GOOGLE, FALLACE DIVINITÀ VIRTUALE
di Claudio Zanini
Tra i molti versi dell’intenso libro di Adam
Vaccaro, Google. Il nome di dio, mi
hanno colpito quelli dedicati al novello oracolo postmoderno: Alexa (anch’io ne ho un esemplare). La si
interroga, dunque, questa novella Sibilla, aspettando la risposta. Pausa
ansiosa, quindi, s’ode quel languido risuonar vocale che par rivolgersi
esclusivamente all’intimo tuo, segreto. Voce di simulacro incorporeo che allude
alle strabilianti cose che potrebbe dirti, inducendoti a immaginarle in
favolosi sogni, non a percepire l’esiziale inganno che t’irretisce. (Nota: nel
film Her, (2013) di Spike Onze, uno
scrittore s’innamora di una virtuale ma suadente voce femminile. Finirà
amaramente disilluso quando Her gli
dice che ha un paio di milioni d’amanti come lui.) Il poeta, però, non si
lascia sedurre, anzi svela, con crudele sarcasmo il raggiro. Lo smaschera: Alexa, “piccola madonnina sul comodino”
d’apparenza innocua è tremenda creatura dell’orrore plasticato. Voce, “che non
puoi vedere né sentire” d’algoritmico nitore, perfetta nel suo vuoto suadente e
nell’assenza di corpo e anima; “madonna-universo di miliardi di stelle,
stelline madonnine” (27). Insieme ad altri sofisticati marchingegni, Alexa è generata dal potente dio Google, che chiede al fedele di
affidarsi totalmente a lui: “venite a me, fanciulli (…) credete in me, solo in
me”, (24). Divinità virtuale e in ogni luogo che, sebbene prometta un universo
di merci, non riesce a concedere neanche “un po’ di pio pane di pace” (28) a un
diseredato in fila al “Pane quotidiano” e dispensa soltanto illusioni e
speranze fallaci.
Alexa, dunque, come il Bimby prodigioso
che “frulla, t’impasta e ti cuoce” (29) non solo il cibo ma anche la tua carne
e il tuo cervello, in un turbinio inarrestabile; come l’oggetto microscopico di
plastica, metallo ed elettroni ignoti, che “ti entra nella carne, nella testa
nel cuore con bit di un ago / capace d’infilzare anche l’ego che si crede più
immune” (25); e i mille nuovi Canali TV, ciascuno esclusivo per te utente consumatore, in cui si può “dimenticare
ogni angusto pensiero” e ricevere falsità spacciate per unica verità (26). Quindi, l’infinita litania
delle strepitose occasioni: “solo 99 euro al mese, anzi 89, (…) solo 69, ma
l’offerta finisce” (30) inesorabilmente domenica per ricominciare il lunedì; e,
ancora, l’armonia intatta sebbene nauseante dei vari mulini bianchi “dove non si sente il grido di milioni di morti di
fame” ma è ribadita “l’importanza di depilarsi (…) deodorarsi e profumarsi (17/18).
Un martellamento di “deliranti spot
ininterrotti di 1000 TV” (54) che sfinisce ma non finisce, una sorta di
costante colonna sonora che frulla il nostro cervello e avvelena la mente.
Sono versi duri
e amaramente sarcastici della prima sezione del suo testo, Cuore nero, titolo che, non a caso, richiama alla mente Cuore di tenebra dove Conrad descrive l’infamia e l’orrore della
colonizzazione in Congo. Anche
qui si tratta di colonizzazione delle nostre menti, che Vaccaro mette lucidamente
allo scoperto: “impareremo a essere / più rispettosi / più sospettosi / più
patriottosi / più esclusi / più ansiosi forse / più ammansiti o / più
annientati …” (40) e “italiani
educati come bambini / in fila rieducati come topini / come marmotte
pietrificate” (41); e così via.
Impiegando magnificamente il medesimo lessico del linguaggio mellifluo e
insinuante, ma stravolgendolo contro il sistema che lo produce e mostrandone
gli inganni, Vaccaro svela quella strategia di livellamento sociale che, come diceva Pasolini, tende a
“deformare la coscienza (dell’individuo) fino a un’irreversibile degradazione”.
Uno stordimento esiziale in cui, tuttavia, scrive Vaccaro, presto dell’”ala
gelida del male potrai sentire anche i denti – che dei sapori dell’amore amano
il suo caldo sangue” (33); in effetti, “volano avvoltoi su noi come fossimo
carogne da spulciare” (16). Sono “intelligenti cretini” i cinici dominatori d’una
realtà dove “maiali che grufolando ci succhiano la pelle e l’anima” (50), “spacciano
falsità come unica verità”; sciacalli famelici e assetati si nutrono “persino
della tua pietà” (51).
Oltraggiata,
la lingua viene ridotta a miseri stereotipi anglicizzanti, a cliché vuoti di
significato. Siamo, infatti, costretti a leggere e sentire questi orrendi suoni: runner, startapp, easy, smart, light, like, wireless in tilt, trendy, ecc. (17),
oppure a subire l’inflazione delle faccine gialle, simpatiche icone che però riducono
il senso, allegramente lo svuotano. Sostituendola, immiseriscono la lingua.
Tale
impoverimento è sintomo palese di quella mutazione antropologica, prodotta dal
neoliberismo, che Pasolini aveva previsto: “mostruosa omologazione alle regole
di un pervasivo mercato globalizzato, un adeguamento generale dell’umano alla
sola dimensione del consumo” con i suoi mortiferi feticci, la tragica riduzione
della complessa bellezza del mondo a una manciata di algoritmi prodotti da un
Potere avido e totalizzante, funzionali al modello di sviluppo neoliberista che
ci vogliono imporre.
Siamo,
dunque, soffocati dalle spire del gergo di “rimbambilandia”, squallido e
conformista, appiattito su un misero presente e funzionale al mercato
globalizzato. Opposta e rara è invece la
parola poetica che, scrive Vaccaro, deve assumere un ruolo etico, incidendo il
reale come “un coltello impietoso che divida il male e il bene”.
Si è già
accennato a come l’autore impieghi gli stessi neologismi di questo perverso lessico
torcendolo contro sé stesso. Con sarcasmo lo cita - adottando il tono scandito
dell’invettiva e dell’amara ironia - smascherandolo in sequenze in cui interrompe
la fluidità del verso mediante un ritmo sincopato, fratture d’arbitrari a capo
(enjambement anche a mezzo d’una
parola), ripetute allitterazioni, inceppamenti e pause ansiose nell’ordito del
discorso.
La scrittura
poetica di Vaccaro, tuttavia, non è solo fiera invettiva e denuncia, in quanto si
avvale di molteplici registri espressivi, coinvolgendo il lettore in un flusso
emotivo dove la parola si manifesta sia come materiale corporeo dagli aspetti
bassi e triviali, sia come lingua lirica in grado d’esprimere emozioni e
sentimenti e “sappia ancora dire di me e di te”. Possa essere, in poche parole,
autentica comunicazione tra umani soggetti, e dire quell’indicibile che mai, nessun algoritmo potrà ingabbiare.
Se povertà e
vuoto di senso caratterizzano il lessico del linguaggio dei cosiddetti social, il medesimo vuoto permea la
condizione umana cui il poeta si rivolge con testi d’appassionata e dolente
partecipazione.
Vaccaro tratteggia
con crudo realismo figure di diseredati avvolti dal vuoto, di vinti “muti
dietro al nulla” (Marina e Renzino) (19), relitti umani che hanno “già visto il
vuoto” (il ragazzo che si occupa “di arte della sopravvivenza” (21); di rappresentanti
un’umanità misera rintanati come topi sotto un “ponte pieno di niente” (Pietro-Mohamed)
o dentro un tubo di ferro; oppure di emarginati come Rosina, desolata creatura sotto
“un cielo lattemiele e gelo della tv” che chiede a lei 9 euro per i bambini
dell’Africa mentre spudoratamente cresce la ricchezza dell’oligarchia “dominante
del vento iperliberista”, di coloro che “salvano il capitale dalla caduta del
saggio di profitto, ammassando miseria a miseria, disperazione a disperazione” (54);
mentre “il denaro (diventa) (…) mina vagante nelle mani d’invisibili croupier sul tavolo dell’immenso magma
di debiti imposti / al mondo” (49) e di coloro che perseguono la logica chimerica
e perversa dell’infinita crescita del PIL.
Fronteggia
questo rovinoso panorama contemporaneo, infida “palude senza guida e senza
idee”, il recupero della tradizione attraverso il ricordo di paesaggi
dell’infanzia: la natura della campagna molisana, “la piazza e / la linea della
collina che incorona / il limite del / mondo”; un aspro “paese di sassi… (con)
sentori di vita e d’infinito” dove sgorgava una fonte “la cui acqua poteva dare
l’illusione di tergere tutti i peccati e gli orrori del mondo” (63). Sono
concrete e vitali memorie di sapori, aromi, sensazioni che evocano sullo sfondo
un appassionato slancio verso l’utopia di un possibile altrove giusto e armonico.
Ecco, ancora
Ciao bella ciao, canzone partigiana e
voce dell’anima smarrita che immagina “un cielo ancora possibile, - unico tra
passato presente e futuro” (55), ora negato ma costante presenza nel pensiero
e, soprattutto, nel cuore del poeta. Un ideale possibile vivificato dal ricordo
della Resistenza, che risuona nell’esortazione di Vilma, staffetta partigiana:
“forza! La vita è vostra e nelle vostre mani, ragazzi!” (57). Poiché c’è
ancora spazio per “fondamenti d’inventio e bisogni di ricostruzione tra ridenti
pori e colori di libertà” (58).
Un bagaglio
ricchissimo di ricordi che, dunque, non sono mai riflusso nel rimpianto del
passato, bensì rielaborazione costante del vissuto e consapevolezza della
necessità d’agire nella storia presente.
Il poeta,
infatti, rivedendosi ragazzo, chiede a quel lontano sé stesso: “profumami
ancora origano molisano questo mio stare qui” (64).
Questo “qui”,
è l’oggi di Adam Vaccaro che, alla conclusione d’un percorso individuale - dalle
radici mai recise nel cuore di una natura contadina, al tempo presente nel
fervore della metropoli milanese -, vive il suo attuale impegno aprendolo all’altro (per esempio, con l’associazione
culturale Milanocosa) con la medesima
passione. La sua poesia si rivolge a un interlocutore che intende scuotere e
indignare esortandolo alla lucida critica e al dissenso nei confronti di una società
che si riempie la bocca di valori che costantemente infanga e tradisce.
L’ultima
sezione, Cuore bianco, si apre con la
considerazione: ora sono “ricco e immenso in ogni cosa”, dopo “la conta delle
spese e dei presagi”; vale a dire, dopo l’attraversamento
di una vita (60), scrive l’autore in un sonetto di suggestione e misura
dantesche.
Nel suo
denso itinerario esistenziale persiste il pensiero costante delle “forme di
un’utopia (…) resistente nella mente”, “un’utopia impossibile imprevista e
resistente” cui corrisponde la volontà indomita di chi non s’arrende e si
esprime aprendo bianche ali e “spiccando voli negati che il cuore continua a
inventare” (62), e “polvere di morte che (…) si alza e ritrova il volo” (65);
come il fiore d’autunno che “non smette di parlare della primavera”
preannunciandola.
Infine, in
chiusura, ci sono le poesie dove la speranza si realizza, quasi il progetto
d’un mondo nuovo acquisisse una forma vitale, reale e viva, nei nipoti, nuovi
nati. Il linguaggio si fa meno aspro, più dolce e trasparente. Smussa le
asperità dell’invettiva, quasi illuminandosi in attimi d’infinito (vedi Chiara luce, 71). Oltre la trama d’un
sistema che vorrebbe pietrificarlo nei suoi infallibili algoritmi, scopre il
tempo ignoto nel mistero della nascita (72); riconosce una temporalità che
ubbidisce soltanto ai ritmi della natura e agli spazi dell’affettività. In parallelo,
alla delicata e nitida presenza dei nuovi nati, si delineano le affettuose immagini
del padre, “viso pulito di staffetta militare” in Croazia. Lo rivede in una
vecchia foto, con quel “sorriso rimasto in me”… nel “disfatto viso di ritorno a
casa dal tuo inferno tedesco” (75). Cui si aggiunge il ricordo del nonno,
seduto sulle sue ginocchia, “radice viva che resiste e batte ancora qui,
intatta” (76). Un canto
alla Vita e una commossa rievocazione paterna concludono questa intensa vicenda
poetica. “Un percorso che da un inferno risale ad attimi di un possibile
paradiso”, come scrive lo stesso Vaccaro nella sua nota finale.
Adam Vaccaro
Google. Il nome di dio
Puntoacapo Ed. 2021 pagg. 101
*
Libri
NOTIZIE DA PATMOS
di Chicca
Morone
In
questi tempi di reclusione le persone si dividono in vari gruppi, ma sostanzialmente
in due diversi modi di approccio alla problematica: c’è chi resta ipnotizzato
da internet, radio, televisione in attesa di notizie sempre più allarmanti e
chi invece è riuscito a capire che il tempo dedicato precedentemente al lavoro
quotidiano può essere utilizzato per migliorare il rapporto con se stessi,
studiando nuove strategie e nuovi metodi di programmazione della propria vita.
Una vita che forzatamente cambierà, non è detto in peggio. Personalmente ho
trovato il tempo - oltre che per riordinare le pile di libri accatastati un po’
ovunque - per rileggere sillogi apprezzate, ma non abbastanza.
Presiedendo
il premio letterario “Rodolfo Valentino - Sogni ad occhi aperti” sono costretta
ogni due anni a un impegno non indifferente nella lettura dei testi che
giungono nella segreteria de Il Mondo delle Idee: per mia fortuna (o
determinazione granitica sulla scelta dei colleghi che non subiscano il fascino
delle lusinghe) la giuria che ogni volta si compone è costituita da amici la
cui correttezza è al di sopra di ogni sospetto.
Così, quando
è giunta la raccolta “Il senso della neve” di Fabrizio Bregoli c’è stato un
incrociarsi di telefonate e di commenti più che positivi sulla silloge, un
percorso morbido e suadente con un doppio registro tra l’io poetico e ciò che
io non è. Esisteva un unico problema: la postfazione recava la firma di Tomaso
Kemeny, giurato storico. L’anima di Salomone si era eretta fra di noi e aveva
sentenziato che sarebbe stato sufficiente Tomaso si astenesse e il risultato
sarebbe stato raggiunto senza ledere le possibilità di vittoria degli altri
concorrenti. In effetti “Il senso della neve” ha raggiunto votazione piena e
l’autore è stato festeggiato con vera simpatia il giorno di San Valentino 2017.
Così è
entrato a far parte della giuria per la edizione seguente… lavorando a spron
battuto, con cognizione di causa e sollecitando noi veterani con una certa
intensità.
Laureato in
ingegneria elettronica (settore solitamente frequentato da individui desiderosi
di perfezione e controllo) risultava poeta anomalo per l’umiltà con la quale si
era dedicato non solo alla propria produzione, ma anche alla lettura e
recensione di autori contemporanei con una lucidità e uno charme decisamente
personale.
“Notizie
da Patmos” è il suo attuale neonato “bambino di carta” in attesa che la
produzione continui, vista la vena poetica incessante.
La parte che
più mi ha colpito è quella dedicata prevalentemente a un dialogo serrato con
un’altra figura, quella del padre, se non proprio biologico, almeno
identificato in un essere diverso da sé.
Non può non
risuonare il verso di Kalil Gibran “Tu sei il genitore di te stesso”: Fabrizio
si è generato e continua a generarsi un crescendo di immagini realizzate sulla
carta, sul web, di persona.
Un essere
unico, entusiasta come scrittore quanto come amico: un vulcano di emozioni e di
reazioni a quanto lo circonda senza mai forzare un concetto, possibilista senza
scendere a compromessi.
Inutile
descrivere quanto l’uso della parola sia perfetto: dalle liquide poste in
felice alternanza con le labiali per dare quel senso di morbidezza, di
avvolgimento e calore; alle sibilanti che premono con forza nell’imprimere la
volontà di riscatto, il tutto perfettamente coordinato in modo da rendere
l’intera poesia un vero e proprio canto. Anche le doppie vengono usate con
maestria per dare movimento al verso e renderlo ancora più vivace.
L’uso di
ogni parola è ovviamente organizzato dall’ingegnere che c’è in lui, che si
affaccia di tanto in tanto, ma che viene tenuto a bada dal poeta, pattern
di sicuro dominante nella sua natura.
Patmos, prima
di essere la poesia del compianto Pasolini sulla strage di piazza Fontana, è
un’sola greca dove esiste la grotta dell’Apocalisse: lì Giovanni scrisse
l’ultimo libro della Bibbia percependo da una spaccatura nella roccia (la
stessa da cui tramandano sia nato Mithra?) la voce di Dio.
Che Fabrizio
sia in stretta connessione con l’inconscio collettivo in cui navigano parole
magiche e sapienziali nessuno ha dubbi e confesso, con un po’ di invidia, che
questa sua facoltà va ben oltre qualsiasi interpretazione critica dei suoi
scritti.
Fabrizio
Bregoli
Notizie
da Patmos
Ed. La Vita
Felice
€ 14,00
Libri
L’intelligenza dei sensi in Gianluca
Costanzo Zammataro
di Veronica Chiossi
Veronica Chiossi |
Se il mondo è un inventario di tenebra e bellezza, serve un osservatore affatto speciale per esplorare questa misteriosa coniugazione: Gianluca Costanzo Zammataro assolve pienamente a tale compito nella sua prima opera poetica, Futuri contingenti (Manni, 2020). L’autore indaga incessantemente e senza timore di cambiare prospettiva le porte della realtà, per spalancarle con la potenza del verso. Quello di Costanzo Zammataro è in parte memore della tradizione, un verso musicale e ritmato, in un’alternanza di composizioni ermetiche (se è vero che la poesia è un «segreto», come scrisse Ungaretti) e chiare, immediate, luminose, forse a suggerirci che è anche l’indagine dell’ombra, e non una fuga da essa, a mostrarci la luce delle cose. La natura è fisica, a contatto con l’Io, che è sia vicino che distaccato nel suo guardare, ma sempre prossimo alla dimensione del dire e fare poesia. Il fonosimbolismo e la lingua talvolta aulica sono portatori di significato come nella lirica più alta di d’Annunzio e Montale.
Il solido filo conduttore resta tuttavia la
celebrazione della natura, che con la sua forza si avvicenda nel caleidoscopio
del reale incorporando galli cedroni, orsi, gruccioni, codirossi e boschi
antropomorfi in cui putrefazione e fecondità, rinascita e sfacelo sono uguali
punti di luce nella meravigliosa matrice della vita.
La copertina del libro |
LA FAMIGLIA FAZZARI
di Luigi
Bianco
La copertina del volume |
Antonio
Froio da Stalettì (antica cittadina di preziosi resti greci-bizantini e di
notorietà medioevale per le originali comunità monastiche-civili di Cassiodoro)
ha il sentimento passionale dell’artista puro (si è anche laureato all’Accademia
di belle arti di Catanzaro) e la passione civile-tecnica (è ingegnere, lavora
per le Ferrovie dello Stato) per occuparsi di chi ha operato e opera
nell’interesse comune. In prima battuta opera egli stesso. Grato della sua
amicizia (piena d’integrità morale e onestà) ho donato decine di migliaia dei
miei libri più preziosi alla biblioteca di Stalettì: voluta da Froio e
installata in un bellissimo e spazioso palazzo vicino alla casa dei Fazzari.
Antonio non
è un politico o un amministratore comunale ma sa offrire la sua intelligenza
per utili e importanti operazioni per il bene di tutti.
Fazzari,
dunque. Achille Fazzari e la sua famiglia. Dopo circa dieci anni di silenziose
e faticose ricerche oggi Froio ci regala un librone storico-biografico sul
calabrese più influente in campo regionale- nazionale
(anche
internazionale) dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento: dalle rivolte
garibaldine e dalle guerre d’indipendenza all’unità d’Italia, fino alla breccia
di Porta Pia e alla questione romana tra Stato e Chiesa. Ricostruendo le
origini familiari di Achille, ci troviamo davanti a uno spaccato di vite
imprevedibili, di cui ancora oggi ci sono tracce e monumenti tangibili. Basti
dire in banalità che l’acqua minerale Mangiatorella (la bevo tutti i giorni) nasce
dall’intuito imprenditoriale di Achille Fazzari quando nei boschi di Stilo
scopre che una fonte sembra avere proprietà curative e nei primi anni del
Novecento si adopera per l’imbottigliamento e la diffusione di quell’acqua riconosciuta
e accreditata ufficialmente dalle autorità competenti e fatta trovare sulla
tavola di re e politici europei.
L’esempio è
tuttavia riduttivo. Nella seconda metà dell’Ottocento e nei primissimi anni del
Novecento Fazzari ha frequentato e influenzato tutti i più importanti capi
politici (da De Pretis a Giolitti). Scriveva a re e principi cercando appoggi
ed altro. È stato due volte deputato. Soprattutto era il compagno più fedele e
intimo di Giuseppe Garibaldi. Ha combattuto al suo fianco nell’ascesa dalla
Sicilia verso Napoli. Ha vissuto con lui a Caprera. Ha trovato navi e uomini
per portarlo, quando Garibaldi era malato, da Caprera a Napoli: scomodando tutti
i personaggi influenti della città. Fazzari aveva una vitalità straordinaria e
passava -politicamente- da destra a sinistra pur di ottenere quello che
desiderava (cercando -soprattutto negli ultimi anni- di difendere gli interessi
del Sud). Tutti i giornali dell’epoca parlavano di lui. Conscio delle sue
mancanze culturali, faceva valere le sue doti di imprenditore acquisendo con la
forza, con aste non sempre chiare, o con incroci di matrimoni familiari,
terreni che trasformava in commercio di legname e soprattutto in estrazione di
carbone (ritenuto migliore e più conveniente di quello francese e tedesco). In
contemporanea creava strutture di conforto -anche fonti termali- e di bellezza
sfarzosa per attirare i personaggi più noti (da principi a politici ad attrici
e giornalisti). Ancora oggi in Calabria si parla della Ferdinandea (e il paese
è ancora lì, nel vasto territorio che scende da Chiaravalle a Serra San Bruno,
fino Stilo) come di una meraviglia o di un affare poco chiaro per le miniere e
i tratti ferroviari dismessi, per le numerose industrie -ghisa, ferro, argilla che
avevano portato lavoro a molte persone- e per invenzioni geniali al fine di
produrre energia elettrica. Naturalmente non vanno dimenticati i tanti soldi elargiti
dalle banche dopo relazioni spesso burrascose. É stupefacente come sia
diventato proprietario di una vastità di terreni dove i Borboni, all’inizio
dell’Ottocento, avevano costruito le prime industrie belliche. Tutte le banche
italiane gli hanno fatto prestiti ingenti: compresa quella banca Romana finita
nello scandalo che ha trascinato con sé politici, industriali e lo stesso
Achille Fazzari. Non a caso ho incontrato per la prima volta il nome Fazzari
quando negli anni 70 la televisione italiana dedicò alla banca uno sceneggiato
dal titolo esplicito: Lo scandalo della Banca Romana.
Antonio
Froio con serietà esemplare- ci ha restituito tutte le straordinarie vicende
della famiglia Fazzari (il fratello di Achille, Raffaele, è stato per 25 anni sindaco di Stalettì) con una valanga di
fonti per me mai vista in altri libri. Ogni capitolo è corredato da altrettante
pagine di note e di fonti (dagli archivi storici ufficiali a quelli privati e
personali, dalle cronache di tutti i giornali del tempo ai casellari giudiziari
dei tribunali e delle prefetture, fino alle fonti carcerarie, dalle tante lettere
e ingiunzioni delle banche e alle banche, e ancora la corrispondenza infinita
con politici, capi di stato, Papi, autorità ecclesiastiche).
Achille
Fazzari è stato eletto due volte deputato (1874 e 1886) ma dopo pochi anni
entrambe le volte si dimette senza mai tralasciare la sua attività politica.
Nel 1900 stupisce tutti scrivendo e pubblicando
La Costituente (considerazioni politiche per riformare il
governo del paese): un documento indispensabile
anche per la
regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa. Un documento che potrebbe ancora
essere attuale (ogni tanto in Italia si parla di una Costituente e si è anche
fondata e affondata) ma il rigore di Froio evita ogni riferimento al presente,
con un distacco etico difficilmente riscontrabile negli storici ufficiali. Per
lui parlano le fonti. Il suo lavoro ha lo scopo di fornire agli storici di
professione uno strumento esaustivo per poterne trarre le conclusioni che più
piacciono. Ha lo scopo di fornire a Stalettì uno stupefacente punto fermo senza
pregiudizi e giudizi morali su uno dei suoi figli più illustre. Io poeta mi
sento spiazzato dall’inesauribile tenacia di un artista di valore che ha
sacrificato la sua passione artistica per restituire in modo organico le
vicende di una famiglia povera. Una famiglia che ha donato alla Calabria e
all’Italia la forza di una persona determinante per tante situazioni
politiche-sociali-umanitarie-imprenditoriali senza avere la cultura di
personaggi autorevoli pronti a dialogare e a scontrarsi con il suo entusiasmo.
Io poeta
sono affezionato a quella persona che ritorna a Stalettì (lui che aveva vissuto
nei luoghi del potere: Firenze, Piemonte, Roma) dopo lo scandalo della Banca
romana e scrive nel 1894 lo statuto per una “colonia di pescatori e agricoltori
nel golfo di Squillace”. Per me, una sana ribellione dopo la triste conoscenza
del potere mai riconoscente. In quella colonia tutti erano uguali. Non
circolavano libri e persone che volevano imporre il loro sapere o le loro
prediche. Tutto in comune. Si viveva di quello che il lavoro donava. Senza capi
ma con particolari riguardi per gli ammalati, i bambini, gli anziani.
Vivere con
poco, e in onestà, in un Sud povero ma ricco di bellezze naturali e
storiche. Il mio sogno.
L’amico
Froio non si sbilancia: non certo per mancanza di coraggio. Riporta lo statuto
come fatto di cronaca o storia ma non gli dà importanza: com’è giusto per uno
studioso che si attiene alla verità delle fonti (la comunità è rimasta solo
scritta) e non vuole indirizzare il lettore. Con così esorbitante materiale, il
lettore non ha bisogno di maestri che gli spieghino fatti chiari.
Nella
pregevole introduzione l’amico Antonio Froio è ancora una volta chiaro e
definitivo: “Ora che il libro è stato ultimato auspico che le notizie e i
fatti, in esso riportati, contribuiscano a chiarire se la famiglia Fazzari
abbia interferito con la storia d’Italia, e se alcuni dei suoi componenti
meritino gli onori e il diritto di farne parte. Sono certo che il lettore
attento dedurrà liberamente le sue considerazioni e che queste daranno anche le
risposte ai miei interrogativi”.
Caro
Antonio, sia onore, un grande onore, alla tua chiarezza, alla tua fatica, alla
tua onestà. Da poeta, ho deposto un fiore sulla copertina del tuo librone, e
aspetto. Purtroppo non c’è più un Garibaldi che possa passare da Copanello -come
ha fatto con Fazzari- per stringerti la mano. Pazienza?
Antonio
Froio
Fazzari.
La
famiglia Fazzari di Stalettì
a
Nunziato ad Achile, amico di Garibaldi
Ed. Il
Coscile, 2018
Pagg. 408 €
20,00
***
CONVERSAZIONE CON ROBERTO VILLA
di Laura
Margherita Volante
Roberto Villa nasce a Genova, vive e opera a Milano
svolgendo innumerevoli attività dalla Comunicazione alla Fotografia con una
laurea in Elettronica spaziando non solo nell’etere, ma anche superando
qualsiasi dicotomia nella tridimensionalità Leonardesca: Arte Scienza
Tecnologia.
Un
incontro, una collaborazione culturale, un’amicizia fra due forti personalità:
Roberto Villa e P.P. Pasolini. Un incontro inciso nello spirito di Roberto Villa
tanto da commemorarne la memoria attraverso mostre e allestimenti fotografici
ad continuum. L’incontro fra Pier Paolo Pasolini e Roberto Villa avvenne a
Milano nel 1972. Fu lo stesso regista a invitare il fotografo a seguirlo in
Iran e nello Yemen, per seguire le fasi di lavorazione del film nel suggestivo
scenario delle città di Isfahan e di Sana’a e molte altre. “L’Oriente di Pier
Paolo Pasolini, Il fiore delle mille e una notte” sono impresse nella scrittura
fotografica di Roberto Villa. “Il
fiore delle mille e una notte” è tra i lungometraggi più complessi di Pasolini,
una storia d’amore tormentata fra due giovani, Zumurrud e Nur-ed-Din, storia
raccontata anche grazie la collaborazione del regista con Dacia Maraini, la
scenografia di Dante Ferretti e le musiche di Ennio Morricone. Roberto
Villa rimase sul set per ben cento giorni e, oggi, attraverso i suoi scatti, esiste
uno straordinario documento su Pasolini e la sua troupe al lavoro sul set del
film, che il grande regista ha scelto come ultimo capitolo della sua Trilogia
della vita. Quella del Nostro è la prestigiosa testimonianza di una
rappresentazione fra realtà, atmosfera fiabesca e sogno di libertà, nello sfondo
dell’opera di Pasolini. Naturalmente l’attività intellettuale e artistica di
Roberto Villa non si esaurisce qui come ben dimostra il suo eccezionale ed
eccellente percorso umano e culturale. Ho scelto lo scorcio visionario di due
personalità, che hanno realizzato con il loro impegno una svolta significativa
nel linguaggio espressivo di un’arte oltre la sceneggiatura oltre la
fotografia.
L.M.V.
Fotografia, cinema, letteratura e saggistica, una nuova visione della cultura
attraverso la linguistica. È stata la sua un’esperienza maturata dall’incontro
con Pasolini oppure un “altere ego” magicamente espresso in una collaborazione
dove il cinema va oltre la fotografia e la fotografia oltre la sceneggiatura in
un altrove?
R.V. Nel Novembre del 1972, a Milano, ad una
tavola rotonda sulla televisione ed il cinema ho avuto l'occasione di
incontrare Pier Paolo Pasolini. Cessata la tavola rotonda, avevo avvicinato
Pasolini per dirgli del mio interesse sui meccanismi della comunicazione
audiovisiva ed i problemi del linguaggio cinematografico, cose che lui aveva
trattato in molti articoli di saggistica. Gli avevo detto che sarei stato
interessato ad incontrarlo per parlarne ed ascoltarlo su questi temi. Era
rimasto sbalordito, nessun fotografo gli aveva mai chiesto di parlare di
semiologia e di linguistica. Senza esitare mi aveva dato il suo indirizzo di
Roma, dicendomi anche della sua prossima partenza per girare “Il fiore delle
1001 notte”. Poi, aggiungendo ad alta voce, ma quasi parlando fra sé e sé, mi
disse che, se fossi stato interessato, avrei potuto raggiungerlo in Medio Oriente
sul set. Lì avrei potuto vederlo al lavoro nell’applicazione delle sue idee
sul cinema, e parlarne.
L.M.V. La
Fotografia oltre il “click”. Quale il ruolo del fotografo oggi per una nuova
veduta del mondo?
R.V. La fotografia, come la scrittura, come il
suono, può servire per banale comunicazione o per attività più sofisticate ed
impegnative come quelle artistiche. Uno strumento di comunicazione ha una sua
specificità che l'utilizzatore, l'artista, può utilizzarlo
"creativamente" se lo conosce profondamente, se ne conosce la storia
soprattutto comparata a tutti gli strumenti che producono immagini nell'arco
del suo tempo, ma soprattutto, se l'artista ha la cultura per essere tale e se
usa quella comunicazione, come tutti i grandi, per il sociale.
L.M.V. I
linguaggi espressivi coniugano un bisogno di Bellezza “per salvare il mondo”.
Come può l’essere umano raggiungere tale dimensione in questa reale complessità
sociale dove emergono brutture e bruttezza? Quale la via per recuperare
umanità, quella stessa che Pasolini ci indicò con i suoi scritti e non solo?
R. V. Ogni sistema linguistico può essere usato creativamente
o nei soli limiti dello strumento se chi lo usa non ne ha coscienza. Il tema
della "bellezza" nella fotografia non è un tema concettuale ma
banalmente mimetico, cioè è "bello" l'oggetto od il soggetto
fotografato e non altro. In
altri termini non esiste una sola fotografia al mondo sulla quale si siano
scritti saggi, articoli e fatte analisi come per il quadro di Velázquez
"Las Meninas" del 1656 e, se la fotografia nasce nel 1839, pur avendo
luminosi esempi in tutto lo scibile, in questi 180 anni di vita, ha prodotto
solo macchine ma non cultura perché chi l'ha praticata, nel migliore dei casi,
non ha saputo andare oltre la documentazione di eventi. Pasolini ha studiato
sempre, fin da ragazzino, è stato presente alla realtà sociale l'ha
interpretata ed ha trasformato la lingua, con gli strumenti della conoscenza,
in strumenti creativi per dire a tutti i livelli possibili del sociale cose
diverse denunciando, contemporaneamente, i limiti degli strumenti ed i suoi
personali.
Difficile esempio di
autocoscienza.
P.P. Pasolini |
L.M.V. L’Arte
per essere libera spesso non raggiunge né visibilità né popolarità, per cui
artisti e scrittori di valore rimangono sconosciuti in uno stato di
frustrazione, disistima, demotivazione. Chi perde l’uomo o l’artista?
R.V. Nel 1949, a dodici anni, su costose, riviste USA
scopro che, un lontano parente di Edison, Claude E. Shannon, con Warren Weaver,
avevano elaborato "La teoria dell' informazione" e leggendola, con il
vocabolario a fianco, comprendo che chi vuole occuparsi di comunicazione nel
mondo dell'arte non può non conoscerla, sia per "leggere" quello che
è stato "scritto" da sempre e quello che viene sempre scritto in
tutte le sue forme. Quando chi si autodefinisce artista non opera con
conoscenza non può, inevitabilmente, uscire dal suo piccolo spazio poiché non è
in grado di differenziare le sue proposte da quelle di tanti altri come lui.
Artista è una definizione attribuita dalla società, non è una corona che ci si
impone propria sponte. Artista,
individuo e società sono perdenti se non comprendono queste semplici regole.
L.M.V. Casa
della Fotografia e non più Sala di esposizione. Quali le prospettive?
R.V. Casa è il luogo proprio della famiglia e
quando chi fa fotografia decidesse di "Mettere Casa" potrebbe
cogliere l'opportunità di avere un padre-maestro di riferimento da cui imparare
e dei figli-allievi a cui insegnare, nonché una "Cucina-Laboratorio"
dove sperimentare le forme del pensiero, un pensiero rivolto al sociale e non
un pensiero in forma di idioletto. La sala
espositiva è una sala di "Convegno" dove i convenuti vengono per
apprendere non già per sentire quello che già sanno ricavandone solo noia.
L.M.V.
Fotonarrazione su Pasolini fra scatti e ciak. Cento giorni nello Yemen. Vuole
dirci cosa ha significato per lei lavorare in uno scenario, immagino, così
suggestivo?
R.V. Il dialogo con Pasolini è stata una avventura
conoscitiva ed accrescitiva per me e che Pier Paolo ha molto apprezzato. Il
contesto da fiaba è stato un contesto scenografico e coreografico unico per la
sua autenticità. La
decisione di portare "in giro per il mondo" quel lavoro è un compito
che mi sono assunto per far conoscere anche ai più semplici, il pensiero ed il
cinema straordinario complesso di Pasolini, dove nulla è nell'apparenza, ma
questa è una icona, un segnale, che manda ad altri significati.
L.M.V. Il suo ricordo è indelebile dal momento che
la sua documentazione di circa 300 foto è molto viva tra finzione e linguaggio
della realtà. Quando è autentica dunque
una foto?
R.V. La selezione delle 300 foto è la limitazione
che mi sono imposto, per raccontare il film, che ha dato origine a ben 8.000 (ottomila)
scatti. Tutti digitalizzati e parte dell'archivio generale di oltre un milione
di immagini realizzate in soli 15 anni di attività fotografica professionale,
iniziata il 1970 e cessata il 1984.
Teoricamente
la fotografia "è sempre autentica" poiché rappresenta sia l'oggetto-
soggetto dello scatto sia se stessa ma, fuori dallo "scatto", come
tutto, è soggetta a manipolazioni che la trasformano in qualche cosa d'altro.
Anche quando fotografa una "finzione" la fotografia è autentica
poiché è un processo di comunicazione che non interpreta. La fotografia è
"l'impronta digitale della cultura di chi fotografa". Pasolini
parlava di "Linguaggio della Realtà" per una serie di complesse
considerazioni che nulla avevano a che fare con una immagine
"mimetica" del reale e che ha molto ben chiarito in una serie di
saggi ed articoli, raccolti un testo "Empirismo eretico", il mio
incontro con Pasolini è nato per le mie conoscenze di quei lavori e la
richiesta che gli avevo fatto se avesse voluto parlarne. C’è uno scatto, unico,
realizzato nel 1973, a Esfahan, in Persia, a Pier Paolo. Fra lui e me c'era un
dibattito in atto sul concetto di linguaggio del cinema. Pier Paolo sosteneva
che il Cinema è "il linguaggio della realtà" ed io che è "solo
un linguaggio". Ho colto PPP con una mano sulla cinecamera, vicino era un
attore con il ciack, me lo sono fatto dare e l'ho porto a PPP, dicendogli
"Pier Paolo prendi, ti faccio una foto", mentre lo prendeva Pier Paolo
mi ha detto "... ma è una finzione", ho risposto, "sì, anche il
cinema è una finzione". Lui, ricordando il nostro dibattito, ha sorriso ed
io ho scattato. Quando ho incontrato Pier Paolo a Roma, per alcune riprese a
Cinecittà, gli ho mostrato una selezione delle foto del film e, con quel
genuino stupore di cui era capace, aveva detto: “Hai raccontato le Mille e una
notte dove io sono l’attore e tu il regista, un film che non avevo visto. Una
fiaba nella fiaba”.
Tomasi di Lampedusa. I Racconti
di Mila Fiorentini
G. Tomasi di Lampedusa |
Negli ultimi due anni della
sua vita, dal 1955 al 1957, anni intensi quanto dolorosi di malattia, Giuseppe
Tomasi di Lampedusa riunì tre racconti e uno scritto autobiografico, oltre le
otto parti che comporranno il romanzo postumo, il Gattopardo, anche se solo di recente, in seguito al ritrovamento di
alcuni manoscritti originali, è stato possibile analizzare i testi, fare una
verifica filologica e ricostruire i testi e il percorso del suo pensiero. Il
libro che racchiude i quattro scritti ci restituisce quattro “Sicilie”, quattro
aspetti dell’autore, indovinando un magma più o meno evidentemente
autobiografico e aiutandoci a leggere il romanzo di una vita in una chiave più
ampia. La scrittura è agile, suggestiva, a tratti più vicina a quella del
romanzo ottocentesco, in altri casi più veloce, quasi un diario intimo e
storico ad un tempo - le due componenti sono sempre intrecciate in Tomasi di
Lampedusa - avvicinando i testi all’istantanea del racconto breve, ora al
reportage, allo scritto storico. Vero è che anche nel cedimento alla fantasia,
basti pensare alla figura mitologica della sirena, c’è sempre un lavoro di
documentazione in questo caso del mito che soggiace impreziosendo e rendendo
credibile la novella. I racconti al di là del gusto personale e di una lettura
gradevole, restano a mio parere un ottimo testo critico, anche se autocritico,
per conoscere lo scrittore, nei lati più reconditi e un clima siciliano che
bene completa il panorama degli autori dell’isola. Pur essendo scritti a fine
Anni Cinquanta guardano sia nel linguaggio, sia nelle tematiche, sia
nell’inclinazione ad esempio in riferimento all’amore e all’eros, più ad una
letteratura ottocentesca o primi Novecento. Questo tono ha certamente una
spiegazione nella figura dell’autore, duca di Palma e principe di Lampedusa,
nato nel 1896, formatosi su scritti illuministici e raccolte di relazioni
militari, un bambino solitario, più interessato alle cose che alle persone, per
sua stessa ammissione; nonché nella terra siciliana dove lo stile
dell’aristocrazia è sopravvissuto più a lungo che altrove e la vita sociale
nelle case disegna una sua comunità e quasi un mondo parallelo. In effetti il
primo e più corposo racconto, Ricordi
d’infanzia, ritraggono attraverso la casa anche in senso simbolico il mondo
interiore e sociale dell’autore. Le sue quattro case, in particolare la
residenza, il Palazzo Lampedusa a Palermo distrutto nei bombardamenti del 1943
e la casa estiva di Santa Maria in Belìce, stabiliscono in confini
dell’intimità dello scrittore. Il testo è corredato di foto, cartoline, disegni
e suggerisce un’immersione in un mondo scomparso, fisicamente quanto in termini
di atmosfera, prima tra tutte la scansione delle stagioni con i suoi rituali
fissi, oggi confusi, in particolare il senso della villeggiatura, un vero e
proprio trasloco, le gite, gli ospiti e una cosa curiosa, tipica del luogo: il
sostegno offerto alle compagnie girovaghe di teatro che a casa Tomasi
ricevevano anche l’ospitalità in un teatro privato. Tra gli aspetti più
interessanti del racconto lo sguardo del bambino che si perde incantato negli
spazi immensi e anche un po’ smarrito e l’osservazione sul mondo degli adulti,
mettendo a confronto la propria famiglia e gli ospiti. Le case di villeggiatura
un tempo restituivano infatti l’ambiente familiare e la società del luogo,
basti pensare alle Smanie per la
villeggiatura di goldoniana memoria o, per restare in Sicilia, il romanzo
inquietante di Leonardo Sciascia Todo
modo o ancora Un bellissimo novembre
di Ercole Patti. Emerge nel racconto la memoria tenera, la nostalgia struggente
dell’infanzia, di quelle estati che noi tutti ricordiamo, che hanno un sapore
indimenticabile di ristoro misto a una vena di malinconia. La scrittura prende
forma nella primavera del 1955 e il tema della memoria non prende a modello
Proust. In un periodo difficile, trova invece consolazione nella lettura
de La vie de Henry Brulard di Stendhal, scritto
autobiografico incompiuto che diventa la linea guida di Tomasi di Lampedusa. In
tal senso sono emblematiche le sue parole: «Cercherò di aderire il più
possibile al metodo di “Henry Brulard”, financo nel disegnare le “piantine” delle
scene principali». Le descrizioni tipiche del romanzo classico ci restituiscono
un quadro vivente degli ambienti Belle époque, una vera testimonianza del gusto
dell’epoca, con uno spirito critico e perfino ironico.
Segue il racconto La gioia e la legge,
racconto breve, un apologo che risente dell’eco di Pirandello. La trama è semplice
e narra dell’impiegato Girolamo, onesto a giudizio dei colleghi, che ottiene in
regalo per meriti un panettone di sette chili. Felice del riconoscimento, dopo
anni di dura fatica, rientra presto a casa, desideroso di “scannare” quel
dolciume. La moglie Maria proibisce di sacrificare la vittima perché il dono
spetta all’avvocato Risma, dei cui servigi Girolamo usufruì. Doppia beffa.
S’intuisce che il legale vive nell’agiatezza opulenta, pagato dal buon Girolamo
per quel consulto legale. Per l’apparenza si sovverte l’etica e si diviene
camaleonti per convenienza. Il prototipo del siciliano attento all’occhio del
mondo e alla rispettabilità formale trionfante.
La Sirena, il
più noto, conosciuto anche come Lighea,
dal nome scelto dalla moglie dello scrittore, scritto dopo una gita sulla costa meridionale della Sicilia, mette
insieme curiosamente il reale anche con una sfumatura politica, il vecchio
professore di cui si narra, e il surreale, l’amore per una sirena che diventa
struggente metafora della dimensione onirica che ci regala emozioni e dolori e
che è straordinariamente credibile. È l’intreccio tra Eros e Thanatos che
designa gli amori impossibili. Pubblicato nel 1961 da Feltrinelli, racconta una
vicenda che ha inizio nel 1938 in una Torino invernale dove si incontrano due
persone molto diverse, entrambi siciliani: un illustre classicista, Rosario la
Ciura, professore in pensione; e il giovane Paolo Corbera di Salina, di nobili ascendenze,
laureato in legge e mediocre giornalista della Stampa, ferito nel morale
dopo l’abbandono da parte di due donne, le tote,
in seguito alla scoperta di non essere la sola relazione.
Nonostante
il divario culturale e generazionale, e le asprezze caratteriali del
professore, dall'incontro, avvenuto in un bar di via Po, il giovane
riesce a conquistare la simpatia del professore. Dal rapporto sincero e
complice nasce a poco a poco l’intimità e il professore gli confesserà come
durante un soggiorno ad Augusta, preparando un concorso, durante un periodo di
studio matto e disperatissimo, incontrerà qualcuno che gli cambierà per sempre
la vita.
Chiude il ciclo I gattini ciechi
o Il mattino di un mezzadro, titolo
con il quale è apparso nella prima pubblicazione, la cui materia è la più
vicina a quella del Gattopardo e che
avrebbe dovuto costituire lo spunto di un secondo romanzo di matrice politica,
sulla fine del latifondismo in Sicilia e l’incapacità di una rivoluzione
borghese, dove tutto cambia senza che nulla cambi, anzi con la consapevolezza
che la storia sappia solo peggiorare. Dopo l’età dei Gattopardi (Tomasi di
Lampedusa), dei Leoni (Florio), ci saranno generazioni più rozze che si
crederanno il sale della terra, come i precedenti, come scriverà l’autore nel
suo romanzo.
Giuseppe
Tomasi di Lampedusa
I racconti
Feltrinelli Ed. 2017
Pagg. 197 € 9,00
***
IL TEMPO NON HA RUGHE
di Angelo Gaccione
Annitta Di Mineo |
Il nuovo libro di Annitta Di Mineo
Il tempo, il dolore,
l’infinità: tre sezioni a temi forti compongono questa nuova raccolta poetica
di Annitta Di Mineo dal titolo Il tempo non ha rughe e in cui la riflessione sul lato perentorio e ultimativo
della morte ha un peso e una presenza cardinale. Dentro questi tre postulati,
da sempre materia privilegiata della poesia e dei poeti, non poteva mancare
l’amore, speculare al dolore e all’evolversi del tempo. Il tempo, la più
effimera di tutte le cose e che rende tutte le cose effimere. Allora forse la
parola poetica, la sua estrema necessità, è il solo antidoto, o il tentativo
disperato della memoria di opporre un fragile argine, di fargli lo sgambetto, e
provare a lasciare qualche sedimento. Il sedimento che la poesia tenta
caparbiamente di lasciare è un patrimonio tutto immateriale fatto di
sentimenti, di echi, di ricordi, di evocazioni, di nostalgie, di pene che
possono transitare da un’anima all’altra solo se queste anime riescono ad
entrare in risonanza e contaminarsi. Ed è quello che tentano di fare questi
versi di Annitta, a volte con pochi secchi e contratti versi:
Firmamento/
Inganna destino/
Con stella fredda/
(“Stella fredda”)
che evocano antichi moduli orientali, o la tecnica
espressiva dell’aforisma:
Il dolore/
Esige delicatezza/
Chi lo conosce/
Avverte/
(“Delicatezza”)
o in maniera più ampia e distesa come nei testi “Voglio
ancora”, “Girandola”, “Ciclone”, “Pietra”, “Far lucere”, che sono fra i più
belli e densi e di sicuro i meglio riusciti. Vale la pena riprodurre
quest’ultimo per intero, che è un impasto di antica sapienzialità tutta
mediterranea e che ci consegnano un memoriale passaggio di testimone. Una
resistenza al tempo. Appunto.
Anche mio padre
piantava alberi d’ulivo
per lasciarli alla vita.
Io e mia sorella
con occhi caldi
traccia delle sue mani
immerse nella terra
versiamo alle figlie
come l’olio in una lumera
per continuare a far lucere
le chiome delle sue piante.
(“Far Lucere”)
La copertina |
Annitta Di Mineo
Il tempo non ha rughe
C.A.S.A. Edizioni,
Pagg. 112 € 10,00
CLAUDIO ZANINI - EBBREZZA VS HYBRIS
di Gabriela
Galzio
Avevo letto la raccolta di poesie Ansiose
geometrie di Claudio Zanini quando, recentemente, l’autore mi ha dato il
suo penultimo romanzo La scimmia matematica. Subito mi hanno
colpito i punti di contatto e l’intima relazione tra le due opere; cosa poco consueta,
trattandosi di testi d’ambito differente: l’uno poetico, l’altro di prosa in
forma di romanzo. Ho notato che, in breve, i due libri, entrambi coesi e
compatti, al di là dei differenti generi, convergono in una medesima poetica e
visione del mondo; in “Ansiose geometrie”, infatti, nella scommessa tra
limitato-illimitato, finito-infinito, giardino concluso e giardino incompiuto, Zanini
sceglie di stare dalla parte della “cartografia audace delle allodole; così anche
ne La Scimmia matematica, l’Autore si schiera a favore delle spazialità
affettive e degli Elementi di un’inquieta
geometria, è dalla parte della Scimmia e della continuità filogenetica con
l’umano, o, nel finale quasi western, s’identifica nell’ebbro pellerossa (da
Franz Kafka, Desiderio di diventare pellerossa), sferzato dal vento del mare che trasfigura nella sconfinata
pianura. Tra il caos e l’ordine, rigido e arbitrario degli uomini in odore di hybris, Zanini sceglie l’ordine morbido
e curvilineo della Natura che non bisogna accarezzare contropelo. Come in Ansiose
geometrie, “forse segrete e auree proporzioni/nasconde il bosco prossimo a
Guardea”, così nel romanzo è intatto l’incanto della selva vivida di Ardea.
(Con rime di nomi - ”Guardea/Ardea” - e assonanza di selve). In entrambi i
libri l’Autore, rispetto alla hybris,
sceglie l’ebbrezza. (Insomma… c’è hybris
e hybris) Anzi, quell’insofferente
desiderio di liberazione che mi pareva di avvertire più sommessamente in
“Ansiose geometrie”, ne “La Scimmia matematica” viene apertamente confermato dai
valori trasmessi all’Io narrante dal personaggio di Zagreo: “…ebbrezza della
libertà e pienezza della passione amorosa”.
Sappiamo
come Zagreo ricordi il Dyonisos-Zagreus cretese, dio dell’ebbrezza e divinità
tutt’altro che marginale, ma non tutti sanno che, nella mitologia
prepatriarcale, Dioniso figlio avrebbe dovuto succedere a Zeus padre (come in
precedenza Cronos era succeduto a Urano, e Zeus a Cronos). Ma con la
patriarcalizzazione questa trasmissione si interrompe, si blocca, direi, contro
natura, non saranno più le forze giovani a succedere a quelle ormai vecchie, ma
il vecchio Padre rimarrà ipostatizzato, così Zeus, così Jahvè (che chiederà il
sacrificio del figlio), così il Dio cristiano che il figlio lo metterà in
quella croce che prima rappresentava il vivissimo albero! Narro tutto ciò almeno
per due buoni motivi: uno, perché anche nel romanzo di Zanini le forze giovani
e selvagge, nel mondo degli uomini rimangono emarginate, ma non soccombono e anzi
profetizzano un futuro riscatto: “Tuttavia verranno altri, anche se ora non
sappiamo chi siano, né da dove possano giungere. Vedi, sono convinto che nel
cuore d’ogni uomo guizzi una scintilla che, se alimentata, può diventare un
incendio”; due, perché nelle note dell’Autore è detto esplicitamente: “Questo
scenario di citazioni, rimandi, allusioni e fantasie ho inteso far percorrere
dalla corrente sotterranea di antichi miti che, nel profondo del nostro
inconscio di cosiddetti postmoderni, permangono e non soccombono agli artifici
e alle occorrenze del presente ma, come Zagreo, gli sopravvivono e lo
attraversano, offrendogli significati e interrogazioni”. Di questa vasta
mitologia inconscia che ci portiamo dentro, taluni personaggi ne sono pervasi,
ad esempio l’avvenente, seducente Cloe, sinuosa felina “dalla fulva criniera”, ritratto
davvero magistrale di un’Afrodite sfolgorante in terra, vera femme fatale, e
guida segreta al destino del protagonista: “Quando ti vidi emergere nudo dal
mare”, rivela Zagreo, “pensai che ti avesse mandato uno strano destino. Poi
decisi che avresti dovuto percorrere la tua strada con le tue sole forze verso
lo svelamento. Ti misi accanto Cloe che avrebbe dovuto guidarti con
discrezione…”. E invece lei, giustamente, lo fa con tutte le sue migliori arti
afroditiche della seduzione, perché è l’unica con la quale la geometria, ossia
il logos razionale, si sfa… come già del resto ai tempi di Gilgamesch, quando
Ella dormì con Enkidu per civilizzarlo e il settimo giorno si riposò!
Dunque,
destino e svelamento, siamo nel campo del divino, della trascendenza, come il
metafisico pi-greco e la tanto agognata quadratura del cerchio, che allude alla
tensione mai risolta di coniugare cielo e terra. Apparentemente vincerà anche
in questo caso la teologia dei dominanti, ma il mistero della geometria rimarrà
inviolato: “Comunque, sono quasi contento che abbia vinto il teologo. Grazie a
questa assurda vittoria, il segreto della geometria è rimasto tale, malamente
inguainato entro uno stupido vestituccio dogmatico. Il campo resta libero per
ogni altra spericolata escursione del pensiero”. Oltre l’assurda vittoria
teologica, più in generale, il romanzo assurge a teatro dell’assurdo con tanto
di gran finale grandioso e terribile della bora: “In effetti, tutta la vicenda
vissuta ad Ardea aveva dissimulato coloriture teatrali, scenografie
stupefacenti, modalità melodrammatiche da dispendiosa messa in scena”. In
questo libro, vengono toccate le corde dell’assurdo, l’assurdo dell’autorità
(anche kafkiano degli scarafaggi), del surreale (l’apparizione fuori contesto
del tacchino), del grottesco (come le membra scomposte in sgraziate movenze da
burattino, da marionetta disarticolata), dell’espressionistico (“… il piccolo
genio gettò la testa all’indietro, poi allungò le dita sui tasti e la madre
piegò la bocca emettendo un suono melodioso…”). Tutto il romanzo è attraversato
da una sottile e lucida ironia che non cede mai alla banale comicità (vorrei
precisare che io stessa ho avuto modo di curare un lavoro sul comico nella letteratura
tedesca, comprendendovi Kafka proprio per la sua ironia dell’assurdo). Di
questa ironia fa parte anche il ricorso a certo linguaggio aulico, compreso il
nome del protagonista, Arcadio, “…loro (si mescolavano in) una disordinata
canea famelica. Io non mi inframezzavo entro queste mischie promiscue dove si
rimediavano proditori colpi ai garretti, distribuiti più per imperizia che per
volontà malevola”. Un’ironia che non risparmia niente e nessuno, non il
connubio clero-finanza mondiale, non i poeti (con gli allusivi “Ossimori
d’Ippia”), men che meno l’istituzione dei premi, e che arriva a toccare il suo
vertice nell’irrisione delle filosofia teologica, per la quale, di contro alla
coscienza ottenebrata dell’orango, assistiamo al mirabile salto ontologico
dell’uomo a immagine di Dio!
Un libro
eretico, dunque, memore delle atrocità e iniquità dell’Inquisizione, e immune da
dogmi e fondamentalismi, ma anche attraversato da una critica della civiltà
finanziario-capitalistica globalizzata (incarnata dal banchiere Krumm). All’inizio
del libro l’Io narrante è l’indolente, a tratti kafkiano, sfigato, afflitto da senso
di colpa, protagonista, che viene calato nel caleidoscopico mondo arcano di un
albergo, di sapore borgesiano, prisma di mille sfaccettature; in esso si
susseguono enigmi, anomalie, presagi, profezie, e ancora, miraggi, illusioni
ottiche, apparizioni, misteri creati ad arte per alimentare la suspense; ma nel
corso del libro questo mondo magico rivela la sua carica simbolica quale
espressione della trascendenza di cui il protagonista, con la sua stessa
anomalia corporea, è portatore; sul finale, egli si spoglia della sua vecchia e
gloriosa uniforme color sabbia e, qual bel principe azzurro finalmente
liberato, può indossare “l’abito di velluto blu in cui si riconosce
(specchiandosi), in quel bel giovane snello che gli sorride pieno d’entusiasmo”.
E qualcuno potrebbe azzardare l’impianto magico del romanzo, con elementi
occulti cinque-secenteschi o tratti dal realismo magico borgesiano, con tanto
di animale magico-surreale e finale metamorfico-fiabesco. Ma questo, forse,
potrà essere l’abbrivio per un nuovo romanzo.
I leoni di Sicilia, la saga dei Florio
di Mila Fiorentini
I leoni di Sicilia (Editrice Nord, Pagg. 437 € 18,00) di Stefania Auci, trapanese di nascita e
palermitana di adozione, pubblicato dalla Casa Editrice Nord rievoca la saga
dei Florio, come recita il sottotitolo del romanzo, primo volume di una saga
familiare dedicata al celebre clan siciliano, caso editoriale internazionale i
cui diritti di traduzioni sono stati venduti in Francia, Germania, Olanda,
Spagna e Stati Uniti. Cinque edizioni in un mese lo dimostrano. Una
finzione storica ben documentata, frutto di una scrupolosa ricerca storica
senza perdere il gusto del romanzo, che nella forma e nello stile, così come
nella trama e nello scavo psicologico dei personaggi. Leggendo questo testo
voluminoso ma scorrevole, che di tanto in tanto indugia nelle descrizioni, si
ha la sensazione di immergersi in un romanzo classico come se ne scrivono
sempre meno. Il libro si articola su quattro piani, rispettivamente, la storia
di un caso imprenditoriale tutto italiano; la storia di una famiglia, che è
anzi tutto la storia universale di un amore e delle difficoltà di qualsiasi
impresa umana affettiva, con un’analisi acuta dei tratti psicologici che
dialogano con la società; il ritratto di un mondo sociale in evoluzione,
tipicamente siciliano, anzi palermitano, così attento all’occhio del mondo che
arriva anche in camera da letto; infine, il quadro storico di un’Italia che
cambia nel corso dell’Ottocento, dai privilegi nobiliari, ai moti
rivoluzionari, dalle spinte indipendentistiche prima verso lo straniero, poi
verso il potere aristocratico, fino all’Unità d’Italia. In tal senso all’inizio
di ogni capitolo che segue gli affari della famiglia nel corso dei secoli,
dalla fuga dalla miseria al successo internazionale, senza arrivare all’apice
della dinastia, un affresco delle vicende storiche, sintetico quanto scrupoloso
inquadra il singolo decennio, come un prologo per altro di grande piacevolezza.
L’avvio della storia prende spunto dal proverbio siciliano “Chi esce, riesce”
nell’ultimo anno del Settecento, quando Paolo Florio, dimostrando di avere una
grande lungimiranza, dopo una notte di terremoto, decide di trasferire il
fratello Ignazio e la cognata Giuseppina, da Bagnara Calabra a Palermo, il
primo passo, forse azzardato e avventuroso che avrebbe portato i Florio a
diventare “I leoni di Sicilia”. Il nome è legato a quello che sarebbe diventato
lo stemma di famiglia, non certo nobile all’origine, un leone che si abbevera
ad una sorgente nata dalle radici dell’albero di china che fece la fortuna della
famiglia. All’inizio siamo appunto a Bagnara Calabra, il 16 ottobre 1799 quando
l’ennesima scossa di terremoto, nel silenzio della notte scuote la casa dove
vivono Paolo Florio, figlio di Vincenzo Florio e orfano di madre, sua moglie
Giuseppina, il loro figlio appena nato, Vincenzo, il fratello di Paolo, Ignazio
Florio e la piccola nipote Vittoria, orfana di un altro fratello dei Florio,
Francesco, che poi contro il volere della zia si sposerà per trovare una sua
indipendenza. Dopo la paura, inizia il viaggio a bordo di uno
“schifazzo”, indispensabile per commerciare via mare e una “putia”, un negozio
di spezie a Palermo, con la decisione di trasferirsi in città, lì dove c’era
una grande comunità di bagnaroti. Palermo era sì una piazza vivace, ricca
e piena di opportunità soprattutto dopo l’arrivo dei Borbone, Ferdinando IV di
Napoli e Maria Carolina d’Asburgo, scappati da Napoli in seguito alla
rivoluzione, quanto una città difficile, classista, dove il titolo nobiliare vale
più di ogni altra ricchezza diventando in certi casi una vera ossessione. Nel
1799 i giacobini del Regno di Napoli si erano ribellati alla monarchia
borbonica istituendo la Repubblica Napoletana I Borbone sarebbero tornati a
Napoli nel 1802 facendo terminare l’esperienza della repubblica con una feroce
repressione. In quell’autunno del 1799 Paolo Florio, intuendo i tempi nuovi,
desiderava di meglio per sé e per la sua famiglia. Stabilirsi dunque a Palermo,
allora uno dei maggiori porti del Mediterraneo, dove due anni prima Florio e
Barbaro, avevano preso un magazzino, un piccolo “fondaco”, dove stivare le
merci che acquistavano lungo la costa per rivenderle in Sicilia, sembra la
scelta vincente e così di merce in merce lungo i decenni si costruisce la fortuna
chiacchierata dei Florio. L’inizio è con le spezie, soprattutto cannella e
chiodi di garofano, ma anche, pepe, cumino, anice, coriandolo, zafferano,
sommacco, cassia, spezie utili non solo in cucina ma anche come farmaci,
cosmetici. “Profumi e memorie di terre lontane che in pochi hanno visto” e che
dopo, le prime diffidenze e ostilità locali, conquistano i palermitani. Ignazio
muore presto lasciando inconsolabile la vedova Giuseppina con tanta ostilità di
aver lasciato il luogo natìo dal quale non si riprenderà mai, mentre deciderà
pur non essendo stata felice con il marito di rinunciare all’amore del cognato.
Solo alla fine della vita troppo breve di Paolo si renderà conto di un amore
inascoltato, riversando tutto il suo affetto non scevro da morbosità sul
giovane Vincenzo che prenderà in mano il destino della famiglia, costruendo una
fortuna. Sposerà solo al terzo figlio, unico erede maschio, Ignazio, Giulia,
dopo anni di scandalo. La linea degli affari si sposterà dalle spezie alla
seta, quindi al cortice, l’albero della china per curare le febbri, allo zolfo,
al pizzo - la dentelle francese -
quindi il tonno e la sua lavorazione fino al Marsala che decreterà il successo
internazionale della famiglia come oggi ancora la conosciamo. Già con la
tonnara di Favignana ci sarà una grande svolta, con la conservazione per la
prima volta del tonno sott’olio. Interessante seguendo l’economia, le regole
locali del commercio, e l’evoluzione del prodotto di punta di successo sul
mercato, l’evoluzione di una società che si va delineando. Così ad esempio
l’allevamento dei bachi da seta sulle foglie di gelso tra Messina e Catania era
un’attività a bassa redditività in Sicilia rispetto a quanto avveniva in
Oriente che poi i Florio riescono a sfruttare, dando colore alla seta. Da
sottolineare anche il quadro storico che emerge, filtrato attraverso le vicende
di una famiglia siciliana, che mostra ombre e luci, meno evidenti nello studio
della storia sul piano nazionale come si è abituati a leggerla, con una luce
piatta per così dire. In tal senso si capisce ad esempio perché è la nobiltà in
Sicilia ad essere maggiormente avversa al re, che è lo straniero, e che impone
regole nuove mettendo in discussione privilegi consolidati nel tempo,
diversamente dal popolo per il quale cambia ben poco. Infine ed è la parte più avvincente che fa
della Auci una vera narratrice, ma che lascio al lettore il piacere di
scoprire, le dinamiche psicologiche dei sentimenti, i grovigli familiari che
restano, al di là dei costumi e del contesto, universali, trattati con gusto
storico e capacità di parlare in modo universali. Alla fine in bocca resta la
dolcezza e la vittoria di una grande famiglia, antesignana di un made in Italy sui generis, che mette al centro gli affari ma dichiara che essi
non potrebbero essere tali senza il supporto dell’amore. Una grande storia di
sentimenti che sfida e vince le convenzioni sociali.
Lo straordinario romanzo mitomodernista
di Giuseppe Yusuf Conte
di
Tomaso Kemeny
Il
poeta Giuseppe Conte, con I senza cuore (Giunti, Firenze, maggio 2019)
ha pubblicato un eccezionale romanzo che non esito a nominare come
“mitomodernista”. In Le terre del mito (Longanesi, Milano, 2009), il
poeta aveva concesso alle stampe le sue esperienze di viaggiatore-esploratore
dei miti dell’Irlanda (mito celtico), delle Orcadi (mito di Odino), di Pafos
(mito di Afrodite), di Kanchipuram (gli dei dell'induismo), di Taos (miti dei
pellirossa), di Assuan (gli angeli dell'islam). In questo libro le avventure di
una galea genovese ampliano le energie del mito anche su mari e oceani.
La narrazione viene affidata al diario di bordo
dello scrivano Oberto da Noli e così le azioni e gli eventi vengono evocati dal
punto di vista di questo personaggio secondario la cui prospettiva conferisce
una relativa oggettività al narrato e permette al poeta di comporre una storia
perfettamente strutturata, ma aperta e, allo stesso tempo, incompiuta. Così il
protagonista, Guglielmo il Malo può proseguire la sua avventura in cerca del
senso della vita senza che questa venga descritta, rimanendo virtuale.
Guglielmo aveva contribuito alla presa di Gerusalemme nel contesto della prima
crociata e ha portato a Genova il vaso di smeraldo verde regalato dalla Regina
di Saba a Salomone, mitico vaso in cui Gesù Cristo avrebbe consumato l'agnello
pasquale.
Un vecchio mercante ebreo, Moses Ben Yoshua, gli rivela come il vero vaso dell'ultima cena si trovasse al nord. Preso dall'ira, dopo avere ucciso l'incolpevole israelita, Guglielmo parte alla ricerca dell'autentico vaso in cui Nostro Signore avrebbe cenato. L'abate di Landervennec, Padre Brendan gli rivela l'esistenza di un manoscritto “Historia Vasis Esmaragdo”. Il manoscritto narra come Grandon, re della Cornovaglia, sì innamorò follemente della regina maga Malgven che per concedersi esige, come prova d'amore, l'assassinio del re Sverdlun, suo marito, e possessore del vaso esagonale.
Poco tempo dopo dall'essersi concessa, la maga fugge col vaso e una valanga d'acqua travolge la città di Ys dove regnava con Grandon. La loro figlia, Ahys, si trasforma in una sirena che seduce i naviganti per poi ucciderli e strappare loro il cuore.
Un vecchio mercante ebreo, Moses Ben Yoshua, gli rivela come il vero vaso dell'ultima cena si trovasse al nord. Preso dall'ira, dopo avere ucciso l'incolpevole israelita, Guglielmo parte alla ricerca dell'autentico vaso in cui Nostro Signore avrebbe cenato. L'abate di Landervennec, Padre Brendan gli rivela l'esistenza di un manoscritto “Historia Vasis Esmaragdo”. Il manoscritto narra come Grandon, re della Cornovaglia, sì innamorò follemente della regina maga Malgven che per concedersi esige, come prova d'amore, l'assassinio del re Sverdlun, suo marito, e possessore del vaso esagonale.
Poco tempo dopo dall'essersi concessa, la maga fugge col vaso e una valanga d'acqua travolge la città di Ys dove regnava con Grandon. La loro figlia, Ahys, si trasforma in una sirena che seduce i naviganti per poi ucciderli e strappare loro il cuore.
La copertina |
Qui
si evidenzia un raffinato parallelismo, a centinaia di pagine di distanza, tra la
crudeltà di Ahys e la sete di vendetta di Giannetta Centurione, promessa sposa
di Corrado Fieschi. La ragazza si ribella ai voleri della matrigna Ermellina e
del padre Bonifacio Centurione, mercante genovese, e prima delle nozze, mai
celebrate, si lascia sedurre dal bell’ufficiale Astor Della Volta che rifiuta,
in seguito, di sposarla per imbarcarsi sulla galea capitanata da Guglielmo il
Malo. Prima di partire Astor attira Giannetta in un tranello e, insieme a Primo
Spinola, vice-comandante e l'ufficiale Lanfranco Piccamiglio la stuprano. I tre
verranno trovati assassinati e privi del loro cuore. Il titolo del libro I
senza cuore, è quindi una forma di ambiguità assai produttiva, riferendosi
alla crudeltà umana e, allo stesso tempo, alle tre colpevoli-vittime. Del
resto, l'avventura sui mari di Guglielmo il Malo è costellata di morti. Partiti
nel 1116 da Genova in 193, l'equipaggio si trova ridotto a 103.
Tra
i memorabili eventi quello dell'incontro con il vascello pirata vichingo e la
conversione del mastro d'ascia Giuseppe Bruna, che disgustato dalle violenze e
dagli omicidi avvenuti sulla galea, col nome di Yusuf Abdel Rahim diventa un
pacifico sufi islamico.
In
conclusione il poeta ci offre un giallo storico miticamente illuminato dal vaso
di smeraldo (solo alla fine si suppone che fosse il contenitore dell'agnello
consumato all'ultima cena da Giuda Iscariota, in quanto moltiplica trenta volte
i preziosi in esso collocati, allusione ai trenta denari ricevuti da Giuda per
il suo tradimento).
I
tre elementi in ER, fondamento dell'immaginario mitomodernista, “l'erotico” (le
vicende di Giannetta e Ahys), “l'eroico” (l'incrollabile volontà di Guglielmo
di scoprire il segreto della vita e del vaso di smeraldo), “l'eretico”
(“Historia Vasis...”), qui risaltano per la straordinaria energia narrativa di
Giuseppe Conte, il poeta in grado di tracciare un percorso narrativo
inseparabile dai miraggi del sacro e della bellezza.***
EBREI RILUTTANTI
di
Gabriele Scaramuzza
Il 20 maggio 2019 ha avuto luogo la presentazione
di Ebrei riluttanti, con interventi
di Enrico Arosio e di Marta Boneschi, oltre che dell’Autore; nello stesso
giorno è apparso sul “Corriere” un bell’articolo in proposito di Paolo Mieli. Ben
fatta mi sembra poi la presentazione di Giulio Busi, Un’autobiografia corale, su “Il Sole 24Ore” del 2 giugno 2019. A
una certa età, come si dice, non si è propensi a spendere “quel che resta del
giorno” senza un motivo attendibile. Nel mio caso c’è l’interesse per il libro,
la stima per Sandro Gerbi, certo: per la sua grande capacità di lavoro
culturale, per le competenze per me inarrivabili, per i suoi libri che ho letto
- in modo particolare Tempi di malafede;
ma anche per la curiosità di conoscere cose a me poco note, ma da me non così
lontane. Indro Montanelli, ad es.: a lungo, in tempi incredibilmente lontani, ho
conservato ritagli dei suoi articoli sul Corriere; Gerbi se ne è occupato non
poco, a lui è dedicato anche l’ultimo capitolo di Ebrei riluttanti. Questo notevole giornalista è stato tra le mie
attrazioni adolescenziali, presto lasciate cadere - cosa di cui beninteso ora
non mi pento: per me i Giardini pubblici restano i Giardini pubblici; chiamarli
Giardini Montanelli mi suona fuori luogo, di troppo. La figura di Montanelli
conserva tratti ambigui ai miei occhi, malgrado certe recenti rivalutazioni
della sua figura anche laddove non ce le si aspettava. Ma i motivi che mi hanno
indotto a recarmi lunedì scorso alla Libreria Hoepli sono vari, e intrecciati. Tentare
di enumerarli mi fornirà qualche traccia per questa mia segnalazione. Parto dal
titolo: “Ebrei” evoca tante cose, a me lontane (non sono ebreo), ma anche a
modo loro prossime, culturalmente e per vicende personali. Il termine rinvia
oggi innanzitutto, è scontato ma non irrilevante, alla Shoah, cui ho dedicato
non poche letture. Essa segna il culmine di un destino che da sempre ha
accompagnato la storia di un popolo; ma anche il culmine di possibilità
distruttive che appartengono da sempre al genere umano in quanto tale. Con entrambe
le cose dovrebbero tutti fare i conti. Ebrei, inoltre, sono scrittori, artisti,
filosofi che mi hanno appassionato: Franz Kafka in primis, Vasilij Grossman,
ora Imre Kertész. Sono inoltre ebrei pittori a me consoni quali Modigliani,
Chagall, Soutine, Rothko; musicisti quali Mendelssohn, Mahler e Schönberg, per
non dire di tanti eccelsi interpreti della musica. Non a caso mi ha subito coinvolto
nel testo di Gerbi il passo in cui si accenna a Un sopravvissuto di Varsavia; tanto più che proprio non credevo ci
potesse essere ancora qualcuno, tra il pur colto pubblico presente lunedì, che
non l’aveva ascoltato. Ho letto Ebrei
riluttanti tutto d’un fiato: il ritmo narrativo tiene, le immagini vi fanno
da utili e suggestivi complementi. Come di ogni storia ci si chiede “come va a
finire”; e il fine qui è lieto, malgrado tutto. Il testo è inoltre ricco di
temi, situazioni, ambienti, personaggi, coinvolgenti. Ci incontro nomi significativi,
storicamente o anche solo soggettivamente: György Lukács (cui è dedicato un
capitolo), ma anche Paolo Treves, ad es. Ci ritrovo luoghi celebri e termini
sintomatici; situazioni storiche risapute, atmosfere lontane dalle mie, e in
cui pur mi sono imbattuto. L’elenco sarebbe troppo lungo, non ne vale la pena; vi
è comunque qualcosa che mi sono annotato, e cui voglio tornare. E qui passo a
“riluttanti”, il secondo termine del titolo; prendendo le cose da lontano. Al
mondo degli ebrei riluttanti ascrivo la maggioranza degli ebrei che ho
conosciuto: ebrei che non hanno scelto di esserlo, né per nascita, né per
libera e consapevole scelta da adulti; ma che le circostanze hanno costretto a
considerarsi tali, e tanto più a mantenersi tali, sotto l’urto degli eventi
attraversati. L’ambiente che incontro nel libro mi riempie di ammirazione e di
stupore, tanto è radicalmente lontano da quello in cui sono vissuto. E questo
non tanto perché non sono ebreo, quanto perché socialmente, economicamente,
culturalmente, sul piano della mia personale e ristretta Lebenswelt direi, mi è estraneo. Ma qui dovrei dire: “mi è stato
estraneo”, giacché i casi della vita, gli studi, la professione, gli incontri,
l’estendersi degli interessi, mi hanno pur portato a fare i conti con quel
mondo per me inarrivabile: sul piano culturale innanzitutto, ma anche in altri
sensi: quello dell’economia e della finanza, per non dire della storia milanese,
in cui mi sono imbattuto. Nel mondo ebraico che ho avuto l’occasione di
conoscere prevale, ripeto, il tipo dell’“ebreo riluttante” cui Gerbi si
riferisce. In questo contesto è significativo quanto Sandro Gerbi stesso nel
corso del suo romanzo afferma (e vale a mio parere anche oltre i limiti della
sua famiglia, cui propriamente si riferisce): nei più giovani “il filo della
comune origine sta diventando sempre più esile: l’assimilazione incombe, ma
nessuno ne fa una tragedia”. Che proprio nessuno ne faccia una tragedia non credo
però: è vero solo per lo più, non del tutto: so di ebrei, anche italiani, che
alla propria origine restano legati (anche al di là di ogni adesione religiosa,
di articoli di fede, di precetti ebraici); sentono vivo “l’orgoglio
dell’appartenenza” (così ho sentito dire), contrastano matrimoni misti,
partecipano ai riti, sentono una comunità intorno a sé, oltre a conservare forti
legami con Israele, anche al di là della solidarietà verso questo o quel
governo. È più evidente che altrove, a quanto posso capire, nel mondo ebraico
la scissione tra persone “di fede”, profondamente religiose (non necessariamente
nel senso degli ebrei di Mea Shearim o di via Poerio), e persone che non lo
sono affatto, e lo dichiarano, e ciononostante hanno un forte senso del proprio
esser ebrei, partecipano ai riti, onorano le ricorrenze ebraiche, e
contribuiscono a tener viva una tensione morale e civile (che nella mia ottica
ha origini ebraico-cristiane) che si va facendo purtroppo rara. In cosa possa
consistere la loro identità è un problema tuttora aperto, ai miei occhi - e non
semplice, e non solo di oggi. Aggiungo un rapido cenno ad altri tipi di ebrei
incontrati, a mio uso beninteso, senza alcuna pretesa di oggettività, tanto
meno di completezza. Ebrei per caso (nati ebrei per caso: nessuno di noi
d’altronde può scegliersi il mondo in cui nasce): staccati dalle origini, che
hanno trovato accoglienza, lavoro, riconoscimenti in un mondo più ampio. Per
molti di loro solo le persecuzioni, i pogrom, le leggi razziali, la shoah li hanno
costretti a sapersi ebrei, loro malgrado. Erano assimilati, in tutto; e per lo
più sono tornati a esserlo. Ebrei consapevoli di esserlo, ma per mentalità e
formazione cosmopoliti, liberali, di destra o di sinistra, magari convertiti
per forza di cose ad altre religioni (tipici i casi di Mahler o di Husserl). Ottimi
professionisti, uomini di alta cultura, grandi artisti, abili commercianti, insostituibili
economisti, banchieri… Pensavano di potersi salvare con la loro onestà e
bravura, col loro impegno nel lavoro. Furono amaramente sconfessati dai fatti:
nessuna assimilazione li ha salvati da persecuzioni in nome di ideologie
razziste a sfondo biologico. Ho conosciuto ebrei conservatori, so che taluni
furono fascisti (allo stesso in cui molti italiani lo furono); presumo che altri
ebrei lo sarebbero stati, se fossero stati cittadini italiani (e dunque partecipi
alla vita politica italiana), o se le leggi razziali e le persecuzioni nella
RSI non li avessero costretti a rendersi conto della loro situazione. Tra
questi la stragrande maggioranza non era credente né praticante. Di ebrei di autentica
fede, praticanti, non ne ho incontrato nessuno che tale si fosse esplicitamente
dichiarato. Quasi tutti gli ebrei a me noti hanno sposato non ebrei,
contribuendo alla situazione rilevata da Gerbi, e da cui sono partito. Vale
però quanto ho sopra aggiunto in proposito: ebrei che rifiutano ogni
assimilazione ve ne sono, e che restano, credenti o meno, fedeli alle proprie
origini. In un primo momento ho pensato mi fosse agevole scrivere questa
segnalazione (sarebbe troppo chiamarla recensione). Non è stato così: la
riflessione su Ebrei riluttanti ha riaperto
in me un problema enorme, non scontato; e che mi portato a tornare su temi
metafisico-religiosi, del resto mai sopiti in me. Problemi cui il mondo ebraico
dà più evidenza, ma che a livelli e in contesti diversi si pongono, a quanto
vedo, per altre religioni (e per agnostici come me): quella sorta di
scollamento tra appartenenza religiosa o culturale, etica (vuoi ebraica, vuoi cristiana
o altro), e fede; su di un piano diverso tra autentici credenti e praticanti, o
indifferenti che tuttavia appartenenti a questa o quella religione si
dichiarano. Da tenere presente sullo sfondo è che in nessun caso (come noto) si
può dissolvere la realtà religiosa, di qualsiasi natura essa sia, in un mondo
morale, etico-politico, sociale, storico; non si renderebbe ragione della
peculiare, irriducibile, sostanza della religione. La prima cosa che, leggendo,
mi è venuto da chiedermi è cosa resti dell’essere ebrei oggi: certo, il
retaggio di un passato di eventi che suscitano tuttora sgomento e pongono
interrogativi forti - per l’autore, per i tanti che a titoli diversi vi sono
stati coinvolti, per tutti. Ma in positivo cosa può sopravvivere? una
millenaria tradizione morale, culturale, religiosa, che ha segnato e tuttora
segna in modo indelebile la nostra storia, certo; ma ci si può chiedere che
farsene ora, cosa la realtà in cui viviamo ne sta facendo. Non trovo molto di
questo nel testo di Gerbi, e tuttavia poche parole (relative al ritorno in
aereo verso Tel Aviv dopo aver sorvolato il Monastero di Santa Caterina nel
Sinai) hanno aperto uno spiraglio – beninteso solo in me, sicuramente andando oltre
quanto Gerbi intende. Voglio riprendere qui quelle parole: “Finalmente, non più
il gracchiare della propaganda, bensì il silenzio della devozione e un senso di
pietas per i defunti di tutte le
guerre”. Posso aver frainteso, certo; ma il sentir rivivere (oltre il mondo che
possiamo simbolizzare nel termine “propaganda”) termini che un discutibile
“laicismo” sembra dare per scomparsi mi ha piacevolmente sorpreso, oltre che
ripropormi interrogativi - e cercare risposte. Interrogativi che si dovrebbero
porre a qualsiasi essere si dica pensante.
Sandro Gerbi
Ebrei
riluttanti
Ulrico Hoepli Ed. 2019
Pagg. 158, € 16.90
Libri
Marie e il
Signor Mahler
di Gabriele Scaramuzza
Marie dunque, e con lei Gustav Mahler: il titolo
segnala subito le polarità entro cui si muove il romanzo. Racconti che si intrecciano,
si rispondono pur da rive lontane. Universi non così inconciliabili tuttavia,
contrariamente a quanto a tutta prima si è portati a credere.
Il mondo del Maso Egger, a Toblach/Dobbiaco (Maso Trenker in
realtà, ancora oggi visitabile: io stesso, con emozione, ci sono andato): lì, e
solo lì, tutto accade, ma anche lì convergono le vicende, lontane e prossime,
che fanno il romanzo. In parte inventate, in parte accadute (il lavoro di
documentazione compiuto da Capriolo si avverte chiaramente): fantasia e realtà,
storia inventata e riferimenti precisi alle vicende mahleriane si travasano
l’una nell’altra, si influenzano vicendevolmente; e questo è uno dei motivi che
danno vita al testo. Marie, adolescente, non priva tuttavia di una sua pur
aurorale maturità, abita un ambiente contadino, chiuso, tradizionalista, cui fa
da cornice il paesaggio incantevole della Val Pusteria, denso di suggestioni e
di promesse, tra boschi e monti. A storie locali e personali, ma non così
staccata da esse, fa da contrappunto la più ampia storia della famiglia Mahler:
i rapporti personali tra Alma e Gustav, i toni mutevoli della loro convivenza;
la storia della grande musica, e più in generale della cultura europea, di cui
Mahler è protagonista indiscusso - tra Vienna, la Germania e New York; la
Moravia resta tuttavia uno sfondo imprescindibile: Mahler è nato a Kalištĕ, ma
è vissuto a Iglau/Iihlava, si sa. Spiragli della storia politica e sociale
dell’epoca fanno capolino già nei rapporti tra la famiglia sudtirolese
ospitante e la famiglia altolocata dei Mahler; ma scivolano come su uno sfondo
velato, solo sottinteso. Assume rilievo invece l’esser ebreo di Mahler, cui dà
spicco l’endemico antisemitismo incarnato da Andreas, cugino di Marie.
Gli eventi narrati stanno tra il 1908 e il 1911. Mahler ha
lasciato l’Opera di Vienna per dirigere al Metropolitan, ma ogni estate, fino
al 1910, torna a Toblach, a comporre. Da lì l’ultima estate si sposta a Monaco
per la prima, grandiosa, esecuzione dell’Ottava
Sinfonia; ci sono ogni anno i ritorni a New York - che infine lascia, per
andare a morire a Vienna. È da questa fine che prede l’avvio il romanzo (Prologo, 1911 si intitola il primo
capitolo), che poi torna al 1908, retrospettivamente; e di lì prosegue in modo
lineare, malgrado l’irrompere di un passato che ne sconnette i tempi.
Teatro privilegiato degli eventi è, nelle vicinanze del Maso
Egger, la “casetta nel bosco”: luogo di giochi infantili di Marie, che Mahler
elegge a proprio rifugio per comporre. Lì nasce lo struggente Canto della terra, in cui trova
espressione (qui e in seguito, di Mahler, cito solo le parole che Capriolo gli mette
in bocca) “la malinconia dell’autunno, la protesta amara e sferzante contro la
vanità delle cose, la grande, profonda nostalgia che la bellezza suscita nei
nostri cuori…”. Ma in quella casetta vengono composti anche la Nona Sinfonia e i primi abbozzi della Decima, che resterà come noto incompiuta.
Aggiungo che tra le mie prime e più forti impressioni non solo mahleriane, ma
musicali in genere, annovero Das Lied von
der Erde; nel romanzo non mancano poi cenni ai Lieder eines fahrenden Gesellen: tra i miei primi affetti c’è stato
Ging heut morgen übers Feld, il cui
motivo è ripreso nella Prima Sinfonia.
Nel Maso ritornano anche le musiche più amate, da Schubert
(che anche Marie approssimativamente suona su una cetra) a Wagner; Mahler
privilegia qui Tristan und Isolde - di
cui viene citato non solo il celebre preludio, ma anche “la mesta melodia del
pastore nel terzo atto”. A un certo punto Mahler dichiara “… tutte le opere che
ho composto sono mosaici di citazioni più o meno trasfigurate, vasti, intricati
cimiteri lungo i cui sentieri tortuosi si profilano le lapidi dei miei
predecessori”. Tra gli autori che cita, accanto a musicisti rilevanti per lui
quali Schubert o Wagner, c’è anche Verdi: nel suo Mahler Quirino Principe ricorda l’amore di Mahler per Falstaff; e una sua conferenza di anni
fa (nel centenario della morte di Verdi, presumo) a Villa Simonetta, che mi è
rimasta impressa, ha avuto per oggetto i luoghi mahleriani in cui Verdi
riecheggia: così ad es. in un passo del primo movimento della Quinta Sinfonia è riconoscibile il
motivo di “Così alla misera” dal secondo atto della Traviata.
Nelle composizioni di Mahler tuttavia non è presente solo la
grande musica del passato. Vi troviamo anche, straniati ma vivi, reperti di
musiche popolari. Nessun musicista più di lui - nella mia ottica - ha saputo restituire
il senso di queste musiche tanto a torto disprezzate. Il suo interesse non è
quello di un etnomusicologo; bensì quello di un musicista che nella sua musica
vuole esprimere il significato vissuto della musica (il senso-per-noi, direi),
di ogni musica che lo ha toccato. E tra queste ci sono musiche suonate da bande
e da organetti di Barberia, canti, ritmi di danza colti nei cortili e sui prati;
ma come distorti, straniati appunto: “Che c’è di più demoniaco di quel Ländler,
con la sua reductio ad absurdum di
ogni innocente spontaneità?”, si chiede a proposito della sua Nona Sinfonia. Subito dopo afferma che
le sue partiture “pur nel loro ossequio non soltanto apparente alla tradizione”
hanno qualcosa di “eternamente inconcluso, problematico, vorrei dire di
tragico, se tragedia significa attraversare i conflitti senza poter mai
ricondurli a una piena conciliazione”. La citazione in Mahler è deformazione, intesa
tuttavia a dar risalto alla intensa espressività che quanto è citato nasconde
in sé. Riandando alla sua Jihlava - “una città di guarnigione, attraversata dai
suoni delle fanfare e delle marce militari” - racconta della banda che, pur
nella sua modestia provinciale, gli schiuse “l’universo dei suoni. Quando
sfilava per le vie, l’eco delle sue marce fragorose mi attirava in strada come
il più irresistibile degli incantesimi”. E ancora: “quando evoca la banda, la
mia musica assume sempre un tono di spettrale ironia”; le musiche da banda,
dice, gli suscitano una “nostalgia divorante”. “Come se ogni marcia, anche la
più allegra, fosse una marcia funebre più o meno abilmente travestita; perché
la fanfara per me significa infanzia, e l’infanzia significa morte”.
In queste musiche trova voce “l’oscuro groviglio delle
radici”, che pervade tutta la vita: possono essere (per Marie non meno che per
il musicista) l’odore della terra e del fieno, lo scroscio dell’acqua, i
profili delle montagne, le voci degli animali; ma anche le musiche popolari che
hanno animato l’infanzia. È illusorio poter sfuggire a quell’“oscuro
groviglio”; a Marie Mahler confessa di esser stato perseguitato “per tutta la
vita dalla fanfara militare di Iglau. Non c’è modo di sfuggire alle proprie
origini”, anche per chi (come lui) si è sempre vissuto come “uomo che non ha
patria”.
Al centro di Marie e il
Signor Mahler c’è il musicista, certo; ma forse è meglio dire: l’ininterrotto
dialogo con lui, condotto da Marie. Non è possibile fare di Marie una mera controfigura
dell’autrice, non poche cose le separano: l’ambiente e le storie personali, la
visione del mondo - così almeno viene spontaneo intuire. Eppure non è difficile
supporre che l’amore di Marie verso Mahler come musica e come persona - la
capacità di penetrazione, di empatia, di riconoscimento, e almeno in parte gli interrogativi,
le perplessità, le fertili esitazioni - appartengano anche a Paola Capriolo; e ai
suoi lettori sperabilmente. Che anzi l’autrice trasponga in Marie il proprio
desiderio, irrealizzabile, di un confidente rapporto con Mahler, fatto di
comuni ascolti, di scambi di parole, quali hanno luogo nella casetta nel bosco in
cui Marie appunto è accolta, attesa. Le pagine del romanzo - nelle scelte
lessicali, nei modi della scrittura, nella Stimmung
che le pervade - sono venate di nostalgia (“l’ambiguo piacere della nostalgia”,
troviamo scritto). La stessa nostalgia, voglio immaginare, il cocente rimpianto
(ma perché non aggiungere anche malinconia, istinto di tenerezza, sublimata
rassegnazione), che la musica di Mahler risveglia in chi tra gli ascoltatori vi
si immedesimi.
È Mahler, lo confesso, ad avermi spinto a leggere Marie e il Signor Mahler: l’amore per
Mahler, che resta tra le poche costanti della mia vita e, lo so, mi
accompagnerà per il mio ridotto sempre. Per restare entro i confini segnati da
Quirino Principe, certamente apprezzo Richard Strauss, ma è in Mahler che più
pienamente mi riconosco. Tra l’altro in lui scorgo analogie con Dostoevskij,
che Mahler amava. Prendere in mano questo romanzo è stato per me un modo di riprendere
Mahler, tanta sua musica che mi ha segnato. E insieme com’è ovvio anche gli
scritti su di lui che ho letto.
Quanto all’autrice, l’ho incontrata una sola volta: non ricordo
l’anno, ma è stato in occasione della sua laurea. La conoscevo di nome ed ero
incuriosito della sua presentazione (non ricordo però neppure l’argomento della
tesi). Mi è rimasto, genericamente, un tono, il modo del suo esser presente; ma
l’impressione più netta mi si collega alla parola attenzione (non trovo un
termine più proprio): percepiva in modo più intenso del solito l’attenzione rivolta
a lei, la ricambiava, finché la sentiva viva; altrettanto spiccatamente
avvertiva il suo venir meno – segno per me allora di sottile sensibilità. Ma
tutto questo dovrebbe esser detto meglio, lo so.
Degli scritti di Paola Capriolo, infine, ho letto poco, e in
anni lontani: fanno parte dei troppi rimorsi di cui è lastricato il mondo,
ampio, del mio non-letto. Scorrendo la sua nutrita bibliografia scorgo tuttavia
testi che mi catturano, che avrei dovuto conoscere; col mondo di questa
narratrice devono esistere insospettate Wahlverwandtschaften,
se un suo scritto verte su Maria Callas,
e un libro ha per titolo Vissi d’amore;
non li ho mai visti, ma mi propongo di leggerli presto: risvegliano vecchi
amori (verso Maria Callas conservo una riconoscenza infinita), e la mia
pervicace “loggionite”. Mi attraggono poi le sue traduzioni di Metamorfosi, Il Castello, Il Processo:
Kafka è un altro degli autori in cui più mi riconosco. Leggerò questi libri,
sempre che me ne resti il tempo.
Paola Capriolo
Marie e il signor Mahler
Bompiani 2019
Pagg.
239, € 17,00
43 Poesie per Genova
Una
mappa in versi
di
Mila Fiorentini
Un’idea
apprezzabile, un libro dedicato a Genova all’indomani della tragedia della
caduta del Ponte Morandi, che si è tradotta in un piccolo gioiello, una
sorpresa per la cura dell’edizione e l’idea originale, concorso di
collaborazione per la città tra il Comitato di Genova della Società Dante
Alighieri - che con Genova ha un forte legame - e l’editore Oltre-Gammarò di
Sestri Levante. Il volume, a cura di Francesco De Nicola, che ha svolto un
lavoro egregio di rifinitura e di utile introduzione alle diverse
sezioni-quartieri della città, raccoglie 43 poesie di poeti del Novecento che
hanno scritto su Genova, nessuno per questa occasione, neppure i viventi.
L’aspetto vincente è che non si tratta di un libro commemorativo dedicato alla
tragedia ma alla bellezza di Genova, alla sua contraddittorietà, una guida
emozionale lunga oltre un secolo attraverso i poeti nativi o che vi hanno
soggiornato, un viaggio altresì nella poesia del Novecento, battendo un
sentiero insolito di ricerca raffinata e insolita rispetto ai grandi nomi - che
non mancano - noti ai più. Completano il libro le eleganti fotografie in bianco
e nero che ci accompagnano tra vie e viuzze, piazze e quartieri della città. Molto
ben curate le introduzioni ai diversi capitoli, con note estremamente
sintetiche che riescono a introdurci nella città, nei poeti che leggeremo e che
spesso con una frase colgono il senso di una poesia. Guida nella guida senza
pedanteria. Il volumetto ha anche un’istanza sociale nella scelta di versare,
al netto delle spese di produzione, il ricavato sul conto corrente aperto del Comune
e dedicato all’emergenza seguita al crollo, che ha fatto il giro del mondo.
Alfred Noack Genova, strada per Carignano |
Il cammino del lettore è scandito dai vari quartieri, partendo dalla Val
Polcevera, legata al ponte che passava sul fiume omonimo, al lungomare, ad
esempio, per continuare nel centro della città e sulle alture, al Castelletto,
quindi alla stazione di Porta Principe e via dicendo.
Dopo la breve introduzione apre la rassegna Giorgio Caproni che la chiude altresì
con Litania per una “Genova sempre
nuova/Vita che si ritrova”, lunga composizione in distici del poeta livornese
di nascita, trasferitosi nel capoluogo ligure a dieci anni con la famiglia.
Anche una volta trasferito a Roma, Genova resterà nel suo cuore, e si rinnova
l’emozione ogni volta che torna a trovare la madre tanto che afferma di voler
salire in Paradiso con l’ascensore del Castelletto. Accanto a lui altri poeti
noti come Camillo Sbarbaro, Dino Campana, Eugenio Montale, il genovese Edoardo
Sanguineti o il cantautore Bruno Lauzi e autori importanti ma più legati ad un
mondo di ricerca quali Enrico Morovich, fiumano vissuto a Genova gli ultimi
decenni della sua vita come impiegato al porto ed apprezzato tra i migliori
scrittori surrealisti italiani. E così è per Marc Porcu, nato a Tunisi da
famiglia sarda, poeta e traduttore molto apprezzato, morto nel 2017, molto
legato a Genova dove ha partecipato diverse volte al noto Festival della
poesia, a partire dal 1988. Genova è infatti una città cara ai poeti e ai
cantautori che sono andati spesso a braccetto come nella poesia di questo
autore Genovantotto: “Benedetta sia
Genova/dove anche i ciechi vedono/il mare/nel dolce rumore delle tue voci.
/Sulle strade del mondo/ pure io/ spesso ho incontrato “il male di vivere”/
pure io/ ho bruciato per amore/ e in tasca ho
un “osso di seppia”/in memoria delle cinque terre./ Benedetta sia
Genova/per questa sera/ dove l’aria è fatta di parole e di musica.”
Nervi. Collegio Emiliani |
Dal libro in effetti Genova è soprattutto mare, parole e musica, i suoi
vicoli stretti, le sue contraddizioni, lontana dalla bellezza classica, è una
città spesso ferita dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione, dal traffico
e dall’inquinamento, dal suo fascino nascosto che si mescola al dolore,
all’odore di frittura. Il canto in versi o sulle note a Genova viene dal mare e
questo libro è anche una testimonianza controcorrente dell’attualità della
poesia che dimostra tutta la sua modernità per l’aspetto di sintesi, di
visualizzazione in una società dell’immagine e del video, in grado di
trascendere le mode e di invecchiare più lentamente della letteratura di prosa.
Non resta che andare o tornare a Genova e con il libro in mano seguirne la
mappa.
Francesco Ciappei Veduta da Castelletto |
43 Poesie per Genova
a cura di Francesco De Nicola
Oltre- Gammarò Ed. 2018 € 12,00
Leone l’Africano
di
Ilaria Guidantoni
La copertina del libro |
In questa immaginaria
autobiografia, viene narrata l'avventurosa e singolare esistenza di Hassan
al-Wazzan, dapprima viaggiatore e ambasciatore di sovrani maghrebini, poi, dopo
essere stato catturato da pirati siciliani e donato al pontefice rinascimentale
Leone X, geografo sotto il nome di Leone l'Africano. Circonciso e battezzato,
la sua esistenza, disegna la storia del Mediterraneo costellata di popoli in
conflitto e dialogo ad un tempo, contaminata da usi diversi, alla ricerca di
una pace difficile a trovare. D’altronde fino a quasi tutto l’Ottocento le
scorribande dei pirati non si sono fermate, facendo razzie su entrambe le rive
e utilizzando la conversione come leva sulla psicologia del prigioniero, il
ricatto amoroso nel caso delle donne. Il viaggio scandisce, con le sue tappe,
le sezioni del libro: Granada in Andalusia, terra di confine e di scontro tra
l’Europa e il mondo arabo-musulmano; Fès in Marocco, fuggendo Grenada
riconquistata, dove si avverte la presenza dei nomadi Berberi e dei Romani,
prima dell’arabizzazione; quindi il Cairo che già ha il sapore d’Oriente; fino
a Roma, dove il cardinale Pompeo Colonna trama contro Clemente VII e poteri
diversi si confrontano, come quello non ortodosso di Giovanni dalle Bande Nere.
Leone l’Africano è a Roma “il
figlio dell’Africano” appunto e in Africa “il figlio del Roumi”, ovvero del cristiano della chiesa romana, passando
attraverso quella terra di mezzo che è Cartagine, fino ai bianchi Minareti di
Gammarth, a Nord di Tunisi. Una geografia storica suggestiva quella che emerge
da Amin Maalouf, grande scrittore libanese, classe 1949, cristiano maronita,
residente a Parigi dal 1976, di espressione francese, che lavora spesso sul
dialogo tra culture diverse. Al di là della finzione emerge un grande affresco
storico, ricco di documentazione e di informazioni, ma soprattutto dello
spirito della civiltà mediterranea e della sua ricchezza di luoghi diversi;
oltre che un mosaico di personaggi ben disegnati sotto il profilo psicologico
che fa di Maalouf un vero narratore e romanziere, oltre al suo impegno di
studioso e saggista. Il protagonista che emerge è una figura complessa che
porta in sé ed accoglie la differenza come ricchezza, fil rouge della riflessione di questo autore, in altri romanzi come
Gli scali del Levante o Il periplo di Baldassarre. Non si
avverte in leone l’Africano l’astio, ma l’opportunità del rapimento del quale è
stato oggetto e l’accento più che sull’essere uno sradicato è posto sulla
capacità di riuscire ad essere un cittadino del mondo mediterraneo. Questa
varietà si annuncia nella prima pagina del libro, una sorta di prologo poetico -
d’altronde la scrittura di Maalouf è di grande eleganza e al contempo di
estrema semplicità e scorrevolezza - nel quale il protagonista si presenta “Io,
Hassan figlio di Mohamed…, io, Giovanni Leone dei Medici, circonciso dalla mano
di un barbiere e battezzato dalla mano di un Papa, mi si nomina oggi
l’Africano, ma non sono d’Africa, né d’Europa, né d’Arabia.” E continua dicendo
che lo si ricorda come cittadino di varie città sebbene sia figlio della
strada, della carovana e la sua vita sia una inaspettata traversata. Certamente
il tema del nomadismo come apertura è molto forte e in un passaggio del libro
si dice che da lontano una carovana è un corteo ma da vicino un villaggio, nel
senso di una comunità, dove le differenze, lontano dai luoghi di origine, in un
territorio che è di tutti e di nessuno pieno di incognite, sono azzerate. In
tal senso non c’è per Maalouf una terra promessa intesa come stato da occupare
e nel quale radicarsi ma un paese nel quale si è a proprio agio con se stessi.
La patria è nel senso arabo, un patrimonio immateriale, inciso nel dna e
trasmesso dagli affetti e dai ricordi familiari, prima e più che un luogo. Così
Hassan alias Leone dichiara che dalla
sua bocca “sentirai l’arabo, il turco, il castigliano, il berbero, l’ebraico,
il latino e l’italiano volgare, perché tutte le lingue, tutte le preghiere mi
appartengono. Ma io non appartengo a nessuna di esse. Io non sono che di Dio e
delle terra…”.
Un libro che è ad un tempo
l’occasione per una ricognizione storico-culturale e una storia di grande
attualità.
La storia infatti, è noto, si
ripete in un dialogo alternato di sopraffazioni con alcune variabili che sono
sempre le stesse, sia i governanti conquistatori o dittatori, come la paura
della cultura che rende consapevoli e liberi, come il divieto del sesso e dei
piaceri che rendono meno vigili, come Maalouf racconta parlando di Grenada tra
il 1490 e il 1491 dell’era cristiana. La stessa Reconquista cristiana dalla quale nascerà poi la cosiddetta Santa
Inquisizione si avvale delle stesse armi e stratagemmi dell’arabizzazione,
imponendo di fatto alle persone la sottomissione o l’esilio.
Se, come si racconta nel libro, a
Costantinopoli Santa Sofia fu trasformata in moschea da Maometto II, ad Algeri
i francesi distrussero molte moschee e poi una volta cacciati videro le loro
chiese trasformate in moschee.
Le vicende di Leone l'Africano ci
guidano di città in città attraverso gli aromi intensi e i colori abbaglianti
dell'Africa, con i suoi mercati policromi, le corti variopinte e i giardini di
sogno, poi a Roma nei suntuosi palazzi del Vaticano, in piazza San Pietro
brulicante di folla, dentro la Città Eterna abbandonata ai lanzichenecchi nel
noto sacco di Roma nel 1527.
Nello stesso modo quasi tutte le
civiltà giunte al loro apogeo cominciano un lento ed inesorabile declino. Così
fu per Atene quando cominciò la guerra con Sparta, così Roma distrusse
Cartagine, una grande civiltà, e fu sopraffatta da popoli rozzi, con
un’umiliazione ancora più grande di quella che aveva inferto. È così che Leone
l’Africano quando arriva al Cairo trova una città che da secoli era “la
prestigiosa capitale di un impero, la sede di un califfato. Quando l’ho
lasciata non era più di un capoluogo di provincia. Mai, senza dubbio, ritroverà
la gloria passata”. E così è stato.
Amin Maalouf
Leone l'Africano
Ed. Bompiani, Pagg. 360
***
FESTA AL TRULLO
di Mila Fiorentini
Modernità, ossessionata dai
click. È il mondo di Internet anzi dei social, un fenomeno devastante che
decreta il successo a seconda del pubblico che si riesce ad intercettare. La
priotià sembra essere quella dei fowller,
dei seguaci. Chi non appare e non è riconoscibile, non esiste. Una legge
spietata del mercato che al mercato riduce il successo e, soprattutto, il
valore. Le persone non hanno più una loro consistenza se non quella determinata
dal pubblico che riescono a raggiungere. Più ‘adepti’ si hanno più si ha un
potere. Festa del trullo, il
primo romanzo di Chicca Maralfa, che ci
accompagna in Puglia in compagnia della protagonista Chiara Laera, famosa influencer di
moda, che sta preparando una festa per il lancio del marchio ciceri&tria, ispirato
ad un piatto tipico salentino, un simbolo, di Vanni Loperfido, stilista
emergente anch’esso pugliese, emigrato al nord in cerca di fortuna, motivo per
cui Vanni non è visto di buon occhio dai suoi compaesani, è quasi un ossimoro
fra tradizione, radici locali, identità territoriale - l’unica rimasta - e
globalizzazione. I sapori e i ricordi locali fanno da contraltare alla
globalizzazione omologante, ad una vita nella quale si è in contatto senza
riuscire a comunicare. Dopo aver acquistato un trullo e il terreno che lo
circonda e averlo ristrutturato, grazie a un architetto milanese e un geometra
del posto, Chiara chiama il posto C - Trullo e la festa avrà
luogo proprio qui, nella sua proprietà in Valle d’ tria. Per avere maggior
risalto mediatico decide di affidarsi ai social network
creando
un set
felliniano 2.0, grazie soprattutto alla presenza di alcuni
personaggi locali: troviamo, ad esempio, Elisabetta a pulire le cicorielle e
Franchino lo spaccapietre dei trulli. La festa sembra andare come tutti avevano
previsto, ma c’è chi - radicato nelle vecchie tradizioni - non accetta il
cambiamento, tanto da reagire con gesti estremi, provocando un tragico epilogo.
Il romanzo è l’unione tra tradizione e modernità, raccontata in modo frizzante
e divertente, una caratteristica che rende le pagine del libro scorrevoli e
piacevoli, senza però nascondere una chiara critica del recente fenomeno
degli influencer che sta prendendo sempre più piede
nella nostra società. Ed è proprio grazie alle descrizioni dettagliate di
questi luoghi e personaggi del sud, che Chicca Maralfa riesce
a immergere e a far vivere pienamente al lettore le vicende raccontate e ad allontanarlo
un po’ dai social per riportarlo verso la concretezza di un libro e della
lettura. Il testo che ha un passo veloce, una scrittura piacevole e un po’
ammiccante, riunisce tutti gli ingredienti di questa società dove il marketing
impera in questo caso con il mito del Salento e la ricetta di cucina alla fine
del racconto, come il tocco noir, confermano quello che è la società
contemporanea.
Chicca Malfa
Festa al trullo
Les Flâneurs, 2018
Pagg. 190 € 14
Poesia
Perché mi hai abbandonato
di Pierfranco Bruni
Tutto visse
ai piedi della Croce
il Venerdì della Passione.
Nel giorno del canto
delle Palme
Cristo pregò per i popoli
della Terra Promessa.
Fu vana la parola
e si udì una sola eco
"Perché mi hai abbandonato"?
La Colomba del settimo giorno
prima della Pasqua
volò nei deserti e incontrò
la Rivelazione.
Maria si disperò
tra le spine e raccolse
il suo pianto
tra le mani di sabbia.
Fu l'infinito
o fu soltanto l'incipit!
ai piedi della Croce
il Venerdì della Passione.
Nel giorno del canto
delle Palme
Cristo pregò per i popoli
della Terra Promessa.
Fu vana la parola
e si udì una sola eco
"Perché mi hai abbandonato"?
La Colomba del settimo giorno
prima della Pasqua
volò nei deserti e incontrò
la Rivelazione.
Maria si disperò
tra le spine e raccolse
il suo pianto
tra le mani di sabbia.
Fu l'infinito
o fu soltanto l'incipit!
Libri
Sabun il romanzo di Alae Al Said
di Mila
Fiorentini
Tenerezza e crudeltà, un ossimoro
che disegna i confini del primo romanzo di Alae Al Said, nata a Roma nei 1991,
da genitori palestinesi, residente a Milano dove studia Scienze politiche e
Relazioni internazionali, che rivela una narratrice appassionata e matura. Nel
libro la storia di una famiglia attraverso i vari punti di vista dei personaggi
che sono le voci dei singoli capitoli e soprattutto attraverso gli occhi e il
cuore della protagonista, Asia. Un romanzo sugli affetti e la centralità della
famiglia e dell’amore nella vita di ognuno, dove la Palestina resta
un’esperienza impressa nella memoria atavica di tutti i palestinesi come un
dolore e un attaccamento profondo. Senza perdere mai la vena narrativa,
scorrono prima sullo sfondo, poi nel cuore della vicenda, le diverse Intifada
ed emerge tutta la crudeltà della guerra e del suo carico di odio che
trasforma, anche i cuori più teneri. La guerra, lungi dall’essere igiene del
mondo, si manifesta sempre come un mostro che ci deforma l’animo nostro
malgrado. La critica ha rilevato in questo romanzo, «come nelle opere di Susan
Abulhawa, la vita quotidiana dei palestinesi, costretti a vivere sotto la
crudele occupazione israeliana»: il ritmo è quello universale dell’uomo con la
vit ache scorre tra lavoro, amori tra giovani, difficoltà economiche, e in
questo angolo della terra l’emigrazione verso l'occidente alla ricerca di
progetti di vita degni di questo nome, oltre i conflitti generazionali. In un passaggio
del libro si dice che l’Italia è per i palestinesi quello che l’America è o è
stata per gli italiani. Il romanzo intreccia il profilo intimo della
protagonista con un disegno attento della sua psicologia di bambina, ragazza e
poi donna matura all’andamento corale della vicenda nel suo complesso. La
scrittrice in modo partecipativo ed emozionale ci restituisce un affresco della
situazione di soprusi patita dai palestinesi a causa dell’occupazione militare
israeliana. Concordo a tal proposito con Diego Siragusa, che firma la prefazione,
e che scrive che «questa prima opera di Alae Al Said ha il merito di farci
partecipare alle vicissitudini reali dei suoi protagonisti e di accompagnarci
alla comprensione storica e politica della tragedia di un intero popolo che non
intravede ancora una soluzione», diversamente da molti libri che lasciano poco
spazio alla coscienza del lettore. Il libro inizia con l’infanzia della
protagonista, difficile, umile, ma gioiosa grazie agli affetti e ai giochi con
uno dei fratelli. La semplicità e la fantasia dei bambini, la loro
irrinunciabile voglia di sognare si concretizza in un piccolo giocattolo
costruito con materiali di recupero (in copertina) che viene rievocato con
nostalgia e tenerezza nell’ultima pagina del libro. Lascio i particolari di
questo capitolo, come la vicenda complessa e i singoli personaggi ai lettori,
perché il piacere della lettura è anche nella scoperta di un’avventura molto
articolata che appassiona. Direi che il libro mostra il valore profondo dell’infanzia,
il suo ruolo determinante nel costruire le nostre radici e il punto di
riferimento al quale appoggiarci o tornare durante la vita nei momenti più bui.
I primi capitoli sono di grande delicatezza e danno poi il titolo al libro, Saboun, sapone in arabo perché il padre
della protagonista ha un laboratorio artigianale di saponi. Questo mondo
delicato, di fatica e amore, di regole condivise, di grande rispetto e dialogo
tra genitori e figli, pur nel rigore di una visione tradizionale della vita. Progressivamente
quel piccolo mondo antico della città di Nablus viene inquinato. Asia non sa che il 1987 è l'anno in cui la
sua vita cambierà. Prima di quell'anno, la sua amicizia con Leila era
splendida, il saponificio del padre portava avanti la famiglia e i giorni
scorrevano sereni, nonostante l'occupazione. Ma a causa di un segreto tra le
due amiche, a causa della loro incoscienza, della loro innocenza, faranno
un errore. Questo le porterà a vivere un dramma, che cambierà tutto. Nel
racconto della guerra e delle guerre ho ritrovato tanti libri della letteratura
contemporanea mediorientale che non possono prescindere da questa dimensione
qualsiasi sia l’argomento del libro, la ragione per la quale l’autore scrive e
comunque posso affermare che per ogni uomo e donna del Medioriente di oggi il
conflitto armato è al centro della propria esistenza. L’autrice è dotata di una
scrittura veloce, ben fruibile eppure molto densa che raccoglie una miriade di
informazioni e di particolari fino all’ultima pagina. Un libro dove non c’è
nulla di superfluo.
Alae
al-Said
Sabun
Ed. Zambon
Pagg. 270 € 15
DICHIARAZIONE DI POETICA
di Nicolino Longo
(In
chiave scientemente patafisica)
Nicolino Longo |
Con questo scritto ironico-teorico
del poeta Nicolino Longo “Odissea” apre un confronto sul laboratorio poetico e
le loro visioni di quanti al lavoro poetico hanno dedicato la loro esistenza
creativa.
Esistono varie poetiche, così come pure vari metodi per soppesarle. Per me, in quanto a preferenza e valutazione (checché ne dicano i letterari, ed enechetici, “patres patrati” oggi imperanti, alla brava, in Italia), la vera poesia è soltanto quella che mira direttamente al “nocciolo” delle cose, e che non si perde, quindi, mai in truismi, datismi, locuzioni perifrastiche o tautologiche, né tanto meno in aberranti e abominevoli coniazioni di alessandrinismi, o di trash contemporaneo. Essa dev’essere inventività, peregrinità, musicalità e sapienzialità dai connotati filosoficamente argomentativi, didascalici o surrealisti, e risolversi, preferibilmente, in pochi, agili e scattanti versi per ogni testo, nonché avere (o, quantomeno, tendere ad avere), a proprio registro sentenziale-orfico-contenutistico, la dicotomica, precipua prerogativa di “commuovere” o “stupire”, in modo da porgere sempre il fianco al “pectus” o alla “cogitatio” e, contestualmente, ben prestarsi (anche se la miglior poesia, a volte, è proprio quella che impone, mediante l’allettante e allattante disambiguazione, la rilettura) all’ “acamatica” assimilazione o introiezione mnesico-matetica (e mai mnemotecnica). Solo i testi che sortiscono (presso il fruitore-lettore/ascoltatore) uno di questi effetti (o, ancor meglio, entrambi, medesimamente) possono, a mio avviso, assurgere, “in toto”, a vera e propria dignità poetica, e a conglobazione di un’ “opera aperta”. E a ciò si può addivenire -come ampiamente testimoniato da tanta poesia antica, moderna e contemporanea- sia attraverso la singolarità e profondità del “portato lirico”, che a mezzo la perspicace e dirompente valenza artistica dell’epigramma: specie quando questo (che, qual forma satirica, “castigat mores ridendo”) ha anche carattere ludico-lusorio o, più latamente, “vis poetica” sublimantesi in quella “comica”. Ogni raccolta di versi (dal momento che nessun “emittente”
Esistono varie poetiche, così come pure vari metodi per soppesarle. Per me, in quanto a preferenza e valutazione (checché ne dicano i letterari, ed enechetici, “patres patrati” oggi imperanti, alla brava, in Italia), la vera poesia è soltanto quella che mira direttamente al “nocciolo” delle cose, e che non si perde, quindi, mai in truismi, datismi, locuzioni perifrastiche o tautologiche, né tanto meno in aberranti e abominevoli coniazioni di alessandrinismi, o di trash contemporaneo. Essa dev’essere inventività, peregrinità, musicalità e sapienzialità dai connotati filosoficamente argomentativi, didascalici o surrealisti, e risolversi, preferibilmente, in pochi, agili e scattanti versi per ogni testo, nonché avere (o, quantomeno, tendere ad avere), a proprio registro sentenziale-orfico-contenutistico, la dicotomica, precipua prerogativa di “commuovere” o “stupire”, in modo da porgere sempre il fianco al “pectus” o alla “cogitatio” e, contestualmente, ben prestarsi (anche se la miglior poesia, a volte, è proprio quella che impone, mediante l’allettante e allattante disambiguazione, la rilettura) all’ “acamatica” assimilazione o introiezione mnesico-matetica (e mai mnemotecnica). Solo i testi che sortiscono (presso il fruitore-lettore/ascoltatore) uno di questi effetti (o, ancor meglio, entrambi, medesimamente) possono, a mio avviso, assurgere, “in toto”, a vera e propria dignità poetica, e a conglobazione di un’ “opera aperta”. E a ciò si può addivenire -come ampiamente testimoniato da tanta poesia antica, moderna e contemporanea- sia attraverso la singolarità e profondità del “portato lirico”, che a mezzo la perspicace e dirompente valenza artistica dell’epigramma: specie quando questo (che, qual forma satirica, “castigat mores ridendo”) ha anche carattere ludico-lusorio o, più latamente, “vis poetica” sublimantesi in quella “comica”. Ogni raccolta di versi (dal momento che nessun “emittente”
-ossia,
nessun poeta- potrà aggradare a un lettore per tutte le sue poesie, e che ogni
lettore dovrà almeno esserne attratto da
una) deve porgersi, pena la sua non validità, quale un’edenica, iperuranica,
catartica, feerica e proteiforme “areŏla”,
in cui ogni componente l’ “orizzonte
d’attesa” (ossia, del pubblico) deve poter trovare, dunque, quando non
possibile un “bouquet” (configurantesi nel “precipitato” d’una “ghirlanda poetica”),
almeno un solo “ánthos” (ossia, una sola “poíēsis”), la cui
sgargiante/olezzante “corolla” (ossia, portato poetico) ne titilli i
propri “muscoli papillari” (ossia, dei recessi del cuore o intrapsichici).
Infatti, ci si può invaghire, perdutamente, di un poeta anche quando questi è
autore di soli pochi ma bene azzeccati versi (ed autorevoli contributi in tal
senso molto spesso provengono -quali “tetragone” staffilate dialettiche o
estrinsecazioni di lampi di genio- anche da poeti minori: ma non dozzinali). E,
per converso, anche di poesie anepigrafi, purché configurantisi nella
fattispecie di quelle “bene azzeccate”.
Nicolino Longo |
Tuttavia,
oggi, la nostra assai praticata e amatissima “versa oratio” può presentarsi
anche quale “recta oratio” (più che sovente farraginosa o “camp”) messa in
versi, o versi costruiti, astrusamente e pleonasticamente, a secco, senz’alcuna
valenza semantica o logico-sintattica, con deliberata finalità che nessuno ne
debba percepire la totale pochezza o cacografica nullità, spesso complici (a
discapito dello sprovveduto lettore) persino, per non dire soprattutto, alcune
grandi editrici. E tutto ciò avviene (fautori e veicolatori provetti,
ovviamente, quegli ormai ubiquisti e, spesso,
grafo/logo/rroici “vati” o “idiot lettré”) sotto le flagiziose, mentite
spoglie dei molteplici, evoluenti,
neosurrealismi e sperimentalismi avanguardistici, o idio/socio/letti, o
di quei paralogismi già di per sé torrenziali e desamantizzanti sproloqui o
scialacqui di parole, nonché spudorate e improvvide storture (o solecismi)
grammatico-lessico-sintattiche, esotismi, geremiadi o eco/ego/cripto/lalie
grafico-poetiche, sovente sconfinanti, o slatentizzantisi, in un intemperato,
sciatto e istrionesco italianese o mal riveduto “paroliberismo” d’antan, o d’accatto,
capace di far rècere (e recedere) persino chi anche da poco avesse assunto
un’overdose di antiemetici. E, inoltre, sono proprio quei poeti, o maldestri
linguai, di siffatta risma che (a
detrimento di quelli meritevoli) mietono, dappertutto, oltracotantemente,
impunemente e impudentemente, allori, e fanno razzia di premi letterari,
complice, ovviamente (oltre che l’ostentazione di acribia elocutoria in ordine
alle loro apofantiche elucubrazioni tematiche e stilematiche), certa
critica (o criticume)
letteraria, o intellighenzia, irreggimentata e fagocitata (in obbrobriosa
succubanza) da quell’oggi imperante e imperversante economia di mercato:
meccatronicamente e massmedialisticamente protesa, ormai, solo verso una
“pantocratrice” massimizzazione e
malconcia, nonché deleteria, standardizzazione.
Salterio diurno del XVII sec. |
Subdolo
andazzo, questo, che, in un futuro non molto remoto, dovrà pur essere
“profligato” (come “casistica litterarum docet”) dalla “sentenza” dei posteri,
che (scevra da ogni interesse di parte e, in assenza quindi d’ogni
condizionamento “ex ante”) commuterà in “sintropia” l’attuale esiziale e
abominanda “entropia letteraria”, fonte, per l’appunto, dell’anzidetta anetica
ed efferata disparità di trattamento. Quanto
ai versi, essi devono tutti,
possibilmente -nell’ambito della loro giustezza e spessore
morfosintattico, nonché metrica accentuativa-, dipanarsi (corroborandosene) in
metafore, anfibologie, antitesi, calembours, apoftegmi, ossimori, sinestesie,
antanàclasi, allitterazioni, o in allettevoli “hysteron proteron”, ecc., di
“nobile e splendida fattura”, e non aver mai cadute di tono o di stile, di modo
che tutti, nel “corpo” di uno stesso testo (anche se di lungo respiro), possano
presentarsi “intelaiati”, para/ipo/tatticamente, con una stessa, identica
potenza espressiva e stilistica (vedasi, ad esempio, “Il canto dell’odio” di
Olindo Guerrini, alias Stecchetti, o “A livella” di Antonio De Curtis, alias
Totò), o, tutt’al più, essere (a partire da quelli incipitari) ognuno il
gradino che, in una sorta di “climax ascendente” (“lirico” o “epigrammatico”
che sia), conduca al summum di un “distico” completivo, o epesegetico, ad
effetto (o d’un epifonèma), la cui “deflagrazione orgasmica” in potenza e
bellezza poetica, o “mozione -effettata- degli affetti” che dir si voglia,
dev’esser tale da compensare, esaustivamente, e intrigantemente, ogni carenza
artistico-contenutistica di tutti gli altri versi che, nella fattispecie,
avrebbero solo funto da “piedistallo” ai principali (come, ad esempio, in molti
dei sonetti scespiriani).
In
sintesi, a me aggradano i libri intelligentemente e profondamente lirici,
filosoficamente e perspicacemente surrealisti, ironicamente ed
epigrammaticamente aforistici, nonché ossimorici (possibili solo,
ovviamente, a quegli uomini
elitariamente e portentosamente “baciati”, o bis/“unti”, dalla ninfa Egeria, nella loro ascesa in Parnaso, e
non di certo, a quelli, invece, raccomandantisi a S. Giovanni Della Croce).
Ciò, comunque, non presuppone od impone che io ripudi, a priori o onninamente,
gli altri generi poetici: massime quando questi, come alluso in cappello, non
pecchino di prosasticità o vezzo di “topoi”, e siano sorretti da quegli
eufonici “tratti prosodici o soprasegmentali” che discernono sempre, senza
aporia (e, quindi, apoditticamente), la vera poesia da quella “stichica”,
“kitsch” o “cacofonica”, nonché dalla prosa (épatante o abborracciata che sia).
Ovviamente, non sono solo e sempre le rimalmezzo o interne, o quelle baciate o
alternate, incatenate o incrociate, o gli omeoteleuti, a far buona poesia: che,
molto più spesso, invece, prorompe da quel versiliberismo, avente, a proprio
assetto e sostegno metrico, solo -magari- ictus, paragrammi, assonanze e
consonanze interne, o il silenzio, eloquente delle pause, imposto dalle cesure.
La buona poesia, affinché sia tale in ogni sua sfaccettatura, deve, in ultima
istanza (oltre che parlare, appunto, anche con gli spazi bianchi intraversi o
interlineari), sempre proporsi (a scanso di eventuali oblatratori garrimenti, o
“mitragliate” di acrimoniosi attacchi stroncatori, da parte di “zoili” in preda
a “deliri erotomatici”) quale tessitura innovativa e originale, non già per
“ciò” che dice, essendo stato già tutto detto in millenni di versificazione
(“nullum est jam dictum, quod non dictum sit prius”), bensì per “come” lo dice,
e suscitare sempre, in chi la legge o
ascolta (e, prim’ancora, in chi la scrive), come un senso di empatica ed
estatica “parestesia” al cuore o in prossimità dell’erogena forchetta sternale,
o conca di miele che dir si voglia, e, nel contempo, l’auto-obiurgazione di non
esserne stato egli stesso autore (e, in chi la scrive, il sesquipedale, ovante
e ineffabile gaudio di esserlo stato al posto di altri). Hoc erat in votis, ossia, questo è tutto quanto atteneva, “stricto
sensu”, al mio estuosamente auspicabile “modus poetandi” (il “trobar ric”), ben
lungi, è ovvio, dall’ampollosità da me scientemente, e marcatamente, profusa
-in acerrima opposizione al succitato “trobar clus” e suoi affini- a
impalcatura e imbastitura di tutta la presente “patafisica discettazione”, per
la quale neanche impetro venia in quanto so per certo che nessun lettore, una
volta addentratosi nei meandri della medesima, avrebbe poi la costanza o la
negligenza di sfidare tanto “sadismo pseudo-letterario” da arrivare,
masochisticamente, in “chiusa” a gratificarsene (della venia): effettualmente,
per nessun componente l’orizzonte d’attesa non varrebbe il gioco la
candela.
***
Il RaccontoLa copertina del libro |
Un romanzo che, attraverso una passione
travolgente e sofferta, disegna il dialogo tra occidente e oriente, la
lacerazione di un’appartenenza a due mondi contraddittori che lasciano una
cicatrice non sanata in uno dei due protagonisti, l’eterna questione
dell’attrazione e della difficoltà di convivenza tra mondi sociali diversi.
Scritto con una penna vivace, leggera, a tratti pungenti, è un racconto
divertito della scrittrice, evidentemente con molti spunti autobiografici,
senza il peccato di autoreferenzialità. Divertente il gioco dei riconoscimenti,
almeno di uno dei personaggi, camuffati al punto giusto. Una storia che si
dipana sullo sfondo di Parigi, personaggio a sua volta, della vicenda e del ‘mondo
arabo’ non così circostanziato ma vissuto dalla parte di un’europea con molta
onestà. Godibile per una lettura di evasione, amaro per il tratto psicologico e
psicotico che si nasconde dietro la veste mondana dei personaggi, che
tratteggia una società irrisolta, nevrotica, appassionata quanto insoddisfatta.
Il testo risente dell’attività
giornalistica dell’autore sia nello stile, sia nel tratteggio veloce di
ambienti, luoghi, profili umani e diventa un affresco ironico e a tratti
sarcastico del mondo intellettuale, dei suoi vezzi, capricci, tic e in parte
illusorietà, che Rosita Ferrato smonta ma nello stesso tempo dichiara
irrinunciabile dal punto di vista dell’attrattività. Per chi conosce quel tipo
di ambiente fatto di frequentazioni provenienti da luoghi e vivai sociali
quanto mai vari, che alla fine non si mescolano mai davvero, un modo di
guardarsi allo specchio; per chi vive alla giusta distanza tra questo mondo
internazionale e ‘pensoso’, un’occasione per scoprirne il fascino e il lato
oscuro.
Il vento d’Oriente soffia su
Parigi e travolge Lee, una giovane giornalista mossa da aspirazioni tanto
concrete quanto sognanti. Come l’incanto prodotto da un genio appare Amir,
poeta e scrittore siriano, personaggio affascinante, colto e misterioso.
Lee e Amir, che il caso fa ritrovare anni dopo il primo fugace incontro, molti
anni dopo, iniziano a frequentarsi e giorno dopo giorno si scoprono, ma
soprattutto modificano la loro indole: lei, da forte e indipendente, diventa sempre
più fragile e schiacciata dalla personalità di lui; mentre la solida figura di
rifugiato ed eminente intellettuale di Amir si sgretola sotto gli occhi di Lee,
trascinandola con sé in un mondo non più esotico ma ambiguo e oscuro.
Tra gli affari che i due intraprendono insieme e l’ombra eterea e tetra
della moglie di Amir, bellezza algerina priva di contorni, assente nel
quotidiano ma presente in ogni anfratto dell’uomo, il finale brusco si tinge di
toni tragici.
Un amore noir come forse è ogni passione assetata che rischia di essere
autodistruttiva, un incantesimo che si trasforma in un maleficio. Impossibile
non pensare a elementi autobiografici, eppure ben dissimulati, in un intreccio
di aspetti narrativi immaginari o confusi come tali che fanno della Ferrato una
vera narratrice, oltre la giornalista.
Rosita Ferrato
L’amante siriano
Neos
Edizioni 2019
Pagg. 128 €
13,50La dualità dell’Edipo post-coloniale
di
Valentina Tatti Tonni
La copertina |
La
rivalutazione dell’inconscio nel saggio del filosofo Livio Boni parte dal tema
della colonizzazione per arrivare in tempi più recenti al terrorismo islamico.
Il testo, a partire da tre capitoli e tre tappe storico-geografiche quali
l’India, l’Algeria e il Madagascar, fa leva sulle due potenze europee, Francia
e Gran Bretagna che più di tutte hanno portato avanti missioni imperialiste
volte a tradurre il confine umano dell’Altro.
La centralità di questa analisi critica
fa riferimento al pensiero di Ernest Jones per cui il colonizzato sarebbe
arcaicamente attaccato alla figura della madre-patria inglese la cui componente
femminile-materna annulla quella paterna in un simbolismo matricentrico che
induce l’Edipo a una figura mortifera e per questo onnipotente, tanto cara a
Recaimer e che il lettore ritroverà negli studi sull’India di Girindrasekhar
Bose, di Sudhir Kakar che ripenserà la psicoanalisi considerando la componente
culturale e religiosa dell’India che estende il campo del pensabile ai valori
della metafisica, e di Owen Berkely-Hill che invece tentò di inquadrare la
declinazione in un’attitudine aggressiva di fondo. Simbolismo e dualità che
trovano nella storia i suoi significati intrinseci, la cui evoluzione
manipolata si emancipa grazie all’idea coloniale di un padre bianco e dominante
che fa della tesi dell’inferiorità (che Sormering già nel Settecento definì “insulto
all’umanità” non riscontrando di fatto alcuna differenza sostanziale tra la
morfologia del cervello dei popoli africani e quelli europei) la mediazione
perfetta con il femminile-materno.
Se in passato Wundt si occupò della
psicologia dei popoli andando ad indagare tutti quei fattori storici e sociali
che influenzavano lo sviluppo dei processi mentali nelle varie popolazioni,
l’idea di una lotta per la sopravvivenza si ritrovò anche nel pensiero di
Spencer con quella superiorità biologica derivata dalla razza, che sarà poi
declinata in bianca o ariana, affermata sulle altre.
La tesi freudiana secondo la quale la
società ha plasmato le pulsioni umane in conformità di regole e principi alla
base della società civile che nel piano politico è volta a liberare l’individuo
dall’oppressione della classe borghese dominante, ripensa e integra nel
dibattito la possibilità di una psicoanalisi, da Freud e Lacan, valutata sul
marxismo, da Adler, e da cui prenderanno spunto, negli anni Venti del
Novecento, gli istituti di ricerca sociale, da Fromm e Marcuse, come la Scuola
di Francoforte.
Nella decolonizzazione francese
dell’Africa rientrano i discorsi sul razzismo e le lotte dei movimenti
afro-americani ben accolti da Octave Mannoni e Frantz Fanon.
Mannoni, anticipato da Adler e
influenzato da Sartre, riconoscerà nel colonialismo l’imperativo per cui alla
dipendenza deve seguire l’inferiorità e in cui “il soggetto si aliena allo
sguardo altrui, indossando parossisticamente il ruolo che l’altro gli presta”.
Per cui, come in Lacan, la violenza mi seduce in quanto sono l’altro
idealizzato da me e con cui non potrò coincidere. Un nemico intimo e
trasversale di cui si farà portavoce anche Ashis Nandy.
Dipendenza che, nella cultura
malgascia, avrebbe ricreato secondo Mannoni un transfert che dai morti-antenati
risaliva ai colonizzatori in modo che il loro arrivo fosse in qualche modo
atteso, “addirittura desiderati nell’inconscio dei loro assoggettati”.
Nella Martinica Fanon si batteva contro
un colonialismo mentale, vissuto in prima persona e dal quale si sarebbe
formata una nevrosi collettiva ripristinabile solo a partire dal marxismo.
Ripartendo e integrando le riflessioni di Sartre si passa dall’alienazione di
un corpo che dovrà emanciparsi alla difesa della Negritudine, in una supremazia
singolare che sta nella classe.
Interessante in definitiva anche la
tesi conclusiva tra post-colonialismo e prescrizione della soggettività dove
Boni colloca Fethi Benslama il quale porrà l’accento sull’eterogeneità dell’Islam
concependo una psicopatologia del terrorismo contemporaneo. La figura del
“supermusulmano” si annichilisce nell’atto del sacrificio descrivendo così la
dominante mortifera del desiderio jihadista in cui va a subordinarsi la morte
dell’Altro e il sentimento di onnipotenza, valorizzando con un ideale ogni tipo
di ferita narcisistica che aderisce a un “incesto uomo-Dio” in cui l’essere
umano “pretende confondersi con il suo creatore”. Ciò che, in sintesi, Benslama
prefigura come il “disagio della civiltà”.
Livio
Boni
L’inconscio
post-coloniale: geopolitica della psicoanalisi
Mimesis Edizioni 2018
Pagg. 145 € 12 Storia del Mediterraneo in 20 oggetti
di Mila Fiorentini
La copertina del libro |
Un modo insolito di raccontare la storia del Mare
bianco di mezzo per dirla alla maniera araba, gustoso, divertente, pieno di
informazioni curiose, dallo stile leggero, corredato da simpatici disegni:
un’edizione molto curata, un libro che rappresenta un supporto di studio o
anche solo un intrattenimento da leggere a capitoli anche in ordine sparso.
Dove arriva il Mediterraneo?
Sarebbe limitante dire che si arresta alle sue coste. La sua influenza, i suoi
caratteri, la sua anima, come i suoi sapori e i suoi odori, invece, spaziano e
non si può fare a meno di sentire echeggiare l’idea di un continente liquido,
del lago salato di Predrag Matvejevitch (al quale è un omaggio il capitolo sul
pane) del Breviario mediterraneo e il
mediterraneo come somma di mari e di civiltà di Fernand Braudel. IL
Mediterraneo è oltre se stesso, fino a dove arriva il suo influsso. C’è dunque
il vento del Mediterraneo in Scozia e nell’Inghilterra post imperiale romana.
C’è Mediterraneo sulle vie della seta. C’è Mediterraneo nei galeoni spagnoli
come su quelli olandesi e inglesi che solcano nel Cinquecento l’Atlantico e il
Pacifico. C’è Mediterraneo dappertutto, appendice ultima dell’estrema grandezza
e complessità del continente-mondo asiatico, bacino della cosiddetta civiltà
occidentale. Come raccontare allora la storia di questo mare globale, una
categoria universale dello spirito, senza disperdersi nei mille rivoli del
racconto? Un modo è partendo dalla quotidianità del Mediterraneo vissuto
attraverso i suoi oggetti. Dei semplici oggetti, che narrano una storia
millenaria, di lungo, lunghissimo periodo, che consentono di scandire i tratti
di questo mare che si frappone fra le civiltà, spesso legandole e mischiandole.
L’elenco sarebbe infinito: in queste pagine i due autori ne hanno scelti venti,
a partire da quello, ai loro occhi, più antico e più rivoluzionario: il remo. E
poi ancora: la bussola, la moneta d’oro, il container, la chitarra, la paella,
il corallo, l’abaco, gli ex voto, i vestiti di seta… sull’esempio citato
dell’illustre scrittore croato di Predrag Matvejevic. Senza nessuna pretesa di
sistematicità, una piccola rassegna che testimonia il Mediterraneo quale
chiasmo dei popoli e crocevia di scambi, in una parola, luogo di migrazioni.
Dalle barche antiche ai barconi nel Mediterraneo si è cercata fortuna, da
sempre. E se ci sono tempi nei quali questa parte di mondo ci sembra
soprattutto un luogo di divisione, ripercorrerne la storia, aiuta a capire e
rintracciare le radici comuni. L’inizio è nel segno del pane che, diceva Diogene Laerzio, è l’inizio
dell’universo. Con esso si parla di grano menzionato sulle tavolette di argilla
di Uruk, Ebla e nei geroglifici di Tebe e Menfi. Probabilmente è originario
della Mesopotamia, coltivato in Egitto, come in Sicilia e in Tunisia, mentre i
Greci si spostavano per trovare il grano; i Romani invece lo scoprirono
relativamente tardi: prima c’era la puls,
la polenta. Con il pane nasce il forno che a Pompei diventa un’istituzione. Il
pane non è solo cibo, è sinonimo di condivisione, di accoglienza, al quale il
mondo ebraico e cristiano hanno poi dato un significato sacro. La coppa invece rimanda al vino che nel Mediterraneo ha
il suo habitat ideale e che, come il pane, acquisisce un forte significato
metaforico, tra sacro e profano, raccolto dal mondo cristiano. Con la padella, come poi con il cuscus, si associa contenitore
e contenuto. E’ così che in Spagna nasce la Paella,
piatto a base di riso, coltura introdotta dagli arabi e per questo per un
periodo proibito dalla chiesa, con cipolla e fagioli bianchi e fagiolini verdi.
Interessante a questo proposito, al di là delle varie informazioni, il senso
del piatto unico e tipico invenzione in qualche modo della modernità, per il
bisogno di identità che le nazioni, che si formano nell’Ottocento, necessitano.
Sul mare la notte fa paura, non solo per il buio e quello che evoca ma per la
difficoltà di orientarsi, tanto che la navigazione antica era per quanto
possibile lungo costa. Ecco che l’ingegno si aguzza per fare luce con lucerne, dove c’è l’olio oppure candele di grasso
animale o sego e di cera, fino alle versioni moderne. Per avere poi una luce
stabile sorgono i fari, altro simbolo mediterraneo, in origine semplici cataste
di legno alle quali veniva dato fuoco, poi architetture con una loro
specificità. Tra le curiosità il porta profumi che
molto prima di diventare un oggetto di lusso è quasi un antidoto al male, ai
miasmi, in particolare alla peste che flagella il Mediterraneo. La rete raccoglie la grande varietà nel tempo e nei
diversi paesi con molta evoluzione nel Medioevo e un posto particolare merita
la tonnara che racconta l’incontro del mondo arabo anche nei termini con il
Mediterraneo del nord. Nel mare nostrum
nasce anche la chitarra che si dimostrerà uno
strumento straordinario musicalmente sia per la versatilità, prestandosi si
alla musica classica, sia a quella tradizionale e poi nel tempo recente al rock
e al pop, contribuendo a dare l’immagine tradizionale della Spagna, sia per la
vicinanza al gusto del pubblico, riunendo interpreti molti diversi tra di loro,
basti pensare che Nicolò Paganini, oltre il violino, suonava anche la chitarra
e anche Luigi Boccherini scrisse composizioni per la chitarra. Non poteva
mancare la valigia simbolo dei viaggiatori nel
tempo; così come l’anfora per il trasporto nelle navi
di vino, olio e molto altro di non solido finché il container non ha cambiato
il volto dei porti.
Il corallo è e soprattutto è stato una delle ricchezze del
Mediterraneo che, considerato a lungo una pianta in mare e una pietra a terra,
è stato poi riconosciuto come animale. E se di valore si parla non si può
dimenticare la moneta, associata
in primis all’oro. Andando per mare
il problema dell’orientamento era centrale e la svolta è avvenuta con la bussola, la cui ambiguità del termine svela la
sovrapposizione delle civiltà in questo grande lago che vide Amalfi
protagonista, anche se le prime bussole sembrano venire dalla Cina, ancora nella
forma primaria di ago galleggiante, per poi necessitare dell’intervento degli
arabi per dare una forma più moderna. Nel XIV secolo le bussole erano già
diffuse nel Nord Europa. Più intellettuale il capitolo sull’abaco che ci porta non solo sulla tecnicalità del
conteggio ma sul senso dei numeri e del contare rispetto all’uomo. In termini
di cultura, tra i protagonisti del teatro mediterraneo i pupi con i loro cicli delle storie dei paladini,
tradizione tutta siciliana anche se con antecedenti e corrispondenze nel
Mediterraneo che vengono omessi nel libro. Il Mediterraneo, luogo di incontri e
scontri, vede anche un grande commercio di un oggetto che non necessariamente è
di per sé un oggetto di questo mare ma che ha attraversato il mare in tutti i
sensi. Poi ci sono le catene che sono una scusa, al di
là della fabbricazione a Bologna dove c’era una produzione interessante, per
parlare della schiavitù che dall’antichità è arrivata al secolo scorso: in
particolare con il caso singolare degli eunuchi che sono diventati simbolo di
orgoglio e di cultura mediterranea, celando storie di disperazione legati ad un
altro oggetto, le cesoie. Tornando più direttamente a contatto con il mare, in secoli di
navigazione, il mare è anche un museo a cielo aperto di navi e il tema del relitto acquista
un fascino epico. In effetti di naufragi si parla e non si può citare il barcone, termine più moderno che racconta le migrazioni
moderne. Interessante l’excursus storico che racconta il flusso originariamente
dal nord al sud in un primo tempo, in particolare per quanto concerne gli ebrei
sefarditi cacciati dalla Spagna di Isabella di Castiglia nel 1492 (anno della
morte di Lorenzo il Magnifico e del primo viaggio in America di Cristoforo
Colombo). Infine sul tema dell’acqua impossibile non citare la fontana da sempre ornamento di palazzi in tutto il
Mediterraneo legata simbolicamente al giardino, inteso come Paradiso,
soprattutto nel mondo arabo dove il problema era la conservazione dell’acqua.
D’altronde le città antiche e quindi le civiltà sorgevano lungo i fiumi perché
una città senz’acqua era destinata a morire, basti pensare alla fine di
Cartagine quando Roma distrugge l’acquedotto che aveva precedentemente eretto
(ndr) e a quanto, anche nella Roma dei Papi, la gestione dell’acqua fosse
questione di potere.
Amedeo Feniello - Alessandro Vanoli
Storia del Mediterraneo in 20 oggetti
Ed. Laterza 2018
Pagg.187 con illustrazioni e rilegato
***
Lilia Zaouali
L'islam
a tavola Dal
Medioevo a oggi
di
Mila Fiorentini
Lilia Zaouali |
L’incontro
delle cucine dei popoli conquistati dall’islam, la nascita di un
modello gastronomico, la circolazione delle mode culinarie, le norme
religiose, gli alimenti, le ricette: un modo di avvicinarci a una
cultura millenaria che appaga la mente e la gola, non un libro di
cucina, non solo, anche se ci sono ricette e versioni regionali di
piatti tradizionali. Un’occasione interessante e piacevole per
avvicinarsi divertendosi ad un’altra cultura e rileggere la
propria. Spesso infatti i piatti hanno una corrispondenza tra paesi
diversi ed è difficile stabilire da dove sia partito il viaggio. Il
testo è una piacevole lettura che può essere affrontata come una
passeggiata curiosa tra abitudini e tradizioni che ormai sono anche
sulle nostre tavole e un percorso storico sociale colto, nel quale ci
accompagna la scrittrice Lilia Zaouali, storica e antropologa di
formazione, tunisina, che oggi vive a Roma. Una penna leggera,
gradevole che scorre e consente anche una lettura per capitoli. Il
libro è ben documentato con una bibliografia ricca e referenziata,
dal Corano agli scrittori antichi che raccontano il genere letterario
dei libri di cucina nel mondo arabo. La cucina di questa parte del
mondo, 21 Paesi per l’esattezza, dalla Penisola Arabica con i paesi
del Golfo, al Medioriente, al Magreb, passando per l’Egitto e
alcuni paesi arabi, raccontano anche la storia dell’Europa,
soprattutto quella mediterranea e costruiscono un ponte con la cucina
indiana e il mondo delle spezie indo-cinesi, oltre che i rapporti con
il mondo persiano con il quale c’è stato uno scambio importante.
Il libro, di facile lettura, è ben articolato e curato, soprattutto
nella trascrizione dei termini dall’arabo, spiegati in modo chiaro
senza mai diventare didascalico o troppo accademico. Molte le
ricette, curiose e varie, proponibili anche nella vita quotidiana,
almeno in parte, che sono spesso lo spunto per un’informazione, un
aneddoto. La nostra passeggiata nel tempo e nello spazio parte dalle
cucine della corte dei califfi di Bagdad dal X secolo, età alla
quale risale il libro più antico, dove i piaceri della buona tavola
erano abbondantemente coltivati, e dove confluivano e si mescolavano
le tradizioni alimentari di arabi, persiani e asiatici, oltre che di
bizantini. Si tratta di una ricca e raffinata civiltà gastronomica
che si irraggiò in tutto il mondo islamico, dal Vicino Oriente
all’Egitto al Nordafrica, fino all’Andalusia. Una grande varietà
di tipi di pasta, di piatti in agrodolce, di salse - fra cui quella
che oggi conosciamo come ‘scapece’ -, di cuscus, di dolci e
persino di vino, affollano le ricette tramandate dai testi medievali.
Interessanti alcuni spunti tra i quali le regole dell’alimentazione
secondo i precetti coranici, dalle carni, con il solo divieto
rigoroso del consumo di maiale, anche per motivi igienici e di bestie
morte o non uccise in modo rituale, dell’uso del sangue; delle
indicazioni sui metalli per le posate e l’annosa questione del vino
che la Zaouali spiega in modo critico, all’’eresia’ vegetariana
perché sarebbe un peccato non godere di quanto Dio ha dato all’uomo;
oltre l’osservanza del digiuno, saum,
nel mese sacro del Ramadan; il modo di mangiare, utilizzando ad
esempio solo la mano destra.
Un’attenzione
importante nei libri medioevali è riservata alla descrizione di
utensili con una grande varietà e alle norme igieniche oltre alle
proprietà curative dei cibi e delle spezie. Trionfo della cucina
araba le spezie non solo di origine locale; il celebre cuscus, questa
l’indicazione per la trascrizione più comune in italiano, sulla
cui origine ci sono dei dubbi e le varie tipologie, integrale e non e
a grana fine, media e grande: entra nei dizionari occidentali nel
Medioevo dove potrebbe essere stato portato dai berberi nord-africani
in Andalusia. Un posto onorevole sulla tavola lo occupa il pesce sia
d’acqua salata, sia dolce, cucinato in vario modo e anche
conservato sotto sale o sotto forma di salsa che ricorda il garum
o il liquamen
dei romani. Un piccolo campionario, sottolinea la Zaouali, ci arriva
dai libri dell’Andalusia del XIII secolo dove curiosamente i
gamberetti sono inseriti tra locuste e lumache. Grande attenzione è
riservata alle carni e alle salse come, ad esempio quelle fermentate
che oggi si sono perse. Tra i condimenti diffuso l’olio di oliva e
di sesamo (in Marocco anche quello di argan) e il grasso della coda
di montone o il burro chiarificato. Molto noto l’agrodolce e l’uso
dello zucchero che nel medioevo era considerato una spezia preziosa,
soprattutto nelle zone orientali vicino ad esempio all’Afganistan
dove veniva coltivato. Presto si diffuse in Yemen e in Egitto la
coltura della barbabietola da zucchero. Curiosa la presenza di pasta
e paste per lo più cotte con salse e brodi, di alcune delle quali
non si conoscono esattamente le origini, come ad esempio alcune
simili a trofie che troviamo a Genova con nomi che richiamano
diciture arabe: i
fidāwish da
cui fedeli, i cui artigiani produttori erano riuniti nella
corporazione dei Fidei. Anche i dolci costituivano un importante
ornamento della tavola oltre che del gusto. Tante le preparazioni
legate alle verdure, delle quali le melanzane sono le regine e
attraverso la nomenclatura e la storia delle parole, come in questo
caso, si rintraccia la provenienza. Il termine arabo badhinjān
è di origine pharsi
come molti altri perché l’origine è persiana e in Italia giungono
in Sicilia, con la presenza degli Arabi per diventare mala
insana
mentre la parola ‘petonciano’ deriva proprio dal termine arabo e
l’ortaggio è stato introdotto e diffuso nel nord dagli Armeni a
Venezia. Anche l’Andalusia gode di un ruolo centrale per
l’invasione dei berberi del Nord Africa che portano molte
abitudini. Interessante è anche il largo uso della frutta nella
preparazione del riso, e di piatti di carne, da albicocche, prugne e
melograna, molto diffusa, come qui si usava nel Rinascimento. E
ancora una larga diffusione nel mondo arabo ce l’hanno, con grande
varietà, i bārida,
letteralmente piatti freddi, ovvero gli antipasti.
Interessante
la storia sociale, gli scambi tra popoli che si ricostruisce
attraverso la tavola che da Bagdad a Cordoba ha un importanza
centrale così come nel mondo arabo perché, al di là di alcune
regole, la cucina è il trionfo del piacere del quale l’uomo gode
liberamente. In questo ampio continente ‘liquido’ che è il
Mediterraneo la cucina non prende in modo rigido la veste di cucina
araba, intesa come arabo-musulmana, quanto di cucina nazionale,
libanese, siriana e così via al cui interno le influenze proveniente
da popoli e religioni diverse si fondono e si contaminano. Ovviamente
molti i riferimenti alla Tunisia, patria della scrittrice.
La copertina del libro |
Lilia Zaouali
L'islam
a tavola. Dal
Medioevo a oggi
Ed.
Laterza, 2019
Pagg.
226 12,00 euro
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BESTIE SULLA SCENA
di
Tomaso Kemeny
La copertina del libro |
La
scrittura di Angela Passarello è subordinata alla fruizione
sottovoce, quella discreta della poetessa. Gli animali, oggetto
dell'evocazione e protagonisti delle avventure, mucche, galline,
orsi, capre, e compagnia bella, paiono attori in un film mentale
muto, con il commento fuori campo dell'autrice. Il mutismo degli
animali è una pagina bianca invasa da parole in cammino nella
foresta spazzata via da una folata di vento che porta via le ali di
una farfalla, fa scivolare sulla strade della perdizione una lumaca,
fa agitare la pelle liscia delle mucche. Le galline fuggono dall'aia
starnazzando, i serpenti si attorcigliano su ciò che resta degli
alberi, le lucciole luccicano come lanterne magiche, la cavalletta
fatica a muovere le zampette, le scimmiette improvvisano dispetti e
ruberie ai turisti. C'è da inforcare gli occhiali da sole per non
farsi abbagliare dal mondo animale che illumina un paese che rifiuta
la metafora, l'allegoria e persino il simbolico. Si tratta di un
mondo che sfida l'abbondanza delle autobiografie, più o meno
narcisistiche, e traccia la planimetria della vita interiore della
poetessa, la cui smisurata immaginazione prende, nella scrittura,
corpo e durata.
Angela
Passarello
Bestie
sulla scena
Edizioni
il Verri, Milano 2018
Libri
L'abisso di Eros
di Mila Fiorentini
La copertina del libro |
L’abisso di Eros, pubblicato da Ponte alle Grazie, dallo studioso del mondo classico
Matteo Nucci, segue le tracce di Eros e dei suoi comprimari, prima fra tutti Peithò, la seduzione. Nucci ama la Grecia
che conosce e riconosce come una sua patria e lo si avverte sensibilmente non
solo per l'istruzione in merito quanto per la passione e la dimestichezza con i
luoghi, e la percorre in lungo e in largo attraverso i suoi autori e
immergendosi nei suoi paesaggi, anche in quelli più lontani dalle mete
turistiche. Per il suo libro sceglie una forma mista: un po’ saggio, un po’
racconto, aspetto originale soprattutto, per la bella scrittura nella quale si
perde volentieri con il sapore di un romanzo, un andamento lirico senza
compiacimento. Questa scelta ha il pregio di non annoiare, di sedurre per
l'appunto, anche se rende impegnativo il percorso fuori dallo schematismo dei
testi didattici. Il libro è ricchissimo di spunti e informazioni ma soprattutto
è la suggestione senza tesi che ci trascina. L’autore esprime chiaramente la
sua posizione alla fine ma non ha una tesi in mente da dimostrare. Dal Malcom
Lowry di Sotto il vulcano all’Esiodo della Teogonia,
passando per Omero, Saffo, Platone, Tucidide, esplora gli effetti di Eros,
forza primigenia, divinità fluida, sessualmente indifferenziata, creatura
giovane eterea quanto travolgente. C’è tutta una parte del libro dedicata
all’erotismo dell’educazione, che ha il suo esponente più illustre in Socrate
(nonostante la sua bruttezza i suoi allievi lo amavano pazzamente)
raccontandoci una società molto diversa non solo dalla nostra e da quella
odierna ma assolutamente originale. Un grande spazio è lasciato all'analisi di
Platone che conosceva a memoria Omero per altro e ai suoi miti, attraverso la
lettura di alcuni dialoghi e la sua teoria dell’anima, oltre il falso mito
dell’amore platonico. Le testimonianze sono moltissime, dal commediografo
Aristofane ai poeti lirici greci, analizzati in modo sintetico e messi in relazione
uno all'altro, passando da un discorso all'altro e raccontando una Grecia
estesa anche alla Magna Grecia, Sicilia, Calabria e parte della Campania.
Stupisce che in Grecia la coppia divenuta paradigma dell’amore infinito sia
quella formata da Menelao e Elena (Elena quella che era fuggita dal marito, che
torna a casa solo dopo una guerra. Il punto che Elena torna, e con Menelao
invecchiano felici e contenti, tremendamente moderna). Stupisce anche ed è
forse l'aspetto più interessante del libro che è la grande attualità del mondo
greco, il suo carattere fondante e universale come lo è l'amore per la vita.
Particolarmente acuta l'analisi delle diverse dimensioni della passione amorosa
tra Afrodite-Venere ed Eros, due divinità molto diverse quanto oserei dire
complementari, oltre una serie di aspetti connessi che il mondo pagano
individua in diverse divinità come Pan. Mi pare altresì importante sottolineare
come Nucci superi un certo manicheismo nel guardare la cultura classica e anche
alcune semplificazioni dovute all'assunzione di una categoria prevalente con
una funzionalità di comodo. Mi riferisco ad esempio alla figura di Ermes padre
di Pan che nel partorire questo figlio mostruoso, brutto esteriormente dalla
potente carica sessuale che si inebria nella 'controra' rivela anche chi è
nella parte dimenticata dalla storia e con essa, in fondo, tutta l'ambiguità e
la potenza di Eros. È sì il messaggero alato degli dei, detentore
dell'ermeneutica, altresì è il dio dei pastori e dei viaggiatori, oltre che il
dio del l'inganno e delle frottole. Anche la conclusione a cui arriva Nucci è
spiazzante: la perfetta unione afrodisiaca è impossibile, “per amarsi è
necessario tradirsi. Lottare e disperare. Lasciarsi prendere dall’ira e
dall’orgoglio. Salvare la propria dignità. Eppoi rincorrersi.”
Matteo Nucci
L'abisso di Eros
Ponte alle Grazie, 2018
pp. 283, euro 16, 80
Polifonia trapanese, un collage di voci per una città
Mila Fiorentini
Trapani. Centro storico |
Polifonia trapanese, pubblicato nel 2018 da Margana
Edizioni di Trapani, 281 pagine, 14,00 euro, è una raccolta collettiva di
racconti che fa parte della collana “Cristalli di sale”: una polifonia
trapanese, nativa o di adozione per narrare questa falce tra due mari, dal nome
greco. Un’idea originale e interessante, che spazia nei generi dall’articolo
storico, al racconto autobiografico, storie fantastiche o documentate che fanno
vedere anche gli stessi luoghi o realtà sotto diverse angolature e modalità,
una sorta di Esercizi di stile alla
Queneau. Sicuramente ci sono voci davvero gustose che trascinano il lettore,
con qualche inserzione un po’ più forzata o così personale da non riuscire a
raggiungere l’orizzonte universale. Un modo comunque originale di viaggiare e
soprattutto di cogliere lo spirito di un luogo, con un taglio sociologico,
legato alla mentalità, all’ascolto degli altri. Il libro, nato dalla volontà di
testimoniare un presidio letterario cittadino, raccoglie nove testimonianze,
rispettivamente di Salvatore Mugno, scrittore, indaga il lato oscuro della
città con opere su Mauro Rostagno e Giovanni Falcone, con il suo Rosebud, pensieri e aforismi che seguono
gli anni dal 1994 al 2011; Salvatore Costanza, storico che ha tratto spunto dal
suo studio dedicato a Trapani, La Liegi
del sud, raccontando in modo davvero gustoso questa città di mare, legata
alla pesca, alle saline e ai coralli; Mariza D’Anna, si ritrova nella città dei
nonni dopo anni trascorsi tra la Libia e Genova e stila un reportage di viaggio
ispirato a Gli italiani di Luigi Barzini, con un focus soprattutto su
comportamenti, vizi, peculiarità degli abitanti; Peppe Occhipinti, con un io
narrante al femminile in stile Moravia la storia di una Ragazza con la treccia e la sua rabbia quando scopre di non essere
più giovane; Giacomo Pilati, immagina di tornare allievo di prima elementare
alla Scuola Umberto di Savoia e racconta attraverso il suo Alfabetiere, una città attraverso lettere e parole; Antonio Rallo,
ne L’ammiraglio e il capitano
racconta il personaggio storico di Marino della Torre, prendendo spunto dalla Biografia dei trapanesi illustri del Di
Ferro; Isidoro Meli, palermitano residente a Trapani, sceglie un’ottica
‘straniera’ per riflettere sul pensiero dello scrittore inglese Samuel Butler e
la sua teoria del ‘novunque’; Daria Galateria, francesista che prende in
affitto un appartamento con una terrazza affacciata sul porto e ne scrive in
modo brioso; e Ninni Ravazza, appassionato di storie di mare, sceglie lo sfondo
del porto peschereccio e un cucciolo randagio per raccontare uno dei lati più
tipici della città. Non so se perché aprono le porte a questo viaggio e fanno
respirare il lettore l’impatto iniziale con la città ma La Liegi del sud e Sessantamila
protagonisti, sono davvero una guida strepitosa per visitare la città più
araba d’Europa, nel tempo e nello spazio, miniera di informazioni.
René Magritte. l’uomo con la bombetta
di Claudio Zanini
Una bella e interessante
mostra su Magritte, dal 16.09.2018 - 6.01.2019, presso il LAC di Lugano. A cura
di Xavier Canonne, Julie Waseige e Guido Comis
La figura umana è
un’assidua presenza nei dipinti dell’artista belga René Magritte (Lessines
1898/Bruxelles 1967). Si tratta di un borghese composto e irreprensibile,
inappuntabilmente abbigliato con camicia bianca, cravatta, bombetta e soprabito
scuro. Quasi una divisa. Un prototipo d’uomo seriale, rappresentato
frontalmente o di spalle. Quest’uomo ha spesso davanti al viso una mela o
qualche altro oggetto che lo copre (lo sostituisce). Il frutto (perfetto,
sferico) ha la stessa importanza del viso. Quando si vedono gli occhi, lo
sguardo impassibile è fisso davanti a sé, nel vuoto. In La presenza dello spirito (1960), l’uomo è affiancato da un pesce e
un uccello che hanno la stessa sua dimensione; non è sostanzialmente diverso da
loro. È uno di loro. Figura, dunque,
spersonalizzata e reificata. In Camera
d’ascolto (1958) un’enorme mela occupa interamente una stanza. Sostituisce
il proprietario; ha la medesima, perfetta impassibilità. Magritte si riconosce
in questo tipo umano, ne subisce la medesima alienazione.
Nella
famosa conferenza La ligne de vie,
tenuta ad Anversa nel 1938, si proclama fieramente avverso alla società
borghese capitalista e fautore della rivoluzione proletaria, l’unica, a suo
avviso, in grado di trasformare il mondo. Inoltre sostiene che soltanto il
Surrealismo può liberare quelle capacità e forze spirituali latenti nell’uomo
ma soffocate dalla morale religiosa, civile e militare. Denuncia lo stato
dell’arte borghese fondato su un’ottusa gradevolezza e asservita alla
mercificazione, dominata dal mero valore commerciale dell’opera. Rivendica
per l’uomo una libertà totale, quella di cui godiamo nei sogni, che Freud e il
Surrealismo hanno posto all’attenzione generale, soprattutto degli artisti. Al
mondo onirico e a quello dell’inconscio egli privilegia, tuttavia, lo stato della
veglia. È qui che si rivela il mistero della realtà quotidiana insieme
all’esigenza di svelarlo. È qui, dunque, che ci si deve liberare, scoprendone
gli inganni e le menzogne. Le sue riflessioni e le opere che ne scaturiscono
perseguono tenacemente questo fine.
Il nottambulo |
La
realtà e il linguaggio delle immagini sono ambigui e fuorvianti. Questo ci
rivela la sua pittura, cupa e sempre consapevolmente ambigua. È possibile
ipotizzare che l’origine di tale atteggiamento risalga alla morte della madre
suicida, annegata in un fiume. Pare che il quattordicenne René, ne avesse visto
il corpo nudo, ripescato dall’acqua, con la camicia da notte bianca avvolta
intorno alla testa. Nei dipinti Gli
amanti (1928), Magritte mostra due teste avviluppate in un drappo bianco,
accostate in un impossibile bacio. Il diaframma posto tra i volti, testimonia
un’insuperabile condizione d’incomunicabilità. L’ispirazione per quest’opera
pare gli sia suscitata dalla visione del dipinto di De Chirico Ettore e Andromaca, dove due manichini geometrici tentano un arduo
abbraccio. L’artista belga si accosta al futurismo e a De Chirico in
particolare, spinto dall’esigenza di rivoluzionare la concezione borghese
dell’arte. Del maestro della Metafisica ammira Canto d’amore (1910) “dove stanno insieme un guanto da boxe e il
volto d’una scultura classica”. Ecco dunque, il Surrealismo, definito da Max
Ernst con la celebre frase del poeta Isidore Ducasse (1846-1870), “bello come l’incontro fortuito su un tavolo
di obitorio di una macchina da cucire e di un ombrello”.
Il modello rosso |
L’artista
belga, tuttavia, non si limita ad adottare, del Surrealismo, gli accostamenti
incongrui di oggetti, geniale operazione in grado di far scattare imprevedibili
emozioni. Egli vuole portare alla luce una realtà più profonda, soffocata dalla
consuetudine di una visione convenzionale che non deve sorprendere né,
tantomeno, inquietare.
Un
effetto sconvolgente in tale senso è ottenuto dalla decontestualizzazione di
oggetti, soprattutto domestici e famigliari. Fuori dal loro ambito, essi mettono
a nudo sia l’aspetto misterioso della realtà, sia il loro potere evocativo. Le
gambe tornite d’un tavolo grandi come alberi in una foresta ci appaiono in una
dimensione nuova; così il cielo con delle crepe come fosse di pietra; lo stesso
effetto provocano un cielo di legno o dei massi sospesi nell’aria, ecc.
Un
paio di stivaletti slacciati che, prolungandosi, termina con le dita dei piedi
nudi (Il modello rosso, 1953)
suggerisce una strana inquietudine. Non tanto per il significato che ne
traspare, vale a dire il contrasto tra la costrizione della calzatura e la
libertà del piede nudo; quanto per la perversione dell’immagine.
Diverso
turbamento suscita un cielo diurno che fa da sfondo a un paesaggio notturno
(serie L’impero della luce, 1949/64).
Tutto è perfettamente logico, reale, ma c’è qualcosa che non va, qualcosa che
sottilmente disturba.
Esemplare
è la situazione di Il nottambulo,
(1927/28). Vediamo l’interno d’una stanza illuminata sinistramente dal lampione
d’una strada notturna. La stanza ha dei mobili piccoli, richiama l’infanzia, e
qui appare come invasa dall’esterno buio e angosciante della strada. La sagoma
oscura del nottambulo, in bombetta e cappotto, sembra la figura del turbamento
provocato dal non saper bene dove ci si trovi e dalla presenza di un’infanzia
minacciata da un ignoto rimosso. Si tratta del perturbante di cui parla Freud.
L'arte delle conversazione |
Ulteriori
ansie e sorprese scaturiscono osservando una sorta di teatrini dove brani di
cielo d’un fondale vengono in avanti disponendosi arbitrariamente sulla ribalta
come strani personaggi, giocando sul rapporto figura/sfondo e sulle loro
ambigue sovrapposizioni. Dov’è la realtà?
Magritte
intende, dunque, scardinare le convenzioni vigenti, operando sulla relazione
tra rappresentazione e linguaggio, e sul rapporto tra quest’ultimo e realtà.
Una formidabile anticipazione dell’Arte Concettuale degli anni ’60 del
novecento. Anche i titoli, afferma, non devono spiegare il dipinto, ma sviare e
disorientare l’osservatore. Si crea in questo modo un corto circuito tra titolo
e opera. Per esempio, nella serie del famoso Il tradimento delle immagini
(di cui un disegno a biro è presente in mostra) dove la didascalia Ceci n’est pas une pipe (Questa non è
una pipa), mette in crisi la convenzione che lega oggetto all’immagine,
secondo cui quella rappresentata è, senz’ombra di dubbio, una pipa. In realtà Questa, vale a dire l’immagine, è un
dipinto, la pipa reale è un’altra cosa. Tuttavia succede anche che la pipa
della didascalia sia tutt’altro che una pipa: è una parola. Come anche Questa è una parola, non una pipa, come
invece si sostiene nella frase. Tre casi che, come rileva Foucault, mostrano
l’ambiguità del linguaggio e come decada la “verità” che il linguaggio cerca di
codificare.
Magritte
sostiene che linguaggio e immagini sono convenzioni ben distinte dalla realtà;
mentre la stessa realtà ha una ”verità” che ogni definizione tradisce.
L’oggetto, infatti, non è la sua
definizione. Tra loro esiste uno scarto incolmabile. Di questo, egli ci
avverte, si deve essere ben consapevoli.Le notti bianche, la cronaca di Pietroburgo
di Mila Fiorentini
Il titolo con il sottotitolo del libro di Fëdor
Dostoevskij, Le notti bianche, la cronaca
di Pietroburgo, pubblicato sul
numero 12 della rivista Annali patrii
nel 1848 con una dedica al poeta e amico Pleščeev, raccoglie in sé l’anima del
testo. Le notti bianche evoca il sogno, con un tempo, dimensione che nello
scrittore russo diventa centrale nel corso della sua carriera narrativa, con
uno scambio tra giorno e notte. Protagonista è la figura del sognatore del
quale parla all’inizio rivolgendosi esplicitamente al lettore, mentre negli
anni si affiancheranno il tema della malattia e della violenza, ancora lontani
dallo scrittore. Il colore bianco indica la luce, magnifica e struggente del
nord, durante il solstizio d’estate (d’altronde la notte bianca, un tempo
solamente musicale, è nata proprio nelle città dell’anello d’oro in Russia) ed
è l’estate che diventerà la stagione dei romanzi di Dostoevskij, la rinascita
del sole bene così prezioso al nord, che fa uscire la città dalla sua
sonnolenza e pigrizia invernale; fino al luglio eccezionalmente caldo che
accompagnerà la follia di Raskol’nikov in Delitto
e castigo. Il sottotitolo racconta il passaggio dal feuilleton al roman
feuilleton quindi al vero e proprio romanzo: l’autore dopo 5 testi legati
al primo genere, abbandona il giornalismo delle cronache mondane che
generalmente finiva con una recensione di teatro per un pubblico ampio, una
sorta di ante litteram della
letteratura di massa, per approcciare al romanzo, prima al racconto lungo, che
unisce amori tragici e spesso triangoli amorosi, come in questo caso, come se
ci fosse necessità di un terzo elemento per attivare la coppia, alle
descrizione dei luoghi e degli ambienti sociali. Pietroburgo è protagonista
assoluta: in effetti è una sorta di guida dell’anima questo lungo racconto o
romanzo breve che testimonia il rapporto strettissimo di Dostoevskij con la
città dove si trasferì adolescente. Non fu certo un amore a prima vista anche
perché non fu una sua scelta ma del padre, in seguito alla morte della mamma,
che lo addolorò molto. Il padre voleva allontanare i due figli più grandi da
Mosca, covo di intellettuali ribelli all’Università e assicurare un futuro professionale
relativamente piano ai figli. Dostoevskij si trovò così a frequentare
ingegneria e a sottostare ad una rigida educazione militare che detestava. A
poco a poco riuscì ad allentare le maglie e gli fu permesso ad esempio di
vivere in un appartamento autonomo recandosi al collegio solo per seguire le
lezioni. Sono gli anni in cui matura la sua vocazione alla scrittura e la
voglia di consacrarsi alla letteratura, passione osteggiata dal padre. La sua
carriera si salda dunque con quella della città di Pietroburgo, “finestra
d’Europa” realizzata dal” costruttore taumaturgo”, entrambe espressioni di
Puskin riprese da Dostoevskij che contribuiscono ad alimentare il mito della
città fondata da Pietro Il Grande. D’altronde rispetto a Mosca, slavofila e detentrice
delle tradizioni, Pietroburgo è la città del cambiamento. Da una parte i
conservatori, divisi in due correnti, una più rigida e una liberale; dall’altra
i progressisti, anch’essi divisi in una corrente più utopistica legata al
socialismo utopistico ispirato a Fourier e l’altra di stampo materialista
legata a Feuerbach. Alla corrente del socialismo utopistico si accosta
Dostoevskij che dopo la condanna e i bagni penali si allontana dalla politica
in senso stretto non senza attirarsi delle critiche. Ne le notti bianche c’è una scrittura romantica ma leggera, veloce
come la penna di un giornalista, che ora vola in un mondo di sogni, ora torna
in un dialogo immaginario con il lettore, che risveglia l’attenzione e ci
conduce per le vie di una città unica per la capacità di un luogo che, nato dal
nulla a tavolino, ha saputo raccogliere la storia e tirar fuori un’anima. Non a
caso fu detta la “Palmira del nord”, assimilando la tradizione
dell’architettura e dell’arte russa e slava con molto respiro europeo,
soprattutto italiano, protagonisti gli architetti Rastrelli, Quadrenghi e Rossi,
e certamente prospettive della grandeur
francese. La Pietroburgo di Dostoevskij è certamente quella del Nevskij
Prospekt, l’arteria principale del centro ma non solo. Probabilmente sceglie il
quartiere che bene conosce, per altro la casa di Dostoevsky è a due passi dalla
parte più elegante della Prospettiva Nevskij, ed è lì dove si svolgono gli
incontri tra il protagonista e la piccola Nasten’ka, la zona prossima al canale
Ekaterininskij rinominato poi Griboedov, un canale stretto e tortuoso, formato
da due piccoli fiumi, di cui lo scrittore prediligeva la parte prossima alla
piazza Sennaja e al tratto più periferico. Il quartiere fu costruito parallelo
al fiume Neva, la via d’acqua della città, e racchiuso tra i canali della
Fontaka e della Mojka, un cuore nascosto della città, centrale ma lontano
dall’eleganza della Nevskij, adatto all’animo sognatore del protagonista del
libro. Centro e periferia coesistono come notte e giorno in questo racconto con
una grande suggestione. Se la vicenda amorosa, ancorché ben scritta con una
capacità singolare di ritagliare i personaggi, ci appare oggi datata e lontana
dalla nostra sensibilità, lo stile descrittivo è invece molto coinvolgente ed
arguto. Il testo ci porta in giro nell’anima dei pietroburghesi più che tra i
monumenti della città, con ritratto agrodolce dei suoi abitanti giudicati
indolenti, pigri ma per questo anche con un guizzo di creatività che
caratterizza tutto la mentalità russa, a differenza dei tedeschi. Dostoevskij
ci regala un confronto gustoso che si conclude con il detto “Quel che il
tedesco ingrassa il russo strozza”. La città vive due stagioni come il giorno e
la notte, l’inverno bianco di neve che invita a ritirarsi nei cantucci al caldo
di casa o nei caffè e, l’estate che dopo la primavera di fango legata al
disgelo, inonda di luce un luogo che si svuota. Tutto sembra fermarsi, i teatri
chiudono e le persone che possono se ne vanno in campagna. Dopo tanto stare al
chiuso ogni novità e soprattutto il contatto con la natura per Dostoevskij è un
vero balsamo. Curioso il ritratto dei personaggi che appaiono un po’ indolenti,
tanto che in molti per tutta la vita non si allontanano mai dal proprio
quartiere eppure la città appare un tripudio di cultura e di vita, come del
resto lo è tuttora. Con grande abilità inserisce libri nel libro, parlando ad
esempio di scrittori quali il grande Gogol’ che proprio negli anni precedenti,
nel 1843, aveva pubblicato la prima parte delle Anime morte, e che resterà per Dostoevskij un grande modello,
insieme a Schiller (del quale aveva visto I
Masnadieri, che avevano lasciato un forte segno).
Fëdor Dostoevskij
Le notti bianche, la
cronaca di Pietroburgo
a
cura di Serena Prina
Feltrinelli
Ed.
Pagg.
164 8 euroJean Genet, menteur sublime
di Mila
Fiorentini
Gli
incontri con Tahar Ben Jelloun
Genet è certamente un personaggio controverso anche sotto il profilo
del valore letterario perché la sua arte è strettamente intrecciata ad una vita
rocambolesca, perché il suo linguaggio è poetico quanto crudo e, ancora, perché
gli argomenti scandalosi. Cercando le relazioni di questo intellettuale
francese, morto nel 1986, con altri personaggi del mondo culturale più o meno
noti, ho scoperto un libro singolare, Jean
Genet, menteur sublime, scritto dall’autore marocchino Tahar Ben Jelloun
che ci racconta dodici anni di frequentazione amicale. La scoperta mi ha
colpita perché conoscendo discretamente l’opera dello scrittore di Fes, nato
nel 1944, è evidente la grande distanza che separa i due uomini. E questo
aspetto, se possibile, ne rende più stimolante la lettura. Un’altra curiosità è
che l’inizio del mio studio di Genet è legato alla mia traduzione del romanzo
di Jean Sénac, Ritratto incompiuto del
padre, dedicato tra gli altri a Jean Genet che giudica il più grande
scrittore contemporaneo. Ora Ben Jelloun racconta che la prima volta che sentì
parlare di Genet fu nel 1969 al primo Festival panafricano di Algeri da Jean
Sènac, per l’appunto. Jung parlerebbe forse di coincidenze significative. Ne
emerge un ritratto di grande lucidità, un’amicizia sincera fatta di rispetto,
pudore e complicità professionale; di stima pur nella consapevolezza di alcuni
punti di grande diversità. Il testo, gustoso alla lettura perché la penna di
Ben Jelloun è dotta e leggera ad un tempo, ci consente un viaggio che dal 1974
ci accompagna fino alla morte di Genet. Certo
nell’anno dell’incontro Tahar Ben Jelloun, trentenne, non ha molto in comune con lo “scrittore-ladro” mitico,
santo e martire ad un tempo, già di sessanta quattro anni, l’età che ha Ben
Jelloun quando scrive questo libro. Genet, dal carattere non semplice, poco
incline alla compiacenza ha allora tagliato i ponti con Jean-Paul Sartre e Jean
Cocteau e si è già appassionato alle lotte rivoluzionarie dei suoi
contemporanei, lo Zengakuren giapponese, Federazione delle associazioni di
autogestione studentesche, nata il 6 luglio 1948, legata al Partito comunista le
Black Panthers americane, la causa palestinese soprattutto. Quello che mi sembra
emerga dalle conversazioni tra i due scrittori, impegnati civilmente, di
espressione francese, con una comunanza di interesse e conoscenza della cultura
araba, pur a livelli diversi, legati al Marocco, rispettivamente per nascita e
formazione e per passione, è che Genet è
appassionato alla causa più che agli uomini. Non sembra amare ed essere
conciliante con gli esseri umani quanto con la causa degli umiliati e offesi;
d’altronde se questo stupisce da un parte, vero è anche nei confronti di se
stesso è totalmente disattento, ad esempio rispetto alla gloria. Nel libro
emerge su un doppio binario intrecciato, quello dell’intellettuale e dell’uomo,
fragile e pieno di dubbi dell’ultima parte della vita. Genet è ammalato di un
cancro alla gola eppure non rinuncia a fumare sigari Panter con pessimo tabacco
dall’odore terribile, come ci racconta Ben Jelloun, testimone di questa
parabola discendente. L’autore del libro tenta di mantenersi equidistante da
ogni giudizio, accettando di buon grado l’altro e ad esempio le sue periodiche
“sparizioni” fino all’ultima che scopre non essere stata una scelta e si
recherà per l’ultimo saluto a Larache, in Marocco, dove Genet ha scelto di
essere sepolto, al cimitero cristiano. Tra i due c’è una profonda amicizia che
è prima di tutto la storia del rapporto tra due uomini, indipendentemente
dall’essere due intellettuali noti, anche se Tahar Ben Jelloun quando si
conoscono sta muovendo i primi passi nel mondo letterario, ricavando lezioni
importanti da Genet, già famoso. Le due personalità sono profondamente diverse
e Genet mantiene un certo pudore di fronte all’amico più giovane, non parlando
mai di sessualità, anzi rifiutando ogni dialogo sull’omosessualità, senza per
questo nascondere la propria vita movimentata. Probabilmente Genet ha raggiunto
la maturità e ormai è interessato solo alle cause civili e presta la propria
penna alla scrittura dell’ultima opera, Un
captif amoureux, pubblicato postumo, dimenticandosi perfino di mangiare. L’orrore
che ha visto a Sabra e Chatila sono per lui intollerabili e la sua opera di
comunicazione e sensibilizzazione la ritiene essenziale. Nel libro Bel Jelloun con
molta discrezione invita alla lettura di quest’opera, della
quale abbiamo parlato su questa pagine qualche tempo fa, offrendo buoni spunti
di riflessione e confermandone la grande attualità.
Come già accennato,
nel momento della conoscenza i due personaggi sono molto diversi: Tahar Ben
Jelloun aveva pubblicato Harrouda (nel
1973, un romanzo in cinque racconti legati dal fil rouge del fantasma della prostituta che dà il titolo al libro e
che mette insieme i ricordi d’infanzia dell’autore) del quale Genet aveva
parlato molto bene su France Culture,
mentre quest’ultimo era già l’autore del Diario
di un ladro che aveva messo il primo KO per la crudezza del linguaggio e
dei contenuti. L’avvio della relazione non è facile per Tahar che con
convinzione ma probabilmente anche per educazione, non certo per compiacenza, comincia
la conversazione con delle lodi sui libri di Genet, il quale resta infastidito.
Parla della letteratura addirittura come impostura, interessato solo a
testimoniare e denunciare e per questo crede importante l’incontro con Ben
Jelloun che ha cercato, per poter avere il proprio libro tradotto in arabo,
perché persone di culture e lingue diverse possano essere messe nelle
condizioni di capire cosa sta vivendo il popolo palestinese e quali sono le
condizioni degli oppressi, nonché le intenzioni dei rivoluzionari, dal Giappone
agli Stati Uniti. Ben Jelloun sembra colpito dalla lucidità e il rigore dello
sguardo di Genet sulla storia e la politica anche se è appassionato e sul
riconoscimento che in ogni rivoluzione ci sono traditori e vittime, senza sogni
romantici. È interessante il libro metodologicamente perché ci svela un autore
attraverso un altro autore, con una mediazione è vero, ma ponendo in evidenza
aspetti che forse una lettura diversa non riesce a mettere in luce. In effetti
ogni persona reagisce in modo diverso e svela degli aspetti di sé a seconda di
chi ha di fronte. Inoltre c’è nel libro una tensione costante e vitale perché
Ben Jelloun attraverso i suoi incontri ci restituisce un uomo a tutto tondo,
con i chiaroscuri che caratterizzano ogni persona: Genet ad esempio era incline
al tradimento, anche con gli amici e pronto a ruberie quando aveva bisogno di
soldi; parimenti generoso fino alla tenerezza se non al paradosso come quando
si lega a Mohamed, un giovane che per tradizione familiare sposa la cugina ma
diventa l’amante di Jean, il quale è felice nondimeno del suo matrimonio perché
gli darà un figlio. E poi c’è la fragilità dell’uomo che si confessa, di aver
amato Abdallah, un giovane funambolo, la cui storia è raccontata appunto ne Le funambole, che si è suicidato,
lasciando un vuoto atroce nel cuore di Genet. Ben Jelloun scoprirà che lui
stesso ha poi tentato il suicidio dopo questa perdita irreparabile. Genet è un
uomo profondamente ferito dalla vita che si sente estraneo alla Francia perché
ritiene che ogni patria sia una ferita aperta e d’altronde il paese natìo è in
qualche modo una madre, quella che lo aveva abbandonato e che per tutta la vita
cercherà, anche se la sua infanzia in un’associazione benefica è stata felice.
In fondo nell’ultima opera protagonista è la madre di Hamza, il giovane del
quale è innamorato, nella cui ricerca si rispecchia in prima persona. La
compassione per gli altri, che in Genet fa riferimento più a una categoria che
a delle persone, e l’impegno per le cause giuste, quelle dei deboli diventa il
massimo comun denominatore, come la condizione degli immigrati, un tema già
sentito in Francia e sul quale Tahar Ben Jelloun si era misurato nella sua tesi
di dottorato nel 1975 dedicata alla miseria affettiva e sessuale degli emigrati
in Francia, con un saggio apparso nel 1977 dal titolo La plus haute des solitudes. Il testo offre infine una panoramica
sugli intellettuali francofoni che hanno attraversato un momento cruciale della
storia, sospesi tra la Francia e il Maghreb, da Mohamed Choukri, a Roland
Barthes, o Jacques Deridda solo per citarne alcuni.
Tahar Ben Jelloun
Jean Genet,
menteur sublime
Gallimard, 2013
Pagg. 250
***
LE INFINITE RAGIONI
LE INFINITE RAGIONI
Il manoscritto segreto di Leonardo da Vinci
di Mila Fiorentini
In occasione delle
celebrazioni, dei cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il 2
maggio del 1519 ad Amboise, Albeggi Edizioni pubblica Le infinite ragioni. Il manoscritto segreto di Leonardo da Vinci, un
romanzo storico in forma di diario che l’autore, Giuseppe Bresciani, immagina
che il Genio fiorentino scriva gli ultimi anni della sua esistenza, trascorsi
ad Amboise, ospite di Francesco I di Valois, presso il quale arrivò, ormai gli
studiosi concordano, nel 1516. È un Leonardo insolito, quello che ci regala lo
scrittore comasco, alla sua quarta prova narrativa, un ex imprenditore nel
settore pubblicitario, scrittore poliedrico, perché è il racconto dell’uomo
prima che dell’artista, giunto al tramonto della vita: un profilo psicologico
di chi sente la paura della morte e ancor più la frustrazione del proprio
isolamento, presso lo stesso re che tanto lo aveva amato, strappandolo
all’Italia che lo aveva di fatto rifiutato. Bresciani, con la trovata del
Manoscritto di Amboise, in realtà inesistente, che accredita come documento
storico il diario leonardesco, ci regala un romanzo a tutti gli effetti in
forma di diario giornaliere. Nelle note finali al testo, però, sottolinea la credibilità,
vista la quantità di appunti e disegni del Genio fiorentino, di un diario degli
ultimi tempi, come una sorta di testamento psicologico. L’incipit narra le peripezie
alla ricerca del Manoscritto, quindi la verifica della sua autenticità, per
addentrarsi nel quaderno leonardesco nel quale l’artista e umanista si confessa
raccontando, soprattutto nella prima parte, la sua vita alla corte di Francia. In
questa parte del libro Leonardo dà di sé una visione relativamente serena nello
sguardo rivolto al presente e all’accoglienza Oltralpe, dove viene coccolato e
onorato. Nel tempo l’ottica di incupisce soprattutto a causa dei malanni che
aumentano finché sente venire vicina la fine. Il racconto dei giorni sereni,
dove solo il clima gli fa rimpiangere la campagna toscana, disegna un affresco
della corte di Francia e delle sue ambizioni, attraverso il mecenatismo, una
panoramica sui costumi, la frivolezza colta dei ricevimenti che talora
lusingano Leonardo chiamato come scenografo, talaltra lo annoiano sottraendolo
alla sua passione per lo studio e l’osservazione della natura.
Il libro è anche una grande
piazza dove si incontrano gli intellettuali del tempo e in particolare gli
artisti italiani nonché una pennellata dello spirito del Rinascimento e della
vena esoterica che ha percorso quest’epoca al pari della riscoperta dei
classici e che sembra aver toccato da vicino Leonardo.
Nella dimora di Cloux, sulle
rive della Loira, il grande umanista spende le sue ultime energie per
compiacere la corte e consolidare la sua fama alla quale sembra particolarmente
attaccato: ne emerge il ritratto di un uomo tormentato, fragile, incline alla
vanità, bisognoso di riconoscimenti altrui che sente di esistere solo quando lo
sguardo altrui lo accarezza e insieme si rivela uomo di grande modernità. Si
sente infatti un apolide e ne è fiero dopo che ha lasciato la sua Firenze dalla
quale fu deluso. L’invidia lo ha tallonato nella sua patria dove subì un
processo per accusa di sodomia, anche se a Firenze come si dice nel libro c’era
ampiezza di costumi in tal senso, molto dure erano le pene per violenza carnale,
così come a Roma dove alloggiò al Belvedere e a Milano presso Lodovico il Moro.
Emergono tanto le rivalità, segnatamente quella con Michelangelo, che comunque
gli riserva un posto d’onore ne La scuola
di Atene, affrescata per le stanze Vaticane come le amicizie che tenne in gran conto, in particolare quella
con Sandro Botticelli.
Il Leonardo del libro è
assetato di conoscenza e della vita in genere, incantato dalla natura, l’acqua
e i cavalli lo hanno da sempre stregato, ama il buon cibo e vino, forse
vegetariano, secondo la tesi che sposa l’autore; si arrovella per mettere in
opera la creatività dell’uomo non solo come fantasia quanto come tecnica, ma è
anche e soprattutto un uomo sofferente, complesso, con una probabile
omosessualità latente, affascinato dall’umanità e insieme pauroso di sperimentarsi
nell’amore, amante del bel vivere soprattutto in gioventù, sempre più
malinconico. Al di là delle singole informazioni, come la questione discussa
dell’ambiguità sessuale leonardesca, questo testo narrativo è un’occasione per
lasciarsi incuriosire sulla vita e i costumi della corte di Francia e la
miriade di personaggi che popolano e disegnano il Rinascimento italiano, sullo
spirito del tempo e sul vissuto privato e psicologico di un personaggio noto,
uno sguardo diverso sulla stessa famiglia dei Medici, genitrice in certo modo
del Rinascimento che in questi ultimi anni ha destato un forte e rinnovato
interesse.
Colpisce, ed è forse uno degli
aspetti più originali e coraggiosi della scelta di Bresciani, il linguaggio dotto del libro che cerca di
avvicinarsi quanto più allo stile del tempo e alla conoscenza della lingua
adoperata con Leonardo che ad esempio aveva studiato tardivamente il latino e
non lo conosceva bene, pur non disdegnando di inserire dei termini. Così con
una ricerca, che trovo ben riuscita, l’autore cerca di rendere fluida la lingua
colta di Leonardo mescolata al suo colloquiare toscano, dove si intrecciano
latinismi, citazioni, proverbi, che denotano la ricchezza di fonti
dell’umanista.
Giuseppe Bresciani
Le infinite ragioni.
Il manoscritto segreto di Leonardo da Vinci
Albeggi Edizioni
Pagg. 400, € 18,00***
GIORDANO BRUNO E LA FILOSOFIA DEL RINASCIMENTO
di Mila Fiorentini
La riscoperta di un autore noto solo per l’epilogo
tragico della sua vita - bruciato il 17 febbraio del 1600 dall’Inquisizione a
Campo dei fiori a Roma dove ora c’è la statua che lo ricorda - e un’occasione
per raccontare il Rinascimento italiano da un punto di vista insolito, non solo
letterario e artistico o storico. Tra l’altro come ricorda nella nota di
sintesi alla fine del volumetto Giordano
Bruno e la filosofia del Rinascimento, Maurizio Ferraris, l’Italia “pur non
vantando una speciale tradizione filosofica ha attraversato un momento, proprio
tra Il Quattrocento e il Cinquecento, in cui, a causa di situazioni politiche
ed economiche, di politica e di arte e anche di filosofia e di cultura”, con
una sua specificità, prima che poi la filosofia dal mondo latino si affermasse
soprattutto nel centro e nord Europa. È questa l’epoca certamente nella quale
come ci racconta Michele Ciliberto, a sua volta filosofo,- nella serie edita da
la Repubblica “Capire la filosofia -
La filosofia raccontata dai filosofi”, nel 2011 la riflessione filosofica è
strettamente legata all’arte e all’immagine e questo lo è in particolare in
Giordano Bruno che scrive testi teatrali per immagini, come il noto Candelaio e la Cena delle ceneri. Tra l’altro la memoria che rappresenta la
capacità dell’uomo di raccogliere un patrimonio di immagini, ovvero di
conoscenza attraverso le immagini, è definita l’arte tra le arti e dunque il
filosofo è un artista. Non solo, in questo periodo dal Cinquecento fino al
primo Seicento, dopo la riscoperta della centralità dell’uomo nell’Umanesimo
del Quattrocento e il recupero della cultura classica, lo sguardo si rivolge
alla natura e la filosofia attraverserà una fase di intreccio con la scienza,
staccandosi dalla teologia, non senza grossi problemi che accomunano i tre
autori presi in considerazione nel pamphlet, Giordano Bruno appunto, Bernardino
Telesio e Tommaso Campanella. In questi filosofi la centralità della natura
rispetto all’uomo, come del sole rispetto alla terra ha però ancora un
carattere non scientifico. Perfino in Tommaso Campanella che conobbe e ammirò
Galileo, l’attenzione è ancora rivolta alla magia e all’occultismo sebbene si
accenda la critica ai filosofi che spiegano la natura a partire da categorie
“astratte”, logiche, metafisiche, aderendo ad una schema aristotelico e non
partendo dall’osservazione della stessa. Sono filosofi che spiegano bene il
passaggio da un’epoca all’altra anche sotto il profilo sociale, tutti
meridionali, rispettivamente di Nola (Napoli), Cosenza e Stilo sempre in
Calabria, si formano in seminario il primo e l’ultimo mentre il secondo
seguendo studi di filosofia, matematica e ottica restò comunque fedele alla
chiesa cattolica e godette di appoggi papali. Eppure tutti insofferenti nello
spirito all’ortodossia andarono incontro a processi, rispettivamente al rogo
Giordano Bruno dopo che la richiesta di abiura totale, non più solo di
dissimulazione, avrebbe compromesso la sua fedeltà al dovere di dire la verità,
all’indice dopo la morte Bernardino Telesio con la sua opera maggiore, a 26
anni di carcere e torture Tommaso Campanella che dalla prigione scrisse le sue
opere più importanti, compresa La città
del sole, il modello di utopia di una vita in armonia con la natura, che
riparò negli ultimi anni a Parigi godendo per poco di una relativa serenità.
Vite costellate di situazioni tragiche - Bernardino Telesio fu sempre
angosciato da restrizioni economiche, gli morì la moglie e gli fu ucciso il
figlio - uomini in bilico tra il passato e il presente. Tra le curiosità,
Giordano Bruno scrisse prevalentemente in latino malgrado il suo bisogno di
innovare. Per chi riuscisse a recuperare questo esile e denso libretto, con
l’inserimento circostanziato di alcuni brani, si ha il gusto di assaggiare lo
spirito del Rinascimento e si è spinti ad una riflessione di grande modernità
senza l’impegno di affrontare un testo filosofico. Michele Ciliberto,
napoletano, classe 1945 allievo di Eugenio Garin, è Presidente dell’Istituto
Nazionale di Studi sul Rinascimento ed è titolare della cattedra della Storia della filosofia moderna e
contemporanea alla Scuola Normale di Pisa. Con un linguaggio piano e una grande
umiltà, un piacevole tono colloquiale ci restituisce l’uomo Giordano Bruno
prima che il filosofo introducendoci al grande concetto di rottura che
introduce, l’infinito, rispetto al finito, definito e concluso in sé.
L’universo è scoperto come infinito e si ammette la possibilità degli infiniti
mondi possibili, ridimensionando la posizione dell’uomo nell’universo e
introducendo quello che moralmente sarebbe diventato il relativismo morale. Il
tema della conoscenza stessa si relativizza e si crea un abisso tra
Dio-infinito e uomo-finito-Cristo, con una critica serrata alla Trinità. Ecco
che quindi da grande sostenitore del Cristianesimo diventa un antagonista,
parlerà del Cristo come un ‘cattivo mago’, sulla base della riflessione
filosofica che apre una voragine verso la modernità. Da qui un grande lavoro
sulla cosmogonia e sulla magia come strumento di possibile conoscenza. Un
piccolo libro che apre uno spiraglio sulla ricchezza radicale della cultura
rinascimentale come preludio alla modernità, sull’alternativa della fede: al
Cristianesimo si sostituiscono o comunque con esso si confrontano le religioni
ermetiche, fondate sulla magia e legate alla figura di Ermete Trismegisto.
Michele Ciliberto
Giordano Bruno e la filosofia del Rinascimento
Collana
Capire la Filosofia – La Filosofia raccontata dai filosofi
La
Biblioteca di Repubblica, 2011 Pagg.
90
***
Amogia del Mediterraneo di Riccardo Nicolai
di Mila Fiorentini
Riccardo Nicolai |
Avvincente la versione per bambini, presto anche a teatro, di Riccardo
Nicolai libraio sui generis di Massa Carrara, titolare, con il fratello di Ali
di carta. O meglio libraio che legge e consiglia i libri oltre a venderli.
Laureato in lingue e letterature straniere all’Università di Pisa, autore di
libri sul territorio come Tenebre di porpora – Un racconto dei Liguri Apuani,
ha pubblicato Alì Piccinin Un Mortegiano Pascià di
Algeri
del quale ha realizzato una versione per l’infanzia presto in versione
teatrale.
Alì Piccinin, Ali Betchine, torna in Algeria. Il
racconto del piccolo Aldino, bambino rapito dai corsari barbareschi a Mirteto,
un paesino toscano sulle Alpi Apuane, alla fine del 1500, diventato poi rais e
pascià di Algeri, è trasformato in un romanzo di Riccardo Nicolai, libraio. Accanto
a riferimenti storici documentati e una descrizione viva di Algeri e della
cultura locale e insieme ad una trascrizione impeccabile dei termini arabi, il
gusto della narrazione tipica del romanzo classico d’avventura, d’armi e
d’amore, che piega il linguaggio senza forzature, con grande destrezza, ai vari
“dialetti” e alla lingua usata al tempo. Un libro che sembra contemporaneo
delle vicende che narra eppure fresco, che si legge d’un fiato, imparando nel
flusso degli eventi ed emozioni, una parte della storia che ci tocca da vicino
e totalmente dimenticata. Nella versione per l’infanzia, Amogia del
Mediterraneo, partendo dal titolo che indica lo spazio tra le dita della
mano, fatto per intrecciare altri mani e quindi relazioni affettive, il
messaggio si focalizza sul Mediterraneo come uno spazio dove costruire un ponte
tra le due sponde, dove comprendersi senza conoscersi, dove l’amore e il
rispetto è possibile al di là delle diverse lingue. Il Mediterraneo visto dalla sponda sud che si rispecchia nel Tirreno
delle Alpi Apuane e delle sua cave di marmo e maestranze che costruiscono la moschea, inaugurata
nel 1622, tuttora esistente di Algeri, Ali Betchine. Tra la piazza dei Martiri
e il noto liceo Emir Abdelkader, all’incrocio tra la via Bab el-Oued e la
Csbah, una piccola costruzione sormontata di finestre e un minareto che appare
strana per la forma e le dimensioni contenute. Non ha infatti la tipica
architettura di una moschea eppure non assomiglia alle case e palazzi della
Casbah. La spiegazione ne rende ragione, costruita da un architetto di
Costantinopoli su volontà di un italiano fattosi musulmano che utilizzò i marmi
candidi di Carrara con inserzioni di paonazzo e maestranze apuane. La
costruzione è tra l’altro celebre per la fontana che si trova all’ingresso, “la
fontana della strada”. Questo il dono di nozze di Alì Piccini, Aldo il
piccolino, figlio di Aldo, figlio adottivo del Rais el-Fettah, per l’amata
Lallaloum, che simboleggia, come il nome che daranno al loro figlio, l’unione
tra le due terre e le due culture. La storia è quella del piccolo Aldino figlio
di gente modesta di un paese delle Alpi Apuane, la cui storia ho ascoltato
personalmente in occasione del mio reportage ad Algeri e qui ritrovata e
contestualizzata. Figlio di gente, Aldino, bambino sorprendente per il suo
coraggio, umile fu rapito dai Corsari
che imperversavano sulle coste del Mediterraneo del Nord e nativo di una zona
che da sempre aveva odiato i Romani ai quali non si era mai sottomessa,
annientandone i legionari e sostenendo Cartagine. Salvato dal Rais di Algeri
che lo comprò come schiavo adottandolo come figlio, dopo la morte di quello
naturale in un terremoto, quello che analoghe scorrerie avevano ucciso, dopo
l’iniziale disperazione, realmente amato, si converte all’Islam e alla “guerra
santa” contro i cristiani pur non dimenticando mai i propri genitori. Storia
dorata e crudele ad un tempo. Il romanzo ci accompagna nel piccolo dagli occhi
chiari che cresce, diventa un buon musulmano, colto in lingua araba, e scala le
gerarchie militari fino ad assumere la guida della Reggenza di Algeri. Valente
e coraggioso soldato in conflitto con il sultano della “Porta sublime”, viene
accusato di aver tenuto un comportamento insubordinato con una provincia suddita
dell’Impero ottomano. Muore giovane avvelenato, lasciando una città che aveva
fatto prosperare in poco tempo, prostrata in un lutto profondo, così come la
sposa tanto amata alla quale dedica la moschea. Aveva sposato una delle figlie
del re di Djebel Koukou rinforzando così la propria posizione e conquistando il
sostegno della Cabilia. Storia avvincente grazie anche alla capacità
iconopoietica di Riccardo Nicolai, e molto ben riuscito anche il quadro
dell’ambiente della Capitale di Algeri dov’è stato presentato al Salone
Internazione del Libro. Nella versione per bambini si rafforza il tema del
messaggio di accoglienza e di dialogo tra le genti del Mediterraneo, mentre
prendono spazio le forza magiche della
natura, la dea mediterranea che simboleggia il mare, come grembo materno; il
Vento e così via che vengono di volta in volta in soccorso del piccolo. Una
scrittura poetica e delicata che unisce il gusto della narrazione, arricchita
da disegni, al concetto di fiaba per l’aspetto della morale senza dimenticare
la storia.
Riccardo Nicolai
Amogia del Mediterraneo
Copertina e illustrazioni di Francesco
Ascensao Cortez Pinto
Novembre
2017
Tipografia
Impressum srl Marina di Carrara
14,00
euro
Versione
per bambini: Alì Piccinin. Un
Mortegiano Pascià di Algeri
Riccardo
Nicolai, 2015
Tipografia
Impressum, Marina di Carrara
2016, II
edizione
***
L’ORO DEI MEDICI
di Ilaria Guidantoni
Un romanzo storico noir che ancora una volta ruota intorno
alla famiglia Medici, ormai quasi una moda. Il pregio è la chiave di lettura,
il taglio economico legato all’oro dei Medici appunto e alle ricchezze di una famiglia
in qualche modo locale - che pure ha fatto scuola nel mondo diventando il
modello di nobiltà illuminata e di Rinascimento - a confronto con le grandi
monarchie europee indebolite economicamente da assurde guerre di religione.
Al di là del racconto quotidiano, in parte anche
legato alla finzione con alcuni personaggi di fantasia, il testo offre uno
spunto di interpretazione sempre valida della storia e una ricostruzione
dell’ambiente toscano della costa e delle fortezze medicee.
Il
libro di Patrizia Dèbicke Van Der Noot, scrittrice nata a Firenze e bilingue
grazie ad una nonna alsaziana - che ha compiuto gli studi all’Università di
Grenoble e ha sempre viaggiato molto, dividendosi ormai tra Italia e
Lussemburgo - racconta le contraddizioni di un’epoca e di una famiglia tra
splendore e decadenza e un mondo senza scrupoli che non fa rimpiangere il
passato. Siamo nel Granducato di Toscana nel 1597 quando l’'Italia è ormai
caduta in mano agli eserciti stranieri, anche se siamo all’apice della cultura
del Rinascimento e di fiorenti commerci internazionali. Impressionante è il
confronto tra la famiglia di una città e le monarchie nazionali perché la prima
regge il passo con le seconde. Questo dà la misura del potere dei Medici,
nobili non di alto lignaggio ma forieri di un nuovo modello di potere, quello
nato dalla capacità di fare della cultura un’impresa e fondato sulla ricchezza
liquida. Un vero e proprio modello di modernità, forse mai eguagliato, che
getta uno sguardo critico sull’interpretazione della storia. E’ l’oro la vera
ragione del contendere e se le guerre di religione, già allora giudicate
assurde, evidenziano anche come rappresentano una causa di rovina per gli
stati, proprio per questa ragione si esauriscono. La pace alle soglie del
Barocco dunque non è un obiettivo morale, un credo democratico ma un’esigenza
economica. Niente di nuovo sotto il sole verrebbe da dire. L'Europa riconosce e
ammira lo splendore e l'eccellenza dei banchieri più potenti al servizio dei
sovrani europei che sono italiani, genovesi e fiorentini. Firenze è uno stato
ricchissimo sotto la guida di un'illustre famiglia di mercanti e banchieri e il
loro oro fa invidia a tanti e, chi non riesce ad averlo in prestito, tenta di
sottrarlo in modo subdolo e illecito. Organizzando, ad esempio, un orrendo
ricatto nei confronti del granduca Ferdinando I, la cui vicenda è al centro del
libro, di cui verrà subito a conoscenza il fratellastro, don Giovanni de'
Medici, geniale architetto, ingegnere, poeta e musicista, nonché comandante
della flotta granducale e amante delle belle donne. Così, tra Livorno, Firenze
e Ajaccio, in bettole malfamate e in ville aristocratiche, Don Giovanni,
insieme al fidato capo della polizia del Granducato, condurrà un'indagine che
lo porterà a scoprire i mandanti e ad affrontarli in un'epica battaglia navale
al largo delle coste toscane.
«Come Don Giovanni sospettava e temeva, gli
uomini che facevano parte del complotto contro il granduca erano già a Firenze
da giorni. Erano pronti a mettere in atto il piano prestabilito. Avrebbe dovuto
scattare il 3 dicembre, giorno previsto per la prima rappresentazione
della Dafne.» Dafne ci porta al centro della cultura
rinascimentale e dell’originalità fiorentina essendo la prima opera lirica
riconosciuta come tale, rappresentata per la prima volta a Firenze, composta da
Jacopo Peri su Libretto di Ottavio Rinuccini. Da lì la fortuna del Melodramma
italiano che ancor oggi costituisce la via preferenziale della trasmissione
della nostra lingua nel mondo.
Gli aspetti forse più interessanti del libro
sono, al di là dell’intrico della vicenda, che mescola vita familiare e
strategia militare, la connivenza e il doppio gioco della chiesa, gli inserti
descrittivi dei luoghi fiorentini e della costa, da Piombino a Livorno, per
addentrarsi nella campagna di Colle Salvetti e ancora il santuario della
Madonna di Montenero a Livorno, la nuova Fortezza Medicea, come a Firenze il
Forte Belvedere e Palazzo Pitti, pennellate veloci che non diventano mai
“appendici” pesanti, ma che rappresentano tuttora una guida leggera per
visitare questi luoghi e anche per mettere in relazione la città delle colline
con l’importanza strategica del mare.
Patrizia Dèbicke Van Der Noot
L’oro dei Medici
Tea Ed. 2018
Pagg. 348, € 13,00Guillaume Musso. L’instant présent
di Ilaria Guidantoni
La copertina del libro |
L’Instant présent, non ancora
tradotto in italiano, è un romanzo di Guillaume Musso secondo alcuni l’autore
francese più letto. Io sono sempre prudente con le classifiche perché per altro
mi risultava fosse Yasmina Khadra, algerino francofono, residente in Francia.
Certamente autore di successo, ho resistito alla tentazione per un pregiudizio
al contrario, diffidente verso quello che piace ai più, non per snobismo ma
perché spesso si tratta di successi creati a tavolino grazie a strategie di
marketing che raccontano in qualche modo i bisogni indotti che non risparmiano
neppure la sfera culturale. Alla vigilia della grande partenza per le vacanze
la curiosità per quello che leggono i più soprattutto per svagarsi è una tentazione
irresistibile. Leggendo qualcosa di Musso, classe 1974, si
scopre che ha conosciuto la notorietà nel 2004 grazie al suo primo
romanzo, L´uomo che credeva di non avere più tempo, tradotto in
più di venti lingue e diventato anche un film. Tra i suoi numerosi successi,
che hanno venduto oltre 22 milioni di copie nel mondo, ricordiamo: Quando si ama non scende mai la notte, La donna che non poteva essere qui, La ragazza di carta, Chi ama torna sempre indietro, Ti vengo a cercare, Perché l’amore qualche volta ha
paura, Il richiamo dell’angelo, Aspettando domani. Best-seller n. 1 in Francia, Central Park ha
venduto oltre un milione di copie. In Italia è tradotto da La Nave di Teseo,
Sperling & Kupfer e anche BUR. Io sono riuscita a scegliere l’unico romanzo
ancora non tradotto. Il francese è relativamente semplice e scorrevole. Devo
ammettere che è una letteratura corrente, come io amo definire questo genere di
romanzi, comunque piacevole, ben scritta, che incontra i desiderata più diffusi
del pubblico: il lato noir, giallo, che è il genere che più ha successo anche
in termini economici e che pertanto è incentivato dagli stessi editori, con
intrecciata una storia d’amore che comunque conquista. Tra New York e la
Francia, visita luoghi che stuzzicano l’immaginario collettivo. E’ difficile
recensire questo libro senza correre il rischio di raccontarvelo, fatto che
sarebbe un vero e proprio peccato perché la scoperta avvincente con una trama
intricata ma in fondo anche piuttosto semplice è uno degli ingredienti
essenziali del libro. Con l’escamotage del libro nel libro crea un corto
circuito onirico e alla fine sembra svelare che quel lato noir legato al
mistero, a un aspetto ombroso e quasi fantasy potrebbe essere una costruzione
raffinata di ordine onirico-psicologico. Al centro un faro in eredità e il suo
mistero inquietante che racconta le difficoltà dei rapporti familiari, i lati
oscuri di ogni relazione intima. Protagonisti un medico di pronto soccorso e
una ragazza che lavora in un bar underground di New York per pagarsi gli studi
e la loro storia, appassionata, autentica, tra mille difficoltà, con al centro
il tema del tempo, che annienta, polverizza tutto. Il romanzo non lascia
intendere se la vicenda e la maledizione del faro sia solo una metafora,
un’illusione o un incubo che vie il protagonista, o invece realtà, quella di un
mondo parallelo: il senso è pero svelato a poco a poco, la tentazione di andare
“oltre”, oltre le colonne d’Ercole, di rischiare. Il tema che non emerge subito
è quello del tempo e sembra che l’incubo che vive il protagonista sia quello
dell’esistenza, di ogni esistenza: l’inconsistenza e ad un tempo la pregnanza
dell’istante presenza, senza il quale il tempo e la vita non esisterebbero;
eppure proprio il momento divora e sembra rendere inconsistente la realtà,
tuttavia il condannato alla vita, al tempo vive sognando, come il prigioniero,
il giorno della propria liberazione. Riflessione filosofica leggera, in punta
dei piedi, appena ammiccante. Il finale è a sorpresa ma non è eclatante come si
immaginerebbe, è un sogno quotidiano discreto che non ci assicura il lieto fine
ed è proprio questa scommessa che piace a mio parere al pubblico: qualcosa di
consolatorio che spinge a sognare o meglio a ricercare la felicità
rimboccandosi le maniche con una promessa temperata. È un lieto dei finale dei
nostri giorni con tutte le incertezze che conferma però la capacità ancora
creativa dei francesi di affidarsi alla narrazione pura che è finzione e non
fiction, che si stacca, grazie anche alla dimensione surreale tra il sogno e
l’incubo, dalla realtà di tutti i giorni e che conquista la lettura, fuori
dalla falsariga delle fiction televisive che sono il seguito del telegiornale. È
così che possiamo svelare alcuni passaggi finali del libro senza raccontarvi
nulla. Lisa, ormai moglie del protagonista, Arthur, al quale è rimasta accanto
malgrado la sua costante mancanza di tempo, sia pure per ragioni che non
dipendono strettamente da lui gli confessa o forse gli propone. “Non sarà più a
quattro, Arthur, ma si può ancora fare la scelta di essere due. Si è già
attraversato molte prove… La leggenda del faro diceva il vero: i venti quattro
venti non lasciavano niente sul loro passaggio e questo forse andava anche bene
così. Dato che è il seguito della storia che conta. Ed erano d’accordo per
scriverlo insieme.” Sarebbe interessante dopo l’estate sapere cosa ne pensano i
lettori di Odissea.
Guillaume Musso
L’instant présent
Pochet XO Éditions, 2015
Pochet XO Éditions, 2015
Pagg. 372
***
La lune dans le puits
Histories vraies de Méditerranée di François
Beaune
di Ilaria Guidantoni
La copertina del libro |
Un’Odissea moderna con un Ulisse spettatore partecipe a livello emozionale che compie il suo viaggio attraverso le voci degli altri. Scritto come un reportage, La lune dans le puits, letteralmente La luna nel pozzo, non ancora tradotto in Italia - è anche un diario di viaggio e vede l’autore, François Beaune, comportarsi più come regista che come uno scrittore, resistendo alla tentazione di mettersi in primo piano. Unica concessione il corsivo che, come dice nella premessa, “il corsivo sono io”, ovvero quei piccoli inserti che lasciano intravedere la mano scrivente, spesso solo per citare il narratore del capitolo.
Concepito con
una scrittura veloce e vivace, il libro si articola in tanti piccoli episodi
che portano a spasso il lettore nel Mediterraneo, senza ordine, tra città che
tornano e ritornano ad intervalli più o meno lunghi di pagine come Beirut e il
Libano perennemente in guerra, Palermo, Tangeri, Marsiglia; Tunisi con l’occupazione
tedesca durante la Seconda Guerra mondiale, la storia del suo travagliato
sindacato fino all’ascesa del consumismo; Algeri e l’atrocità de la décennie noire; Gaza e tantissimi altri luoghi. Nello stesso tempo è un viaggio
nel tempo, attraverso le età della vita, rispettivamente dall’infanzia,
all’adolescenza, alla giovinezza e maturità, non citate se non attraverso le
decine che vanno dai vent’anni a sessant’anni, quindi la vecchiaia e la morte.
In ogni parte le storie narrate in prima persona dal personaggio, eroe di turno
(perché in questo libro, sottolinea Beaune “gli eroi siete voi”), che magari
riferisce di storie che ha a sua volta ascoltato, si riferiscono a quella
determinata stagione dell’esistenza. Le storie di Beaune sono così dettagliate
e singolari da apparire uniche e talora surreali, senza però perdere
l’orizzonte della storia, della grande storia, pescando nel passato degli
eventi ufficiali di queste terre, per restituirne il vissuto dei suoi
personaggi.
Tra il dicembre
2011 e l’aprile 2013 François Beaune è partito per raccogliere storie vere del
bacino del Mediterraneo, come recita il sottotitolo, ispirandosi come dichiara
esplicitamente, all’esperienza di Paul Auster. Dove la verità può essere anche
quella dell’immaginazione. Non si tratta di una verità scientifica, come quella
del racconto di un reportage giornalistico, né è un’antologia di cronache ma di
“novelle” in senso etimologico, che mirano all’autenticità delle emozioni. L’autore
ha scelto di trascriverne circa duecento in forma di biografia immaginaria
appunto, come se ognuno di noi fosse l’eroe di un individuo collettivo,
chiamato storia. Una sorta di epica moderna, fatta di quotidianità, un genere
che non sente la stanchezza del tempo e che ridisegna la propria grinta grazie
ad un’eccezionalità non ideale, a dimostrazione che la vita ha più fantasia
degli scrittori.
Quest’Odissea
dei nostri giorni deve il suo titolo, come ha raccontato lo stesso François in
occasione della settimana francese in Italia, tra Firenze e Scandicci, agli
incontri promossi dall’Institut Culturel Français, all’importanza della giusta
distanza per mettere a fuoco le cose e della mediazione, forse della scrittura
che, come uno specchio riflette e decripta la realtà: proprio come l’acqua in
fondo al pozzo fa con la luna. In un passaggio racconta che “Leonardo Sciascia
scrive che la verità è in fondo a un pozzo. Se guardate in un pozzo: vi vedete
il sole o la luna, ma se vi gettate nel pozzo, non c’è più né sole né luna; c’è
la verità.
Protagonisti
gli uomini e non il mare che pure fa da cornice alle storie che disegnano
quella che Beaune considera la sua sola e possibile biografia. L’autore tra
l’altro non sembra amare particolarmente il mare, convinto anzi che gli uomini
amino soprattutto la terra, ma ama questo continente liquido: le terre appunto
che lo lambiscono. Ecco perché il suo Mediterraneo può cominciare a Lione. Senza
perdere la verve e la sua
inclinazione narrativa, questo autore del quale abbiamo già recensito Esprit de famille, ambientato in Libano
(e pubblicato dalla casa editrice tunisina francofona Elyzad), ha indubbiamente
lo spirito del giornalista, del cronista curioso e un gusto per
l’organizzazione della scrittura come una partitura musicale, dove il numero,
siano le “77 posizione del Libano”, una sorta di Kamasutra della famiglia, o le
stagioni della vita, segna il tempo. Il suo Mediterraneo non ha confini, di
lingue, religioni, classi sociali e l’autore sembra divertirsi a scoprire a più
riprese nella stessa città lati diversi e talora nascosti. Una cosa è certa,
mostra fin dall’inizio la spinta alla curiosità e alla conoscenza come uno
degli attributi dell’essenza dell’uomo, proprio come il cucciolo dell’elefante
che ha l’istinto di andare, per testare un altro terreno. Evidentemente la
domanda resta più importante della risposta perché, come afferma l’autore, non
è la verità nuda e cruda che lo interessa ma il sole e la luna che si
riflettono al fondo del pozzo.
François
Beaune
La lune dans
le puits
Histories vraies de Méditerranée
Gallimard, 2017
Pagg. 511 € 8,30
Delitti e vecchi merletti
di
Paolo Maria Di Stefano
Venti casi di cronaca, ovviamente nera, raccontati da un cronista
di grande rilievo, che della cronaca, ovviamente nera, ha fatto la sua
professione negli anni numerosi trascorsi con successo al Giorno, ovviamente
come cronista, ovviamente di cronaca nera. Non stupisca questo mio insistere sul nero ovvio della cronaca. I
fatti che ne sono da sempre oggetto lo sono, a mio parere, proprio perché
solleticano l’interesse più o meno morboso del pubblico in genere, dei lettori
dei quotidiani in particolare e, oggi, anche di coloro che si incollano agli
schermi della televisione e/o dei computer, personali o meno. Cosa che non
avviene – almeno non nella stessa misura- per gli accadimenti che neri non sono
e che, per questo, vengono catalogati come materia di una cronaca bianca che
pare interessare poca gente e che non incrementa le vendite dei giornali così
come non contribuisce se non in modo del
tutto trascurabile al livello degli indici di ascolto. Personalmente il colore
della cronaca non mi interessa più che tanto, nera o bianca o diversamente
colorata che sia.
Ma una cosa a me pare incontestabile: cha la cronaca è sempre
stata, è ancora e sempre sarà il fondamento di quella che chiamiamo storia e
che, forse anche per il prevalere del nero della cronaca, è da sempre racconto,
in qualche modo filtrato e stabilizzato, di un susseguirsi di fatti violenti,
di manifestazioni di prepotenze, solo a tratti brevissimi intervallati da
episodi che io definisco “più civili”. O “meno incivili”.
Certo è che quando Moroni narra del “lago rubato” (pag. 53)
immerge il lettore in quel mare di corruzioni, di esercizi distorti del potere
che oggi ancora permeano politica ed economia; e quando fa riferimento a Cesare
Lombroso “l’inventore della antropologia criminale, cioè della moderna
criminologia” (pag.77) lumeggia il modo di lavorare di scienziati di ieri e di
oggi: attaccarsi a fatti di cronaca per porsi quali protagonisti di indagini e
di conclusioni quanto meno discutibili.
E sempre nella cronaca, nera, ovviamente, l’Autore sembra lanciare
un flash sui delitti della Politica. “(Omissis) L’Italia ha già avviato il
progressivo avvicinamento che alla fine porterà il gabinetto Salandra a
schierarsi con le potenze dell’Intesa. Un capovolgimento di fronte che avrebbe
trovato nel generale Alberto Pollio uno strenuo oppositore e un irriducibile
paladino dell’alleanza con gli imperi centrali. Un baluardo. Forse l’ultimo. La
morte del generale è uno dei Grandi misteri d’Italia.” (Pag.169). E un mistero
sembra la morte di Anita Garibaldi. E poi, la narrazione di delitti orrendi
nella zona di Bottanuco, quattro passi da Bergamo, ad opera di uno “squartatore
di donne”.
Venti episodi di cronaca, ovviamente nera, alcuni di non
facilissima lettura, tutti documentati secondo i principi che fanno di un
cronista, ovviamente di nera, un professionista anche degno di fede.
Gabriele
Moroni
Delitti
e vecchi merletti
Casi di cronaca nera che hanno fatto la storia
Mursia 2018, pagg.229
euro 16 ***
La strada dei sogni di Chiara Zanini
di Isabella
Rotti
La copertina del libro |
Dopo aver indagato con successo la vita di
una star del basket americano con il suo best seller Cinque Piedi e un funerale (Feltrinelli Editore) Chiara Zanini
intreccia tre racconti a latitudini diverse, tre angoli di mondo apparentemente
estranei gli uni agli altri, accomunati da un filo comune, la strada. È la
storia di Vincenzino, detto Sandokan, un bambino di otto anni convinto di
essere il gemello di Maradona. Siamo a Napoli nei primi anni ’80 e il calcio
rappresenta per lui e il suo gruppetto di amici una sorta di riscatto. Il
calcio come linguaggio per comunicare, ma soprattutto per sognare: “Voi sape’
cosa si fa in strada tutto ‘o tiempo?... Si sogna. E po’ si sogna in gruppo. Na
cosa che è capace ’e sollevarti da terra”. Con Sandokan, troviamo Rosario, il
suo primo amico, detto Asso di Spade, perché fa colpo sulle donne; Domenico,
detto Doberman, perché si attacca alle caviglie degli avversari e non le molla
più; e poi Cosimino, il più piccolo di tutti, vero enfant prodige del calcio. I quattro diventano amici giocando a
pallone, si ritroveranno grandi uscendo dai vicoli di Secondigliano.
2001.
Charlotte lascia la sua Chicago per ritrovarsi. Quarant’anni, un divorzio alle
spalle, vola fino a Durban, in Sudafrica, per insegnare in una scuola
femminile. Un’Africa primordiale, eppure così magnetica, quella inseguita da
Charlotte. “Come ha detto Jacobus, al rientro dalle cascate McIntosh: Dio passa
la giornata altrove, ma la sera ritorna in Africa”. Nel crogiuolo razziale e
culturale post apartheid, dell’istituto dove insegna, Charlotte trova in tre
sue allieve, Ntosh, Kajal ed Elize, la strada e l’impulso per ricominciare a
vivere un’esistenza vera, al di là delle regole e delle convenzioni.
1992.
Jasminko, dieci anni, è costretto ad affrontare le strade di Sarajevo sotto le
bombe. I ricordi della sua infanzia dorata, dei giochi con la sorellina,
sembrano lontani durante i costanti assedi serbi alla città. Finché un giorno
incontra il Mago delle seggiole, Zoran. Un anziano enigmatico, che gli insegna
a impagliare le seggiole. E non solo. “Quanto a Zoran, ormai lo conosco: io e
lui abbiamo un piano a lungo periodo. O meglio prima era tutto suo, poi è stato
così buono da imprestarmene un pezzo”.
Con uno stile
asciutto, caratterizzato da scioltezza nei dialoghi e da un’attenta
introspezione psicologica dei personaggi, Chiara Zanini offre con “La strada
dei sogni”, degli intensi spaccati esistenziali, tre storie di eroi dei nostri
tempi. Siamo più dalle parti della scrittura anglosassone, molti fatti e poco
spazio al facile sentimentalismo. Un trittico di racconti da leggere tutto d’un
fiato, sull’onda di una partecipazione reale, di un’emozione vera e mai
indotta.
Chiara Zanini
La strada dei sogni
Youcanprint Self-Publishing
Pagg. 182 € 12,50
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Albert Memmi. La statue de sel
di Ilaria Guidantoni
La copertina del libro |
Un
romanzo autobiografico, sulla condizione della propria appartenenza plurale,
soprattutto a livello linguistico. Una conferma della ricchezza delle
differenze quanto del travaglio che esse comportano: la conferma per altro di
quanto la lingua non sia solo uno strumento di comunicazione ma una visione
della vita, parlando la quale ne assumiamo le sembianze. Il racconto
appassionato di un tunisino ebreo, di origini italiane da parte di padre e di
madre berbera della minoranza ebraica, che non è riuscito ad adattarsi a
nessuna etichetta, nel momento difficile in cui il protettorato francese ha
incontrato la questione delle razze.
Il romanzo autobiografico,
o meglio la finzione letteraria autobiografica, di Albert Memmi (nato a Tunisi
nel 1920 da un famiglia tunisina di lingua araba) si dimostra di grande
attualità anche se la data originaria di pubblicazione risale al 1953, che
nell’edizione rivista ha la prefazione di Albert Camus, altro autore déraciné
che ben conosce la complicazione, intrigante, di appartenenza multiculturali.
Tradotto in italiano nel 1991 (per i tipi Costa & Nolan, 317 pagine) è una
storia semplice, quella di un bambino figlio di François Memmi, ebreo di
origine italiana e di Marguerite Sarfati, madre berbera della minoranza
sefardita locale, che vive nei vicoli di Tunisi, a ridosso del ghetto, in fondo
all’impasse Tarfoune e poi nella zona tipicamente ebraica del Passage. La sua è
un'infanzia felice anche se ben presto il protagonista si scontra con la
realtà, ostile, fatta di povertà, separazione, pregiudizio. Si fa così strada
in lui la consapevolezza del proprio destino fatto di esclusione e di
sradicamento, a causa di una formazione culturale che gli impedirà di
riconoscersi nelle tradizioni della comunità ebraica, senza peraltro potersi
identificare in una comunità nuova da cui resterà comunque escluso. Da qui la
fuga, non verso l'Africa che rifiuta, ma nemmeno verso l'Europa che ha
rifiutato lui, ma verso il nuovo mondo, un mondo senza passato, l'America. Lungo
il cammino il dramma del popolo ebreo e dei campi di lavoro sotto l’occupazione
tedesca, presenti nello stesso Maghreb, che lo fanno sentire improvvisamente
coinvolto nel destino di un popolo al quale sente in qualche modo di
appartenere. E’ certamente un coinvolgimento empatico di stampo morale e di
solidarietà sociale, essendosi allontanato dalla religione e anche della
lingua, avvezzo a parlare solo il patois di Tunisi, un idioma che “sporca”
l’ebraico con l’arabo tunisino e il francese in primis. Nondimeno il
protagonista non è un francese de souche e non è neppure un italiano anche se
per parte di padre (di professione sellaio, al quale è dedicato il libro) discende
da un pittore rinascimentale. Albert Camus mette l’accento proprio sulla
complessità biografica che sfugge a qualsiasi catalogazione, a cominciare dal
suo essere scrittore tunisino anche se francofono; ebreo solo per origine e
influenza anche se in questo libro riprende nel titolo la Genesi, 19, 26 nel
qual si dice “La moglie di Loth guardò indietro e divenne una statua di sale.”
Memmi per altro non è nuovo a titoli “biblici” come Agar, storia d’amore
drammatica legata allo scontro di due culture che in alcuni casi coabitano in
una stessa persona. In effetti il protagonista, come sottolinea Camus nella sua
introduzione, si rende conto di essere ebreo quando durante il primo pogrom gli
arabi massacrano gli ebrei e quando la Francia di Vichy lo consegna ai
tedeschi; non solo, ma la Francia libera gli chiede, quando il protagonista
vuole battersi nel suo nome, di cambiare l’assonanza ebraica del suo cognome. La
scrittura sembra un modo per curarsi e liberarsi di chi non si sente di
appartenere a nessuna delle culture che pure lo formano, almeno non nel senso
abituale. Così se si allontana dalla religione ebraica e dai suoi rituali che
gli appaiono ridicoli, non per questo rinnega le tradizioni. Camus non ci dà la
risposta a dire il vero; si limita a porre la domanda, lasciandoci indovinare
il suo pensiero. La scrittura diventa il laboratorio della propria identità,
per fasi successive durante le quali il bambino prima, il ragazzo poi, l’uomo
alla fine, si mettono in discussione per ritrovarsi ogni volta in un equilibrio
precario nel quale resta sempre qualcosa da distruggere (parole testuali di
Memmi). Il romanzo, gradevole alla lettura, anche per il piglio autoironico, è
stato negli anni un modello per il romanzo tunisino e algerino, soprattutto su
alcune tematiche essenziali, quali il colonialismo, il razzismo,
l’emarginazione, la società multiculturale. Anche leggendo la formazione di
Albert Memmi di capisce l’insorgere di simili tematica: si è infatti formato
alla scuola francese, dapprima al Liceo Carnot di Tunisi e poi ha studiato
all’Università di Algeri, dove ha studiato filofofia; infine alla Sorbona a Parigi.
Albert Memmi
La statue de sel
Prefazione
di Albert Camus
Éditions
Gallimard, 1966
La statua di sale
Costa
& Nolan, 1991