, civile e militare. Denuncia lo stato dell’arte borghese fondato su un’ottusa gradevolezza e asservita alla mercificazione, dominata dal mero valore commerciale dell’opera. Rivendica per l’uomo una libertà totale, quella di cui godiamo nei sogni, che Freud e il Surrealismo hanno posto all’attenzione generale, soprattutto degli artisti. Al mondo onirico e a quello dell’inconscio egli privilegia, tuttavia, lo stato della veglia. È qui che si rivela il mistero della realtà quotidiana insieme all’esigenza di svelarlo. È qui, dunque, che ci si deve liberare, scoprendone gli inganni e le menzogne. Le sue riflessioni e le opere che ne scaturiscono perseguono tenacemente questo fine.

Il nottambulo

La realtà e il linguaggio delle immagini sono ambigui e fuorvianti. Questo ci rivela la sua pittura, cupa e sempre consapevolmente ambigua. È possibile ipotizzare che l’origine di tale atteggiamento risalga alla morte della madre suicida, annegata in un fiume. Pare che il quattordicenne René, ne avesse visto il corpo nudo, ripescato dall’acqua, con la camicia da notte bianca avvolta intorno alla testa. Nei dipinti Gli amanti (1928), Magritte mostra due teste avviluppate in un drappo bianco, accostate in un impossibile bacio. Il diaframma posto tra i volti, testimonia un’insuperabile condizione d’incomunicabilità. L’ispirazione per quest’opera pare gli sia suscitata dalla visione del dipinto di De Chirico Ettore e Andromaca, dove due manichini geometrici tentano un arduo abbraccio. L’artista belga si accosta al futurismo e a De Chirico in particolare, spinto dall’esigenza di rivoluzionare la concezione borghese dell’arte. Del maestro della Metafisica ammira Canto d’amore (1910) “dove stanno insieme un guanto da boxe e il volto d’una scultura classica”. Ecco dunque, il Surrealismo, definito da Max Ernst con la celebre frase del poeta Isidore Ducasse (1846-1870), “bello come l’incontro fortuito su un tavolo di obitorio di una macchina da cucire e di un ombrello”.
Il modello rosso

L’artista belga, tuttavia, non si limita ad adottare, del Surrealismo, gli accostamenti incongrui di oggetti, geniale operazione in grado di far scattare imprevedibili emozioni. Egli vuole portare alla luce una realtà più profonda, soffocata dalla consuetudine di una visione convenzionale che non deve sorprendere né, tantomeno, inquietare. 
Un effetto sconvolgente in tale senso è ottenuto dalla decontestualizzazione di oggetti, soprattutto domestici e famigliari. Fuori dal loro ambito, essi mettono a nudo sia l’aspetto misterioso della realtà, sia il loro potere evocativo. Le gambe tornite d’un tavolo grandi come alberi in una foresta ci appaiono in una dimensione nuova; così il cielo con delle crepe come fosse di pietra; lo stesso effetto provocano un cielo di legno o dei massi sospesi nell’aria, ecc.
Un paio di stivaletti slacciati che, prolungandosi, termina con le dita dei piedi nudi (Il modello rosso, 1953) suggerisce una strana inquietudine. Non tanto per il significato che ne traspare, vale a dire il contrasto tra la costrizione della calzatura e la libertà del piede nudo; quanto per la perversione dell’immagine. 
Diverso turbamento suscita un cielo diurno che fa da sfondo a un paesaggio notturno (serie L’impero della luce, 1949/64). Tutto è perfettamente logico, reale, ma c’è qualcosa che non va, qualcosa che sottilmente disturba.
Esemplare è la situazione di Il nottambulo, (1927/28). Vediamo l’interno d’una stanza illuminata sinistramente dal lampione d’una strada notturna. La stanza ha dei mobili piccoli, richiama l’infanzia, e qui appare come invasa dall’esterno buio e angosciante della strada. La sagoma oscura del nottambulo, in bombetta e cappotto, sembra la figura del turbamento provocato dal non saper bene dove ci si trovi e dalla presenza di un’infanzia minacciata da un ignoto rimosso. Si tratta del perturbante di cui parla Freud.

L'arte delle conversazione

Ulteriori ansie e sorprese scaturiscono osservando una sorta di teatrini dove brani di cielo d’un fondale vengono in avanti disponendosi arbitrariamente sulla ribalta come strani personaggi, giocando sul rapporto figura/sfondo e sulle loro ambigue sovrapposizioni. Dov’è la realtà?
Magritte intende, dunque, scardinare le convenzioni vigenti, operando sulla relazione tra rappresentazione e linguaggio, e sul rapporto tra quest’ultimo e realtà. Una formidabile anticipazione dell’Arte Concettuale degli anni ’60 del novecento. Anche i titoli, afferma, non devono spiegare il dipinto, ma sviare e disorientare l’osservatore. Si crea in questo modo un corto circuito tra titolo e opera. Per esempio, nella serie del famoso Il tradimento delle immagini (di cui un disegno a biro è presente in mostra) dove la didascalia Ceci n’est pas une pipe (Questa non è una pipa), mette in crisi la convenzione che lega oggetto all’immagine, secondo cui quella rappresentata è, senz’ombra di dubbio, una pipa. In realtà Questa, vale a dire l’immagine, è un dipinto, la pipa reale è un’altra cosa. Tuttavia succede anche che la pipa della didascalia sia tutt’altro che una pipa: è una parola. Come anche Questa è una parola, non una pipa, come invece si sostiene nella frase. Tre casi che, come rileva Foucault, mostrano l’ambiguità del linguaggio e come decada la “verità” che il linguaggio cerca di codificare.
Magritte sostiene che linguaggio e immagini sono convenzioni ben distinte dalla realtà; mentre la stessa realtà ha una ”verità” che ogni definizione tradisce. L’oggetto, infatti, non è la sua definizione. Tra loro esiste uno scarto incolmabile. Di questo, egli ci avverte, si deve essere ben consapevoli.

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Le notti bianche, la cronaca di Pietroburgo
di Mila Fiorentini



Il titolo con il sottotitolo del libro di Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche, la cronaca di Pietroburgo, pubblicato sul numero 12 della rivista Annali patrii nel 1848 con una dedica al poeta e amico Pleščeev, raccoglie in sé l’anima del testo. Le notti bianche evoca il sogno, con un tempo, dimensione che nello scrittore russo diventa centrale nel corso della sua carriera narrativa, con uno scambio tra giorno e notte. Protagonista è la figura del sognatore del quale parla all’inizio rivolgendosi esplicitamente al lettore, mentre negli anni si affiancheranno il tema della malattia e della violenza, ancora lontani dallo scrittore. Il colore bianco indica la luce, magnifica e struggente del nord, durante il solstizio d’estate (d’altronde la notte bianca, un tempo solamente musicale, è nata proprio nelle città dell’anello d’oro in Russia) ed è l’estate che diventerà la stagione dei romanzi di Dostoevskij, la rinascita del sole bene così prezioso al nord, che fa uscire la città dalla sua sonnolenza e pigrizia invernale; fino al luglio eccezionalmente caldo che accompagnerà la follia di Raskol’nikov in Delitto e castigo. Il sottotitolo racconta il passaggio dal feuilleton al roman feuilleton quindi al vero e proprio romanzo: l’autore dopo 5 testi legati al primo genere, abbandona il giornalismo delle cronache mondane che generalmente finiva con una recensione di teatro per un pubblico ampio, una sorta di ante litteram della letteratura di massa, per approcciare al romanzo, prima al racconto lungo, che unisce amori tragici e spesso triangoli amorosi, come in questo caso, come se ci fosse necessità di un terzo elemento per attivare la coppia, alle descrizione dei luoghi e degli ambienti sociali. Pietroburgo è protagonista assoluta: in effetti è una sorta di guida dell’anima questo lungo racconto o romanzo breve che testimonia il rapporto strettissimo di Dostoevskij con la città dove si trasferì adolescente. Non fu certo un amore a prima vista anche perché non fu una sua scelta ma del padre, in seguito alla morte della mamma, che lo addolorò molto. Il padre voleva allontanare i due figli più grandi da Mosca, covo di intellettuali ribelli all’Università e assicurare un futuro professionale relativamente piano ai figli. Dostoevskij si trovò così a frequentare ingegneria e a sottostare ad una rigida educazione militare che detestava. A poco a poco riuscì ad allentare le maglie e gli fu permesso ad esempio di vivere in un appartamento autonomo recandosi al collegio solo per seguire le lezioni. Sono gli anni in cui matura la sua vocazione alla scrittura e la voglia di consacrarsi alla letteratura, passione osteggiata dal padre. La sua carriera si salda dunque con quella della città di Pietroburgo, “finestra d’Europa” realizzata dal” costruttore taumaturgo”, entrambe espressioni di Puskin riprese da Dostoevskij che contribuiscono ad alimentare il mito della città fondata da Pietro Il Grande. D’altronde rispetto a Mosca, slavofila e detentrice delle tradizioni, Pietroburgo è la città del cambiamento. Da una parte i conservatori, divisi in due correnti, una più rigida e una liberale; dall’altra i progressisti, anch’essi divisi in una corrente più utopistica legata al socialismo utopistico ispirato a Fourier e l’altra di stampo materialista legata a Feuerbach. Alla corrente del socialismo utopistico si accosta Dostoevskij che dopo la condanna e i bagni penali si allontana dalla politica in senso stretto non senza attirarsi delle critiche. Ne le notti bianche c’è una scrittura romantica ma leggera, veloce come la penna di un giornalista, che ora vola in un mondo di sogni, ora torna in un dialogo immaginario con il lettore, che risveglia l’attenzione e ci conduce per le vie di una città unica per la capacità di un luogo che, nato dal nulla a tavolino, ha saputo raccogliere la storia e tirar fuori un’anima. Non a caso fu detta la “Palmira del nord”, assimilando la tradizione dell’architettura e dell’arte russa e slava con molto respiro europeo, soprattutto italiano, protagonisti gli architetti Rastrelli, Quadrenghi e Rossi, e certamente prospettive della grandeur francese. La Pietroburgo di Dostoevskij è certamente quella del Nevskij Prospekt, l’arteria principale del centro ma non solo. Probabilmente sceglie il quartiere che bene conosce, per altro la casa di Dostoevsky è a due passi dalla parte più elegante della Prospettiva Nevskij, ed è lì dove si svolgono gli incontri tra il protagonista e la piccola Nasten’ka, la zona prossima al canale Ekaterininskij rinominato poi Griboedov, un canale stretto e tortuoso, formato da due piccoli fiumi, di cui lo scrittore prediligeva la parte prossima alla piazza Sennaja e al tratto più periferico. Il quartiere fu costruito parallelo al fiume Neva, la via d’acqua della città, e racchiuso tra i canali della Fontaka e della Mojka, un cuore nascosto della città, centrale ma lontano dall’eleganza della Nevskij, adatto all’animo sognatore del protagonista del libro. Centro e periferia coesistono come notte e giorno in questo racconto con una grande suggestione. Se la vicenda amorosa, ancorché ben scritta con una capacità singolare di ritagliare i personaggi, ci appare oggi datata e lontana dalla nostra sensibilità, lo stile descrittivo è invece molto coinvolgente ed arguto. Il testo ci porta in giro nell’anima dei pietroburghesi più che tra i monumenti della città, con ritratto agrodolce dei suoi abitanti giudicati indolenti, pigri ma per questo anche con un guizzo di creatività che caratterizza tutto la mentalità russa, a differenza dei tedeschi. Dostoevskij ci regala un confronto gustoso che si conclude con il detto “Quel che il tedesco ingrassa il russo strozza”. La città vive due stagioni come il giorno e la notte, l’inverno bianco di neve che invita a ritirarsi nei cantucci al caldo di casa o nei caffè e, l’estate che dopo la primavera di fango legata al disgelo, inonda di luce un luogo che si svuota. Tutto sembra fermarsi, i teatri chiudono e le persone che possono se ne vanno in campagna. Dopo tanto stare al chiuso ogni novità e soprattutto il contatto con la natura per Dostoevskij è un vero balsamo. Curioso il ritratto dei personaggi che appaiono un po’ indolenti, tanto che in molti per tutta la vita non si allontanano mai dal proprio quartiere eppure la città appare un tripudio di cultura e di vita, come del resto lo è tuttora. Con grande abilità inserisce libri nel libro, parlando ad esempio di scrittori quali il grande Gogol’ che proprio negli anni precedenti, nel 1843, aveva pubblicato la prima parte delle Anime morte, e che resterà per Dostoevskij un grande modello, insieme a Schiller (del quale aveva visto I Masnadieri, che avevano lasciato un forte segno).

Fëdor Dostoevskij
Le notti bianche, la cronaca di Pietroburgo
a cura di Serena Prina  
Feltrinelli Ed.
Pagg. 164 8 euro

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Jean Genet, menteur sublime
di Mila Fiorentini

Gli incontri con Tahar Ben Jelloun




Genet è certamente un personaggio controverso anche sotto il profilo del valore letterario perché la sua arte è strettamente intrecciata ad una vita rocambolesca, perché il suo linguaggio è poetico quanto crudo e, ancora, perché gli argomenti scandalosi. Cercando le relazioni di questo intellettuale francese, morto nel 1986, con altri personaggi del mondo culturale più o meno noti, ho scoperto un libro singolare, Jean Genet, menteur sublime, scritto dall’autore marocchino Tahar Ben Jelloun che ci racconta dodici anni di frequentazione amicale. La scoperta mi ha colpita perché conoscendo discretamente l’opera dello scrittore di Fes, nato nel 1944, è evidente la grande distanza che separa i due uomini. E questo aspetto, se possibile, ne rende più stimolante la lettura. Un’altra curiosità è che l’inizio del mio studio di Genet è legato alla mia traduzione del romanzo di Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre, dedicato tra gli altri a Jean Genet che giudica il più grande scrittore contemporaneo. Ora Ben Jelloun racconta che la prima volta che sentì parlare di Genet fu nel 1969 al primo Festival panafricano di Algeri da Jean Sènac, per l’appunto. Jung parlerebbe forse di coincidenze significative. Ne emerge un ritratto di grande lucidità, un’amicizia sincera fatta di rispetto, pudore e complicità professionale; di stima pur nella consapevolezza di alcuni punti di grande diversità. Il testo, gustoso alla lettura perché la penna di Ben Jelloun è dotta e leggera ad un tempo, ci consente un viaggio che dal 1974 ci accompagna fino alla morte di Genet. Certo nell’anno dell’incontro Tahar Ben Jelloun, trentenne, non ha molto  in comune con lo “scrittore-ladro” mitico, santo e martire ad un tempo, già di sessanta quattro anni, l’età che ha Ben Jelloun quando scrive questo libro. Genet, dal carattere non semplice, poco incline alla compiacenza ha allora tagliato i ponti con Jean-Paul Sartre e Jean Cocteau e si è già appassionato alle lotte rivoluzionarie dei suoi contemporanei, lo Zengakuren giapponese, Federazione delle associazioni di autogestione studentesche, nata il 6 luglio 1948, legata al Partito comunista le Black Panthers americane, la causa palestinese soprattutto. Quello che mi sembra emerga dalle conversazioni tra i due scrittori, impegnati civilmente, di espressione francese, con una comunanza di interesse e conoscenza della cultura araba, pur a livelli diversi, legati al Marocco, rispettivamente per nascita e formazione e per passione, è che Genet è appassionato alla causa più che agli uomini. Non sembra amare ed essere conciliante con gli esseri umani quanto con la causa degli umiliati e offesi; d’altronde se questo stupisce da un parte, vero è anche nei confronti di se stesso è totalmente disattento, ad esempio rispetto alla gloria. Nel libro emerge su un doppio binario intrecciato, quello dell’intellettuale e dell’uomo, fragile e pieno di dubbi dell’ultima parte della vita. Genet è ammalato di un cancro alla gola eppure non rinuncia a fumare sigari Panter con pessimo tabacco dall’odore terribile, come ci racconta Ben Jelloun, testimone di questa parabola discendente. L’autore del libro tenta di mantenersi equidistante da ogni giudizio, accettando di buon grado l’altro e ad esempio le sue periodiche “sparizioni” fino all’ultima che scopre non essere stata una scelta e si recherà per l’ultimo saluto a Larache, in Marocco, dove Genet ha scelto di essere sepolto, al cimitero cristiano. Tra i due c’è una profonda amicizia che è prima di tutto la storia del rapporto tra due uomini, indipendentemente dall’essere due intellettuali noti, anche se Tahar Ben Jelloun quando si conoscono sta muovendo i primi passi nel mondo letterario, ricavando lezioni importanti da Genet, già famoso. Le due personalità sono profondamente diverse e Genet mantiene un certo pudore di fronte all’amico più giovane, non parlando mai di sessualità, anzi rifiutando ogni dialogo sull’omosessualità, senza per questo nascondere la propria vita movimentata. Probabilmente Genet ha raggiunto la maturità e ormai è interessato solo alle cause civili e presta la propria penna alla scrittura dell’ultima opera, Un captif amoureux, pubblicato postumo, dimenticandosi perfino di mangiare. L’orrore che ha visto a Sabra e Chatila sono per lui intollerabili e la sua opera di comunicazione e sensibilizzazione la ritiene essenziale. Nel libro Bel Jelloun con molta discrezione invita alla lettura di quest’opera, della quale abbiamo parlato su questa pagine qualche tempo fa, offrendo buoni spunti di riflessione e confermandone la grande attualità.
Come già accennato, nel momento della conoscenza i due personaggi sono molto diversi: Tahar Ben Jelloun aveva pubblicato Harrouda (nel 1973, un romanzo in cinque racconti legati dal fil rouge del fantasma della prostituta che dà il titolo al libro e che mette insieme i ricordi d’infanzia dell’autore) del quale Genet aveva parlato molto bene su France Culture, mentre quest’ultimo era già l’autore del Diario di un ladro che aveva messo il primo KO per la crudezza del linguaggio e dei contenuti. L’avvio della relazione non è facile per Tahar che con convinzione ma probabilmente anche per educazione, non certo per compiacenza, comincia la conversazione con delle lodi sui libri di Genet, il quale resta infastidito. Parla della letteratura addirittura come impostura, interessato solo a testimoniare e denunciare e per questo crede importante l’incontro con Ben Jelloun che ha cercato, per poter avere il proprio libro tradotto in arabo, perché persone di culture e lingue diverse possano essere messe nelle condizioni di capire cosa sta vivendo il popolo palestinese e quali sono le condizioni degli oppressi, nonché le intenzioni dei rivoluzionari, dal Giappone agli Stati Uniti. Ben Jelloun sembra colpito dalla lucidità e il rigore dello sguardo di Genet sulla storia e la politica anche se è appassionato e sul riconoscimento che in ogni rivoluzione ci sono traditori e vittime, senza sogni romantici. È interessante il libro metodologicamente perché ci svela un autore attraverso un altro autore, con una mediazione è vero, ma ponendo in evidenza aspetti che forse una lettura diversa non riesce a mettere in luce. In effetti ogni persona reagisce in modo diverso e svela degli aspetti di sé a seconda di chi ha di fronte. Inoltre c’è nel libro una tensione costante e vitale perché Ben Jelloun attraverso i suoi incontri ci restituisce un uomo a tutto tondo, con i chiaroscuri che caratterizzano ogni persona: Genet ad esempio era incline al tradimento, anche con gli amici e pronto a ruberie quando aveva bisogno di soldi; parimenti generoso fino alla tenerezza se non al paradosso come quando si lega a Mohamed, un giovane che per tradizione familiare sposa la cugina ma diventa l’amante di Jean, il quale è felice nondimeno del suo matrimonio perché gli darà un figlio. E poi c’è la fragilità dell’uomo che si confessa, di aver amato Abdallah, un giovane funambolo, la cui storia è raccontata appunto ne Le funambole, che si è suicidato, lasciando un vuoto atroce nel cuore di Genet. Ben Jelloun scoprirà che lui stesso ha poi tentato il suicidio dopo questa perdita irreparabile. Genet è un uomo profondamente ferito dalla vita che si sente estraneo alla Francia perché ritiene che ogni patria sia una ferita aperta e d’altronde il paese natìo è in qualche modo una madre, quella che lo aveva abbandonato e che per tutta la vita cercherà, anche se la sua infanzia in un’associazione benefica è stata felice. In fondo nell’ultima opera protagonista è la madre di Hamza, il giovane del quale è innamorato, nella cui ricerca si rispecchia in prima persona. La compassione per gli altri, che in Genet fa riferimento più a una categoria che a delle persone, e l’impegno per le cause giuste, quelle dei deboli diventa il massimo comun denominatore, come la condizione degli immigrati, un tema già sentito in Francia e sul quale Tahar Ben Jelloun si era misurato nella sua tesi di dottorato nel 1975 dedicata alla miseria affettiva e sessuale degli emigrati in Francia, con un saggio apparso nel 1977 dal titolo La plus haute des solitudes. Il testo offre infine una panoramica sugli intellettuali francofoni che hanno attraversato un momento cruciale della storia, sospesi tra la Francia e il Maghreb, da Mohamed Choukri, a Roland Barthes, o Jacques Deridda solo per citarne alcuni.

 Tahar Ben Jelloun
Jean Genet, menteur sublime
Gallimard, 2013
 Pagg. 250

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LE INFINITE RAGIONI
 
Il manoscritto segreto di Leonardo da Vinci
di Mila Fiorentini


In occasione delle celebrazioni, dei cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il 2 maggio del 1519 ad Amboise, Albeggi Edizioni pubblica Le infinite ragioni. Il manoscritto segreto di Leonardo da Vinci, un romanzo storico in forma di diario che l’autore, Giuseppe Bresciani, immagina che il Genio fiorentino scriva gli ultimi anni della sua esistenza, trascorsi ad Amboise, ospite di Francesco I di Valois, presso il quale arrivò, ormai gli studiosi concordano, nel 1516. È un Leonardo insolito, quello che ci regala lo scrittore comasco, alla sua quarta prova narrativa, un ex imprenditore nel settore pubblicitario, scrittore poliedrico, perché è il racconto dell’uomo prima che dell’artista, giunto al tramonto della vita: un profilo psicologico di chi sente la paura della morte e ancor più la frustrazione del proprio isolamento, presso lo stesso re che tanto lo aveva amato, strappandolo all’Italia che lo aveva di fatto rifiutato. Bresciani, con la trovata del Manoscritto di Amboise, in realtà inesistente, che accredita come documento storico il diario leonardesco, ci regala un romanzo a tutti gli effetti in forma di diario giornaliere. Nelle note finali al testo, però, sottolinea la credibilità, vista la quantità di appunti e disegni del Genio fiorentino, di un diario degli ultimi tempi, come una sorta di testamento psicologico. L’incipit narra le peripezie alla ricerca del Manoscritto, quindi la verifica della sua autenticità, per addentrarsi nel quaderno leonardesco nel quale l’artista e umanista si confessa raccontando, soprattutto nella prima parte, la sua vita alla corte di Francia. In questa parte del libro Leonardo dà di sé una visione relativamente serena nello sguardo rivolto al presente e all’accoglienza Oltralpe, dove viene coccolato e onorato. Nel tempo l’ottica di incupisce soprattutto a causa dei malanni che aumentano finché sente venire vicina la fine. Il racconto dei giorni sereni, dove solo il clima gli fa rimpiangere la campagna toscana, disegna un affresco della corte di Francia e delle sue ambizioni, attraverso il mecenatismo, una panoramica sui costumi, la frivolezza colta dei ricevimenti che talora lusingano Leonardo chiamato come scenografo, talaltra lo annoiano sottraendolo alla sua passione per lo studio e l’osservazione della natura.
Il libro è anche una grande piazza dove si incontrano gli intellettuali del tempo e in particolare gli artisti italiani nonché una pennellata dello spirito del Rinascimento e della vena esoterica che ha percorso quest’epoca al pari della riscoperta dei classici e che sembra aver toccato da vicino Leonardo.
Nella dimora di Cloux, sulle rive della Loira, il grande umanista spende le sue ultime energie per compiacere la corte e consolidare la sua fama alla quale sembra particolarmente attaccato: ne emerge il ritratto di un uomo tormentato, fragile, incline alla vanità, bisognoso di riconoscimenti altrui che sente di esistere solo quando lo sguardo altrui lo accarezza e insieme si rivela uomo di grande modernità. Si sente infatti un apolide e ne è fiero dopo che ha lasciato la sua Firenze dalla quale fu deluso. L’invidia lo ha tallonato nella sua patria dove subì un processo per accusa di sodomia, anche se a Firenze come si dice nel libro c’era ampiezza di costumi in tal senso, molto dure erano le pene per violenza carnale, così come a Roma dove alloggiò al Belvedere e a Milano presso Lodovico il Moro. Emergono tanto le rivalità, segnatamente quella con Michelangelo, che comunque gli riserva un posto d’onore ne La scuola di Atene, affrescata per le stanze Vaticane come le amicizie che tenne in gran conto, in particolare quella con Sandro Botticelli.
Il Leonardo del libro è assetato di conoscenza e della vita in genere, incantato dalla natura, l’acqua e i cavalli lo hanno da sempre stregato, ama il buon cibo e vino, forse vegetariano, secondo la tesi che sposa l’autore; si arrovella per mettere in opera la creatività dell’uomo non solo come fantasia quanto come tecnica, ma è anche e soprattutto un uomo sofferente, complesso, con una probabile omosessualità latente, affascinato dall’umanità e insieme pauroso di sperimentarsi nell’amore, amante del bel vivere soprattutto in gioventù, sempre più malinconico. Al di là delle singole informazioni, come la questione discussa dell’ambiguità sessuale leonardesca, questo testo narrativo è un’occasione per lasciarsi incuriosire sulla vita e i costumi della corte di Francia e la miriade di personaggi che popolano e disegnano il Rinascimento italiano, sullo spirito del tempo e sul vissuto privato e psicologico di un personaggio noto, uno sguardo diverso sulla stessa famiglia dei Medici, genitrice in certo modo del Rinascimento che in questi ultimi anni ha destato un forte e rinnovato interesse.
Colpisce, ed è forse uno degli aspetti più originali e coraggiosi della scelta di Bresciani,  il linguaggio dotto del libro che cerca di avvicinarsi quanto più allo stile del tempo e alla conoscenza della lingua adoperata con Leonardo che ad esempio aveva studiato tardivamente il latino e non lo conosceva bene, pur non disdegnando di inserire dei termini. Così con una ricerca, che trovo ben riuscita, l’autore cerca di rendere fluida la lingua colta di Leonardo mescolata al suo colloquiare toscano, dove si intrecciano latinismi, citazioni, proverbi, che denotano la ricchezza di fonti dell’umanista.

Giuseppe Bresciani
Le infinite ragioni.
Il manoscritto segreto di Leonardo da Vinci
Albeggi Edizioni
Pagg. 400,  € 18,00

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GIORDANO BRUNO E LA FILOSOFIA DEL RINASCIMENTO
di Mila Fiorentini


La riscoperta di un autore noto solo per l’epilogo tragico della sua vita - bruciato il 17 febbraio del 1600 dall’Inquisizione a Campo dei fiori a Roma dove ora c’è la statua che lo ricorda - e un’occasione per raccontare il Rinascimento italiano da un punto di vista insolito, non solo letterario e artistico o storico. Tra l’altro come ricorda nella nota di sintesi alla fine del volumetto Giordano Bruno e la filosofia del Rinascimento, Maurizio Ferraris, l’Italia “pur non vantando una speciale tradizione filosofica ha attraversato un momento, proprio tra Il Quattrocento e il Cinquecento, in cui, a causa di situazioni politiche ed economiche, di politica e di arte e anche di filosofia e di cultura”, con una sua specificità, prima che poi la filosofia dal mondo latino si affermasse soprattutto nel centro e nord Europa. È questa l’epoca certamente nella quale come ci racconta Michele Ciliberto, a sua volta filosofo,- nella serie edita da la Repubblica “Capire la filosofia - La filosofia raccontata dai filosofi”, nel 2011 la riflessione filosofica è strettamente legata all’arte e all’immagine e questo lo è in particolare in Giordano Bruno che scrive testi teatrali per immagini, come il noto Candelaio e la Cena delle ceneri. Tra l’altro la memoria che rappresenta la capacità dell’uomo di raccogliere un patrimonio di immagini, ovvero di conoscenza attraverso le immagini, è definita l’arte tra le arti e dunque il filosofo è un artista. Non solo, in questo periodo dal Cinquecento fino al primo Seicento, dopo la riscoperta della centralità dell’uomo nell’Umanesimo del Quattrocento e il recupero della cultura classica, lo sguardo si rivolge alla natura e la filosofia attraverserà una fase di intreccio con la scienza, staccandosi dalla teologia, non senza grossi problemi che accomunano i tre autori presi in considerazione nel pamphlet, Giordano Bruno appunto, Bernardino Telesio e Tommaso Campanella. In questi filosofi la centralità della natura rispetto all’uomo, come del sole rispetto alla terra ha però ancora un carattere non scientifico. Perfino in Tommaso Campanella che conobbe e ammirò Galileo, l’attenzione è ancora rivolta alla magia e all’occultismo sebbene si accenda la critica ai filosofi che spiegano la natura a partire da categorie “astratte”, logiche, metafisiche, aderendo ad una schema aristotelico e non partendo dall’osservazione della stessa. Sono filosofi che spiegano bene il passaggio da un’epoca all’altra anche sotto il profilo sociale, tutti meridionali, rispettivamente di Nola (Napoli), Cosenza e Stilo sempre in Calabria, si formano in seminario il primo e l’ultimo mentre il secondo seguendo studi di filosofia, matematica e ottica restò comunque fedele alla chiesa cattolica e godette di appoggi papali. Eppure tutti insofferenti nello spirito all’ortodossia andarono incontro a processi, rispettivamente al rogo Giordano Bruno dopo che la richiesta di abiura totale, non più solo di dissimulazione, avrebbe compromesso la sua fedeltà al dovere di dire la verità, all’indice dopo la morte Bernardino Telesio con la sua opera maggiore, a 26 anni di carcere e torture Tommaso Campanella che dalla prigione scrisse le sue opere più importanti, compresa La città del sole, il modello di utopia di una vita in armonia con la natura, che riparò negli ultimi anni a Parigi godendo per poco di una relativa serenità. Vite costellate di situazioni tragiche - Bernardino Telesio fu sempre angosciato da restrizioni economiche, gli morì la moglie e gli fu ucciso il figlio - uomini in bilico tra il passato e il presente. Tra le curiosità, Giordano Bruno scrisse prevalentemente in latino malgrado il suo bisogno di innovare. Per chi riuscisse a recuperare questo esile e denso libretto, con l’inserimento circostanziato di alcuni brani, si ha il gusto di assaggiare lo spirito del Rinascimento e si è spinti ad una riflessione di grande modernità senza l’impegno di affrontare un testo filosofico. Michele Ciliberto, napoletano, classe 1945 allievo di Eugenio Garin, è Presidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento ed è titolare della cattedra della  Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Scuola Normale di Pisa. Con un linguaggio piano e una grande umiltà, un piacevole tono colloquiale ci restituisce l’uomo Giordano Bruno prima che il filosofo introducendoci al grande concetto di rottura che introduce, l’infinito, rispetto al finito, definito e concluso in sé. L’universo è scoperto come infinito e si ammette la possibilità degli infiniti mondi possibili, ridimensionando la posizione dell’uomo nell’universo e introducendo quello che moralmente sarebbe diventato il relativismo morale. Il tema della conoscenza stessa si relativizza e si crea un abisso tra Dio-infinito e uomo-finito-Cristo, con una critica serrata alla Trinità. Ecco che quindi da grande sostenitore del Cristianesimo diventa un antagonista, parlerà del Cristo come un ‘cattivo mago’, sulla base della riflessione filosofica che apre una voragine verso la modernità. Da qui un grande lavoro sulla cosmogonia e sulla magia come strumento di possibile conoscenza. Un piccolo libro che apre uno spiraglio sulla ricchezza radicale della cultura rinascimentale come preludio alla modernità, sull’alternativa della fede: al Cristianesimo si sostituiscono o comunque con esso si confrontano le religioni ermetiche, fondate sulla magia e legate alla figura di Ermete Trismegisto.

Michele Ciliberto
Giordano Bruno e la filosofia del Rinascimento
Collana Capire la Filosofia – La Filosofia raccontata dai filosofi
La Biblioteca di Repubblica, 2011  Pagg. 90

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Amogia del Mediterraneo di Riccardo Nicolai
di Mila Fiorentini

Riccardo Nicolai

Avvincente la versione per bambini, presto anche a teatro, di Riccardo Nicolai libraio sui generis di Massa Carrara, titolare, con il fratello di Ali di carta. O meglio libraio che legge e consiglia i libri oltre a venderli. Laureato in lingue e letterature straniere all’Università di Pisa, autore di libri sul territorio come Tenebre di porpora – Un racconto dei Liguri Apuani, ha pubblicato Alì Piccinin Un Mortegiano Pascià di Algeri del quale ha realizzato una versione per l’infanzia presto in versione teatrale.
Alì Piccinin, Ali Betchine, torna in Algeria. Il racconto del piccolo Aldino, bambino rapito dai corsari barbareschi a Mirteto, un paesino toscano sulle Alpi Apuane, alla fine del 1500, diventato poi rais e pascià di Algeri, è trasformato in un romanzo di Riccardo Nicolai, libraio. Accanto a riferimenti storici documentati e una descrizione viva di Algeri e della cultura locale e insieme ad una trascrizione impeccabile dei termini arabi, il gusto della narrazione tipica del romanzo classico d’avventura, d’armi e d’amore, che piega il linguaggio senza forzature, con grande destrezza, ai vari “dialetti” e alla lingua usata al tempo. Un libro che sembra contemporaneo delle vicende che narra eppure fresco, che si legge d’un fiato, imparando nel flusso degli eventi ed emozioni, una parte della storia che ci tocca da vicino e totalmente dimenticata. Nella versione per l’infanzia, Amogia del Mediterraneo, partendo dal titolo che indica lo spazio tra le dita della mano, fatto per intrecciare altri mani e quindi relazioni affettive, il messaggio si focalizza sul Mediterraneo come uno spazio dove costruire un ponte tra le due sponde, dove comprendersi senza conoscersi, dove l’amore e il rispetto è possibile al di là delle diverse lingue. Il Mediterraneo visto dalla sponda sud che si rispecchia nel Tirreno delle Alpi Apuane e delle sua cave di marmo e maestranze che costruiscono la moschea, inaugurata nel 1622, tuttora esistente di Algeri, Ali Betchine. Tra la piazza dei Martiri e il noto liceo Emir Abdelkader, all’incrocio tra la via Bab el-Oued e la Csbah, una piccola costruzione sormontata di finestre e un minareto che appare strana per la forma e le dimensioni contenute. Non ha infatti la tipica architettura di una moschea eppure non assomiglia alle case e palazzi della Casbah. La spiegazione ne rende ragione, costruita da un architetto di Costantinopoli su volontà di un italiano fattosi musulmano che utilizzò i marmi candidi di Carrara con inserzioni di paonazzo e maestranze apuane. La costruzione è tra l’altro celebre per la fontana che si trova all’ingresso, “la fontana della strada”. Questo il dono di nozze di Alì Piccini, Aldo il piccolino, figlio di Aldo, figlio adottivo del Rais el-Fettah, per l’amata Lallaloum, che simboleggia, come il nome che daranno al loro figlio, l’unione tra le due terre e le due culture. La storia è quella del piccolo Aldino figlio di gente modesta di un paese delle Alpi Apuane, la cui storia ho ascoltato personalmente in occasione del mio reportage ad Algeri e qui ritrovata e contestualizzata. Figlio di gente, Aldino, bambino sorprendente per il suo coraggio,  umile fu rapito dai Corsari che imperversavano sulle coste del Mediterraneo del Nord e nativo di una zona che da sempre aveva odiato i Romani ai quali non si era mai sottomessa, annientandone i legionari e sostenendo Cartagine. Salvato dal Rais di Algeri che lo comprò come schiavo adottandolo come figlio, dopo la morte di quello naturale in un terremoto, quello che analoghe scorrerie avevano ucciso, dopo l’iniziale disperazione, realmente amato, si converte all’Islam e alla “guerra santa” contro i cristiani pur non dimenticando mai i propri genitori. Storia dorata e crudele ad un tempo. Il romanzo ci accompagna nel piccolo dagli occhi chiari che cresce, diventa un buon musulmano, colto in lingua araba, e scala le gerarchie militari fino ad assumere la guida della Reggenza di Algeri. Valente e coraggioso soldato in conflitto con il sultano della “Porta sublime”, viene accusato di aver tenuto un comportamento insubordinato con una provincia suddita dell’Impero ottomano. Muore giovane avvelenato, lasciando una città che aveva fatto prosperare in poco tempo, prostrata in un lutto profondo, così come la sposa tanto amata alla quale dedica la moschea. Aveva sposato una delle figlie del re di Djebel Koukou rinforzando così la propria posizione e conquistando il sostegno della Cabilia. Storia avvincente grazie anche alla capacità iconopoietica di Riccardo Nicolai, e molto ben riuscito anche il quadro dell’ambiente della Capitale di Algeri dov’è stato presentato al Salone Internazione del Libro. Nella versione per bambini si rafforza il tema del messaggio di accoglienza e di dialogo tra le genti del Mediterraneo, mentre prendono spazio  le forza magiche della natura, la dea mediterranea che simboleggia il mare, come grembo materno; il Vento e così via che vengono di volta in volta in soccorso del piccolo. Una scrittura poetica e delicata che unisce il gusto della narrazione, arricchita da disegni, al concetto di fiaba per l’aspetto della morale senza dimenticare la storia.

Riccardo Nicolai
Amogia del Mediterraneo
Copertina e illustrazioni di Francesco Ascensao Cortez Pinto
Novembre 2017
Tipografia Impressum srl Marina di Carrara
14,00 euro
Versione per bambini: Alì Piccinin. Un Mortegiano Pascià di Algeri
Riccardo Nicolai,  2015
Tipografia Impressum, Marina di Carrara

2016, II edizione

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L’ORO DEI MEDICI
di Ilaria Guidantoni

Un romanzo storico noir che ancora una volta ruota intorno alla famiglia Medici, ormai quasi una moda. Il pregio è la chiave di lettura, il taglio economico legato all’oro dei Medici appunto e alle ricchezze di una famiglia in qualche modo locale - che pure ha fatto scuola nel mondo diventando il modello di nobiltà illuminata e di Rinascimento - a confronto con le grandi monarchie europee indebolite economicamente da assurde guerre di religione.
Al di là del racconto quotidiano, in parte anche legato alla finzione con alcuni personaggi di fantasia, il testo offre uno spunto di interpretazione sempre valida della storia e una ricostruzione dell’ambiente toscano della costa e delle fortezze medicee.
Il libro di Patrizia Dèbicke Van Der Noot, scrittrice nata a Firenze e bilingue grazie ad una nonna alsaziana - che ha compiuto gli studi all’Università di Grenoble e ha sempre viaggiato molto, dividendosi ormai tra Italia e Lussemburgo - racconta le contraddizioni di un’epoca e di una famiglia tra splendore e decadenza e un mondo senza scrupoli che non fa rimpiangere il passato. Siamo nel Granducato di Toscana nel 1597 quando l’'Italia è ormai caduta in mano agli eserciti stranieri, anche se siamo all’apice della cultura del Rinascimento e di fiorenti commerci internazionali. Impressionante è il confronto tra la famiglia di una città e le monarchie nazionali perché la prima regge il passo con le seconde. Questo dà la misura del potere dei Medici, nobili non di alto lignaggio ma forieri di un nuovo modello di potere, quello nato dalla capacità di fare della cultura un’impresa e fondato sulla ricchezza liquida. Un vero e proprio modello di modernità, forse mai eguagliato, che getta uno sguardo critico sull’interpretazione della storia. E’ l’oro la vera ragione del contendere e se le guerre di religione, già allora giudicate assurde, evidenziano anche come rappresentano una causa di rovina per gli stati, proprio per questa ragione si esauriscono. La pace alle soglie del Barocco dunque non è un obiettivo morale, un credo democratico ma un’esigenza economica. Niente di nuovo sotto il sole verrebbe da dire. L'Europa riconosce e ammira lo splendore e l'eccellenza dei banchieri più potenti al servizio dei sovrani europei che sono italiani, genovesi e fiorentini. Firenze è uno stato ricchissimo sotto la guida di un'illustre famiglia di mercanti e banchieri e il loro oro fa invidia a tanti e, chi non riesce ad averlo in prestito, tenta di sottrarlo in modo subdolo e illecito. Organizzando, ad esempio, un orrendo ricatto nei confronti del granduca Ferdinando I, la cui vicenda è al centro del libro, di cui verrà subito a conoscenza il fratellastro, don Giovanni de' Medici, geniale architetto, ingegnere, poeta e musicista, nonché comandante della flotta granducale e amante delle belle donne. Così, tra Livorno, Firenze e Ajaccio, in bettole malfamate e in ville aristocratiche, Don Giovanni, insieme al fidato capo della polizia del Granducato, condurrà un'indagine che lo porterà a scoprire i mandanti e ad affrontarli in un'epica battaglia navale al largo delle coste toscane.
«Come Don Giovanni sospettava e temeva, gli uomini che facevano parte del complotto contro il granduca erano già a Firenze da giorni. Erano pronti a mettere in atto il piano prestabilito. Avrebbe dovuto scattare il 3 dicembre, giorno previsto per la prima rappresentazione della DafneDafne ci porta al centro della cultura rinascimentale e dell’originalità fiorentina essendo la prima opera lirica riconosciuta come tale, rappresentata per la prima volta a Firenze, composta da Jacopo Peri su Libretto di Ottavio Rinuccini. Da lì la fortuna del Melodramma italiano che ancor oggi costituisce la via preferenziale della trasmissione della nostra lingua nel mondo.
Gli aspetti forse più interessanti del libro sono, al di là dell’intrico della vicenda, che mescola vita familiare e strategia militare, la connivenza e il doppio gioco della chiesa, gli inserti descrittivi dei luoghi fiorentini e della costa, da Piombino a Livorno, per addentrarsi nella campagna di Colle Salvetti e ancora il santuario della Madonna di Montenero a Livorno, la nuova Fortezza Medicea, come a Firenze il Forte Belvedere e Palazzo Pitti, pennellate veloci che non diventano mai “appendici” pesanti, ma che rappresentano tuttora una guida leggera per visitare questi luoghi e anche per mettere in relazione la città delle colline con l’importanza strategica del mare.

Patrizia Dèbicke Van Der Noot
L’oro dei Medici
Tea Ed. 2018
Pagg. 348, € 13,00

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Guillaume Musso. L’instant présent
di Ilaria Guidantoni

La copertina del libro

L’Instant présent, non ancora tradotto in italiano, è un romanzo di Guillaume Musso secondo alcuni l’autore francese più letto. Io sono sempre prudente con le classifiche perché per altro mi risultava fosse Yasmina Khadra, algerino francofono, residente in Francia. Certamente autore di successo, ho resistito alla tentazione per un pregiudizio al contrario, diffidente verso quello che piace ai più, non per snobismo ma perché spesso si tratta di successi creati a tavolino grazie a strategie di marketing che raccontano in qualche modo i bisogni indotti che non risparmiano neppure la sfera culturale. Alla vigilia della grande partenza per le vacanze la curiosità per quello che leggono i più soprattutto per svagarsi è una tentazione irresistibile. Leggendo qualcosa di Musso, classe 1974, si scopre che ha conosciuto la notorietà nel 2004 grazie al suo primo romanzo, L´uomo che credeva di non avere più tempo, tradotto in più di venti lingue e diventato anche un film. Tra i suoi numerosi successi, che hanno venduto oltre 22 milioni di copie nel mondo, ricordiamo: Quando si ama non scende mai la notteLa donna che non poteva essere qui, La ragazza di cartaChi ama torna sempre indietroTi vengo a cercarePerché l’amore qualche volta ha pauraIl richiamo dell’angelo, Aspettando domani. Best-seller n. 1 in Francia, Central Park ha venduto oltre un milione di copie. In Italia è tradotto da La Nave di Teseo, Sperling & Kupfer e anche BUR. Io sono riuscita a scegliere l’unico romanzo ancora non tradotto. Il francese è relativamente semplice e scorrevole. Devo ammettere che è una letteratura corrente, come io amo definire questo genere di romanzi, comunque piacevole, ben scritta, che incontra i desiderata più diffusi del pubblico: il lato noir, giallo, che è il genere che più ha successo anche in termini economici e che pertanto è incentivato dagli stessi editori, con intrecciata una storia d’amore che comunque conquista. Tra New York e la Francia, visita luoghi che stuzzicano l’immaginario collettivo. E’ difficile recensire questo libro senza correre il rischio di raccontarvelo, fatto che sarebbe un vero e proprio peccato perché la scoperta avvincente con una trama intricata ma in fondo anche piuttosto semplice è uno degli ingredienti essenziali del libro. Con l’escamotage del libro nel libro crea un corto circuito onirico e alla fine sembra svelare che quel lato noir legato al mistero, a un aspetto ombroso e quasi fantasy potrebbe essere una costruzione raffinata di ordine onirico-psicologico. Al centro un faro in eredità e il suo mistero inquietante che racconta le difficoltà dei rapporti familiari, i lati oscuri di ogni relazione intima. Protagonisti un medico di pronto soccorso e una ragazza che lavora in un bar underground di New York per pagarsi gli studi e la loro storia, appassionata, autentica, tra mille difficoltà, con al centro il tema del tempo, che annienta, polverizza tutto. Il romanzo non lascia intendere se la vicenda e la maledizione del faro sia solo una metafora, un’illusione o un incubo che vie il protagonista, o invece realtà, quella di un mondo parallelo: il senso è pero svelato a poco a poco, la tentazione di andare “oltre”, oltre le colonne d’Ercole, di rischiare. Il tema che non emerge subito è quello del tempo e sembra che l’incubo che vive il protagonista sia quello dell’esistenza, di ogni esistenza: l’inconsistenza e ad un tempo la pregnanza dell’istante presenza, senza il quale il tempo e la vita non esisterebbero; eppure proprio il momento divora e sembra rendere inconsistente la realtà, tuttavia il condannato alla vita, al tempo vive sognando, come il prigioniero, il giorno della propria liberazione. Riflessione filosofica leggera, in punta dei piedi, appena ammiccante. Il finale è a sorpresa ma non è eclatante come si immaginerebbe, è un sogno quotidiano discreto che non ci assicura il lieto fine ed è proprio questa scommessa che piace a mio parere al pubblico: qualcosa di consolatorio che spinge a sognare o meglio a ricercare la felicità rimboccandosi le maniche con una promessa temperata. È un lieto dei finale dei nostri giorni con tutte le incertezze che conferma però la capacità ancora creativa dei francesi di affidarsi alla narrazione pura che è finzione e non fiction, che si stacca, grazie anche alla dimensione surreale tra il sogno e l’incubo, dalla realtà di tutti i giorni e che conquista la lettura, fuori dalla falsariga delle fiction televisive che sono il seguito del telegiornale. È così che possiamo svelare alcuni passaggi finali del libro senza raccontarvi nulla. Lisa, ormai moglie del protagonista, Arthur, al quale è rimasta accanto malgrado la sua costante mancanza di tempo, sia pure per ragioni che non dipendono strettamente da lui gli confessa o forse gli propone. “Non sarà più a quattro, Arthur, ma si può ancora fare la scelta di essere due. Si è già attraversato molte prove… La leggenda del faro diceva il vero: i venti quattro venti non lasciavano niente sul loro passaggio e questo forse andava anche bene così. Dato che è il seguito della storia che conta. Ed erano d’accordo per scriverlo insieme.” Sarebbe interessante dopo l’estate sapere cosa ne pensano i lettori di Odissea.

Guillaume Musso
L’instant présent
Pochet XO Éditions,  2015
Pagg. 372

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La lune dans le puits
Histories vraies de Méditerranée di François Beaune
di Ilaria Guidantoni
La copertina del libro

Un’Odissea moderna con un Ulisse spettatore partecipe a livello emozionale che compie il suo viaggio attraverso le voci degli altri. Scritto come un reportage, La lune dans le puits, letteralmente La luna nel pozzo, non ancora tradotto in Italia - è anche un diario di viaggio e vede l’autore, François Beaune, comportarsi più come regista che come uno scrittore, resistendo alla tentazione di mettersi in primo piano. Unica concessione il corsivo che, come dice nella premessa, “il corsivo sono io”, ovvero quei piccoli inserti che lasciano intravedere la mano scrivente, spesso solo per citare il narratore del capitolo.
Concepito con una scrittura veloce e vivace, il libro si articola in tanti piccoli episodi che portano a spasso il lettore nel Mediterraneo, senza ordine, tra città che tornano e ritornano ad intervalli più o meno lunghi di pagine come Beirut e il Libano perennemente in guerra, Palermo, Tangeri, Marsiglia; Tunisi con l’occupazione tedesca durante la Seconda Guerra mondiale, la storia del suo travagliato sindacato fino all’ascesa del consumismo; Algeri e l’atrocità de la décennie noire; Gaza e tantissimi altri luoghi. Nello stesso tempo è un viaggio nel tempo, attraverso le età della vita, rispettivamente dall’infanzia, all’adolescenza, alla giovinezza e maturità, non citate se non attraverso le decine che vanno dai vent’anni a sessant’anni, quindi la vecchiaia e la morte. In ogni parte le storie narrate in prima persona dal personaggio, eroe di turno (perché in questo libro, sottolinea Beaune “gli eroi siete voi”), che magari riferisce di storie che ha a sua volta ascoltato, si riferiscono a quella determinata stagione dell’esistenza. Le storie di Beaune sono così dettagliate e singolari da apparire uniche e talora surreali, senza però perdere l’orizzonte della storia, della grande storia, pescando nel passato degli eventi ufficiali di queste terre, per restituirne il vissuto dei suoi personaggi.
Tra il dicembre 2011 e l’aprile 2013 François Beaune è partito per raccogliere storie vere del bacino del Mediterraneo, come recita il sottotitolo, ispirandosi come dichiara esplicitamente, all’esperienza di Paul Auster. Dove la verità può essere anche quella dell’immaginazione. Non si tratta di una verità scientifica, come quella del racconto di un reportage giornalistico, né è un’antologia di cronache ma di “novelle” in senso etimologico, che mirano all’autenticità delle emozioni. L’autore ha scelto di trascriverne circa duecento in forma di biografia immaginaria appunto, come se ognuno di noi fosse l’eroe di un individuo collettivo, chiamato storia. Una sorta di epica moderna, fatta di quotidianità, un genere che non sente la stanchezza del tempo e che ridisegna la propria grinta grazie ad un’eccezionalità non ideale, a dimostrazione che la vita ha più fantasia degli scrittori.
Quest’Odissea dei nostri giorni deve il suo titolo, come ha raccontato lo stesso François in occasione della settimana francese in Italia, tra Firenze e Scandicci, agli incontri promossi dall’Institut Culturel Français, all’importanza della giusta distanza per mettere a fuoco le cose e della mediazione, forse della scrittura che, come uno specchio riflette e decripta la realtà: proprio come l’acqua in fondo al pozzo fa con la luna. In un passaggio racconta che “Leonardo Sciascia scrive che la verità è in fondo a un pozzo. Se guardate in un pozzo: vi vedete il sole o la luna, ma se vi gettate nel pozzo, non c’è più né sole né luna; c’è la verità.
Protagonisti gli uomini e non il mare che pure fa da cornice alle storie che disegnano quella che Beaune considera la sua sola e possibile biografia. L’autore tra l’altro non sembra amare particolarmente il mare, convinto anzi che gli uomini amino soprattutto la terra, ma ama questo continente liquido: le terre appunto che lo lambiscono. Ecco perché il suo Mediterraneo può cominciare a Lione. Senza perdere la verve e la sua inclinazione narrativa, questo autore del quale abbiamo già recensito Esprit de famille, ambientato in Libano (e pubblicato dalla casa editrice tunisina francofona Elyzad), ha indubbiamente lo spirito del giornalista, del cronista curioso e un gusto per l’organizzazione della scrittura come una partitura musicale, dove il numero, siano le “77 posizione del Libano”, una sorta di Kamasutra della famiglia, o le stagioni della vita, segna il tempo. Il suo Mediterraneo non ha confini, di lingue, religioni, classi sociali e l’autore sembra divertirsi a scoprire a più riprese nella stessa città lati diversi e talora nascosti. Una cosa è certa, mostra fin dall’inizio la spinta alla curiosità e alla conoscenza come uno degli attributi dell’essenza dell’uomo, proprio come il cucciolo dell’elefante che ha l’istinto di andare, per testare un altro terreno. Evidentemente la domanda resta più importante della risposta perché, come afferma l’autore, non è la verità nuda e cruda che lo interessa ma il sole e la luna che si riflettono al fondo del pozzo.   

François Beaune
La lune dans le puits
Histories vraies de Méditerranée
Gallimard, 2017
Pagg. 511  € 8,30 

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Delitti e vecchi merletti
di Paolo Maria Di Stefano


Venti casi di cronaca, ovviamente nera, raccontati da un cronista di grande rilievo, che della cronaca, ovviamente nera, ha fatto la sua professione negli anni numerosi trascorsi con successo al Giorno, ovviamente come cronista, ovviamente di cronaca nera. Non stupisca questo mio insistere sul nero ovvio della cronaca. I fatti che ne sono da sempre oggetto lo sono, a mio parere, proprio perché solleticano l’interesse più o meno morboso del pubblico in genere, dei lettori dei quotidiani in particolare e, oggi, anche di coloro che si incollano agli schermi della televisione e/o dei computer, personali o meno. Cosa che non avviene – almeno non nella stessa misura- per gli accadimenti che neri non sono e che, per questo, vengono catalogati come materia di una cronaca bianca che pare interessare poca gente e che non incrementa le vendite dei giornali così come non contribuisce  se non in modo del tutto trascurabile al livello degli indici di ascolto. Personalmente il colore della cronaca non mi interessa più che tanto, nera o bianca o diversamente colorata che sia.
Ma una cosa a me pare incontestabile: cha la cronaca è sempre stata, è ancora e sempre sarà il fondamento di quella che chiamiamo storia e che, forse anche per il prevalere del nero della cronaca, è da sempre racconto, in qualche modo filtrato e stabilizzato, di un susseguirsi di fatti violenti, di manifestazioni di prepotenze, solo a tratti brevissimi intervallati da episodi che io definisco “più civili”. O “meno incivili”.
Certo è che quando Moroni narra del “lago rubato” (pag. 53) immerge il lettore in quel mare di corruzioni, di esercizi distorti del potere che oggi ancora permeano politica ed economia; e quando fa riferimento a Cesare Lombroso “l’inventore della antropologia criminale, cioè della moderna criminologia” (pag.77) lumeggia il modo di lavorare di scienziati di ieri e di oggi: attaccarsi a fatti di cronaca per porsi quali protagonisti di indagini e di conclusioni quanto meno discutibili.
E sempre nella cronaca, nera, ovviamente, l’Autore sembra lanciare un flash sui delitti della Politica. “(Omissis) L’Italia ha già avviato il progressivo avvicinamento che alla fine porterà il gabinetto Salandra a schierarsi con le potenze dell’Intesa. Un capovolgimento di fronte che avrebbe trovato nel generale Alberto Pollio uno strenuo oppositore e un irriducibile paladino dell’alleanza con gli imperi centrali. Un baluardo. Forse l’ultimo. La morte del generale è uno dei Grandi misteri d’Italia.” (Pag.169). E un mistero sembra la morte di Anita Garibaldi. E poi, la narrazione di delitti orrendi nella zona di Bottanuco, quattro passi da Bergamo, ad opera di uno “squartatore di donne”.
Venti episodi di cronaca, ovviamente nera, alcuni di non facilissima lettura, tutti documentati secondo i principi che fanno di un cronista, ovviamente di nera, un professionista anche degno di fede.

Gabriele Moroni   
Delitti e vecchi merletti
Casi di cronaca nera che hanno fatto la storia
Mursia 2018, pagg.229 euro 16 

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La strada dei sogni di Chiara Zanini
di Isabella Rotti

La copertina del libro


Dopo aver indagato con successo la vita di una star del basket americano con il suo best seller Cinque Piedi e un funerale (Feltrinelli Editore) Chiara Zanini intreccia tre racconti a latitudini diverse, tre angoli di mondo apparentemente estranei gli uni agli altri, accomunati da un filo comune, la strada. È la storia di Vincenzino, detto Sandokan, un bambino di otto anni convinto di essere il gemello di Maradona. Siamo a Napoli nei primi anni ’80 e il calcio rappresenta per lui e il suo gruppetto di amici una sorta di riscatto. Il calcio come linguaggio per comunicare, ma soprattutto per sognare: “Voi sape’ cosa si fa in strada tutto ‘o tiempo?... Si sogna. E po’ si sogna in gruppo. Na cosa che è capace ’e sollevarti da terra”. Con Sandokan, troviamo Rosario, il suo primo amico, detto Asso di Spade, perché fa colpo sulle donne; Domenico, detto Doberman, perché si attacca alle caviglie degli avversari e non le molla più; e poi Cosimino, il più piccolo di tutti, vero enfant prodige del calcio. I quattro diventano amici giocando a pallone, si ritroveranno grandi uscendo dai vicoli di Secondigliano.
2001. Charlotte lascia la sua Chicago per ritrovarsi. Quarant’anni, un divorzio alle spalle, vola fino a Durban, in Sudafrica, per insegnare in una scuola femminile. Un’Africa primordiale, eppure così magnetica, quella inseguita da Charlotte. “Come ha detto Jacobus, al rientro dalle cascate McIntosh: Dio passa la giornata altrove, ma la sera ritorna in Africa”. Nel crogiuolo razziale e culturale post apartheid, dell’istituto dove insegna, Charlotte trova in tre sue allieve, Ntosh, Kajal ed Elize, la strada e l’impulso per ricominciare a vivere un’esistenza vera, al di là delle regole e delle convenzioni.
1992. Jasminko, dieci anni, è costretto ad affrontare le strade di Sarajevo sotto le bombe. I ricordi della sua infanzia dorata, dei giochi con la sorellina, sembrano lontani durante i costanti assedi serbi alla città. Finché un giorno incontra il Mago delle seggiole, Zoran. Un anziano enigmatico, che gli insegna a impagliare le seggiole. E non solo. “Quanto a Zoran, ormai lo conosco: io e lui abbiamo un piano a lungo periodo. O meglio prima era tutto suo, poi è stato così buono da imprestarmene un pezzo”. 
Con uno stile asciutto, caratterizzato da scioltezza nei dialoghi e da un’attenta introspezione psicologica dei personaggi, Chiara Zanini offre con “La strada dei sogni”, degli intensi spaccati esistenziali, tre storie di eroi dei nostri tempi. Siamo più dalle parti della scrittura anglosassone, molti fatti e poco spazio al facile sentimentalismo. Un trittico di racconti da leggere tutto d’un fiato, sull’onda di una partecipazione reale, di un’emozione vera e mai indotta.

Chiara Zanini
La strada dei sogni
Youcanprint Self-Publishing

Pagg. 182 € 12,50

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Albert Memmi. La statue de sel
di Ilaria Guidantoni
La copertina del libro

Un romanzo autobiografico, sulla condizione della propria appartenenza plurale, soprattutto a livello linguistico. Una conferma della ricchezza delle differenze quanto del travaglio che esse comportano: la conferma per altro di quanto la lingua non sia solo uno strumento di comunicazione ma una visione della vita, parlando la quale ne assumiamo le sembianze. Il racconto appassionato di un tunisino ebreo, di origini italiane da parte di padre e di madre berbera della minoranza ebraica, che non è riuscito ad adattarsi a nessuna etichetta, nel momento difficile in cui il protettorato francese ha incontrato la questione delle razze.

Il romanzo autobiografico, o meglio la finzione letteraria autobiografica, di Albert Memmi (nato a Tunisi nel 1920 da un famiglia tunisina di lingua araba) si dimostra di grande attualità anche se la data originaria di pubblicazione risale al 1953, che nell’edizione rivista ha la prefazione di Albert Camus, altro autore déraciné che ben conosce la complicazione, intrigante, di appartenenza multiculturali. Tradotto in italiano nel 1991 (per i tipi Costa & Nolan, 317 pagine) è una storia semplice, quella di un bambino figlio di François Memmi, ebreo di origine italiana e di Marguerite Sarfati, madre berbera della minoranza sefardita locale, che vive nei vicoli di Tunisi, a ridosso del ghetto, in fondo all’impasse Tarfoune e poi nella zona tipicamente ebraica del Passage. La sua è un'infanzia felice anche se ben presto il protagonista si scontra con la realtà, ostile, fatta di povertà, separazione, pregiudizio. Si fa così strada in lui la consapevolezza del proprio destino fatto di esclusione e di sradicamento, a causa di una formazione culturale che gli impedirà di riconoscersi nelle tradizioni della comunità ebraica, senza peraltro potersi identificare in una comunità nuova da cui resterà comunque escluso. Da qui la fuga, non verso l'Africa che rifiuta, ma nemmeno verso l'Europa che ha rifiutato lui, ma verso il nuovo mondo, un mondo senza passato, l'America. Lungo il cammino il dramma del popolo ebreo e dei campi di lavoro sotto l’occupazione tedesca, presenti nello stesso Maghreb, che lo fanno sentire improvvisamente coinvolto nel destino di un popolo al quale sente in qualche modo di appartenere. E’ certamente un coinvolgimento empatico di stampo morale e di solidarietà sociale, essendosi allontanato dalla religione e anche della lingua, avvezzo a parlare solo il patois di Tunisi, un idioma che “sporca” l’ebraico con l’arabo tunisino e il francese in primis. Nondimeno il protagonista non è un francese de souche e non è neppure un italiano anche se per parte di padre (di professione sellaio, al quale è dedicato il libro) discende da un pittore rinascimentale. Albert Camus mette l’accento proprio sulla complessità biografica che sfugge a qualsiasi catalogazione, a cominciare dal suo essere scrittore tunisino anche se francofono; ebreo solo per origine e influenza anche se in questo libro riprende nel titolo la Genesi, 19, 26 nel qual si dice “La moglie di Loth guardò indietro e divenne una statua di sale.” Memmi per altro non è nuovo a titoli “biblici” come Agar, storia d’amore drammatica legata allo scontro di due culture che in alcuni casi coabitano in una stessa persona. In effetti il protagonista, come sottolinea Camus nella sua introduzione, si rende conto di essere ebreo quando durante il primo pogrom gli arabi massacrano gli ebrei e quando la Francia di Vichy lo consegna ai tedeschi; non solo, ma la Francia libera gli chiede, quando il protagonista vuole battersi nel suo nome, di cambiare l’assonanza ebraica del suo cognome. La scrittura sembra un modo per curarsi e liberarsi di chi non si sente di appartenere a nessuna delle culture che pure lo formano, almeno non nel senso abituale. Così se si allontana dalla religione ebraica e dai suoi rituali che gli appaiono ridicoli, non per questo rinnega le tradizioni. Camus non ci dà la risposta a dire il vero; si limita a porre la domanda, lasciandoci indovinare il suo pensiero. La scrittura diventa il laboratorio della propria identità, per fasi successive durante le quali il bambino prima, il ragazzo poi, l’uomo alla fine, si mettono in discussione per ritrovarsi ogni volta in un equilibrio precario nel quale resta sempre qualcosa da distruggere (parole testuali di Memmi). Il romanzo, gradevole alla lettura, anche per il piglio autoironico, è stato negli anni un modello per il romanzo tunisino e algerino, soprattutto su alcune tematiche essenziali, quali il colonialismo, il razzismo, l’emarginazione, la società multiculturale. Anche leggendo la formazione di Albert Memmi di capisce l’insorgere di simili tematica: si è infatti formato alla scuola francese, dapprima al Liceo Carnot di Tunisi e poi ha studiato all’Università di Algeri, dove ha studiato filofofia; infine alla Sorbona a Parigi.

Albert Memmi
La statue de sel
Prefazione di Albert Camus
Éditions Gallimard, 1966

 Albert Memmi
La statua di sale
Costa & Nolan, 1991