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CAMPI ELISI

       L’ANNIVERSARIO

Nell’estate del 2013 “Odissea” cartacea compiva 10 anni di vita. Il 27 Settembre di quello stesso anno, alla presenza di tanti amici e collaboratori, in una Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani di Milano bella piena, un incontro pubblico tirava le somme di quella esperienza, e decideva di passare ad una nuova fase: dal cartaceo alla Rete; da Gutenberg a Bill Gates, come avevamo titolato la prima pagina dell’ultimo numero, con la lettera ai lettori che abbiamo poi riprodotta sulla prima pagina dell’edizione on line. In quell’incontro, presero la parola diversi amici: dal filosofo Fulvio Papi al filosofo Gabriele Scaramuzza; dal saggista e scrittore Giovanni Bianchi al saggista e critico d’arte Giorgio Colombo, dal filosofo Roberta De Monticelli al sociologo Nando Dalla Chiesa. Tante anche le testimonianze di affetto, i messaggi, le presenze qualificate in quella Sala.
Dalla Chiesa, che intervenne subito dopo il direttore Angelo Gaccione, accolse la decisione di quel passaggio con molto entusiasmo, e predisse un’espansione esponenziale di contatti e di lettori a seguito dell’immissione in Rete del giornale. Cosa che è davvero e fulmineamente avvenuta, sia per la disponibilità di “Odissea” a sostenere tutte le battaglie civili e culturali possibili come aveva fatto con l’edizione cartacea, sia per la sua autorevolezza morale che ne fa un punto di riferimento e di vicinanza ideale per gli strati sociali e culturali più diversi. Ora siamo qui a festeggiare un altro anniversario: il primo di “Odissea” in Rete, testata rossa come il suo appassionato rosso cuore. In questo primo anno gli scritti ospitati sono stati tantissimi (solo la prima pagina ne ha ospitati circa 500) e i contatti sono diventati decine di migliaia. Probabilmente sono cambiati i lettori, altri se ne sono aggiunti e sicuramente il mezzo virtuale della Rete è molto diverso dallo strumento cartaceo. In più, concepito come strumento di Rete, “Odissea” ha finito per svolgere, accanto alla funzione di analisi e riflessione a più lungo termine che aveva già, anche una funzione tipica del quotidiano. Da questo punto di vista è incredibile la quantità di materiale che arriva dalla società civile, dai movimenti sociali e dagli ambienti culturali. “Odissea” ha sempre sostenuto questa ricchezza e questa pluralità e continuerà a farlo. Sarà sempre dentro la conflittualità dialettica, fuori dagli intrighi di potere che combatterà, e in prima fila per la difesa dell’etica pubblica e degli interessi collettivi. Più di un amico ha segnalato che fra i meriti di “Odissea”, c’è quello di aver messo al centro della sua azione, la moralità pubblica; per noi è un motivo di orgoglio e di onore, soprattutto in anni di degenerazione etica della politica. È un compito che ci siamo assunti e a cui non verremo meno. “Odissea” continuerà ad essere la coscienza critica e morale della Nazione, ai lettori chiediamo di essere solidali e di difendere assieme a noi queste ragioni.
Angelo Gaccione






La Bacheca della Biblioteca Sormani
con la locandina del convegno per il
decennale di Odissea cartaceo il 27
settembre 2013

























A sin. Max Luciani, a des. Angelo Gaccione

















CENTO AUTORI PER ODISSEA

I primi 37 interventi (come da elenco qui riportato) 
sono stati inseriti nella Rubrica  
"Fuori Luogo” che risulta completa. 
Anche la Rubrica "Campi Elisi" che contiene 48 interventi
di altrettanti autori è oramai completa.  
Tutti i successivi interventi saranno pubblicati nella Rubrica
"La Carboneria" dove i lettori possono seguitare a leggerli.
Elenco degli autori inseriti nella Rubrica "Fuori Luogo".

1.Fulvio Papi
2.Morando Morandini
3.Arturo Schwarz
4.Giuseppe Bonura
5.Tomaso Kemeny
6.Laura Margherita Volante
7.Pier Luigi Amietta
8.Franco Manzoni
9.Don Luigi Ciotti
10.Giulio Stocchi
11.Attilio Mangano
12.Fabio Minazzi
13.Adamo Calabrese
14.Franco Dionesalvi
15.Adele Desideri
16.Stefano Raimondi
17.Dino Ignani
18.Adam Vaccaro
19.Paolo Maria Di Stefano
20.Dario Pericolosi
21.Maria Carla Baroni
22.Livia Corona
23.Rinaldo Caddeo
24.Meeten Nasr
25.Annalisa Bellerio
26.Lisa Albertini
27.Fabiano Braccini
28.Ornella Ferrerio
29.Graziella Poluzzi
30.Tiziano Rovelli
31.Leonardo Nobili
32.Alberto Casiraghy
33.Giuseppe De Vincenti
34.Angela Passarello
35.Roberto Carusi
36.Maria Gabriella Carbonetto
37.Maria Cristina Spigaglia

Elenco degli autori inseriti nella Rubrica "Campi Elisi".

38.Emilio Molinari
39.Gabriele Scaramuzza
40.Emilio Renzi
41.Giorgio Colombo
42.Lidia Sella
43.Cesare Vergati
44.Ottavio Rossani
45.Giuseppe Denti
46.Luca Marchesini
47.Cataldo Russo
48.Francesco Piscitello
49.Franco Esposito
50.Claudia Azzola
51.Francesca Romana Di Biagio
52.Giovanni Bianchi
53.padre Alex Zanotelli
54.Maurizio Meschia
55.Roberto Marelli
56.Marilena Vita
57.Gilberto Finzi
58.Mauro Della Porta Raffo
59.Luigi Caroli
60.Anita Guarino Sanesi
61.Renato Seregni
62.Raffaele Talarico
63.Pino Corbo
64.Antonio Lubrano
65.Silvana Borutti
66.Michela Beatrice Ferri
67.Valerio Fantinel
68.Tiziana Canfori
69.Gilberto Isella
70.Alessandro Zaccuri
71.Alice Cappagli
72.Luigi Tasso
73.Felice Carlo Besostri
74.Donatella Bisutti
75.Gio Ferri
76.Giacomo Guidetti
77.Barabara Gabotto
78.Lelio Scanavini
79.Leandro Fossi
80.Mariella De Santis
81.Alessandra Paganardi
82.Tiziano Rossi
83.Vittorio Sedini
84.Carlo Cipparrone
85.Edoardo Water Porzio

  





ALESSANDRO ZACCURI

Alessandro Zaccuri










Il sugo di tutta la storia
Milano tra cibo e letteratura

Milano e l’Expo, l’Expo e il cibo, Milano e il cibo. È una concatenazione che invita alla prudenza, almeno per quanto riguarda i precedenti letterari. Se infatti ci rifacciamo alla “storia milanese” per eccellenza, e cioè I Promessi Sposi manzoniani, ci accorgiamo di quanta ambiguità e di quali insidie si carichi il cibo non appena ci si sposta all’interno delle mura cittadine. Basta seguire, per questo, le peregrinazioni di Renzo, il cui primo ingresso in Milano coincide appunto con lo spettacolo impressionante dell’assalto ai forni. L’istantanea che gli si presenta, con quelle “strisce bianche e soffici, come di neve” che sono in realtà le tracce della farina depredata, lo induce a un fraintendimento non estraneo, a sua volta, all’immagine che Milano ha dato di sé nei secoli. L’equivoco della “grand’abbondanza”, che subito l’ingenuo Renzo rielabora in un complotto ordito ai danni dei campagnoli (ogni teorema cospiratorio è, del resto, un’attestazione di ingenuità), richiama alla mente un altro classico urbano, il De magnalibus Mediolani in cui, all’altezza del 1288, Bonvesin da la Riva non si risparmia in iperboli pur di affermare la grandezza, lo splendore e la ricchezza della città.
Illuminante, in questo, l’intero capitolo quarto, dove il tema della copia, ossia dell’abbondanza, assume caratteri addirittura ossessivi. Il paragrafo consacrato ai mulini, nella fattispecie, contiene una notazione che, sia pure originata dalle consuetudini della retorica medievale, non può non colpire la sensibilità moderna. I cani dei milanesi, sostiene Bonvesin, mangiano da soli più pane di quanto ne sia consumato in altre città da uomini e donne messi insieme (ab utriusque sexus indigenis). Nei Promessi Sposi accade qualcosa di simile, nel senso che la folla in assedio sotto la casa del vicario di provvisione ha ormai perso quasi del tutto i tratti caratteristici dell’umanità e si costituisce in organismo autonomo, più animale che razionale.
Anche il seguito della prima avventura milanese di Renzo, del resto, riguarda il cibo, non tanto nella sua dimensione di immediata disponibilità materiale, ma di occasione e condivisione comunitaria. La “piccola polenta bigia, di gran saraceno” che al paese aveva fatto la sua apparizione sul tavolo di Tonio mentre stava per cominciare la notte degli imbrogli bastava, da sola, a disegnare i contorni di un’intimità domestica, ribadita dalla visione incantata della pietanza come “piccola luna”. Lo stufato che Renzo trangugia all’Osteria della Luna Piena è un boccone dal ben diverso significato simbolico: qui, nel labirinto urbano, la comunità è dissolta, sostituita o dall’impersonalità della folla (come nell’assalto ai forni) o dall’attenzione capziosa della delazione e del tradimento.

A. Zaccuri

Contribuisce a mettere nei guai Renzo il molto vino tracannato all’osteria “per bagnar le labbra” e capace, invece, di sciogliergli fin troppo la lingua. E anche questa, dopo quella tra la polenta di Tonio e il pane trafugato, è un’analogia rivelatrice. Quando, alla fine delle sue peripezie, Renzo tornerà a Pescarenico sarà proprio la sua vigna a dargli benvenuto, ma devastata dagli stessi compaesani e ridotta a una “marmaglia di piante”, a un “guazzabuglio di steli” da cui è impossibile ricavare qualsiasi alimento. Ancora Bonvesin, ancora il capitolo quarto del De magnalibus Mediolani: da noi, scrive il frate, le mosche succhiano tanto vino quanto altrove ne finisce nelle cantine. La città è il luogo dell’abbondanza incontrollata, è la mercificazione vanagloriosa di beni e vettovaglie, è la sede dello spreco e del saccheggio. Tornato a casa, è come se Renzo ritrovasse la vigna contaminata da questa insensatezza.

Ripercorrere la strada al contrario, restituendo al pane e al vino il significato sacrale che il cibo sembra avere perduto, è la vera missione che la Milano dell’Expo dovrebbe cercare di portare a compimento. “Il sugo di tutta la storia”, per dirla ancora una volta con Manzoni. E il sugo, non per niente, è qualcosa che si mangia.






EMILIO MOLINARI


Emilio Molinari











Rifacciamo il punto.
Come si può parlare di acqua mentre ogni giorno va in scena la sofferenza della disoccupazione e l'impotenza del sistema a darle una risposta?
Il destino dell'acqua non interessa e quando se ne parla gli argomenti sono: la tariffa, il ruolo dell'Autority dell'energia che la decide e che di fatto ha tolto un altro po' di sovranità agli enti locali e qualcuno accenna anche al referendum tradito.
Eppure oggi, e non in un lontano futuro, è in gioco la mercificazione globale dell'acqua del pianeta: una prospettiva che cambierà ogni rapporto tra l'umanità e i poteri reali.
Sui beni comuni essenziali alla vita: l'acqua, la terra, il cibo e l'energia, si gioca il destino dei popoli. La pace e la sovranità di tutte le istituzioni (stati, enti locali, UE stessa e le Costituzioni) che tenderà a trasferirsi sempre più ad organismi privati, lobbisti e transnazionali.
La crisi è un ricatto che zittisce, una clave che distrugge  ogni idea di pubblico. Piega così la resistenza dei cittadini, dei lavoratori e di quanto resta della moribonda politica.
Ridare vigore alla narrazione universale dell'acqua è riprendere il filo di un pensiero, è parlare di nuovo alla gente dei grandi diritti negati.
I ricercatori universitari: Chiara Carrozza ed Emanuele Fantini hanno scritto, che le motivazioni prevalenti nel voto di 27 milioni di persone nei referendum, non sono state meramente economiche. Sono state bensì il diritto umano, il bene comune e i pericoli che corre l'umanità se consegna ai privati l'acqua. Nel referendum abbiamo toccato le corde solidali della gente, abbiamo evocato il senso della vita, della spiritualità dell'acqua e per i credenti, il grande paradigma della “custodia del creato”.
Questi argomenti hanno sconfitto le tesi dominanti degli economisti senza anima della Bocconi: sull'incapacità del pubblico, sull'efficacia, l'efficienza e l'economicità del mercato e del privato.
Tesi sconfitte e riproposte oggi nei piani europei e nei trattati internazionali, su scala ancora più ampia e più globale:
-Il trattato USA /UE (TTIT);
-Il Blueprint della commissione europea.
In questi documenti si afferma che siamo nel pieno di una crisi idrica (meglio definirla disastro idrico, la crisi da l'idea di un qualcosa da cui si può uscire con dei correttivi).
Un paradosso. Dopo aver occultato il disastro per tanti anni, gli autori del disastro diventano i profeti di sventura dell'acqua e si candidano a dare soluzioni.
Questo fanno l'ONU, l'UE, gli USA, la Banca Mondiale, il FMI, ma soprattutto le lobby multinazionali come Il Consiglio Mondiale dell'acqua controllato da Suez e Veolia, il CEO Water Mandate controllato da 50 multinazionali dei sistemi idrici, dell'agroalimentare, della energia, della grande distribuzione, il Water end Food for live della Nestlè (alla quale in EXPO viene data la piazzetta tematica dell'acqua), il Barilla center for food end nutrition, (che in EXPO si candida a lanciare il Protocollo di Milano sul cibo). Si assiste al ribaltamento d'ogni ruolo: ora sono le multinazionali che dettano l'agenda e le istituzioni che devono legiferare in tal senso.

Il disastro idrico
Il rapporto dell'intelligence USA del 2011, afferma che a partire dal 2022, si assisterà al diffondersi di conflitti e di guerre idriche. Si parla di un Mediterraneo in fiamme, oltre che per il petrolio anche per l'acqua e si dice: “sono prospettive che potrebbero danneggiare gli interessi degli USA e delle sue imprese”.
Il Blueprint dell'UE parla dello stato delle risorse idriche europee: 1/5 del territorio a rischio di carenza d'acqua, il 57% dei fiumi in pessimo stato e di un peggioramento a partire  dal 2030 e che il 70% della popolazione vivrà nelle città con il conseguente problema dell'accesso ai servizi essenziali.
E' quanto il Movimento dell'acqua ha da sempre sostenuto, ma non dalla consapevolezza di dover cambiare l'idea di crescita, ma solo da come assicurare acqua alle proprie imprese.
Da qui si dilata il concetto di monetizzazione a tutta l'acqua, della sua gestione e della sua proprietà.
Spariscono dal vocabolario politico/ legislativo le nozioni di diritto umano e di naturalità delle fonti idriche.
Si afferma l'ineluttabilità di certi processi:
-la finanziarizzazione globale della risorsa naturale;
-la perdita della sovranità della politica, degli stati, delle comunità locali, della stessa Europa verso i poteri transnazionali attraverso i trattati;
-l'annullamento della partecipazione e delle lotte dei cittadini, il valore dei referendum;
-il water grabbin come nuova “corsa all'oro”
-il modello cileno (proprio così quello concepito dal binomio Pinochet -Freedman nel 1973) che di fatto lottizza i fiumi e  poi la vendita delle concessioni e dei “diritti” all'accesso.
-L'immissione sul mercato di crediti idrici sul modello di quelli della CO2 e le banche di mitigazione a regolare tali crediti.

Nel Blueprint questo risulta chiaro.
L'acqua scarseggia?... Si produca industrialmente con le tecnologie di depurazione/purificazione e rimessa in ciclo (berremo acqua di fogna più volte depurata come avviene già a Singapore e a Los Angeles), di desalinizzazione e  di concessione/vendita dell'acqua del mare, di trasferimento da un luogo ad un altro, di risparmio per unità di prodotto ma per aumentare complessivamente la produzione.
Expo sarà un po' la vetrina di queste politiche.
Si sostiene, che la salvezza sta nell'innovazione, nella tecnologia e quindi nella finanza. Da applicare a tutte le acque e a tutti i suoi usi. Acqua quindi, come prodotto industriale e tecnologico e mercato come unico regolatore dei consumi, degli usi e delle priorità.
Risultato il: Prezzo dell'acqua e la borsa dell'acqua. Un tragico passaggio epocale


Il trattato USA /UE.
E' il futuro che ci attende dietro all'angolo. Un primo incontro è avvenuto il 20 di Novembre e l'accordo è atteso per il 2015.
Gli stati, gli enti locali (le leggi, le delibere) saranno chiamati ad uniformare le proprie norme, mentre tribunali arbitrali privati e avvocati aziendali, giudicheranno le violazioni che limitano i profitti.
Le lotte sociali, i referendum ecc... possono essere messi in discussione dalle aziende.
Gli stati saranno costretti a sottomettere al trattato tutti i servizi pubblici e a rinunciare ad intervenire sui fornitori stranieri di questi servizi che ambiscono ai loro mercati.
E tutto, in grande silenzio “per non creare ansia e senso di minaccia da parte dei cittadini”... Come recita un memo riservato.
Io credo perciò, nella necessità tornare a guardare e parlare al mondo e del mondo, a mettere in campo nuovi contenuti come la Costituzionalizzazione dell'acqua. Ma anche di pensare ad Una Autorità Mondiale (politica e pubblica) dell'Acqua. A questo proposito cogliendo, per lanciarla, l'opportunità di Expo 2015 di fare di Milano la città che si candida a questa “missione”
Non ha senso limitarci a dire NO EXPO, giustamente schifati dagli scandali, dalla vetrina gastronomica che si annuncia o dal contenuto “Nutrire il pianeta” svenduto alle multinazionali.
E' tutto vero. Ma instancabilmente è necessario anche in questa occasione, parlare alla gente che vi partecipa e a tutte le istituzioni a quelle milanesi innanzitutto.
E' in discussione il futuro di tutti e il senso universale dei diritti. Riprendere una battaglia che già ci ha permesso di strappare nel 2010 la risoluzione delle Nazioni Unite che dichiara l'acqua e i servizi sanitari diritti umani è quasi un dovere.

(Emilio Molinari. Comitato italiano per un Contratto Mondiale dell'acqua.18 Luglio 2014)





RAFFAELE TALARICO

 
Raffaele Talarico


Inediti per Odissea

SE FOSSI INTELLETTUALE DEL SUD

Verserei lacrime
sulle occhiaie di terra
delle radici strappate
nel rosso della collina
e sulle vesti nere
delle mie madri
e parlerei con scarne sillabe
di cristalli opachi di mare
e di saline calcinate
come polvere d’ossa
e di acque di corallo
alle tonnare.
Se fossi intellettuale del sud
salperei su muli di
broccato,
di garofano rossi e sonagliere,
per le vene asciutte
delle fiumare,
alle case di gesso
nell’argilla.
Se fossi intellettuale del sud
berrei acqua di Sila
nelle mie mani di pietra,
a fianco la cavalla
dalle groppe d’argento,
e parlerei col sole
di mura assetate,
di volti di cuoio rosso
e di mammelle inturgidite
e di steli di campanili
e di vecchi sul sagrato
e di rondini intorno al pioppo
e di pane grande di grano,
e di bocche pulite
a dorso di mano,
e avrei rabbia e furore
e voglia di vendetta.
Se fossi intellettuale del sud
canterei di porte spalancate,
di bocche fiorite,
di ginestre inghirlandate,
di notti d’albe,
di ascelle profumate,
di fuochi di gerani,
di finestre imbiancate,
di soli appesi come pani,
di primavere scordate.
di rocche cadenti,
di bianco di via,
di lungo bianco di via.

Se fossi intellettuale del sud.

***
 NON C’E’ PIÙ IL TUO PAESE

Perché vai
cercando le vecchie mura
e le magre porte
con mano antica
e sollevi lo sguardo di ieri
sulla torre scarna
dove le campane
vuote di rintocchi
sono fantasmi
cuciti nel muto arazzo del cielo
Non c’è più il tuo paese
Se i piedi cercano
i pugni levigati dei sassi
i ciottoli sapienti
del lungo annoiato andirivieni
ora c’è solo
carta vetrata d’asfalto
che porta lontano
La madre
la tua madre
nera contro il bianco del muro
non più scava coi dolci occhi
il tuo ritorno
nel vivace crepuscolo
soltanto il suo odore di bucato
s’è stampato
nella lontananza del tuo cuore
Tutte le rondini
sono cadute come sassi
giacciono morte e nere
e il cielo è vuoto
Vieni fratello
andiamo via

non c’è più il tuo paese.

***
PER UN ESULE

Perché vai portando la tua morte
come donna la sua
bellezza
e tossisci
sul viso rubicondo
del pigro occidente
i germi
della tua pena?
Dovevi restare
nella gelida steppa
dove il silenzio
cuce
con fili di ghiaccio
la tua schiavitù
alla cadenza ferrata
di scarponi
di sentinella
Qui
soffiano venti leggieri
e suonano campane
e cantano canzoni:
non c’è tempo
per te
Forse una madre
un’antica madre
crederà alle tue parole
tra i mattoni sconnessi
del muto focolare:
ma essa è vecchia…
come la libertà
che s’è ammantata di muschio
sui monumenti di pietra dell’occidente.

 



EDOARDO WALTER PORZIO


Edoardo Walter Porzio in Namimbia




















FILOSOFIA DEL VIAGGIO

Le persone non fanno viaggi    
Sono i viaggi che fanno le persone
John Steiback

Lungo il mio percorso vitale, dai quindici anni in su, ho viaggiato parecchio malgrado vicissitudini di vario tipo legate al vivere comune, come, studio, lavoro, sport, hobby e, dato il mio carattere eclettico, assaporando una pletora di situazioni emotive di ogni genere. Oggi ,che nell’accezione comune del termine, posso  definirmi “maturo”, sento nascere dentro di me il desiderio, di esternare ad amici e compagni di viaggio la conclusione filosofica del mio excursus esistenziale. Lungi da me l’idea di scrivere una biografia, voglio solamente esprimere (se ci riesco?) il mio pensiero riguardante la “passione” per l’arte del viaggiare. Una ventina d’anni orsono (cosa abbastanza singolare in editoria) fui chiamato da un grosso Editore (Mursia) il quale mi invitò a scrivere un libro che illustrasse alcuni dei miei viaggi più significativi. Il testo che ne uscì “Impariamo a viaggiare” non volle essere un abc del viaggiatore ne, tantomeno, una guida tradizionale, bensì l’invito ad una riflessione interione con cui, ciascun lettore potesse cimentarsi confrontandosi ,in qualche modo, con l’autore. Ossia, considerare nell’intimo i reali motivi di attrazione verso l’avventura che quasi  sempre comporta un viaggio, analizzando gli scopi intrinseci e personali legati alla propria sensibilità e ai propri gusti. Questo fu il mio primo libro. Gli articoli di viaggio che sino ad allora avevo scritto, per varie riviste del settore, rappresentavano solo racconti di vita vissuta ma non necessariamente il sentimento che mi aveva spinto a visitare quei luoghi. La scaletta di “impariamo a viaggiare”, fu impostata espressamente con l’intento di obbligare, in qualche modo, il lettore a rispondere ad una serie di quesiti del tipo: Perché viaggiare? Come viaggiare? Quando? Con chi? In che luoghi? Con che mezzi? Perché in alcuni luoghi e non in altri? Quali sacrifici si è disposti ad affrontare? Ma, soprattutto, per quale motivo spendere soldi, affrontare fatiche, rischi e stressi, in nome di che cosa? E’ normale che nel tempo si possa cambiare opinione, io stesso a questi “input” oggi do risposte diverse da quelle che avrei dato in passato. La maturità anche sotto questo punto di vista fa mutare opinioni gusti e pareri che non voglio definire “saggezza” ma, piuttosto, frutto di un accumulo di esperienze che costituiscono poi il sale dell’esistenza stessa, e che ci possono far vedere le cose da angolazioni diverse che in passato.
Del resto, come diceva Seneca, “Per ogni arte o mestiere esistono maestri. Per vivere il solo maestro è la vita stessa”. Molti sono gli aforismi sul viaggio, sui viaggiatori, le teorie pseudo filosofiche sul viaggiare, la sua valenza culturale, ecologica e umanitaria, per cui, non mi cimenterò certo in questa materia. La mia esperienza di viaggiatore mi ha permesso di conoscere moltitudini di viaggiatori il cui unico scopo era quello di vantare la loro presenza in luoghi remoti o disagiati, per poter esaltare il loro valore di resistenza e sopportazione a climi o situazioni a volte molto particolari. Altri col solo intento di poter tappezzare la loro cartina planetaria di puntine colorate per dimostrare agli amici sin dove si erano spinti. Tra questi poi, alcuni considerano la parola “turista” come denigratoria da non confondere con quella ritenuta più colta di “viaggiatore”. Se però li confrontiamo con quelli che appartengono alle categorie citate, spesso questi, sono molto più “turisti degli altri. Tale discriminatoria si può applicare solo nel caso in cui per turismo s’intenda passare una vacanza in un determinato luogo limitandosi a passeggiare a riposare a praticare alcuni sport o, al massimo, facendo piccole escursioni. Per il resto: Ibn Batuta, Erodoto, Plinio o Giovanni da Pian del Carpine, erano dei “turisti viaggiatori-esploratori”, i quali si spostavano in territori sconosciuti coscienti di dover tornare con le conoscenze acquisite per illustrarle ai rispettivi popoli d’appartenenza. Infatti etimologicamente: tour-ismo non significa altro che viaggio, spostamento nel tempo e nello spazio compiendo “tour” con l’obbiettivo finale del ritorno.
Ma non è di questo sillogismo che voglio parlare né intendo tracciare il prototipo del viaggiatore. Quel che è certo è che non sono gli spostamenti da un luogo all’altro del pianeta, per quanto esotici o lontani, a fare di un individuo un vero viaggiatore (mia mamma diceva che “anche le valige viaggiano”). Piuttosto sono i motivi, gli interessi, la curiosità, i sentimenti per cui si scelgono le destinazioni che esprimono la specificità caratteristica di ciascun viaggiatore. Non ultimo, la sua capacità di sintesi di ciò che ha catturato con la vista e le sensazioni emozionali prodottesi in lui a contatto con certe realtà naturali ed esistenziali delle genti incontrate, quindi la sua capacità d’interpretazione di luoghi e ambienti, usi e costumi che qualificano il viaggiatore colto e non la sua presenza fisica vissuta in senso astratto e distaccato. Il semplice reportage fotografico di luoghi e genti non basta ad estrinsecare i sentimenti e le emozioni assaporate in certe situazioni. Con la tecnologia attuale si sono venute a creare condizioni per le quali anche il fotografo più modesto può riprendere in automatico scene che una volta erano retaggio esclusivo dei grandi fotografi.
Oggi la differenza tra un vero fotografo e un dilettante è data solo dalla capacità d’inquadratura dei soggetti come si dice in gergo: “il taglio”. Questi aspetti sono solo la copertina di ciò che un vero viaggiatore deve saper cogliere sia in fase di progettazione che durante e dopo il suo viaggio. Va da sé che i gusti come le discipline artistiche siano e debbano essere differenti, per cui, ecco che nella scelta della destinazione il futuro viaggiatore dovrà, in fase di idealizzazione delle mete, scavare nel proprio intimo quali siano gli interessi reali che lo fanno muovere in questa o in quella direzione. Dopo questa premessa, ecco il mio pensiero sulla filosofia che ispira i miei viaggi oggi.
Da ragazzo non perdevo tempo a pensare dove andare, per me era sufficiente: andare.
Poiché le mie conoscenze erano pressoché nulle, per cui ogni destinazione, ogni incontro erano per me motivi più che sufficienti a giustificare i miei spostamenti. Come in tutti i campi della vita è con l’acquisizione dell’esperienza e lo sviluppo del proprio scibile che si delineano i gusti, si affinano le proprie inclinazioni e si sviluppa lo spirito. Proprio per queste ragioni, in un progressivo e continuo mutare e allargamento delle conoscenze e dei mezzi economici, (in passato certe destinazioni erano impensabili sia per l’organizzazione che per il costo proibitivo per la mia borsa) ho potuto maturare la mia attuale filosofia del viaggio. A ciò che sto per enunciare, hanno contribuito le mie tante collaborazioni con vari Enti del Turismo che, inviandomi in zone nelle quali il turismo era solo un concetto astratto, mi hanno dato la possibilità di entrare in contatto con realtà a cui coi miei mezzi non avrei potuto accedere. La mia ricerca attuale si è consolidata su due principi fondamentali irrinunciabili: l’approfondimento sempre più spinto della conoscenza dell’umanità che mi circonda, sia sotto il profilo antropologico che storico e ambientale e sulla profondità dei concetti spirituali che legano l’individuo al cosmo che lo circonda. Voglio subito chiarire che secondo me non esistono viaggi culturali e viaggi effimeri. Ogni luogo, ogni individuo a qualunque latitudine racchiude in sé interessi culturali che potranno non essere fondamentali per alcuni, ma che, analizzati da coloro che sono interessati alla disciplina in oggetto, rappresentano sempre motivi culturali di primo piano. E’ ovvio che un naturalista, un botanico, uno zoologo, un entomologo, possano preferire mete diverse da chi ama la natura solo sotto l’aspetto paesaggistico e ambientale. Chi ama la storia medievale sceglie destinazioni diverse da chi è amante dell’archeologia. Chi ama le comodità non si spingerà mai (se non per errore di giudizio) in luoghi inospitali e solitari. Così come, chi ama scoprire usi e costumi di popoli semi-primitivi, non andrà a visitare (se non per caso, ossia di passaggio) le grandi metropoli moderne ultra tecnologiche ma, anzi, cercherà realtà il più possibile genuine legate ad usanze ancestrali diverse dalla sua vita quotidiana e del suo habitat. Ecco che, dopo lunga maturazione durata decenni, si è cristallizzata la mia “filosofia di viaggio”.
Di fatto, la parola greca geographia  significa sostanzialmente “il mondo e tutto ciò che esso contiene”.
I miei itinerari (pur non disdegnando all’occasione mete eterogenee) si sviluppano attorno alle popolazioni più disparate del globo. La mia conclusione è che, non solo vado a visitare i luoghi dove esse si trovano, ma cerco di far coincidere la mia visita, con avvenimenti o feste particolari tipiche di quelle società. Spesso si sente dire che molti di questi avvenimenti vengono organizzati proprio a scopo turistico e, in molti casi, è proprio così. Ma come in ogni medaglia c’è il suo rovescio. Un giorno durante una delle mie conferenze, ebbi modo di conversare a questo proposito, con l’antropologo Marco Ajme che mi aprì gli occhi su questo argomento, confidandomi una realtà che a molti sfugge. Alcune cerimonie e certe esibizioni “folkloristiche” si possono ancora ammirare proprio perché, gli indigeni che non avrebbero più i mezzi economici o interessi animistici per eseguirle, traggono vantaggio dal fatto che i “turisti” pagano per assistere a queste antiche esibizioni tradizionali che, viceversa, andrebbero perdute. Così è per gli “indiani d’America” per i Dogon del Mali o per il Nadam dei mongoli. “Questo è forse uno dei pochi casi in cui il turismo ha fatto del bene incoraggiando quelle popolazioni a conservare le loro culture”. Così concludeva Marco Ajme e, devo dire, che questa sua affermazione mi trova completamente d’accordo. Un altro obbiettivo irrinunciabile delle mie mete, sono i mercati. Sì perché se i monumenti sono importanti come testimonianze del passato, il mercato costituisce il punto d’incontro delle masse umane, per cui è sempre un luogo di aggregazione estremamente importante. Spesso s’incontrano etnie che vivono in piccoli villaggi sperduti nella selva o sulle montagne, come in Orissa o nelle isole della Sonda o nella Transbaijkalia. Gente che non ha mai contatti col resto delle altre comunità se non nei giorni di mercato che, spesso, ha luogo a decine e decine di chilometri dal loro contesto abitativo. La mia ricerca da qualche anno, e per il futuro, è quindi indirizzata verso questo tipo di viaggio. Una ricerca antropica in senso lato, che va dalle usanze sciamanico religiose agli usi e costumi di popolazioni varie senza la pretesa di essere uno “scout”,  poiché, nel secondo millennio, c’è ben poco da scoprire! Soprattutto, senza mai fare confronti di subalternità tra le diverse culture, ma avendo il massimo rispetto e cercando di assimilare le ragioni originarie di tali culture autoctone. Umiltà e non pregiudizi! Semmai apprezzando ciò che ci accomuna e non disprezzando il diverso solo per la sua natura “diversa”. Al di là della scoperta però, ci sono cose che non si possono trasmettere come  le emozioni e, tutte quelle sensazioni, che si provano in presenza di simili incontri o in occasione di certi avvenimenti. Sentimenti questi che, per il fatto stesso di essere assolutamente personali, non si possono raccontare né con parole né per immagini. Devono essere vissute. Anche in questo caso, però, è ovvio che l’intensità e l’ampiezza emotiva sono legate alla specificità dell’individuo, non possono essere generalizzate. Questa considerazione, non deve fungere da deterrente ma, anzi, deve costituire ulteriore motivo di compiacimento nell’apprendere che ogni essere umano è uguale e diverso da tutti gli altri. Per questo è meraviglioso viaggiare! Per conoscere sempre più e sempre meglio il mondo in cui viviamo. L’unico vero rammarico è che una vita non è sufficiente, ce ne vorrebbero due o forse più. 

La mia conclusione è che, pur nel più completo rispetto dei gusti e delle aspirazioni personali, il mio futuro di viaggiatore, sino a quando mi sarà vitalmente possibile, sarà indirizzato verso queste mete, alla ricerca del (per me) vero sale della vita, e cioè le emozioni che generano sentimenti e aprono il nostro animo verso l’infinito e il soprannaturale cosmico dell’esistenza umana. Se ci fossero tanti viaggiatori che condividessero questo modo di pensare, forse ci sarebbero meno conflitti e tutti vivremmo più pacificamente. 



LELIO SCANAVINI 


Lelio Scanavini in una foto artistica

















ELOGIO DELLA POLITICA

Il sentimento dominante oggi fra gli italiani è un rabbioso disprezzo per la politica e per i politici, considerati tutti dei ladri, dei corrotti, dei profittatori dediti solo a fare i propri interessi. Non che svariati esempi ed episodi emersi nell’ultimo ventennio non abbiano contribuito e favorito il diffondersi di questi sentimenti, al propagarsi della cosiddetta antipolitica, ma da qui a demonizzare politica, partiti e istituzioni ce ne corre.
In un vecchio numero della rivista «Il Segnale» (28/1991) scrissi che una delle primarie tensioni superiori sviluppatesi nell’uomo è quella «politica». Specificai anche che tale tensione si esplica «partecipando alla ricerca, alla costituzione o alla conservazione del migliore stato (o sistema) possibile, e che è caratterizzata da una spinta ad agire in modo consociativo all’interno della società». Che la politica è insomma «la nostra natura costitutiva, il materiale umano di cui siamo fatti, la polis in interiore homine», come ottimamente aveva sintetizzato Mario Tronti su «Il Manifesto» del 30.5.91.
Ma perché tale tensione sia libera di svolgersi e di operare cambiamenti, e non sia al contrario soffocata sul nascere generando una società di uomini dimezzati come quella odierna, è necessario che siano garantite le seguenti condizioni: 1) che all’interno della società rimangano aperti e liberi da repressioni di ogni tipo spazi politici adeguati, all’interno dei quali, individui spontaneamente consociatisi abbiano la possibilità di concepire ed elaborare progetti culturali e politici anche alternativi e dissenzienti, di proporli e sostenerli; 2) che l’affermazione-realizzazione o la bocciatura di questi progetti dipenda solo dalla loro intrinseca qualità e dal consenso che riescono ad ottenere; 3) che il potere reale – politico, amministrativo, giudiziario ed economico – non si eserciti esclusivamente nel chiuso dei palazzi e delle logge, ma sia il più possibile decentrato, trasparente e partecipato.
Quando queste condizioni sono presenti, il numero di coloro che «testardamente insistono a coltivare la tensione e la passione del “cambiare il mondo”» (Tronti, ib.) tende ad aumentare, i progetti di cambiamento non calano necessariamente dall’alto ma possono essere concepiti ed elaborati anche da individui spontaneamente consociatisi: chi con-divide un progetto di cambiamento ha la vivificante consapevolezza di partecipare alla sua stessa elaborazione, e di far parte di un movimento.
Pare impossibile, ma tutto ciò è stato in gran parte vero in Italia fino a una quarantina di anni fa, o per lo meno così mi è parso.
Nello scorso millennio, del resto, le condizioni di reale ed effettiva democrazia  sopra descritte, quelle cioè in cui il popolo è stato soggetto in-mediato di iniziativa politica e fonte di diritto e di potere, sono state più volte presenti in Italia, anche se tutte (Età comunale a parte) per pochi anni e poi sconfitte.
Per comodità del lettore, ricordo questi periodi di reale ed effettiva democrazia: l’Età comunale innanzitutto per novità importanza e durata, la Rivolta degli Scalzi e la Repubblica di Napoli del 1647, il triennio 1796-98 in Lombardia, il Quarantotto (Repubblica romana, Milano, Brescia, Venezia, Napoli e Palermo), la Resistenza fino al 1947 e il Sessantotto.
Se ripercorriamo la storia delle arti e la biografia (perché no?) degli artisti, puntando la lente sugli incroci di queste con gli eventi sopra ricordati, possiamo osservare due fenomeni alquanto sorprendenti e normalmente poco illuminati dagli storici del settore: soltanto in concomitanza con taluni degli eventi storici citati – quelli ovviamente che ebbero una sufficiente durata e una relativa  anche se limitata affermazione – a) si è verificata una partecipazione diretta, attiva e spontanea degli artisti e dei letterati alla vita civile e politica del Paese; b) è fiorita una produzione artistica e letteraria liberamente ispirata e sostanziata anche da mozioni civili o comunque laiche.
Nei restanti e preponderanti periodi, artisti e letterati rimangono cortigiani – in corti feudali, signorili e pontificie – o fornitori professionisti (a volte altissimi) di un mercato da altri gestito; e le loro opere, più o meno, rispecchiano i desiderata della committenza del momento (unica libertà consentita: la sperimentazione tecnico-formale).
E in questi stessi periodi, per l’appunto, si affermano concezioni esoteriche, sapienziali o metafisiche dell’arte (l’«arte-religione» di C. Ambroise ad es.) che tendono a separare, clericalizzandoli, l’arte e gli artisti dalla società civile.
Questi rilievi non sottintendono alcun raffronto qualitativo, nessuna pregiudiziale estetica tra le produzioni letterarie e artistiche nei due climi, ognuno dei quali vanta ovviamente indiscutibili capolavori.
Il discorso è un altro e riguarda la dignità dell’uomo – del citoyen –, e qui non ho esitazioni a fare confronti: non, ancora, qualitativi, ma necessariamente e finalmente fra contenuti.
Ebbene, da questo punto di vista, non ho dubbi nel sostenere la superiorità della letteratura e dell’arte due-trecentesche (anche minori) su quelle rinascimentali; di quelle post-resistenziali e impegnate su quelle o novecentesche; di quelle sessantottesche e partecipative su quelle neo o post-avanguardistiche o minimaliste.
La superiorità che affermo – e permettetemi di ribadirlo – è testimoniata dalle opere, in cui la materia civile può essere più o meno presente, quanto dal fatto che solo ed esclusivamente in tali periodi storici gli artisti scendono in campo, cittadini fra i cittadini, con volontà consociativa e partecipativa per fare politica. E sarà pure un caso, ma è appunto in questi frangenti che, sociologicamente parlando, ai letterati e agli artisti viene riconosciuto spontaneamente e universalmente uno status e un ruolo di tutto rispetto, oggi del tutto perduti. E’ naturale, quando lavorano tra, e per la gente!
Certo, nei periodi storici caratterizzati dal coinvolgimento e dalla militanza politica, specialmente se di breve durata, demagogia e populismo sono sempre in agguato, e spesso la ribalta viene occupata da autori e opere minori; ma non mi sembra questo un buon motivo per buttare, come si suol dire, assieme all’acqua sporca pure il bambino.
Oggi l’ideologia dominante, quella dei grandi trust sovranazionali industrial-commercial-finanziari, accampando il fallimento economico de Paesi del «socialismo reale», ha buon gioco nel proclamare trionfalmente la morte delle ideologie, in ciò molto coadiuvata da una folta schiera di maitre à penser che per ragioni di sopravvivenza non possono rischiare la cancellazione dai libri-paga.
Contraddizione a parte (un’ideologia che proclama la morte delle ideologie), la situazione sociopolitica che si è venuta a creare in Italia con la fine della Guerra fredda e in seguito a questa strategia è davvero preoccupante: il vecchio Partito Comunista che, bene o male, difendeva i lavoratori contro lo sfruttamento più sfacciato, è defunto, sostituito da un partito apparentemente di sinistra ma in realtà costruito soprattutto per il potere; i sindacati sono trattati come anticaglie e accusati di conservatorismo e di sterile ostruzionismo; i lavoratori (d’ogni livello, non più uomini ma strumenti) sempre più usati per il profitto e gettati quando il profitto cala. Tutto ciò ha dato e dà ampio spazio politico a personaggi geneticamente estranei alla democrazia, a capipopolo truccati da rivoluzionari ecc., capaci di condurre, quatti quatti a svolte autoritarie o clericali.
Poiché nessuno di coloro cui sta a cuore la giustizia sociale e la democrazia («Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia», P.G. Bellocchio) si augura un Paese in cui l’opposizione di sinistra sia cancellata o resa muta, un Paese in cui i lavoratori meno protetti (precari), i disoccupati, i giovani, le donne siano ridotti a oggetti passivi di politiche altrui, ci sembra necessario e urgente che a sinistra (e non mi riferisco alle nomenclature di partito) ci si ritorni a occupare di politica, non fosse altro che per non perdere la residua speranza civile che ci resta.
Nell’attuale clima non è proponibile ovviamente un neo-movimentismo immediato. Siamo convinti che, in questa fase, sia necessario anteporre la cultura politica alla politica pratica, «ricucendo la politica strappata con il filo della teoria» (Tronti, ib.).





VITTORIO SEDINI


Vittorio Sedini



















IL SEGNO

Sono stato recentemente ad un convegno di poesia e ho fatto una fatica terribile. Mi secca ammetterlo, ma devo dire che ho capito poco, pochissimo. Poi, mentre mi chiedevo perché, mi è venuto in mente "Zazie dans le Metro" di Queneau: ad un certo punto Zazie racconta una cosa ad un tipo, che non capisce e lei esclama: "Ma devo farti un disegno?!"
Ecco il punto. Il segno significa. Racconta, definisce, spiega, rivela.
Un mio vecchio maestro diceva "Il segno è ciò che, una volta conosciuto, ci fa conoscere un'altra cosa".
Anche le parole sono segni e sono composte di segni che noi conosciamo. Ma quella sera questi segni, queste parole, conosciute, si mettevano insieme a dire qualcosa, un dove, un quando, un mondo dal quale mi sentivo escluso quasi che i poeti l'avessero fatto apposta:
"Aha! Tu non c'eri !"
Non c'ero, non ho visto… E allora ecco i critici che sminuzzano analizzano spiegano, mi fanno “vedere” perché loro c'erano (questo però è un po' imbarazzante specialmente se si tratta di poesie d'amore). Insomma, alla fine me ne sono andato nuotando in un mare di perplessità.
A questo punto si potrebbe dire che anche nell'arte figurativa contemporanea succede così.
Anzi a volte non ne riconosciamo nemmeno il segno, figurarsi il significato.

V. Sedini "Omaggio a Majakovsij"
Ma, quanto meno è conosciuto il segno, tanto più è grande la sorpresa,
e se il significato è nascosto (potrebbe anche non esserci) possiamo contemplare l'armonia, la forma, il colore. Possiamo addirittura accontentarci delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni e dire (cosa non politicamente corretta) mi piace, non mi piace.
Allora forse il mio problema nei riguardi della poesia sta forse proprio qui: nel fatto che quei segni io li adopero tutti i giorni e tutto il giorno per comperare il giornale o le zucchine, per pregare o bestemmiare o fare una dichiarazione d'amore.
E li conosco  troppo bene quei segni, e vado in crisi quando il poeta me li adopera per dire altro.
Attenzione allora: andiamo a vedere una mostra. Magari in due sale c'è un sacco di poesia, ma per fortuna, se non capiamo, gli artisti qui presenti "ci fanno un disegno".




CARLO CIPPARRONE

Carlo Cipparrone
















Sul palcoscenico della Storia

Tra macerie e lamiere contorte,
i fantasmi dei giudici morti ammazzati,
eroi involontari - dopo decenni -
chiedono ancora conto
ai potenti di allora - oggi vecchi,
(o scomparsi e peggio rimpiazzati) -
dei loro corpi dilaniati dalle bombe,
delle menzogne sepolte sotto le ragion di stato.
Si respira un’aria shakespeariana:
fantasmi che ritornano 
sul palcoscenico della Storia
tra buffoni e falsi predicatori
di un sistema politico corrotto
che scivola nel fango.





FELICE C. BESOSTRI

Felice Carlo Besostri


















Dibattersi invece di dibattere

L’approvazione da parte del Senato del complesso di emendamenti alla Costituzione vigente, in particolare ai titoli I-Parlamento e –V Le Regioni, le Province, i Comuni della Parte Seconda potrebbe passare alla storia, come un esempio di dedizione dei Senatori al supremo interesse della Nazione, come del resto sarebbe loro dovere costituzionale ex art.67 V Cost., invece che alla loro sorte personale. Infatti hanno deciso di auto sopprimersi, senza sopprimere la Camera di cui fanno parte. Sappiamo, che non è così: senza un intervento pesante del Governo e un atteggiamento collaborativo del Presidente del Senato all’urgenza posta dal Presidente del Consiglio dei Ministri l’approvazione definitiva sarebbe slittata all’autunno ed il testo finale, nelle votazioni con scrutinio segreto avrebbe potuto differire. Se il testo approvato dal senato dovese corrispondere al testo finale della riforma costituzionale, sarebbe preoccupante in quanto ci sono veri e propri svarioni, che come quello introdotto dall’art. 117, che “Spetta alle Regioni la potestà legislativa in materia di rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche






TIZIANO ROSSI

Tiziano Rossi












Figurine


Guardate! Seduto su quello sgabello, c’è il grande poeta Ludovico Ariosto, che pare stia scrivendo qualcosa. No, al momento non scrive, ha in mano dei pezzettini di carta su cui sono disegnati, con bei colori, dei cavalieri e delle dame, mostri e ladroni, maghi e maghe, re e contadini, regine e fanciulle, e c’è perfino la Luna; poi lui sparpaglia sul tavolo quelle figurine (quante sono!), le sposta qua e là come fossero pezzi degli scacchi, si gratta la testa e sorride; ecco, adesso le butta addirittura per aria per vedere dove vadano a finire, le ripiglia, le risistema e sorride ancora: mah! Che strana maniera di combinare una storia, cosa ne verrà fuori?


 MARIELLA DE SANTIS

Mariella De Santis
















Tra il mare e la terra

Un tuo colpo di tosse risponde al mio
Modo strano di dirsi: ci siamo.
Quell’aria che ci manca, quella strettoia del respiro
Sono codice privato, alfabeto di navigatori votati al largo
Dove occhio non raggiunge il disegno della bracciata
Guidata a  fendere traversa la corrente.

                        ***

Between sea and land

A cough that answers mine
Is a strange way of saying: here we are.
The air we lack, that tightening of the breath
Is a private code, the alphabet of deep-sea sailors
Where the eye cannot catch the line of the swimmer’s stroke
Made to cut across the current.

(Versione inglese tradotta da Anthony Robbins)

 



DONATELLA BISUTTI


Donatella Bisutti




















LA MAMMA E LO STATO

Una volta lessi questa curiosa osservazione di uno straniero a proposito del nostro Paese: solo gli italiani, diceva, morivano invocando la mamma. Ne fui sorpresa anch’io, perché non ci avevo mai pensato. In effetti non ho mai sentito che in una situazione di pericolo un francese gridasse maman o ma mère o un inglese  mum o mother  e del resto, almeno nelle poche lingue che conosco, non esiste neppure un’esclamazione equivalente al nostro “mamma mia!” (lasciamo perdere il “mammasantissima”). Anche se l’intenso desiderio e al contempo l’orrore di poter rientrare nell’utero materno non appartiene solo  a noi italiani: si tratta di un fenomeno universale,  e  potrei citare quello  stupendo testo teatrale di Ibsen, Spettri, in cui  una madre ferocemente possessiva, benché nordica,  accoglie fra le braccia un figlio rannicchiato nudo contro di lei come un neonato, in una demenza cui lei ha fortemente contribuito. Ma è vero che nell’ambito di un fenomeno sia pure universale, che appartiene profondamente alla natura dell’uomo e ne spiega anche molte tragedie irrisolte, la mamma italiana occupa un posto tutto particolare, un posto, se vogliamo, d’onore: essa rappresenta, della Madre mediterranea, la versione all’apparenza meno temibile, più casalinga, mite e familiare, un’icona della tenerezza. Però bisogna fare attenzione: dietro quella apparente innocuità  l’adorata mamma  ha pesanti responsabilità, che tutti noi scontiamo. Qualcuno potrà stupirsi che il titolo di questo articolo metta in qualche modo su uno stesso piano, sia pure per antitesi, la Mamma e lo Stato, ritenendo che si tratti di un accostamento improponibile per totale estraneità dei due termini. Una, figura del tutto privata, l’altro, astrazione  che riunisce un’enorme quantità di individui , di strutture, di poteri. Eppure la figura della mamma è anch’essa qualcosa di immenso, e ha in sé tanta minacciosa energia da poter ergersi ad Antistato, con incalcolabili conseguenze. La mamma è infatti  anch’essa un’istituzione, la prima e la più forte di tutte le istituzioni: è lei a forgiare gli uomini che faranno lo Stato. Li mette al mondo, li alleva, dà loro un imprinting che nessuno più potrà togliere. La mamma è l’Antistato non in modo casuale: lo è in modo strutturale. Se gli italiani non hanno una vera nozione dello Stato è proprio perché la mamma si mette da sempre al suo posto confondendo loro per sempre le idee. Sembra una battuta un po’ paradossale, e comunque va a colpire un tabù che nessuno si sente di infrangere. La retorica che circonda la figura della mamma è probabilmente la più radicata, la più inestirpabile: andarvi contro è più dissacrante di una bestemmia. Certo nemmeno io voglio negare quanto di buono, di santo, di meraviglioso ci può essere nella figura della mamma, ma solo incitare a guardare, al di là della retorica, una certa nuda realtà. Allora si può scoprire che la mamma nostrana  imprime al figlio, da subito, tutte quelle connotazioni che oggi rischiano di fare, dell’essere italiano, una condizione perdente. Naturalmente non parlo qui delle eccezioni, non troppo numerose del resto, se Cornelia fu tanto celebrata, parlo di una media, che è però poi quella che dà il tono generale. Non esagererò quindi dicendo che se si vuole capire la situazione dell’Italia in questo oscuro e dilaniato periodo della sua storia, non bastano le disamine politiche, bisogna prendere coscienza di questo Antistato oscuramente in agguato. Cambiare le leggi, va bene, cambiare i governi, va bene: ma cambiare le mamme? eppure è proprio da lì che bisognerebbe cominciare, se si volesse risolvere il problema alle radici. Estirpare l’Antistato per costruire finalmente lo Stato. La mamma italiana è la vera, grande, prima antagonista dello Stato. Lo è a tal punto che alla fine anche lo Stato si dà per vinto: il nostro Stato è anche lui uno stato che avrebbe  bisogno della mamma. E’ uno Stato in cui nessuno è responsabile di niente. Infatti nessuno normalmente si dimette anche se è un colpevole conclamato.  
Il modo in cui la mamma italiana costruisce l’Antistato, un modo occulto, che passa inosservato sotto apparenze tranquille e anzi del tutto rassicuranti, ha in qualche misura del prodigioso. Forte del non mettersi mai in mostra, ma anzi del restare nell’ombra della casa, della famiglia, in perpetua condizione di servizio, di dedizione e di sacrificio, essa lavora intanto assiduamente e pervicacemente a erodere le fondamenta dello Stato come i castori fanno con i tronchi degli alberi. Lo Stato infatti è l’avversario da battere, quello che una mamma individua da subito, dal primo giorno in cui suo figlio apre gli occhi alla vita. Di questo figlio lo Stato è per definizione il Nemico. Da questo Stato bisogna proteggerlo a tutti i costi. E perché? Perché lo Stato vorrebbe tendenzialmente sottrarre il figlio alla mamma. Figlio e Stato rappresentano per la mamma un’ antinomia feroce. Almeno da noi in Italia. E non solo perché lo Stato da sempre ha chiesto alle mamme di dargli i figli per mandarli a morire in guerra. Non occorre tanto. Ma perché lo Stato vorrebbe, dovrebbe togliere i figli alle mamme per farne dei cittadini. Cioè degli individui capaci di assumersi delle responsabilità. Ma chi è capace di assumersi delle responsabilità è un individuo autonomo. E che cosa resta da fare alla mamma se il figlio diventa autonomo? Dove va a finire la sua funzione, quella cui ha sacrificato tutto? Un figlio autonomo, che non ha più bisogno della mamma, azzera la mamma. La uccide simbolicamente nel suo cuore e nel cuore della società. Così almeno pensa la mamma e così essa fila in silenzio la sua tela per avviluppare il figlio vita natural durante in una non-autonomia. Se il figlio non diventa un cittadino autonomo, resterà sempre il suo  bambino. Anche a settant’anni. La mamma italiana mette in atto con il figlio lo stesso programma che cerca di mettere in atto da sempre con il suo partner maschile: l’induzione di una dipendenza. Questo è il suo sogno in quanto donna: tenerlo stretto con  il sesso, con la tenerezza, con i calzini rammendati, con il cibo, con tutto questo e , se non basta, con le lamentele, con i sensi di colpa, con i ricatti: lì, inchiodato, una proprietà da difendere a tutti i costi, possibilmente per sempre. Di solito, è vero, questo non le riesce più di quel tanto. L’uomo svicola, si sottrae, tradisce. Anche se alla fine resta, torna. Ed è per questo che la donna è perennemente insoddisfatta, perennemente si lamenta. Ma di nascosto dal marito. Che insiste nel pensare che invece lei è felice. Anche questo fa parte del gioco. Lei deve sacrificarsi al punto da farsi credere felice anche se non lo è. Ma con il figlio maschio questo gioco riesce decisamente meglio. Lui non ha avuto il tempo di approntare le difese. E’ stato preso in contropiede da subito. E allora, una conquista così preziosa la mamma dovrebbe lasciarla allo Stato, così? La strategia seguita dalla mamma per conservarsi il figlio sarà dunque la più semplice: dargli sempre ragione contro lo Stato. Tenerlo lontano e separato dalla Stato. Intendendo qui per Stato anche una qualunque forma di società organizzata, di collettività al di fuori dalla cerchia della famiglia. Cioè tutto ciò che costituisce gli altri. A cominciare dai compagni di gioco. L’educazione asociale comincia ai giardinetti quando il bambino picchia un amichetto sulla testa e di conseguenza ne riceve un calcio. Verrà abituato a correre strillando dalla madre reclamando giustizia. E la madre questa giustizia la farà subito lei non lasciando il figlio a sbrigarsela da solo e a imparare dai suoi errori, ma subito difendendolo indipendentemente dai suoi torti  e perciò prendendosela a male parole con l’altro bambino e con la  madre dell’altro bambino. Così il figlio introietterà che può permettersi qualsiasi cosa, e sarà sempre difeso e perdonato, mentre quelli che si mettono contro di lui o esigono qualcosa da lui hanno sempre torto. Poi si arriva alla scuola – separazione traumatica voluta dallo Stato, il quale pretende questa cosa orrenda e disumana, che la mamma cioè non possa sedersi nel banco accanto al figlio ma se ne resti a casa e glielo ceda interamente per qualche ora al giorno. Esemplare sarà allora il comportamento della mamma-tipo nei confronti della scuola - questa prima manifestazione concreta dello Stato nella vita del figlio. La mamma la scuola l’assedierà dall’esterno, vi entrerà con ogni pretesto appena possibile per controllare che i professori non osino rimproverare il figlio, tanto meno punirlo! la mamma sarà di nuovo lì per difenderlo furiosamente, per giustificarlo, per assolverlo, come continuerà a fare anche in seguito incitando sempre il figlio ad agire per sé senza tenere conto degli obiettivi diritti di una società che dovrebbe essere civile. Questo fatto che la madre non dà mai torto al figlio neanche se ha torto marcio, contribuisce in modo determinante  a fare del figlio qualcuno che non riconosce alcuna autorità. Nemmeno quella della mamma del resto. Perché poi queste mamme a loro volta - per una comprensibile nemesi -non sono quasi mai obbedite dai loro figli, che hanno per loro spesso pochissimo rispetto. La loro strategia si ritorce contro di loro. Ecco che così però si delinea subito il cittadino di domani: qualcuno di  viziato, imbelle, irresponsabile, e tendenzialmente sopraffattore e vigliacco. Anche molto maleducato. Sono maleducati i nostri deputati e senatori, figuriamoci! Sono rimasti anche a sessanta, settant’anni gli stessi di quando litigavano ai giardinetti. E noi ce li teniamo così. Che si saltano addosso, si sputano in  faccia, si dicono parolacce: infatti chi gli ha insegnato il senso del rispetto dell’altro? la necessità di far prevalere l’istituzione sull’individuo? Chi? non è mica colpa loro se hanno avuto a suo tempo tanta mamma. Ho conosciuto alcuni inglesi middle class, persone  che di per sé conterebbero poco, ma che si portano addosso come un’invisibile corazza tutta la dignità che viene loro da un implicito patto con lo Stato: lo Stato dà loro uno status (mi si passi il gioco di parole), e questo finisce per dare alla loro mediocrità perfino una certa grandezza, a patto che essi siano dei veri leali   responsabili cittadini. E loro lo sono.
Le mamme italiane allevano figli tendenzialmente vigliacchi- a suo tempo così bene e così fedelmente interpretati dal genio di Sordi- asociali, e quindi imbroglioni, tendenzialmente disonesti, tendenzialmente mafiosi: esattamente quello che è l’Italia alla fin fine. Perché un Paese, uno Stato è la somma dei suoi cittadini come un fiume è la somma di tutte le sue gocce d’acqua. E’ inutile che ce la prendiamo con i nostri politici, prendiamocela piuttosto con noi stessi. Non c’è da stupirsi se contiamo poco nel mondo, nonostante tante nostre belle qualità. E se stiamo scendendo una china rischiosa. Uno Stato rappresentato da troppe persone rimaste allo stadio di bambini che si esprimono a parolacce, furfantelli e immaturi. Insomma sarebbe bene di smetterla con le mamme  tradizionali che inseguono i figli per mettergli la maglietta anche quando fa caldo, e che poi li rimproverano se corrono troppo e sudano, che li rialzano quando cadono, e che si lasciano trattare alla fine loro stesse come pezze da piedi da arroganti e aggressivi adolescenti. Si facessero corsi per aspiranti mamme e si desse il permesso di fare figli solo a quelle che  passano gli esami. Essere mamma non può limitarsi a un semplice evento biologico in cui dare libero corso alla propria dissennata e frustrante possessività, alla propria penosa rivalsa contro un’atavica mancanza di autostima. Ricordiamoci che l’Italia è anche fra i Paesi occidentali quello che in cui le donne hanno avuto finora meno spazio nella politica, ma è in compenso quello che ha inventato le veline. Essere mamma significa anche svolgere un determinante  ruolo sociale, porre le fondamenta di una collettività degna di questo nome, quella che noi ahimé non siamo. E chiediamoci anche perché la nostra politica, con i Mussolini, i Craxi, i Berlusconi, esprime così spesso una figura paterna dominante con caratteristiche per molti aspetti simili. Esaminiamo con obiettività gli elementi che la connotano e domandiamoci se non c’è anche qualcosa di infantile  in questo sogno tutto italiano.



ALESSANDRA PAGANARDI


Alessadra a Lisbona con Ferdinando Pessoa

















IL CIGNO RIBELLE

Pare che il succo di carota aiuti un cantante a dare il meglio di sé prima di un debutto o di una prova importante; anche l’anice o il mirtillo, dice qualcun altro. Quest’incertezza plurale è pienamente spiegabile: il bello della natura sta proprio nella sua imperfezione.
Li ho accontentati tutti, mi sono chiusa nella camera perfettamente insonorizzata che mamma e papà predisposero sin da quando ero poco più che bambina. Sorseggio un generoso centrifugato di carota e mirtillo, che avrà sicuramente come primo effetto una diuresi ripetuta e protratta. Non disturberò nessuno, perché il mio bagno ha l’ingresso riservato alla stanza; una piccola toeletta privata con doccia, mezza vasca e bidè a conchiglia, a misura esatta di ragazza. E sciolgo lentamente in bocca caramelle all’anice senza zucchero. Non è facilissimo trovarle in giro.
Sono sola in casa, del resto. Mio padre è in giro per una delle sue conferenze benefiche e la mamma è dalla sarta a prepararsi per il grande evento, il mio. Le prove generali sono terminate due ore fa, tempo di fare un salto a casa e “darci una rinfrescata”: ho davanti a me un altro paio d’ore prima di tornare a teatro. Credo ci andrò prima. Devo fare le cose per bene. Ho detto ai miei genitori che preferisco non vederli, “perché mi sento troppo emozionata”, ed è perfettamente comprensibile. Entreranno all’ultimo momento: non c’incontreremo per nulla.
Non è semplice essere l’unica figlia di un grande soprano e l’unica nipote diretta di un celebre tenore. Per mia madre, che porta lo stesso cognome del nonno, dev’ essere stato ancor più difficile: io almeno, non per volontà ma per consuetudine, ho rotto il filo delle genealogie nominalmente evidenti. A scuola, soprattutto i primi anni, nessuno avrebbe potuto collegare il mio cognome alla “stirpe canora” dei Russo, che del resto è un nome assai comune; più tardi, poi, sempre meno persone riconoscevano in mia madre l’artista di vent’anni prima.  Aveva interrotto la carriera poco prima dei quarant’anni, quando nacqui io; ma già da tempo aveva parecchio rallentato la sua attività. Credo avesse qualche problema a concepire figli, anche se non me l’ha mai esplicitamente detto.  Non penso che rinunciare alla musica sia stata una scelta indotta dalla volontà di mio padre; l’ha deciso lei, ne sono certa.
Verso le scuole medie qualche compagna curiosa, vedendomi così impegnata nello studio del canto da non avere quasi tempo per altro che non fosse la scuola e lo sport, mi poneva qualche domanda meravigliata; ma soltanto alle superiori si seppe che ero figlia di Maddalena Russo. Abito in provincia, ma ho studiato in un collegio internazionale alle porte della città: una di quelle efficientissime cittadelle dell’educazione che ti accolgono a due anni e ti accompagnano fino all’esame di maturità, imbevuta di tutte le lingue europee possibili da apprendere intanto che, oltre al resto, sei impegnata a crescere. All’andata e al ritorno da scuola, finché non ho preso la patente, mi ha sempre accompagnato mia madre in auto, così come alle lezioni di canto, alle audizioni, agli allenamenti sportivi e ai vari provini: nessuno dei miei compagni era mio vicino di casa e non avevamo più molte occasioni d’incontrarci dopo le ore del mattino.
Non mi sono mai chiesta che reazione abbia suscitato nei miei compagni la notizia del mio pedigree artistico. Qualcuno mi avrà invidiato, immaginando il benessere e l’attenzione da cui potevo essere stata circondata; qualcun altro mi avrà compatito, dato che ogni medaglia ha il suo rovescio. Ma forse entrambi i sentimenti sono fuori luogo: nessuno, in realtà, può mai davvero capire la vita degli altri.
Avevano ragione a invidiarmi, in ogni caso. Non tanto per il benessere materiale, di cui gli altri studenti di quella scuola godevano quanto me; forse neppure per la musica di cui ero circondata, né per il raro privilegio di aver visto per la prima volta l’Aida in teatro a tre anni, o di aver potuto cantare con la giusta impostazione quasi prima di essere in grado di parlare. No, credo che invidiassero soprattutto qualcosa che, in attesa dello scatto epocale fra un millennio e l’altro, sembrava quanto di più desiderabile per noi, adolescenti di allora: la regia intelligente del tempo, il finalismo impeccabile della vita, neppure un minuto speso a vuoto. Nessuna dispersione, nessuna inefficienza: ogni momento mirato ad un nobile obiettivo, cioè a svolgere un’attività meravigliosa che nessun altro avrebbe potuto offrirti con tanto amore e competenza, se non chi l’aveva esercitata per metà di una vita ai massimi livelli. La formazione ideale.
A scuola certamente non eccellevo, ma non avevo neppure particolari problemi. Sono stata inserita in un ambiente internazionale già dalla scuola materna, perché le lingue straniere erano ritenute fondamentali per una futura carriera lirica. Il tedesco, il tedesco soprattutto, ripeteva sempre mia madre.
Ricordo uno dei primi Natali dell’età scolare: potevo avere sette anni e prendevo lezioni da una maestra di canto molto dolce, con una grande esperienza in bambini e voci bianche. La tavola era lunghissima e mi è rimasta impressa l’invadenza di tutto quel rosso: la tovaglia, le palle di vetro sull’albero, le coccarde sulle bottiglie e sui regali, come a ricordare ossessivamente quello che già ben sappiamo, che ogni nascita comincia con il sangue. Mi sono sempre chiesta che cosa c’entri mai questo colore con una stagione fredda e grigia come l’inverno e non so darmi che questa spiegazione; anche se non la trovo molto ragionevole, soprattutto nel bel mezzo di una festa piena di regali.
Quel Natale, insomma, sapevo che al panettone mi sarebbe stato chiesto di cantare Stille Nacht, ovviamente in tedesco. Già allora non amavo molto le tonalità alte, ma a inibirmi davvero erano quei suoni per me innaturali, che sembravano farsi ancor più duri proprio quando la voce doveva estendersi. Era come se le mie corde vocali dovessero trasformarsi in un nastro adesivo da strappare velocemente. In sol maggiore, naturalmente, perché quella era la tonalità più adatta per una voce bianca. Mi feci coraggio e cantai, appoggiandomi a quel rassicurante incipit, Stille nacht, heilige nacht, come alla mano di mia madre. Credo di essere diventata dello stesso colore della tovaglia e delle coccarde, mentre con diligenza da sarto miope fiondavo fili interminabili in crune sempre più sottili: dall’Alles schläft, einsam wacht, ancora afferrabile chiudendo l’occhio sinistro, al quasi imprendibile Schlaf in himmlischer Ruh, con il refe che sfuggiva dall’ago come il primo centimetro mancato al salto in lungo; sforzo da replicarsi puntualmente in tutte le strofe successive, con Gesù nominato in ogni possibile sacro attributo, fino a quel consolante Aller Welt Schonung verhieß, preannuncio della regale ultima epifania strofica, nonché fine dello spettacolo. Oltre all’applauso di routine ricordo un patchwork di commenti tesi a rassicurare mia madre, dall’entusiastico/ingenuo «però, è intonata, già una bella fortuna!» al più tecnico «ha un bellissimo “primo”, complimenti Maddalena!» seguito da un augurale «la voce, si sa, cambia fino ai vent’anni!».
Mia madre, che è sempre stata ottimista, sorrideva, soddisfatta della mia intonazione e dei miei armonici. Ma che l’estensione non fosse da soprano, tantomeno da soprano lirico, lo si vide senza possibilità d’ appello attorno ai sedici anni. Evidentemente le mie corde vocali si erano allungate in proporzione diretta con la mia statura, si erano piacevolmente irrobustite per solidarietà con i tratti marcati, un po’alla Michael Jackson, del mio viso. «Ha una bellissima presenza scenica» si consolava mia madre al telefono con le persone che di me avevano un ricordo ancora impubere. Forse voleva dire che, pur non avendo il suo talento, avevo pur sempre anch’io qualche freccia al mio arco. Il sogno di aver allevato con tanto impegno pedagogico una wagneriana Walchiria sfumava nella sostanza, ma ritornava, attenuato, a sedurre nella forma di una ragazza alta e ossuta, interessante a suo modo, certo non il tipo da passare inosservata. Tutti i provini fatti dopo i vari corsi, tuttavia, non andavano mai abbastanza bene perché venissi scelta per una parte di qualche rilievo. Evidentemente la presenza scenica non bastava; oppure io stessa cominciavo a stancarmi di tutta quella tensione e preferivo studiare per gli esami, imparare il portoghese a cui mi ero molto appassionata, uscire con il mio ragazzo e rimandare all’infinito il famoso debutto importante, che cominciava a non essere più tale per me.
Dopo aver iniziato l’università abbandonai completamente l’ipotesi di una carriera lirica e mi applicai con maggior decisione alla musica leggera. Mia madre si attivò moltissimo per aiutarmi a frequentare le scuole giuste per me. Mi aiutò a capire che la voce, purtroppo o per fortuna, rappresentava una parte assai piccola del mio “talento teatrale”: ero una ragazza sportiva con un gran bel fisico, dopo tutto, amavo la danza e non riuscivo mai a stare ferma. Non avevo la concentrazione necessaria per un cantante lirico e neppure per un’ interprete vocale. Inoltre avevo un’estensione da contralto naturale, robusta e pastosa. Forse il musical era il mondo perfetto per me.
Frequentai un’accademia di perfezionamento fra le più esclusive, diretta da un grande cantante. Mi divertivo moltissimo e per tre anni non pensai più ad alcun debutto sulle scene. Mi stavo laureando alla facoltà di Mediazioni Linguistiche con una tesi sull’importanza della musica nella cultura brasiliana. Con tutto quello che avevo fatto, che mi era stato offerto e proposto, dopo tutti gli stimoli che avevo ricevuto, quella era la prima strada che sentivo davvero mia. Pensare di poter lavorare un giorno con quei giovani, per i quali la musica e la danza non sono spettacolo ma carne viva, era come avere la certezza di non aver sprecato ventidue anni in una recita inutile. Feci uno stage di quattro mesi laggiù e quando ritornai sentivo di avere finalmente in me un progetto vero. Per molto tempo, nonostante tutta la buona volontà e gli sforzi profusi a mio favore, mi ero sentita il prolungamento di una corda vocale di mia madre, prima che una persona; e forse di intenzioni ne avevo viste nascere e morire fin troppe, in me e attorno a me. I ragazzi brasiliani con cui avevo lavorato, invece, non sapevano neppure che cosa fosse un progetto, perché nessuno aveva mai contato su di loro. Era già molto poter essere iscritti all’anagrafe, avere un nome, un riparo e qualcosa da mangiare per il giorno successivo. Il loro progetto era molto semplice: vivere.
La mia tesi ha ottenuto la lode e ho vinto una borsa di studio per frequentare i due anni di perfezionamento a Rio de Janeiro, lavorando al progetto di una scuola-lavoro per i ninos de rua. Contemporaneamente, quasi per gioco, ho fatto un provino per lavorare nel musical The Rocky Horror Picture Show, che la nostra giunta di provincia ha finalmente deciso di mettere in scena dopo numerose richieste a furor di popolo e altrettanti moralistici tentennamenti. Sono stata immediatamente scelta per la parte di Magenta, l’inquietante bruna dalla voce cavernosa e piena di ambiguità.
«Valentina, ma sei impazzita?». In slip e canotta nera Matteo sembrava ancor più costernato, quasi fosse vestito a lutto. Sabato scorso, quando gli ho rivelato le mie intenzioni dopo aver passato il pomeriggio da lui, faceva forse più caldo di oggi. Sorseggiavo il the freddo e mi sentivo un po’ ridicola ad averglielo detto. «E’ il momento che aspetti da anni e vuoi buttarlo via così?».
Matteo è stato il mio primo fidanzato e ancora resistiamo, forse per affetto, forse per pigrizia e mancanza oggettiva di tempo. Proprio perché ci conosciamo da anni la sua domanda mi ha sconcertato, ma ho provato a rispondere con molta calma: «E’ il momento che gli altri aspettano da me, non io: lo sai bene.». E avrei potuto aggiungere che, oltre a non essere mai stata una scelta mia, questo debutto era ormai un ripiego anche per gli altri.
«Sì, ma sei proprio sicura che questa sia una scelta saggia? Potrebbe essere semplicemente reattiva. Potresti persino passare dei guai! Pensaci.»
Ci pensai e decisi che la mia decisione non era più reattiva di qualunque altra, a meno che non si voglia attuare l’impossibile decisione di ripartire ogni istante daccapo, come se non avessimo una storia. Serena, in ogni caso, non c’entrava nulla con la mia storia. Era la mia migliore amica e aveva per natura la stessa passione che avrei dovuto avere io per destino, il canto. Era figlia di due impiegati di banca e non aveva certamente ricevuto la mia stessa educazione artistica: dopo una brillante maturità scientifica studiava con profitto medicina e soltanto a diciott’anni, a un passo dall’iscrizione a una facoltà lunga e impegnativa, si era concessa il lusso di frequentare una scuola di canto a indirizzo amatoriale, dove si era distinta per talento, estensione vocale e originalità del timbro. Non si era neppure presentata alle selezioni per questo né per altri musical, ma io non avevo alcun dubbio che quella parte fosse sua. 
Era la realtà, semplicemente. Gliel’avevo detto in questi esatti termini, ma sulle prime lei non aveva capito che cosa intendessi: aveva pensato piuttosto a un consiglio per il futuro, a un rimprovero per non aver tentato i provini, forse a un mio atto di vanagloria mascherata. Non immaginava affatto che stessi invece proponendole di debuttare al posto mio: ho dovuto dirglielo esplicitamente. Era troppo stupita per essere felice, ma del resto il suo carattere è sempre stato così, controllato e calmo pur nella sincerità.
Il mio piano era semplice: dove non le fossero andati bene i miei costumi, avremmo provveduto a comperarne di adatti alla sua taglia. Fortunatamente erano pochissimi, a parte le guepière e gli articoli di biancheria più aderenti. Mi avrebbe raggiunto in camerino poco prima dello spettacolo con una grande borsa piena del necessario, con il pretesto di portarmi dei fiori. Si sarebbe vestita con una specie di palandrana di cotone, compatibilmente con le temperature estive, e un turbante per coprire i capelli; io sarei uscita con i suoi abiti, velocemente e senza dare nell’occhio, mentre lei si chiudeva per qualche minuto in bagno. Sarei salita subito in macchina e l’avrei avvertita con un messaggio sul telefonino, quando fossi stata ormai fuori tiro. Il mio personaggio, del resto, non compare immediatamente alla prima scena e questo facilita enormemente le cose. Si accorgeranno dello scambio di persona solo a spettacolo iniziato, quando fare marcia indietro o protestare è ormai impossibile.
Superata la sorpresa iniziale Serena, com’era nel suo stile, non si scompose e mi disse che aveva bisogno di riflettere ventiquattr’ore. Il giorno dopo mi chiamò e mi disse: «querida, meglio andare in città a cercare la biancheria, sennò ci beccano subito!»
Trascorremmo un pomeriggio magico, divertendoci come ragazzine. Forse non mi ero mai divertita tanto in vita mia e neppure lei, credo. Io avevo cantato troppo e lei, forse, fin troppo studiato. Entrambe con impegno e profitto, certo, ma con una gioia rimasta a metà. Alla veneranda età di ventitre anni, dopo tutto, non ero mai stata in un grande magazzino metropolitano a provare biancheria sexy con la mia migliore amica, in vista di una parte teatrale che tutti ritenevano mia, ma che era in realtà sua! Comperammo anche la palandrana nera di cotone e il turbante, che nessuna di noi due possedeva, e in quella grottesca situazione fuori posto sentimmo di non essere in fondo mai state al nostro posto e di poterlo confessare per la prima volta a noi stesse senza disagio, anzi, persino con ironia.  
Lo spettacolo inizia alle nove. Bisogna che mi affretti. Sono salita in macchina in preda a un’euforia leggera e la vista del nostro teatro, baroccamente kitch con quelle sue arie da piccola Scala di provincia, mi ha fatto particolarmente sorridere.

Non vedo l’ora di vedere come andrà a finire, ma chi mai può dirlo: c’è sempre un dopo. Per Serena sarà certamente un’esperienza importante, qualunque cosa voglia farne. Vorrei poi che mia madre smettesse finalmente di gorgheggiare attraverso la mia ugola e ricominciasse a utilizzare la propria voce, per cantare e per vivere. Vorrei anche che mio padre, dopo le ore trascorse fra studio legale e cause in tribunale, non continuasse a organizzare eventi e cene benefiche che forse non lo entusiasmano, al solo scopo non turbare l’armonia prestabilita della nostra dimora. In ogni caso io andrò a Rio, almeno per questi due anni; Matteo finirà i suoi studi in Italia e poi farà ciò che desidera, ne abbiamo già parlato. L’edificio in cui insegnerò a questi ragazzi, alcuni dei quali sono quasi adulti, esiste già: manchiamo soltanto noi per farlo partire. E’ curioso, ma è la prima volta che, pur avendo chiaro ciò che voglio fare, dico a me stessa con un’apparente contraddizione: «e poi si vedrà». Forse perché, anche quando il maestro è stato bravissimo a dirigere l’orchestra, c’è sempre una nota incompiuta che t’insegue fuori dal teatro come un libro non concluso, una lettera inaspettata, un sogno che non ricorderai. Quella nota, quella melodia vagabonda senza spartito non ti abbandona tanto facilmente e ti dice, se vuoi ascoltarla, che lo spettacolo non è mai finito.



GIO FERRI

Gio Ferri













Una lettera che è anche una puntuale riflessione critica
del poeta Gio Ferri, direttore della rivista “Testuale”,
che da oltre 30 anni anima il dibattito sulla poesia e i suoi statuti
non solo linguistici, com’è evidente dai richiami che ne fa in questo
scritto. Anche da parte nostra, gli auguri di lunga vita a “Testuale”.


 A Angelo Gaccione “ODISSEA
Lesa sul Lago Maggiore, 28 agosto 2014

Caro Angelo,
allora, fra cartaceo e web sono scaduti i 10 anni di “ODISSEA”, e i 30 di “TESTUALE, critica della poesia contemporanea”: congratulazioni e auguri reciproci!! Malgrado i problemi economici dobbiamo insistere e certamente
insisteremo!

Se vai (come sarai già andato) sul sito  www.testualecritica.it potrai renderti conto di quante  (piacevoli) fatiche di lettura-critica sono state proposte agli appassionati di poesia (che non mancano, come vorrebbero certi interessati pessimisti). Ciò a partire dalla prestigiosa scrittura di Giuliano Gramigna, la cui scomparsa per me, per Gilberto Finzi, e per altri amici, ha lasciato, malgrado la nostra buona volontà di fare comunque, un vuoto incolmabile. Sebbene l’eredità culturale e poetica dell’amico e maestro ci abbia dato anche la forza di dedicarci a quella domanda che (come diceva Anceschi) non ha risposta: “Cos’è la poesia?”. E se non ha risposta perché tanta fatica? Perché ciò che vale profondamente - estremo paradosso - è una vita, labile, irragionevole, caduca, anch’essa appunto senza risposta. Non c’è nulla, a mio avviso, di più fascinoso di questi misteri che fanno vibrare il corpo, che danno senso (non-senso) ai moti creativi della mente. Più o meno per questa strada siamo sempre andati: forse è il rifiuto  del nulla - di quel nulla della prassi utilitaristica -, non certo di quel Nulla totalizzante dal quale nasce il senso-non-senso dell’universo e di quella dismisura semantica dalla ricchezza segnica e di parola, e di gesto gratuito, che chiamiamo Poesia.
Odissea è, assai pregevolmente, un’altra cosa. E credo che chi legge Testuale non dovrebbe assolutamente trascurare la ricchezza dell’ approccio di Odissea alla realtà tangibile (non sempre primigenia e inindividuabile) nella quale giorno per giorno viviamo; per essa ci agitiamo, per essa ci esponiamo di persona o con la scrittura di una voce a volte festosa, spesso esasperata, dalle ingiustizie e dalle menzogne. Odissea scende sempre in piazza per esprimersi chiaramente e per combattere la pigrizia interessata di molta gente, e soprattutto del Potere di qualsiasi natura. Non che Odissea assuma questa battagliera disposizione solamente in chiave politica o politico-sociale: non trascura certamente le arti, la poesia, la letteratura, ma al di là delle domande sulle origini, per lo più, cerca nella testualità  prammatica le risposte che (anche qui) non sono così facili da individuarsi. Troppe menzogne e troppi interessi (non ultimi quelli degli editori…) minano sovente anche in questi casi la volontà, la speranza di un poiéin che aiuti l’individuo, gli individui, a cogliere per quanto possibile la verità. Un fare senza utilitaristici preconcetti.
Tuttavia sfogliando Odissea si incontrano sovente occasioni critiche, poetiche e artistiche, che vanno al di là della facile segnalazione recensiva. Solo per fare qualche esempio: ho riletto alcuni pregevolissimi saggi su Proust, su Sanesi… e sul Surrealismo (straordinario l’apporto storico e creativo di Arturo Schwarz).  Leggo alcune poesie o poemetti che conciliano in una quasi sempre raffinata scrittura, i turbamenti del nostro tempo, e insieme i piaceri della Parola. O del segno artistico e musicale.
È la pretesa di cogliere il non-senso, il vuoto, l’onirismo, l’inconscio, il… Silenzio dal quale si manifesta l’epifania della Parola, che caratterizza, forse (ma non è sempre così), la ricerca critica di Testuale rispetto alle prese di posizione concrete, vitalistiche, di Odissea. Ovviamente i collaboratori di Testuale non cercano assolutamente di operare al di fuori del loro tempo, dei problemi generali: al di là delle strette analisi testuali non rinunciato affatto a far sentire, nelle sedi più quotidiane e prammatiche, se necessario scendendo anche in piazza, nei diversi modi d’occasione, la loro opposizione. Per uno scrittore comunque, anche se non chiaramente politicizzato, non è difficile la presa di posizione rivoltosa, per esempio in convegni diversi, anche quando siano dedicati a specifiche discipline di ricerca.
Ma c’è, fondamentalmente, per Testuale, una particolare concezione della presa di posizione rivoltosa. La scrittura che sia indirizzata essenzialmente alla ricerca della propria ragione, e delle ragioni della comunicazione (meglio della comunione fra autori e lettori, fra gli uomini), specialmente per quanto attiene la poesia, pretende di cambiare (?) i modi d’essere, partendo dalle rivoluzioni dei segni e della parola. Delle voci altre dalle quali nasca un diverso modo d’essere comunitariamente. Non è una novità, ovviamente, venendo dalle avanguardie storiche alle neoavanguardie: Testuale apprezza e rivaluta, dove sia possibile, i tentativi del ‘900, tuttavia si pone il problema (chiamiamolo pure scientifico) di riprendere quelle analisi al di là di vane retoriche, di giochi verbali… E le nuove scienze, le neuroscienze e la psicoanalisi – secondo la visione (discutibile?) del sottoscritto e la lezione di Gramigna, propongono in proposito strumenti inediti preziosi: [cfr. “La ragione poetica. Scrittura e nuove scienze”, 1994 Mursia, Milano – e Vita Storia Poesia Nichilismo”  Testuale 47-48, 2009, II Sem.]
Queste idee giustificano quella differenza che ho proposto in merito all’attività pubblicistica di Odissea e Testuale? Odissea mi pare si rivolga soprattutto ad una visione totalizzante della realtà prammatica. Di cui certamente anche la poesia fa parte, tuttavia in un contesto generalizzante che affronta tutti i modi e i nodi del vivere, in qualsiasi condizione vitale e pratica, e ancora, quando è necessario, sociale e politica. E storica. Testuale guarda piuttosto, l’ho già notato, specificamente alle vicende linguistiche, rivolte in particolare alla Poesia, e alla parola poetica in generale.

Qualcuno potrebbe chiedersi, in merito a quel lavoro analitico di Testuale: ma il linguaggio stesso non è l’espressione, il racconto della Storia? Il linguaggio in generale e in particolare quello poetico?  Possiamo cogliere qualche pietra di paragone guardando al passato (che è anche un presente innegabile). Alle origini della nostra vicenda linguistica. Dante, con la Commedia, nell’Inferno e nel Purgatorio, abbraccia poeticamente le mille vicende prammatiche della storia del suo tempo: quindi (come ho osservato per imprese quali la tua Odissea) non s’adopra esclusivamente a misure letterarie. Va facilmente notato tuttavia che l’azione rivoluzionaria del linguaggio poetico fa parte del suo straordinario progetto: la scrittura, considerando il latino destinato alla decadenza, e il volgare in ascesa, svolge una profonda innovazione, rivoluzionaria appunto, nei confronti di ogni rapporto umano fattuale e linguistico. Dante con la Poesia fa la rivoluzione. In lui quindi la Poesia è rivoluzione. Attraverso il Canto poetico cambia il mondo. Ed è tanto nuova in assoluto la sua presenza linguistica che fa nascere, a fronte della stanca classicità, uno strumento di comunicazione che ancor oggi segna la nostra lingua nazionale. Non solo: l’ibridizzazione sopra notata (tre linguaggi in uno) comporta una varietà di risonanze che ancor oggi rendono disciplinarmente discutibile la loro comprensione. Possiamo dire di una avanguardia per la Commedia? In senso moderno? Il risultato linguistico, poetico nel senso che oggi, come ho osato sostenere, rompe gli schemi e modifica le visioni è quindi quello di una difficile lettura che annuncia tra verso e verso, tra lemma e lemma, una nuova visione della Parola, e dei suoi segni originari. L’ibridizzazione, forse, si rinnova nel Paradiso là dove la visione celeste – quindi squisitamente mentale – si libera della sostanza della Storia. E delle sue discutibili esigenze prammatiche.
Sarà Petrarca che condurrà il linguaggio alla liberazione più ardita, rendendolo essenziale, fuor da ogni pragmatismo, per cogliere l’essenza della Parola Poetica, vorrei dire – se la definizione non si prestasse ad equivoci – assoluta. Fuor da ogni preoccupazione puramente comunicativa.
In Odissea momenti, che potremmo definire storico-totalizzanti (anche là dove si pubblicano stati soggettivamente poetici), danno, a mio avviso, una precisa collocazione della rivista nell’ambito della realtà storico-prammatica che quotidianamente viviamo (con qualche difficoltà!).
Non so se tu possa essere d’accordo: comunque se tu volessi, e ne sentissi la necessità, si potrebbe in merito a tutti gli accenni di cui sopra (il discorso ovviamente è assai più complesso), avviare un dibattito. Oggi, quando ancora rinasce la diatriba fra la convinzione di una Parola Poetica che condanni diverse difficoltà di lettura, e voglia insistere su una Poesia (o musica, o arte) di facile approccio. Ma quale facile approccio si può mai prevedere per una situazione che viene dal profondo, da una sorta di quarta dimensione, da un universo altro?
Un affettuoso saluto.
Gio Ferri

 





BARBARA GABOTTO

Barbara Gabotto




















Saetta
canzone – musica di Giacomo Guidetti


Non eri neanche nata che subito un tabù
divenne il tempo speso a meditarci su,
un bel taglio cesareo e non pensarci più,
“A sceglier quando nascere non sarai certo tu!”
Ma sperasti nei tuoi primi dì
non sarebbe durata così.

Ancora non parlavi e già con gran rigor
t’imposero d’un botto i ritmi del lavor.
Passando dal tepore di culla e i sogni d’or
al traffico da trauma, lo smog ed il rumor,
ti chiedesti nei tuoi primi dì
se sarebbe durata così.

“Un nido riscaldato non si trasformerà
in uno sforna-automi per chi poi li userà.
Se sarò a tutto campo, lo sento, ci sarà
chi le mie belle doti un giorno apprezzerà”.
Già sognavi un futuro così,
finché un giorno la scuola finì.

Però questo non basta: “Chi ti rafforzerà
saranno stage e master, e tutti da pagar.
Gratis non vale niente il credito che hai,
non sono dei parcheggi, lavoro troverai.”
E di questo convinta anche tu
ti buttasti nei corsi di più.

Ti chiamano Saetta e tu ne sai il perché:
perché fai tutto in fretta, più celere non c’è.
Gatto con gli stivali della fiaba che fu,
pronta per ogni caso, in ogni ruolo tu.
E di lì fu la storia che ti segue ancor’ora.

“Affilati le mani, acchiappa ciò che puoi,
che importa se il domani non è come lo vuoi,
pensa solo ai contratti, la vita viene poi,
anche se poi non viene, te la facciamo noi!”
Rincorrendo progetti così
si smarrirono tutti i tuoi dì,
e delusa che mai arrivi un sì
la tua testa un bel giorno svanì.






GIACOMO GUIDETTI


Giacomo Guidetti



















Homo zappiens

Seduta davanti a me, in metropolitana, c’è una successione di persone, per lo più di giovane età e di sesso femminile, con la testa bassa, assorte, incantate, con le mani ravvicinate e impegnate, come se stessero svolgendo un rito religioso. Ma non reggono un messale (o una bibbia, un corano...) né armeggiano con un rosario, eppure quell’arnese che picchiettano con le dita con tutti i metodi possibili li cattura in un modo paragonabile a un incantesimo mistico. 
Scendo dal treno, e con me alcune di queste persone senza sollevare il capo né staccare gli occhi dall’aggeggio. Una ragazza mi investe, si scusa ma non mi degna di uno sguardo, non può assolutamente essere distratta da altro, ciò che le compare sullo schermino richiede un’inderogabile priorità, come un codice rosso. Poco più avanti mi scontro con un giovane che non si scusa, si irrita, e giustamente a suo parere: sono io che devo stare attento, non avendo la vista impegnata in altra, importantissima occupazione.
All’uscita devo attraversare la strada, il semaforo è diventato rosso per me, ma un’auto che avrebbe il via libera non si muove. Qualcuno le strombazza dietro, la ragazza alla guida solleva finalmente la testa e si accorge di avere il verde, riparte, tiene il volante con la mano sinistra e guarda la strada con un solo occhio, l’altro impegnato a controllare ciò che sta scrivendo con la mano destra. Nel traffico cittadino si procede lentamente, ma cose analoghe le ho viste sulle autostrade a velocità sostenute.
Incuriosito dal fenomeno, ho cominciato a sbirciare negli smartphone che di volta in volta ho incontrato, per strada, sul metrò, in treno, nelle sale di attesa, per capire cosa mai può essere tanto attraente da richiedere un tale livello di dedizione.  Qualche volta, non spesso, sono normali informazioni, altre volte si tratta semplicemente di giochetti con palline colorate, un po’ stupidi ma niente di più; prevalentemente gli utenti chattano sui social network (il più visitato è senza dubbio Facebook), si inviano messaggi per raccontare le proprie vicissitudini o per spettegolare, osservano compiaciuti fotografie di loro stessi o della propria cerchia di amici e parenti, e magari in contemporanea ascoltano qualche canzone con gli auricolari.
Sia ben chiaro, io non demonizzo affatto né questo né alcun altro strumento tecnologico, e uno smartphone ce l’ho e lo uso anch’io, dipende solo dal come e dal perché lo si adopera, nel senso che la sua validità è massima solo quando riusciamo a servircene restandone ben separati, esterni ai suoi meccanismi. Quando invece diventa un prolungamento, una protesi del proprio cervello, come di fatto è per i famosi sempre connessi (il 55% dei giovani sotto i trent’anni) e per la massima parte degli utilizzatori di social network (il 90% degli stessi), il pensiero prende la forma della gabbia in cui è costretto.
Un amico diceva che il display è lo stagno di Narciso, ed ha lo stesso effetto funesto. Lo schermo dello smartphone è indubbiamente uno specchio virtuale, dove si può continuare ad osservare se stessi e ciò che ruota intorno a se stessi, distraendosi dall’osservazione del resto del mondo che non ci riguarda direttamente e immediatamente. Ma è anche illusorio: lo smartphone (come del resto il computer) è una cimice che spia i nostri comportamenti, per meglio condizionarci. E’ insomma uno specchio semitrasparente.
Una recente pubblicità televisiva prometteva un’estate sempre connessi, mi è immediatamente venuto da pensare: “sai che palle, almeno in vacanza bisognerebbe fare qualcosa di diverso dal solito”, ma evidentemente ciò non vale per le dipendenze, perché anche questa lo è, come le droghe o il gioco d’azzardo, con gli stessi meccanismi neuronali. La questione quindi ancor più che culturale interessa la fisiologia, sono coinvolti sia il sistema percettivo che quello emozionale, e specifiche aree del cervello, già predisposte alla riflessione analitica, vanno sempre più specializzandosi per fornire risposte immediate, in un certo senso tornando molto indietro nel tempo, ad uno stato primordiale dove la risposta istantanea è essenziale per la sopravvivenza.
In America i sempre connessi vengono dagli studiosi definiti come appartenenti a una nuova specie cognitiva, Homo zappiens, in cui gli apprendimenti avvengono per quanti di informazione piuttosto che per flussi continui. Da noi si usa chiamarli biomediatici o cyborg (ossia sintesi di uomo e macchina, avendo quasi incorporato gli strumenti di comunicazione). Utilizzano la rete per connettersi prevalentemente coi propri simili, cercano conferme alle proprie opinioni scarsamente motivate, si esprimono sinteticamente ed emotivamente, con frasi tanto contratte da somigliare a slogan più che ad opinioni ragionate, ed esibiscono il proprio io fino al parossismo.
I confronti avvengono per lo più all’interno dei social network, sistemi chiusi, sigillati, per interagire coi quali si può solamente aderirvi, dove si giudica con puerili e ultraschematici “mi piace/non mi piace”. E poiché non si può essere asociali, è la gente stessa che ti costringe a inserirti, prima o poi e inevitabilmente, in questi circuiti-trappole. Se non sei iscritto verrai tagliato fuori.
Il fenomeno mi ricorda il Mito della Caverna di Platone, dove i prigionieri vedono soltanto in una direzione ombre bidimensionali e si convincono che queste siano le persone reali. Tutto ciò che esiste per loro non è intorno, ma sul fondo della caverna, e il peggio nasce se vengono portati fuori, non riconoscendo il mondo reale e la luce del sole. Per essi la realtà è tutta lì, tanto che su quest’assunto qualcuno ci ha addirittura costruito un partito politico, sostenendo che questo sistema di relazioni è il più democratico possibile.
Certo anche questo è sintomo di una radicale trasformazione culturale, addirittura antropologica come l’ha definita qualcuno. E’ la direzione stessa della conoscenza che si sta trasformando, verso un uso immediatamente utilitaristico e di settore, dove contano le specifiche competenze, per scopi pratici e immediati, mentre si affievolisce soprattutto la funzione formativa, e la curiosità è deviata su argomenti futili, frequentemente riguardanti solo una ristretta cerchia individuale.  Tutta la cultura giovanile si sta forgiando in tal senso, dove la velocità è valore supremo, nella ricezione e nella risposta, che non può essere che dettata più dall’emotività del momento che da un calibrato ragionamento. A questo genere di cultura fanno da contraltare abissali ignoranze, come quella pressoché totale della geografia, il che nell’era globalizzata diventa uno strambo paradosso, o della storia, soprattutto nella successione temporale degli eventi, con errori di secoli se non di millenni (e verrebbe anche da chiedersi come mai si è così ridotta la capacità di memoria da dimenticare quasi subito ciò che si è imparato a scuola). D’altronde quando il mondo è tutto lì, in uno schermo, non c’è più differenza fra qui e là, fra prima e dopo, e nemmeno quindi fra causa ed effetto o continuo e discontinuo.
L’interpretazione degli sviluppi è certamente problematica perché riguarda un sistema assai complesso, caotico, di quelli difficili da prevedere anche a medio termine, come nella meteorologia.
Per chi poi come me è di una generazione lontana, anzi proprio di un’altra era, è ancora più complicato affrontare questi fenomeni (che a dire il vero anche dai più giovani vengono affrontati assai male). Possiamo tentare di effettuare delle analisi, ma non di trovare delle risposte, è la nostra forma-mentis che ce lo impedisce.





LEANDRO FOSSI

Gaccione tra Leandro Fossi e la moglie Ambretta  









La veglia dei cari estinti*

  
Mio fratello mi ha telefonato che la nostra vecchia casa, disabitata da circa tre anni da quando è morta nostra madre, verrà demolita. Nell’areaverrà costruito un condominio di sei appartamenti.
Non andarla a vedere per l’ultima volta prima che venisse abbattuta, mi sembrava di mancare di rispetto alla memoria dei miei genitori. Poiché abito e lavoro a duecento chilometri di distanza, decido di partire nel tardo pomeriggio dopo l’orario d’ufficio. Quando arrivo e scendo dalla macchina ci si vede ancora e si sentono gracidare le rane. Lì vicino hanno costruito un laghetto per la pesca sportiva. Ho intenzione di fermarmi non più di mezz’ora, il tempo per entrare, dare un’occhiate alle stanze e scovare qualche oggetto grazioso da prendere per ricordo, che non sia troppo ingombrante, se no mia moglie mi impedisce di portarlo in casa. Sono costretto a forzare la chiave per aprire la porta, con il rischio di spezzarla. Varcata la soglia, mi investe una zaffata di chiuso e di muffa. Quante volte ho detto a mio fratello di venire ad aprire le finestre per cambiare l’aria! Io non potevo, abitavo troppo lontano.
Mi precipito a spalancare la porta finestra della cucina per far uscire il cattivo odore; sul tavolo vedo un paio di occhiali rotti, nel ripiano del mobile della televisione una scatola di latta per biscotti con dentro l’occorrente per cucire. Ho la sensazione che la casa sia ancora abitata e un irrazionale senso di paura mi pervade. Mi guardo attorno e mi aspetto di vedere da un momento all’altro qualcuno davanti. Questa sensazione, anziché diminuire, si accresce notando che nei mobiletti pensili lungo la parete: ci sono piatti, bicchieri e posate pronti per essere usati, pacchi di pasta incominciati, una scatola di pomodori pelati… Nell’ultimo mobiletto sopra il lavello scorgo tra i tegami la grande pentola con lo scolapasta incorporato. Veniva utilizzata la domenica per le tagliatelle fatte a mano. Mi torna vivida l’immagine di mia madre davanti ai fornelli che solleva lo scolapasta in mezzo al vapore che esce dalla pentola. Noi - io, mio padre e mio fratello-, già seduti a tavola, la guardavamo in silenzio con gli occhi spalancati come se compisse una magia. Lei si girava e ci sorrideva. Ma subito una visione sgradevole mi distoglie da questi ricordi gradevoli. Dentro il lavello scopro i resti dello scheletro di un uccello. Penso che abbia fatto una fine orrenda e sia morto di sete. Dalla grandezza potrebbe essere stato un merlo o un rondone oppure uno storno, che, entrato, non è più riuscito a trovare una via di fuga. Sono ancora visibili il piccolo cranio bruno, la cassa toracica e la fragile intelaiatura delle ali, simile a una foglia secca.
Raccolgo con raccapriccio quei pochi resti servendomi di un foglio di giornale e li getto nella pattumiera fuori della porta. Poi salgo al piano di sopra per andare in bagno a lavarmi le mani sperando che l’acqua corrente funzioni ancora. Apro il rubinetto del lavandino; per un po’ borbotta, poi vedo sgorgare a fiotti un liquido ferruginoso di un rosso scuro, denso e brillante. Sgrano gli occhi per lo spavento, poi mi metto a ridere: non è sangue, è solo ruggine che si è depositata sulla tubatura. Intanto le rane hanno smesso di gracidare, si è fatto buio e la notte si preannuncia livida, senza luna né stelle. Oramai è tardi, non posso tornare indietro. Per la miopia faccio molta fatica a guidare di notte, specie in autostrada. Scendo di nuovo di sotto per continuare la visita nel salotto accanto alla cucina. Ricordo che restava quasi sempre chiuso; io e mio fratello non potevamo quasi mai entrarci per non metterlo in disordine. Veniva usato per il pranzo di Pasqua e di Natale e le rare volte che avevamo un ospite di riguardo.
“Oggi si mangia in salotto”, diceva mia madre con voce allegra. Noi, non solo ci lavavamo le mani, ma ci presentavamo a tavola più ordinati del solito.
Le stoviglie e le posate buone venivano tenute nel mobiletto basso insieme alle tovaglie di lino e ai tovaglioli. Pensavo di trovare il servizio da caffè di porcellana rosa pallido con il fondo bianco, ricevuto dai miei come dono di nozze.
Ricordavo ancora l’urlo di mia madre quando mio padre inavvertitamente aveva fatto cadere una tazzina. Le erano venute le lacrime agli occhi mentre si piegava sulle ginocchia per raccogliere i pezzi sperando di poterli riattaccare. A me e a mio fratello ci veniva da sorridere perché ci aveva sempre proibito di toccarlo…Oltre al servizio da caffè, pensavo di trovare qualche altro oggetto che mi avrebbe fatto piacere portare via: ad esempio il macinino del pepe a manovella ereditato dai nonni, la zuccheriera con il bordo argentato, il contenitore del formaggio grattugiato da mettere in tavola… Aperti gli sportelli, constato con rammarico che prima di me ci deve essere arrivato qualcun’altro, forse mio fratello, perché ci sono rimaste solo poche cose scadenti. Scopro tuttavia, inaspettatamente, sotto dei tovaglioli consunti, delle agende. Provo un tuffo al cuore e, sento un brivido di commozione nel riconoscere la calligrafia di mia madre. Lei si vantava di avere una calligrafia chiara ed elegante, non a “zampe di gallina”, come mio padre. Le agende, una decina      -sicuramente un dono di mio fratello che lavorava in banca- riportano l’elenco delle spese sostenute quotidianamente. Alcune pagine sono rimaste in bianco, mi sento penosamente imbarazzato: in nessuna pagina compare la voce di una spesa fatta per andare al cinema, a teatro, a un concerto o per qualsiasi altro svago. Quando ci telefonavamo le chiedevo se aveva bisogno di denaro. Cosa vuoi, si schermiva, sono anziana, la pensione è più che sufficiente. Anche le spese che aveva registrato erano talmente modeste da accrescere il mio senso di vergogna.
Continuo a sfogliare le agende anche quando salgo le scale per andare al primo piano dove ci sono le stanze; a metà gradinata rischio di cadere non guardando dove metto i piedi.
La camera dei miei appare come l’ha lasciata mia madre: il letto matrimoniale è rifatto con una coperta pesante; era d’inverno quando mia madre è stata portata all’ospedale, dove è deceduta. Apro le persiane a fatica perché i rami del nespolo del Giappone che si trova nel giardino davanti alla casa sono talmente cresciuti da arrivare all’altezza della finestra.
D’estate attirava molti uccelli che venivano a beccare i suoi frutti gialli.
Sotto il cuscino, nella parte dove si coricava lei, c’è ancora la sua camicia da notte azzurra. I mobili dell’arredamento erano il suo orgoglio: diceva che erano stati costruiti da un bravo artigiano con legno pregiato, addirittura di noce. Si vantava soprattutto del grande armadio con i bordi intarsiati e la specchiera in mezzo, davanti alla quale da ragazzo mi esibivo a fare boccacce e ad improvvisare comizi.
I mobili, secondo l’esperto incaricato da mio fratello, sono risultati invece fabbricati con dei pannelli di truciolato con sopra una sottile pellicola di legno di noce.
Sul ripiano del comò vedo eretto un altarino con le fotografie dei parenti defunti. Le fotografie sono state ingrandite e incorniciate. C’è quella di mio padre, quella dei nonni materni e paterni, quella di uno zio morto in guerra: è in divisa con le fasce intorno alle gambe, quella di una ragazza giovane dal viso molto bello che non ho mai conosciuto. Apro il primo cassetto per cercare una foto di mia madre; da dentro si leva un sottile profumo di cipria e quello, meno gradevole, di una sostanza oleosa. In una scatola, circondata da tante cianfrusaglie: una candela, una spazzola per abiti, un pettine privo di un dente, tante forcine per capelli, trovo molte fotografie. In quelle più recenti mia madre porta sulle spalle uno scialle di lana fiorato, lungo e senza frange che le avevo regalato per il suo settantesimo compleanno. Lo scialle è ancora dentro l’armadio, appeso sopra il tailleur grigio scuro che indossava il giorno del mio matrimonio.
Trovo una foto molto vecchia che ritrae tutta la famiglia. Mio fratello doveva avere pochi mesi; porta una cuffietta bianca ed è seduto sulle ginocchia della mamma, io sto in piedi di fianco a lei e le arrivo all’altezza della spalla. Mio padre è in piedi dietro di noi, ha il collo magro e già allora si notava che era di salute cagionevole. Un’altra foto mi fa sorridere e mi mette tenerezza. Immortala il giorno della mia cresima: mi ritrae inginocchiato su un inginocchiatoio di legno con un libricino fra le mani giunte e un fiocco di raso color crema legato al braccio. Non ho un’espressione allegra: ho la faccia imbronciata e le orecchie a sventola, dovevo essere uno di quei bambini che non ispirano simpatia. Guardo l’orologio e mi accorgo che si è fatto tardi. Non vedo altra soluzione che coricarmi nel letto rifatto. L’indomani devo essere in ufficio non più tardi delle dieci: entro il mese ci saranno le promozioni; sono tre anni che attendo la nomina a dirigente. Per essere lucido, devo assolutamente dormire almeno un paio d’ore. Mi tolgo le scarpe, i pantaloni e la giacca e mi infilo sotto le coperte, coricandomi nella parte di mio padre per non venire a contatto con la camicia da notte della mamma.  
Le lenzuola sono fredde e umide, ci sarebbe voluto per riscaldarle il “prete” con dentro lo scaldino caldo che adoperavano i miei nonni… Rabbrividendo mi giro sul fianco destro stringendo le braccia sul petto; di solito è la posizione che mi aiuta a prendere sonno. Mentre stavo sprofondando nel dolce torpore del dormiveglia, sento qualcosa che si muove sulla coperta, forse un topo. La casa è stata abbandonata per tanto tempo, non è improbabile che qualcuno abbia trovato comodo sistemarsi qua dentro. Spalanco gli occhi e mi metto in allerta. Nel buio fitto sento arrivare dei lamenti, delle voci piene di tristezza come un canto funebre bisbigliato a bocca chiusa. Sono convinto che provenga dai defunti delle fotografie e anche se è buio vedo che mi stanno fissando con le facce aggrottate. Che cosa vi ho fatto? chiedo ingenuamente. Perché non mi lasciate dormire?
I lamenti continuano e si confondono con quelli del vento che soffia fra i rami del nespolo. Balzo dal letto e vado a riporre tutte le fotografie incorniciate nel primo cassetto del comò. Così smetterete di smaniare e di tenermi gli occhi addosso! Torno di nuovo sotto le coperte e mi corico sull’altro fianco. Trascorso un po’ di tempo, vedo mia madre e i parenti defunti, delle fotografie, mettersi in silenzio intorno al mio letto. La loro presenza non mi spaventa. I loro volti sono sereni e tranquilli, mi fanno capire che la morte non è così tremenda come si pensa e che non è vero che i morti non possono comunicare con i vivi.
“Dove state, che cosa fate tutto il giorno?”, gli domando. Le mie parole interrompono la loro immobilità. Sorridono e mi guardano con dolcezza.
“Dove vuoi che stiamo!” risponde qualcuno, forse mio nonno materno cui ero molto affezionato. Era tra tutti i parenti quello più prodigo di regali.
“Sono per caso morto anch’io? Perché mi trovo in mezzo a voi?”, chiedo con ansia.
“Tu sei ancora tra i vivi, non preoccuparti!”, risponde mia madre.
“Presto le ruspe distruggeranno ogni cosa. Tutto quello che c’è qua dentro verrà disperso. Ho il cuore a pezzi”.
“Non disperarti, è una legge di natura”, dice ancora mia madre. Gli altri la ascoltano attentamente.
“Sì, però non è giusto. Ho dei rimorsi, un sacco di rimorsi, come se io e mio fratello vi volessimo cacciare… Ho timore che anche in passato non mi sia comportato bene”.
“Cosa stai dicendo?”, protesta mia madre.
“Vorrei tornare indietro e ricominciare da capo. Mi sembra di non aver combinato niente di buono…”
“Tutti lo vorremmo”, ride mio nonno. “Purtroppo non è possibile”. Ora sono sicuro che era stato lui a parlare. Anche la nonna, che le sta accanto, si mette a ridere.
“Se non ti fanno dirigente non affliggerti, non è importante. Sono altre le cose  più importanti”, interviene mio padre. Parla con fatica come negli ultimi anni prima di morire.
“Che cosa lo è?”, chiedo.
“Se ti rimorde la coscienza dovresti capirlo da solo”.
Non ho tempo per ribattere e porre altre domande. Dalle persiane un raggio di sole  attraversa la coperta del letto e le persone che mi stavano intorno si disperdono come nebbia.
La stanza è sommersa di luce, sento il cinguettio degli uccelli e mi sembra di sentire in lontananza lo sferragliare delle ruspe. Tra breve arriveranno a compiere il loro lavoro di distruzione, a mordere e a scavare e ridurre la casa a un cumulo di macerie.
(*Leandro Fossi è scomparso a Milano nell’agosto del 2013. Questo racconto è inedito e postumo, Leandro lo aveva scritto nel Dicembre 2008)


 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      LUIGI TASSO                                                                                               
Luigi Tasso

                                                                                                                                                                                                                                         





UN FIUME CHE PASSA SOTTO CASA
Acqua e cemento: una lotta ìmpari

È stato Gabriele* che mi ha incontrato l’altro giorno sulla spiaggia, mi ha spiegato l’iniziativa per i dieci anni di “Odissea”, e mi ha detto: “Dovresti scrivere anche tu qualcosa per l’occasione. Che ne so: qualcosa sulla carta, o qualunque cosa ti stia veramente a cuore in questo momento…”.
Certo, potrei rifugiarmi sul professionale, e denunciare quanto sia sbagliato, demagogico e miope giustificare come scelta ecologica l’uso di Internet e dei mezzi elettronici al posto della carta. Usiamo pure altri argomenti, ma per favore non quello ecologico! Potrei scriverne per pagine e pagine col sostegno delle associazioni di categoria. Ma invece no, questa volta preferisco la seconda opzione del professore, preferisco parlare di qualcosa che mi sta particolarmente nel cuore, in questo momento. Scriverò dunque di come ci si deve comportare quando si scopre di avere un fiume che passa sotto casa. Premetto che stiamo ristrutturando casa. Avevamo detto all’impresa: “Secondo noi che ci abitiamo c’è molta umidità”.
 “Non c’è problema” ci hanno risposto, “con i mezzi attuali risolviamo ogni questione di umidità!”.
A luglio dell’anno scorso, il primo passo è stato l’arrivo di un Geologo, con la G maiuscola e un invidiabile armamentario di sonde e perforatori. Ci ha fatto mezza giornata di fori in giardino.
“Non c’è problema” ci ha rassicurato, “la falda acquifera passa 6 metri sotto la superficie del suolo. La casa è secca”. Noi ci siamo sentiti subito meglio: secondo le misure della scienza, non era la casa ad essere umida, eravamo noi a sentire bagnato. Eravamo dunque noi quelli sbagliati, e abbiamo seriamente considerato di sottoporci ad un trattamento di analisi presso uno specialista. Poi abbiamo lasciato perdere: avevamo già abbastanza spese.
Tronfi comunque di questi risultati, passa il tempo, noi ce ne andiamo temporaneamente in un’altra abitazione, e l’impresa comincia la ristrutturazione. A marzo, dopo un periodo di brutto tempo e piogge, arriviamo al clou dei lavori: il nuovo bow-window in giardino. In ossequio alle nuove paterne norme antisismiche, lo si deve sostenere in una gabbia di pilastri in cemento armato, larghi 30 cm, e penetranti almeno 8 metri nel terreno. “Non c’è problema” ci garantisce l’impresa. Ed è qui, al terzo “non c’è problema”, che comincio ad avere paura: se uno cerca la sfiga, prima o poi la trova. E difatti, ecco la scena alla Ridolini: arriva la perforatrice, i tecnici specializzati abbattono il maglio per cominciare la perforazione delle fondamenta … e come la punta della trivella buca il suolo parte un gran getto di fango e acqua che inonda gli uomini e schizza fino in cima al secondo piano. Alla faccia del terreno secco!
Segue immediatamente la riunione di emergenza: specialisti e associati risondano, rimisurano, e chiariscono: sotto casa passa una falda acquifera, un torrente, che è sì a 6 metri di profondità in periodo di siccità, ma che si riempie e sale fino al livello del suolo non appena piove. Comunque “Non c’è problema” ci consolano, “risolveremo senz’altro la cosa”. Aiuto! – penso io.
Come ci si deve comportare quando si scopre che un fiume passa sotto casa? Beh, la prima cosa, quando lo si scopre, è un inevitabile, insostituibile attacco di panico. Con i sintomi tipici: insonnia, urla nel buio, pianto solitario negli autobus. Poi si razionalizza, ed è interessante scoprire la molteplicità delle opinioni per risolvere un caso come questo. Molti sono pronti a dare consigli. Anche gratis. Il migliore è stato un amico, dice di intendersene molto, ha avuto un caso simile. Mi spiega per filo e per segno: tre ore fitte di schemi e disegnini. Mi ha quasi convinto. E poi conclude: “Sai però, dopo tutto questo lavoro ho la stessa umidità di prima!”
“Non c’è problema” penso io.
La questione è di quelle fondamentali. O vinciamo noi o vince l’umidità. Mors tua vita mea. L’umidità è un nemico bruttissimo. È tenace, subdolo, e anche permaloso. Se lo combatti, devi usare tutte le armi che hai a disposizione. Senza pietà. Teniamo un rapido consiglio di famiglia e ci accorgiamo che oramai siamo in ballo: non ci resta che ballare. Ci prepariamo alla lotta.
Impariamo subito una cosa: l’acqua non si elimina. La si devia. L’unica notizia che trovo di acqua forse veramente asciugata è quella contenuta nella pubblicità di un deumidificatore (“Ti g’ha secà el canal” – ve la ricordate ?). Ma è una pubblicità, e tendo a non crederci.
Tra l’altro, l’impresa ristrutturatrice smette di dirci che non c’è problema, e risale di molti punti nella scala della mia fiducia. Adesso ci assiste molto e ci consiglia.
Decidiamo di creare una trincea tutt’intorno alla casa e dei solchi sul fondo della stessa. Dovremmo così intercettare la falda in arrivo e convogliarla verso la fogna senza che stazioni sotto casa. E questa è la parte facile da capire. Poi però si tratta di non succhiare nel pavimento e nei muri verticali l’umidità che comunque resta. E qui il lavoro si fa arte.
Io non sono un esperto di opere civili, neanche un dilettante o un apprendista: al massimo sono un aspirante, e non mi è facile capire i termini tecnici specifici di chi ci espone le sue soluzioni. Da come mi sembra di capire, in linea di massima, ci propongono malte e cementi speciali, da mettere per terra o sulle pareti, che fanno evaporare un po’ di più lì, o sono un po’ più impermeabili là.
Ci presentano anche gli “igloo” (degli sgabelli che distanziano il pavimento dal suolo, e permettono il passaggio di aria e impianti al loro interno): noi ci innamoriamo del termine esotico (mi ricorda tanto l’amata Finlandia), e decidiamo di metterne senza risparmio.
Vengono anche con pifferi e fischietti (sempre dal Veneto: sono grandi specialisti da quelle parti), e ci propongono di fare delle flebo ai muri con sostanze più o meno farmaceutiche: dicono che per gli affreschi del Canal Grande hanno fatto miracoli.
Molte idee, molte proposte. Un po’ perché non sappiamo gran che decidere, un po’ perché siamo determinati ad usare la più grande potenza di fuoco disponibile contro il nemico, alla fine concludiamo di adottare il massimo delle soluzioni che ci paiono intelligenti: trincee e solchi, malte e cementi speciali, igloo e flebo.
Ora molto si è fatto. I lavori proseguono, e se Dio vuole rientreremo a casa nel prossimo inverno. Volete però sapere come va a finire la storia del fiume sotto casa?  Francamente non lo so ancora, e bisognerà aspettare di tornarci ad abitare per potere veramente dire se avremo vinto l’umidità. Ve lo racconterò a suo tempo in un nuovo scritto, se vorrete. Non c’è problema.
Sì, questa storia è per ora senza conclusione, ma ci ho tenuto a raccontarla lo stesso perché, caro lettore, sinceramente, è quella che mi sta veramente nel cuore in questo momento.

*Si tratta del nostro collaboratore, Gabriele Scaramuzza, docente universitario e filosofo.

*Luigi Tasso è un ingegnere elettronico nato a Genova, che fin dal 1974 è vissuto nel mondo della carta, in particolare occupandosi dell’automazione della sua produzione.  




MICHELA BEATRICE FERRI


Michela Beatrice Ferri















Breve viaggio alla riscoperta di Berkeley,
nel cinquantesimo anniversario del Free Speech Movement

Nella tarda mattinata di venerdì 28 marzo 2014 attraversavo per la prima volta in vita mia il Sather Gate, progettato dall’architetto John Galen Howard e realizzato da Giovanni “John” Minghetti nel 1910. Passeggiavo nel campus della University of California a Berkeley. Era una giornata di sole, e il sole in California rende ancor più “californiani” i luoghi, soprattutto quei luoghi che hanno fatto la Storia. Passeggiando, discutevo con mio marito – ingegnere informatico, che si trova a suo agio nella patria dei computer scientists – di che cosa accadde cinquant’anni fa in questo ateneo fondato dal sacerdote congregazionalista Henry Durant.
Non è detto che tutti i fondatori di ciò che assume toni “grandiosi” siano mossi da consapevolezza. Nel caso specifico della creazione dell’ateneo di Berkeley, senza alcun dubbio padre Henry era del tutto inconsapevole di quale importanza avrebbe assunto questo luogo, che divenne uno dei centri universitari tra i più prestigiosi al mondo. La University of California nacque il 23 marzo 1868: “Fiat lux” è il motto che viene scelto per questa nuova istituzione, la prima università di questo Stato americano.
Fu l’avvocato Frederick Billings, di San Francisco, a suggerire di dedicare il luogo a George Berkeley, teologo e filosofo nato a Kilkenny, in Irlanda, nel 1685 e morto a Oxford nel 1753. Prima di morire George Berkeley aveva fatto pubblicare i suoi “Verses on the Prospect of Planting Arts and Learning in America”, che contengono i celebri: «Westward the course of empire takes its way; / the first four Acts already past, / a fifth shall close the Drama with the day; / Time's noblest offspring is the last». Frederick Billings pensò che altre parole non avrebbero potuto essere più appropriate per celebrare ciò che i fondatori delle colonie americane crearono superando le rovine della vecchia Europa (“Il corso dell’Impero è volto ad Occidente”).
Penso, però, a una “ripresa” più che a un “superamento”. Cammino verso la Sather Tower, completata nel 1914 e chiamata anche “The Campanile”: il soprannome le è stato dato per la visibile somiglianza al campanile di San Marco a Venezia. Ancora una volta l’architetto John Galen Howard non poté fare a meno di riprendere uno stile europeo!
Berkeley accolse l’italiano Emilio Segrè e il polacco Alfred Tarski, e molti docenti emigrati dal continente europeo. Purtroppo non ha il merito di avere assegnato il primo Ph.D. in Computer Science: ad ottenerlo fu -e immagino il lettore sorpreso, mentre legge- suor Mary Kenneth Keller presso la University of Wisconsin-Madison, nel maggio del 1965, con una dissertazione intitolata: Inductive Inference on Computer Generated Patterns.
Nel settembre dell’anno precedente a Berkeley accadde ben altro: il 1964 avrebbe segnato la nascita del Free Speech Movement. A guidare questo movimento di protesta furono alcuni studenti, tra cui Mario Savio, Michael Rossman, Brian Turner, Bettina Aptheker, Steve Weissman, Art Goldberg, Jackie Goldberg.
Dopo anni di tensioni interne al campus, il 14 settembre 1964 il colonnello Katherine Towle, in quegli anni Assistant Dean of Students, annunciò l’applicazione rigorosa dei regolamenti dell’ateneo, che vietavano l’utilizzo delle strutture universitarie per accogliere gruppi politici o per sostenere candidati, l’utilizzo di altoparlanti esterni e l’affissione di cartelli per messaggi politici. Il sistema universitario sembrava volere smorzare la fiamma del crescente desiderio degli studenti di Berkeley di fare entrare la politica nel campus. Alle spalle di questo evento vi è la nascita della cosiddetta New Left, vi è la crisi di Cuba, vi è l’assassinio di John Kennedy, vi è la guerra in Vietnam. Andare al fondo di questa vicenda per comprendere “chi” e “che cosa” veramente spinsero da una parte e dall’altra, è un’impresa ardua. Più ardua delle motivazioni che stanno alla base della creazione di una università.

Il Free Speech Movement può essere visto, cinquant’anni dopo, come l’esplosione di una serie di tensioni: il crescente abuso dell’area del campus per scopi politici ed una presa di posizione da parte dell’università -che in passato non aveva dato peso all’applicazione delle norme che avrebbero potuto regolare alcuni eccessi- per regolare la situazione, si scontrarono. Il movimento studentesco americano nasce il 1 ottobre 1964: quel giorno sulla Sproul Plaza del campus, Jack Weinberg venne arrestato mentre distribuiva volantini politici. Un gruppo di studenti guidati da Mario Savio bloccarono per trentadue ore l'auto della polizia su cui sarebbe dovuto salire Weinberg. Alcuni collezionisti si sono chiesti che fine abbia fatto quell’automobile.




ANITA GUARINO SANESI




Anita e Roberto Sanesi



















Confesso che mi accingo a pubblicare questa nota (ma forse dovrei definirla per quello che è: una delicata, generosa lettera di affetto) invaso da un forte senso di pudore. Tanto più preziosa, questa lettera, perché vergata da una donna non incline alle facili smancerie; eticamente rigorosa, intransigente quando necessario, a volte spigolosa, ma vera. Non credo oggi ce ne siano molte di donne con una personalità come quella di Anita Guarino Sanesi, in questa Milano sempre più distratta, compromessa e superficiale. Il poeta, artista, critico e traduttore Roberto Sanesi, che l’ha avuta come compagna fino alla fine della vita, lo considero fortunato. La caparbietà con cui Anita sta difendendone il grande valore di artista, è davvero ammirevole. Dal riordino e catalogazione delle carte, dei libri, delle opere visuali fino al Meridiano uscito da Mondadori, al recente bellissimo zibaldone dal titolo “Di te, di me, dell’albero” in cui Anita non vi profonde solo il suo affetto di moglie e di donna, ma ci restituisce una panoramica straordinaria di una temperie culturale ed intellettuale, dentro cui si muovono personaggi, idee, scritture, che hanno fatto la storia creativa di un sostanzioso segmento temporale dell’Italia e dell’Europa. (Angelo Gaccione)

                                                             ***

ANITA PER ANGELO

Come oggi la memoria ci avvolge. Ci richiama a pensare, a ripensare, a riflettere su ciò che abbiamo fatto e, nel gelo della diffusa indifferenza, a ciò che non abbiamo fatto. Per me, 13 anni fa, scivolata in un vuoto incolmabile, l'incontro con "Odissea" e il suo promotore,  la  voce del foglio nutrita di inusitata fierezza, gridata  per rivendicare la dignità dell'uomo in una società corrotta e imbecille, ha significato "Si può, si deve. Andiamo avanti". Certo, la protesta più o meno arrabbiata degli indignati, spesso fortemente intrecciata a interessi ideologici o visceralmente personali, c'è sempre stata ma in questa operazione c'è qualcosa  di diverso: c'è il segno della "differenza".  

Copertina del libro di Anita
Una differenza, soprattutto disegnata dalla totale libertà di ragionare in proprio, di dire con coraggio, di diffondere idee totalmente emancipate dal giogo del padrone. Portano il segno della differenza l'estrosa conduzione editoriale, economicamente indipendente, la presenza spontanea, generosa, silenziosa dei collaboratori.
 
Roberto Sanesi

Operazione difficile, umanamente straordinaria -fatica amicizia umiltà-. La voce veniva portata nelle case, di porta in porta, di persona, a piedi: a noi, gli abbonati di “Odissea”, svegliati, inchiodati ad ascoltare.

Roberto Sanesi
L’autore di questa per molti stravagante impresa è un “imprenditore” precario, un imprenditore non solvente, un imprenditore insegnante, un imprenditore senza dimora (ufficio). Un imprenditore, per dirla in breve, senza un soldo.

Roberto Sanesi e Angelo Gaccione


Ancora giovane, uomo gentile, estroverso, entusiasta della vita, entusiasta dell’amicizia, sorridente, rispettoso, acutamente capace di carpire le qualità del prossimo, travolgente nella parola sino allo spasimo delle sue povere corde vocali e delle nostre provate membrane auditive, suggeritore di iniziative, di proposte, di progetti e di rischi…


Visuale autografo di Sanesi
Creativo, sensibile, incazzato.
Come sottrarsi all’onda travolgente della persuasione che sa effondere un simile personaggio? Come non rispondere alle proposte che il suo intuito sostiene possibili? Alla forza della intenzionalità di muoversi verso un orizzonte, forse non conquistabile, ma possibile, da avvicinare, da interpretare, da capire, da analizzare.
Utile o inutile? Ho sempre pensato che ciò che conta è che Angelo ha occupato uno spazio di denuncia. Si scopre che qualcosa si può sempre fare reclutando (contro noia, fatica, paura) le capacità tenute archiviate nel proprio io. In questo Angelo ha la qualità di dare fiducia e speranza. È una qualità difficile da trovare. È presente solo in alcuni rari docenti. In questo caso in un docente imprenditore. Imprenditore “culturale”.
Altra rarità.








ALICE CAPPAGLI
 
Alice Cappagli

















DALLA PARTE DEL VIOLONCELLO

Più la cultura musicale in Italia viene trascurata, più i fondi riservati ai teatri di tradizione sono tagliati, più le categorie che hanno dedicato alla musica la propria vita sono praticamente abbandonate a se stesse e relegate nel recinto di “pubblica amministrazione”, più le Fondazioni sono alla mercé degli eventi e svendute sul mercato come inutili souvenir di un bel tempo che fu, e più la gente che si incontra per la strada è curiosa di conoscere i segreti del saper fare musica.
E’ un paradosso questo che almeno io che di musica vivo, constato praticamente ogni giorno e nelle più diverse situazioni. Succede un po’ come quando ai bambini è preclusa un’ala della casa in cui qualcuno vive da solo, e misteriosamente. Addirittura ci sono delle volte in cui, in vacanza, o in viaggio, o in un negozio in cui compro un vestito nero da concerto, cerco di evitare scrupolosamente l’argomento “lavoro” per essere sicura di poter centrare quando la tranquillità o quando lo scopo. Certo riconosco che sia ingeneroso da parte mia avere questo atteggiamento, e difatti è molto raro che mi sottragga a domande o considerazioni, però man mano che il tempo passa constato che questa curiosità  sta assumendo un connotato di fenomeno sociale. Ed è in aumento. Spesso mi fa dilatare i tempi di una commissione fino all’inverosimile, oppure quando sono in vacanza e qualcuno “sa”, vengo stanata da avventori occasionali corredati spesso da amici condotti appositamente per strapparmi qualche squarcio di vita musicale. Magari la domanda che vuole farmi uno non è la stessa che vorrebbe farmi un altro... La cosa poi si raddoppia dal momento che anche mio marito fa lo stesso mestiere, e quindi suona il violoncello  alla Scala come me. Meglio! Se le campane aumentano aumenteranno anche i punti di vista...e quindi non ci potremo mai sottrarre: quello che dico io potrebbe essere un aspetto  complementare di quello che dice lui, per esempio.


Questo fenomeno la dice lunga sia sulla sete conoscitiva di tanta gente, sia sull’insufficienza colpevole di chi amministra o crede di amministrare cultura e formazione. Non è mia intenzione fare una critica che implica competenze che non mi riguardano, ma è assolutamente certo che chi non ha avuto un contatto vero (neanche a scuola) con la musica, ne conserverà un’ idea o di mostro mitologico, o di mistero fitto. Quindi incontrare qualcuno che addirittura non potrebbe pagarsi una cena se non avesse dimestichezza con un mostro mitologico, diventa un’attrattiva.
Detto questo, la cosa più insolita che viene chiesta riguarda il perché suono proprio il violoncello e non il perché suono. Diciamo che in genere viene dato per scontato che il desiderio di suonare sia una cosa comunemente concepibile, ma il violoncello risulterebbe essere un oggetto insolito. Siccome la domanda è abbastanza frequente ma imbarazzante, ho provato a rivolgerla anche ai miei colleghi (molti dei quali anche ottimi solisti) confidando nella loro solidale collaborazione. Le risposte sono state spesso spiazzanti: “al conservatorio l’unico posto era di clarinetto e allora ho fatto quello,” oppure “l’unico strumento della scuola a disposizione era un contrabbasso”, o ancora  “era piena la classe di pianoforte e allora mi hanno preso a violino”, addirittura “volevo suonare qualcosa a fiato e mi hanno spedito a fagotto perché c’erano pochi allievi” etc.
Quindi la risposta “volevo assolutamente suonare la viola” o qualcosa del genere, l’ho sentita poche volte, anzi pochissime. Difatti ci sono non pochi musicisti professionisti che sanno suonare più di uno strumento proprio perché hanno faticato a ritenere sufficiente un solo mezzo espressivo.
Il problema quindi è proprio questo: esprimere. Si suona per avere un tramite fra se e il mondo. Diciamo che il famoso “oggetto transizionale” che il celebre psicoanalista Winnicott descriveva come un mezzo che consente al bambino di conservare la propria sicurezza soggettiva ma di instaurare un contatto col mondo, è per il musicista lo strumento musicale. Forse sembra un discorso semplicistico o addirittura ridicolo, ma non è affatto così:  una persona creativa che vuole comunque trasmettere il proprio messaggio con qualcosa di concreto, ha un numero finito di vie per portare a segno l’impresa. A meno che non sia completamente avulso dalla realtà o abbia qualche aspetto patologico.
Quindi le vie sono date da linguaggi che possano essere comprensibili agli altri ma anche accessibili al sé. Tolte le parole, le immagini, e perché no anche i profumi, resta il suono e con quello la possibilità di manipolarlo come fosse un’argilla a cui dare una forma plastica.
In questo senso il musicista esecutore e interprete ha mano libera nello scegliere la voce con cui dare corpo al proprio suono inteso come interiorità. E una volta preso uno strumento, ecco che sarà quello a prestarsi come tramite estremamente duttile, adatto a gettare il ponte fra l’esigenza di esprimere qualcosa di intimamente personale e l’ oggettività strutturata e comprensibile che potrà essere colta da terzi.
La cosa singolare è però proprio questa: l’esigenza di “cantare” l’interiorità travalica quella di scelta di uno strumento. Quando si ha la certezza di avere qualcosa da dire, lo si dirà comunque, e spesso oltre ad un’ inclinazione naturale che può condurre più verso uno strumento ad arco che ad uno strumento a fiato etc, giocano un ruolo anche il destino o le circostanze esterne. A volte però è anche accaduto il contrario: un futuro musicista si è ritrovato fra le mani uno strumento e si è improvvisamente accorto di essere capace di suonarlo, di avere avuto la fortuna di scoprire che quello era il suo mezzo espressivo più adeguato.
Ovviamente non è possibile diventare musicisti per caso, una base naturale ci deve essere per forza, l’orecchio è indispensabile e anche il senso ritmico, ma poi la determinazione dello strumento non è quasi mai una scelta solenne.  La scelta solenne piuttosto sarà nei confronti della musica stessa, un po’ come il cavaliere di un re sarà un ottimo cavaliere se saprà addestrare e curare a meraviglia il proprio cavallo. In ogni caso la fedeltà sarà giurata al re e non al cavallo.
Resta però il fatto che dopo, una volta che quello sia diventato il mio strumento, allora sarà il più adatto a riempire lo “spazio transizionale”, per essere il corpo del pensiero musicale che trova la sua realizzazione. Se io ho deciso che il violoncello sarà il mio strumento (e non ad esempio il pianoforte che pure ho studiato), allora troverò il modo di farlo parlare al posto mio di ciò che a voce non saprei mai dire. E nel caso in cui divenisse il mezzo che mi consente di vivere, farò in modo di averne cura e di mantenere la confidenza necessaria affinché mi possa ubbidire in ogni circostanza. Ubbidire almeno nella maggior parte dei casi, anche se non si tratta proprio di ubbidienza ma piuttosto di collaborazione.


E’ bene però sottolineare anche un altro fatto: il legame fra strumento e musicista non è del tutto pacifico perché, al di là del fatto che si tratta di un oggetto che congiunge la soggettività con l’oggettività, è anche vero che è comunque un oggetto con una sua complessa fisicità e che rimanda pari pari a me stessa quello che io sono. In altre parole funge anche da specchio, e a volte anche da specchio di qualcosa che non è indagato.
Risente dell’umidità, del secco, del calore e del freddo, cambia in base alle latitudini, necessita di accessori che possono essere sostituiti (come il ponticello, le corde), anch’esso esprime a volte delle sue necessità di messa a punto di cui si occupa il liutaio, e infine può più o meno collaborare con la volontà di chi suona (io o chi lo sa suonare). Tutto questo instaura un rapporto dinamico che ha conseguenze su chi suona. Io mi diverto a pensare che pure il violoncello abbia una sua volontà e che alle volte sia arrabbiato con me, oppure indulgente o addirittura entusiasta. So che non è così, ovviamente, ma che molto semplicemente il violoncello mi rimanda in termini musicali il mio modo di essere in determinati momenti della vita, perché alla fine lo strumento sono io. Neppure gli escamotage tecnici, o la professionalità, o la ripetitività del lavoro hanno un influsso su questa capacità di “ritorno” che lo strumento ha su chi suona perché il suono tradisce la vita  dell’inconscio e ne rivela la natura in ogni caso. Certo ci vuole buon orecchio e un’attenzione particolare alla coerenza di un’esecuzione per carpire questo rivolo sotterraneo, però esso ha la capacità di rivelarsi così come un piccolo corso d’acqua pur senza emergere inumidisce la terra.
Un’ultima osservazione riguarda la scelta dello strumento nella sua individualità e non più nel suo genere. Se io ho scelto il violoncello perché adatto alla mia vita espressiva e secondo me esaustivo, successivamente ne dovrò eleggere uno in particolare.
Direi che questo è l’aspetto davvero più difficile: non solo è questione di liuteria (ossia della fattura tecnica, del legno, della venatura, della proporzione, del prestigio storico di chi ha costruito il violoncello in questione, del valore di mercato), ma anche di vero e proprio feeling dato dalla personalità di quello strumento.
In genere si tratta di una scelta fatta all’interno di un certo percorso professionale. Una volta che si è padroni del suonare in tutte le sue possibilità tecniche e una volta che si è scoperto su cosa puntare per facilitarsi il compito di esprimere al meglio la propria capacità strumentale ed espressiva, solo allora sarà indispensabile fare la scelta. Tale scelta non è un patto di sangue ovviamente perché il mercato è piuttosto vivace, come pure l’offerta della liuteria contemporanea, però è indispensabile per svolgere adeguatamente la professione. Nel mio caso ho fatto la scelta principale (perché già avevo un buon violoncello) alla vigilia dei concorsi nelle orchestre, e li vinsi anche perché ben supportata da uno strumento ottocentesco particolarmente generoso nelle tessiture su cui puntavo io per convogliare l’espressione. Però adesso probabilmente farei un’altra scelta, potendo, e vista la tendenza generale che va ad un innalzamento dei decibel e una predilezione al virtuosismo, dovrei puntare su uno strumento molto più nervoso, reattivo, e facile da suonare dal punto di vista della forza fisica. Non credo che andrò di nuovo a caccia di violoncelli, piuttosto cercherò di “truccare” per quanto possibile il mio  in modo da sfruttare con meno fatica le sue capacità che in ogni caso non sono comuni.
Gli interventi di liuteria sono sempre una croce per gli strumentisti ad arco: ci vogliono pazienza, dedizione, molto tempo, concentrazione e infine parecchi soldi. I liutai sono una categoria elitaria e variegata, non tutti sono dotati di capacità diagnostica infallibile e non tutti sono in grado di intervenire con le dovute cautele. Non c’è differenza fra un medico e un liutaio: entrambi devono “auscultare” con buon orecchio, devono valutare l’insieme del loro “paziente”, devono scegliere la via migliore per curare, devono essere onesti sulle previsioni dei risultati, devono far tesoro dei riscontri e devono accettare le lamentazioni.
Come al solito, con il materiale vivo ci vuole sensibilità e non si può mai pretendere che a determinati protocolli seguano poi determinati risultati “necessariamente”. Nè un musicista né un violoncello (violino o viola etc) sono equazioni su cui si possa scientificamente intervenire.
Detto questo concluderei riallacciandomi al discorso dal quale sono partita: l’amore per la musica, la conoscenza dell’universo in cui si si muove la vita musicale, gli aspetti tecnici basilari, la scelta del tipo di repertorio su cui lavorare, le prospettive di lavoro in Italia e all’estero, la varietà della produzione storica nel campo classico, la distinzione fra categorie di strumenti e generi, dovrebbero essere cose pacificamente conoscibili e ragionevolmente illustrabili in ogni ambito didattico. Non solo nei conservatori. Utopistico?
Ma non siamo in Europa?
Sarebbe bello che la gente che incontro per caso e che mi chiede cosa faccio non si stupisse poi così tanto del fatto che esistano gli strumenti ad arco, che esistano professionisti, che il mondo musicale possa avere una vita sua e che tale vita sia anche intensa, spesso faticosissima, degna di rispetto da parte di chi ci governa  e  non solo pittoresca o incomprensibile... una volta mi hanno chiesto:
«Che lavoro fai?»
«Suono il violoncello»
«E ti pagano pure?»

 



 GILBERTO ISELLA 


Gilberto Isella













La mossa del rinoceronte

Mattina, risveglio caffeinico e  tapparella rialzata. L’ora  in cui tolgo la sordina agli umori e al sentire, ed ecco quel rovello che ogni giorno mi strapazza, puntuale come uno spot televisivo.  Riguarda un mio antenato, che da tempi remotissimi mi starebbe tramando alle spalle. Visione persecutoria, icona che subito si spezza e contraddice, e dopo avere per alcuni istanti urticato l’immaginazione precipita nel vuoto. Avrà legami con qualche ricordo reale, seppur alterato? Sembra piuttosto l’indizio strisciante di una cosa senza contorni, percezione allucinata di un’assenza, decorato oblio. Che posso fare? Solo questo: sforzarmi di ripulire e distendere la pelle della mente, esporla di nuovo intatta e farla brillare sotto il parabrezza. Ridar luce alla mia faccia ideale, sempre più infoschita, neutralizzare quella sorta di nonno impostore. La memoria è  artificio – mi dico - e quell’avo soltanto figura carnevalesca appiccicata al volto del tempo non redento.
Mi porto dietro, per l’appuntamento serale, tutto questo parco di ebetudine. La psiche arrossisce. Valentina è venuta in quel ristorante sul fiume per propormi di far sesso, chiavi-in-mano, vestita di nero come le avevo chiesto. Me lo fa capire con una sfumatura dell’occhio, con  calcolata enfasi nell’occupare la sedia.
 “Ti vedo distratto stasera, non so, forse non è serata giusta.”
 Ammetto, agitando goffamente una mano, di essere in preda a distrazione calamitosa. Ne verrò a capo, penso senza convincermene. Per ripicca lei comincia a distrarsi con l’ i-pad. In tralice intravedo movimenti di icone e faccette. Anche spezzoni di un gioco che mi aveva già riempito di paturnie: Antropex. Come si comporta un pytecanthropus erectus posto davanti a una lavastoviglie? Varianti: nel salone degli specchi a Versailles, oppure nell’alcova di Enrico VIII con Anna Boleyn o altre decapitande o impiccande. (Oh, gli antenati!). Decisamente, stasera, una linda macchinetta mi batte in erotologia.
 Quasi per dovere ordiniamo e consumiamo un pasto. Mi guardo in giro. Ci sono individui da target. Civettanti usignoli, due tedeschini in dolce affanno, per loro è sempre tempo di dessert: cannoli siculi, tiramisu o sushi zuccherini, fa lo stesso. Da qualche parte soffischia un ventilatore, o è solo qualche sboffo di fuori. La curva rumorifica del sole che va a dormire.
“Non che io abbia l’hobby del divertimento a ogni costo, ma mi ruga la tua faccia funebre, da nonno imbalsamato. Se  non ti interesso sto con l’i-pad. Eh, quante cose! Tranquillo, conservo le foto che cercavi, quelle senza faccia, quelle con soli fianchi…”
Nella videata, riconosco alcune inquadrature con Valentina, mi pare risalgano a qualche anno addietro, a una notte di delirio trascorsa, se ben rammento, nella città di Salta in Argentina. Incuneati nella stanzetta di un’anonima GuestHouse, lei che vegliava sulla mia improvvisa vampata di febbre. Quaranta gradi esplosi d’un colpo, per misterioso cortocircuito tellurico nel mio foro interiore. Infuso di coca, bollente. L’unico farmaco, allora. Con una sorta di aura magnetica, stemperata nei vapori del samovar. E per sopraggiunta gli aromi di un presunto paese ritrovato. E poi il sogno. L’identificazione con l’antenato che era venuto a morire in quella terra per reincarnarsi in un caudillo cattivo, e infine redimersi. Un gioco a rimpiattino con l’avo, scostante e ameno, il gioco dell’eterno ritorno. L’eterno ritorno dei sogni pericolosi, dei malware.
Immagini, ancora: tre bermude di diversi colori, gialla, bianca, nera. Le belle curve convergenti alle natiche, la sensazione di aver fotografato bandiere. Estasiante triangolo delle Bermude.
Che Valentina incarni l’eros sub specie electronica? Che sia lei stessa un algoritmo di natura sconosciuta?
Ci eravamo separati per qualche anno, ciascuno a bollire nel suo piccolo ergocosmo. Io in un oscuro ufficio consolare della città andina, lei presso la luganese Horn & Rhino Invest: sospette transazioni con massicci organismi smaterializzati e in scala ridotta. Qualche rara e-mail, ne ho conservata appena una. È stato bello incontrarti al ballo di Sant’Elmo. Il tango, una pasiòn. Poi quella balorda passeggiata nel quartiere di Lugano. Si chiama proprio come la nostra città. E che notte!… Ciao, ci sentiamo. Tutto qui. Ma il fatto, così ricco di dettagli, è veramente accaduto? Rammento vagamente di aver lavorato per qualche tempo in Argentina – tra un capitolo e l’altro del mio peregrinare  - ma non nel corpo diplomatico. Crivellato ricordo, gola mentale contesa da alpinisti nemici.
Mi ritiro nella toilette per sforzarmi di succhiare qualcosa dalla memoria. Missione andina, che tipo di missione? Le toilettes servono a risvegliare le idee, a partorire i capolavori dell’anima. Geberit,  nome arabizzante. Sciacquoni  insonori, osservare la glabra faccia sbarbata nello specchio. Ambiente di smalto. Azzimatura eccessiva, come prima di venire qui. Ombretta, sei una magica pompa!  Adocchiare la plastica nel cestino. Cercasi appartamento tre locali e garage, con la coda dell’occhio. Mi è stato sempre difficile abitare in un luogo della carta geografica, dico carta a fiorditerra. Ero stato spedito lì, forse, a curare gli interessi di qualcuno. L’importante, esser partito. “Lei è troppo sognatore, non farà mai carriera diplomatica”. Chi aveva pronunciato quella frase? Era stata solo una rêverie, l’effetto collaterale di una sindrome turistica? Ma le figure di Salta o della capitale non balzano fuori dalla tazza, nemmeno dallo specchio su cui è incollato il volto di una Marylin warholiana. Animazione favolosa, da happy birthday, giunge dalla sala da pranzo Sui vent’anni, loro. Carburazione del ventre pre-discoteca. Ombelichi-occhietti, treccine tirabaci, hausgemacht. Poi c’è quello che ha fatto cadere il walkmen, tonfo riflesso e ampli. E se lei mi chiedesse dettagli, qualche particolare geografico, il luogo di una cena, di un ballo… che le potrò mai raccontare?
Mi aveva curato come si curano i bambini. Con maternalistica pazienza. Coca e aspirina. Avevamo voluto risalire le Ande in pick-up, visitare il deserto di sale fino ai confini col Cile, a quattromilacinquecento metri. Fondale raso, marrone che s’avvia al bianco attraverso un purgatorio di sfumature, sparse capanne, disseminati pastori col mantello di alpaca variopinto e pressoché immobili, qualche isolata vigogna, un condor anche. Lentissimo, il nostro passare.  Poi, in aereo, fino a Buenos Aires, piccolo albergo nei pressi di Boca, ancora coi postumi della febbre. Visto il monumento a Gardel, frequentata una scuola di tango. Fatto all’amore ore ore. Poi, pochi giorni dopo, con un pretesto mi ero dileguato ato ato. Per quale ale ale missione? Non so, c’è un buco, un terribile buco uco uco.

“Se tardavi ancora  me ne andavo”.
“Ci prendiamo un dolce?”
“Vada per la panna cotta”.
“Bah.”
“Meglio panna o canna cotta?” dice ridacchiando, per togliermi d’imbarazzo.
“Vale, ti vorrei parlare di una cosa.
“È una scusa per non far sesso?”
 “No, ti assicuro, è una cosa… che riguarda la mia memoria. È vero che ci siamo conosciuti all’estero, in Argentina?”

Camminiamo lungo il fiume, luna piatta e molliccia nel cielo, lieve brezza. Suo sguardo che dà sul malmostoso, per un tratto di strada. Fra poco saremo in periferia, poi nel suo letto, se lo vorrà ancora. Pastosissima camera d’aria e di fumi. Scommetto che sta macerando la domanda che le ho rivolto al ristorante, non oso riformularla. Passiamo l’androne, saliamo le scale. Primo piano. Con un sorriso mi invita a entrare. Ripone l’i-pad su un tabouret, nell’atrio. Si toglie le scarpe, e mi invita a fare altrettanto. Le forme di qualche poster sballano sotto luci fioche. Accuratamente ridotta l’irradiazione luminosa, in modo da ottenere visibilità felpata, non invasiva. Lei entra nell’ampio salone, mentre io indugio davanti alle immagini sotto vetro. Foto paesaggistiche e opere contemporanee, in un climax previsto d’inquietudine: Klee, Max Ernst, Basquiat. Riflessi oscillanti.
   La seguo, cammino al rallentatore come catturato da un ritmo imposto. È la prima volta che si fa quella cosa nel suo nuovo appartamento. Sotto i miei piedi un tatami giapponese, di discreta fattura. Ora dovrei avvicinarmi a un divano. Sensazione di costeggiare un cerchio che mi fibrilla intorno. Si avvicina lambente, arretra come fa la risacca. Mi lascio trasportare, liquorosamente, da quel cerchio mobile, le braccia sono alghe. Stento a capacitarmi. Qualcosa d’imponderabile sovrasta la mia attenzione, la donna pare lì ad attendermi, a due passi, ma il divano tace. La chiamo, passa un po’ di tempo prima che mi risponda.
 “Ma cosa fai lì in piedi? Vieni qui, dolce imbranato amore”.
 Poi uno scatto di riso, con rifrazioni metalliche. Mi disoriento. Come  dovessi seguire una pista aliena anziché distendermi vicino a lei. La snella lampada a stelo e fronzoli sembra muoversi, spostarsi verso un angolo incognito del locale. O debordare, immusarsi fuori, lampada cercatrice. Come una creatura liberty feticciosa, ramipendula. Muovo qualche passo, sempre dietro la traccia visuale di Valentina o così credo. Incontro una parete, che subito scompare quasi assorbita da quella sagoma, per ricomparire poi, ma dove? La stuoia giapponese non è più lì, cammino sul parquet di legno. Una porta davanti a me si apre.

Continuo, l’aria è sul punto di rarefarsi oltremisura. Imbocco un lungo corridoio, ali battono con un fruscio discreto ma progressivamente insostenibile. Lamiera ondulata, immateriale, vibrazione che mi porta oltre, la mia massa di scarsa gravità spinta da occulti sguardi. Scorgo un profilo di creste, sento il gorgoglìo del mare. Rumore che s’organizza puntiforme, diventa ticchettìo,  da macchina per scrivere. Non mi trovo in cima a un monte, nemmeno supino su spiaggia. Il ticchettare insiste, formando arabeschi di suoni e immagini. Vedo un uccello rapace nel mentre chiude le ali e si posa,  sorta di vecchia Adler nera, ferrigna (prodigio tecnologico della Germania d’anteguerra), su una scrivania che allunga la sua prospettiva come dentro un tubo ottico. C’è qualcuno in giacca e cravatta dietro quella macchina: vecchio signore con lieve escrescenza cornea sotto la fronte, postura da antico burocrate. Al mio cospetto continua indifferente la sua attività.  Processo meccanico, bulimìa di scrittura,  galleria di vibrazioni sonore che si scava. Angelo notturno, in simbiosi con il congegno di ferro. Mi avvicino per leggere, ma sotto l’eco del battere nessun foglio, solo entità nerastra composta di moltiplicantisi trattini, sospesa sugli oggetti. Deborda, si allunga nella direzione dove sto andando. Ed ecco un litorale, simile a quello, spoglio, che delimita il deserto argentino. E pare si sporga su un oceano, mentre è soltanto una cortina di nubi biancastre, sbarramento liquido di materia andina. Il profumo della donna non mi lascia, la tenace erezione nel buio è la mia guida, con il tic tac del vecchio scrivano per colonna sonora. Sento un bruciore agli occhi, mi trovo all’improvviso in un bagno. La vasca rigurgita d’acqua, un corpo femminile vi è immerso, la testa reclina sui seni, non riconosco gli occhi di lei. Riconosco solo le pietre luminose di una vetta sul punto di venir mozzata. La circonda una distesa d’acqua irredenta, pregna di trucioli glaucoazzurri, riflessi ottici da pensiero esorbitante.
E in quella testa che reclina non leggo né spazio né tempo.
Valentina elude ogni domanda. Proprio non vuol dirmi dove ci siamo visti per la prima volta. Tiene tutto nascosto in quei maledetti apparecchi, protetti da password, l’unica soddisfazione che mi concede  è di mostrarmi foto del suo corpo stropicciato. Mai però che in esse si scorga l’ambiente, un paesaggio qualsiasi che funzioni da indizio, che mi ragguagli su un luogo preciso. Temo di non averle scattate io. Ma perché mi tiene all’oscuro di tutto? Forse perché l’anima sua è troppo simile alla mia, senonché la nostra complicità le sfugge. O forse…, non so altro.
C’è  sempre del vapore argenteo attorno ai suoi seni, a quei fianchi che mi fanno tremare le vene. Nuvole, dissolvenze, nebbie slumate in biancore, come certe vedute da studio del tardo ottocento. Passano davanti ai miei occhi gli slip, le patte dei jeans, l’incavatura dolce del fondoschiena, quello stupendo bovindo di seno, l’éclair di una sottoveste, si disegnano mandala cangianti, appaiono sorrisi larvali, appena accennati. Esistono solo quei paesaggi corporei decontestualizzati, il lago delle nudità, le riviere delle vesti. Straordinaria metafora dell’adesione totale e incondizionata alla cosa, tempo reale di spazio in un microuniverso. E se non avesse storia quel corpo, avvolto nella notifica securizzante di un nome, Valentina? O se venisse da un  mondo superno, che non conosce il divenire? A che vale? Sento che ogni continuità si è rotta, l’occhio clinico e cinico dell’antenato svolazza come un condor impazzito, riversa ordure sui cartigli innocenti della memoria. È l’orrida rete di fosfeni,  ghirlande astratte e spezzate che s’intromette in ogni immagine. È il mio ridicolo occhio mentre s’interna nelle vertebre, e vi si squaglia quasi per codardia. Un flash tossicchiante.

Ora si è addormentata, sento il suo respiro grosso, il braccio allentato. Mi piacerebbe sfregiarlo col temperino, tutto finirebbe nel sangue. Troppo vicina, troppo lontana. Ricoperta unicamente di se stessa, forse già barricata in un sogno. Come l’immensa Terra madre, che non ha senso interrogare.
Gilberto Isella

Nota: Il testo pubblicato è un frammento del racconto lungo La mossa del rinoceronte, attualmente in preparazione.








                                                                                                                        GILBERTO FINZI

"Odissea" ringrazia commossa Gilberto Finzi
per avere aderito a questa festa della scrittura,
e per le parole di stima e affetto che ci riserva
nel testo che qui pubblichiamo.Stima e affetto 
che gli ricambiamo come amico e come uomo 
di cultura.

Il poeta Gilberto Finzi (Foto: Dino Ignani)














Lettera-poesia all'amico Gaccione

Caro Amico, ecco i pochi versi
di un poeta vecchio e senza voce.
So la tua premura, e ti ringrazio
per le cose che ancora riesci
a dire nell’infelice mondo che ci circonda.
Sappi che sono con te, pronto
e libero con la mia gola logora:
“Odissea” rispecchia una storia
che mi riguarda, e sento
di doverti parole sincere
dove la poesia è un lusso
che non posso più permettermi,
solo come un astro
che non dà più luce.
Ma mi hai mosso
a scriverti e a ricordarti, e questo
è un fatto che mi riporta
a climi antichi, a Ulisse che ritorna
e i Proci trafigge, sperando
che tutto ritorni vero, e lui
giovane, e i versi un canto
di vittoria.

Per sempre, tuo
Gilberto Finzi 





TIZIANA  CANFORI

Tiziana Canfori


















Storia di mani e di tastiere

Prima di entrare lo guardi, fra le sedie vuote in mezzo al palco, mentre sullo sfondo il pubblico ormai ha trovato il suo posto in sala e aspetta: il pianoforte è lì in scena, paziente, con il suo solito abito nero lucido e il sorriso scintillante della tastiera, che attrae e inquieta. Gli altri, se altri ci sono a condividere il concerto, hanno già il loro strumento in mano, lo sistemano, lo coccolano, gli fanno cantare dei piccoli suoni confidenziali, appena percettibili all’orecchio teso, per controllare l’accordatura. I cantanti, se ci sono, guardano nel vuoto, respirano e mormorano piccoli vocalizzi a bocca chiusa, di riscaldamento. Tu no, tu sei solo, tu sei il pianista: il tuo strumento è là, meravigliosamente attraente e lontano. Tu guardi le tue dieci dita, al massimo, scalpitanti e silenziose, mentre aspetti l’incontro. Quando sarai seduto davanti a lui, alla fine dell’applauso di benvenuto, sai che dovrai conquistarlo da capo, per te e per chi ti ascolta.
Di questo vorrei raccontare, del mondo visto dalla tastiera di un pianoforte.
Gli strumenti a tastiera sono apparentemente quelli più disponibili, pronti a suonare persino sotto le dita degli inesperti, ma in realtà il rapporto con loro è estremamente complesso. Potrei parlare a lungo del clavicembalo, mia grande passione, o dell’organo, ma il discorso prenderebbe sfumature ancora diverse: rimaniamo sul semplice, in una prospettiva che è più facilmente condivisibile.
Quello col pianoforte è un rapporto che può svilupparsi in infiniti modi, dalla vertigine del récital solistico -tu e lui soli davanti a centinaia di persone che colgono ogni sfumatura del vostro pericoloso rapporto- alle emozioni condivise con altri musicisti in momenti di concerto, di lettura, di gioco. I modi per essere “pianista” sono tanti, pur rimanendo solo in ambito “classico”.
Si respira comunque quasi sempre un sapore di centralità, tipico del ruolo del pianoforte: una centralità concertante, che mantiene funzioni di coordinamento, che sostiene e disegna le linee di forza e di sfondo. Si usa la tastiera come la plancia di una torre di controllo.





E macchina è, il pianoforte, un congegno perfezionato al massimo, veloce e preciso, una meccanica pesante che sta fra le dita e il suono che nasce, dopo mille piccoli passaggi di leve e martelli, ad almeno mezzo metro dalle orecchie di chi suona. Il pianoforte non si può tenere in braccio e coccolare come un violino o un clarinetto, stretto fra le mani; bisogna amarlo a distanza e per interposta meccanica... Per questo è strumento da affrontare attraverso mille suggestioni, utilizzando al massimo l'immaginazione e moltiplicando la fantasia. Pesante come una fresatrice industriale e gonfio di ghisa, in realtà è uno strumento che richiede un alto livello di astrazione: se lo si suona solo per il risultato meccanico è possibile eseguire passaggi difficilissimi senza sbagliare una nota (ed è già opera degna di meraviglia), ma non si supera la realtà del suo essere macchina. Con la fantasia e molta volontà di ricerca lo si può far respirare e cantare, nel rispetto del suo legno più che delle sue parti metalliche. Ma bisogna amarlo, come Bella ama la Bestia.
Poche situazioni danno felicità come il canto di un pianoforte, eventualmente intrecciato alle voci di altri strumenti, quando si sente che dalle dita esce un legato pieno di tensione, come un arco teso.
Gli strumenti che teniamo nelle mani, normalmente richiedono un doppio meccanismo: una fonte che produce energia (l’arco, il fiato, il mantice della fisarmonica...) e una “macchina di precisione” che articola il suono (la mano sinistra negli archi, le dita sullo strumento a fiato, le mani sulle tastiere della fisarmonica)... Nelle tastiere manca apparentemente la fonte di energia: dove sta la carica che produce il suono e lo sostiene?
Non nella forza delle dita: malgrado il virtuosismo delle mani sia assai raffinato, se suonassimo una macchina con un’altra macchina il risultato sarebbe orribile. Ecco ciò che mi affascina delle tastiere, a tal punto che non ho mai provato a suonare archi o fiati, malgrado l’interesse e svariate collaborazioni con ogni genere di strumento “altro”. A me piace questo lato oscuro, raffinato, faticoso, dell’inventarsi storie per scovare il suono dello strumento. L’energia è per me il fiato, che riempie il pianista quanto il flautista o il trombettista: un fiato che non serve solo per attaccare insieme agli altri, ma diventa peso e tensione da distribuire elasticamente su tutta la frase musicale. L’arte di suonare il pianoforte è quella di creare archi morbidi da geometrie dure, di trasformare l’approccio lineare della percussione in linee gonfie che nascono e muoiono come le articolazioni di un arco di violoncello o il fiato di un cantante. Si lavora di suggestioni, che dalla testa passano al corpo e lo trasformano in energia da trasmettere alla tastiera: strutture architettoniche, linee curve, sensazioni tattili talmente raffinate che ogni porzione di dito ha la sua storia da raccontare. Sensazioni rubate agli occhi, anche, come le forme e i colori.
Ecco quindi la magia più sublime: accompagnare la voce umana. In questo rapporto si trovano in relazione il massimo della fisicità (la voce che nasce da un corpo e dalle sue masse muscolari, potenza della “rotondità") e il massimo della “macchina”. Sembrano due identità inavvicinabili, a prima vista. Invece sono il culmine della sfida, e il fiume di pagine bellissime dedicate a questa formazione testimonia quanto la sfida sia terreno interessante e fruttuoso. Il pianoforte deve riuscire a parlare il linguaggio della voce, assecondarlo, sostenerlo, a volte anche suggerirlo, e soprattutto deve compiere il piccolo miracolo di accompagnare la parola, l’elemento espressivo che distingue ulteriormente i cantanti da qualsiasi altro strumento.
Accompagnare la parola vuol dire sviluppare un'acuta sensibilità per il senso di un linguaggio che arricchisce il suono: la costruzione del periodo, la punteggiatura, la scelta delle parole. I suoni del cantante nascono nella potenza delle vocali, ma molto anche nelle sfumature delle consonanti che in mille modi le collegano. Se il pianoforte è capace di penetrare tutto questo dando alla voce il sostegno giusto dal punto di vista musicale e anche dal punto di vista del testo, il viaggio interiore che si fa insieme al cantante è qualcosa di magico e intenso come un rapporto d’amore (in questo caso a tre, naturalmente, perché insieme ai due esecutori anche il pianoforte deve dire la sua, esprimendo tutta l’anima del suo legno).
La tastiera però depriva l’esecutore di due gioie importanti: poter intervenire sull’intonazione del suono e poterlo modificare una volta emesso. L’accordatura è atto decisivo, ma precedente il momento di suonare: crea una grande intimità, come sanno i cembalisti che normalmente accordano personalmente lo strumento, ed è una scelta importante da operare in vista dell’esecuzione, ma è separata dall’atto di suonare. Lavorando con gli altri però l’orecchio deve affinarsi molto e torna a dare sottili gioie. Al contrario, se capita di accompagnare qualche allievo dei primi corsi, per esempio un violino, con difficoltà d’intonazione, si vive la straniante esperienza di non capire più dove si mettono le dita: la posizione scelta sulla tastiera è quella giusta, rispetto allo spartito, ma il risultato che si ascolta va da tutt’altra parte... tanto che viene voglia di guardarsi le mani per capire dove sono.
L'altra gioia "mancata", quella di poter modificare il suono, è una nuova sfida alla logica: appena il tasto viene abbassato, il suono nasce dalla percussione del martello sulla corda e la sua dinamica non può più essere arricchita da un vibrato o da un crescendo, può solo diminuire naturalmente. Espressivamente è un handicap non trascurabile!... Eppure la complessità della scrittura e soprattutto la magia del "tocco", cioè la capacità progettuale e la volontà dell'esecutore di far vivere il suo suono, riescono a compiere il miracolo: il suono nasce vivo. Quando capita di sentire diversi pianisti sullo stesso pianoforte, per esempio in un concorso, si ha facilmente l'impressione che ad ogni esecuzione cambi lo strumento.
Questa stessa capacità di ascoltare le vibrazioni dello strumento e di cercare in esso ogni sfumatura rende possibile suonare continuamente pianoforti diversi con un'adattabilità molto elastica. La soluzione progettata a casa non sarà mai assoluta, ma andrà velocemente calibrata sullo strumento su cui si fa lezione, poi su quello del saggio, del concerto, del concorso... Cambieranno di sicuro molte volte il peso dei tasti, la sensazione tattile, la brillantezza e la profondità del suono, la potenza, la qualità timbrica della tavola armonica. Tutto sarà ogni volta ingrediente di una nuova ricetta, paesaggio di un viaggio nuovo.
Così come ogni strumento ha la sua voce, la sua meccanica, la sua difficoltà, la sua bellezza, ha anche il suo modo di stare in silenzio. Normalmente dorme in un astuccio, spesso riposa smontato e asciugato fra pelli e velluti di protezione, nel buio e lontano da sguardi indiscreti. Il pianoforte resta lì, in mezzo alla stanza e alla nostra vita, senza vergogna. Ascolta i nostri discorsi e respira i profumi della nostra cucina, paziente e ingombrante ma pronto a rispondere, come un grosso mobile che ha tanta voglia di cantare.

                                                                   ***

Tiziana Canfori, pianista e clavicembalista, ha compiuto gli studi in Italia e Germania. È laureata in Lettere e associa all'attività musicale interessi letterari e teatrali.
È docente di Accompagnamento Pianistico presso il Conservatorio Niccolò Paganini di Genova e nell'ambito dei Corsi Accademici si occupa particolarmente del repertorio liederistico e della collaborazione con i cantanti. 

Con il giornalista Giorgio De Martino ha fondato, nel 2001, “Il Cantiere Musicale”, rivista del Conservatorio Paganini, collaborando per dieci anni con scritti e iniziative. Suoi articoli sono apparsi su “Amadeus” e “Materiali di Estetica”. Nel 2005 ha pubblicato il volume Benedetto Marcello, un “dilettante di contrappunto” nella Venezia del Settecento presso l'editore San Marco dei Giustiniani di Genova.





VALERIO FANTINEL

Valerio Fantinel










Il 4° Episodio: Polifemo e gli stranieri, che pubblichiamo, fa parte di un evento multimediale di reading poetico in sei episodi, con la tecnica degli antichi rapsodi, che avrebbe dovuto aver luogo (nell’agosto 2014), con il titolo “ULISSE IN SARDEGNA”, nel Comune di Gonnesa, nel Sulcis iglesiente, per la valorizzazione culturale e archeologica del grande nuraghe di Seruci, chiamato dagli abitanti la “Reggia”… Venuto meno il sostegno del Comune, per mancanza di fondi, l’evento è sfumato. La traduzione, alquanto fedele allo spirito e alla lettera dell’Odissea di Omero, è di Valerio Fantinel, che l’ha adattata, didascalizzata e ne è il drammaturg. Il 4° Episodio, la storia del gigante Polifemo, ha come sottotesto la xenia dell’antica Grecia, che ha molte consonanze con il tema odierno dell’accoglienza dei migranti. L’operazione, nel suo complesso, è stata condotta, tenendo d’occhio da una parte l’ambiente arcaico della Sardegna (i suoi monumenti nuragici e l’etnomusica) e dall’altra i momenti di modernità dell’isola (tradizioni, maschere sociali e rielaborazioni musicali).
Studiosi, come il prof. Massimo Pittau, glottologo e linguista insigne, danno per probabile la presenza di Ulisse, come viaggiatore, nell’antica Sardegna nuragica; comunque si può dare quasi per certa, questa presenza, almeno come metafora di personaggi di riferimento simili, stante i traffici mercantili nell’epoca di Micene (probabile ambiente originario di molti rapsodi greci del mito ulissiade) con l’isola sarda, identificata dal prof. Pittau come l’Isola dei Feaci.
In quanto all’impossibilità dell’evento, nella provincia ex-carbonifera., è un altro esempio di come molte ricchezze paesaggistiche e culturali, di questo nostro paese, siano lasciate deperire e svuotarsi di significato, per mancanza di un onesta intelligenza operativa da parte delle Stato.
Pubblichiamo questo scorcio del testo omerico per non lasciar cadere completamente nell’oblio un piccolo tentativo di riverbero culturale su una provincia, il Sulcis, oggi totalmente disastrata e abbandonata al degrado sociale ed economico…
V.F.

POLIFEMO E GLI STRANIERI 
 4° episodio
[Il ciclope è recitato attraverso una maschera (monocola) mammuthonica, da un attore con voce dura, stentorea, a tratti cavernosa, barbarica, in cui si percepisce che la sorte di Ulisse e dei suoi compagni è già segnata.
[In contemporanea sullo schermo gigante appare un barcone di migranti che sta affondando nel mar Mediterraneo, mentre Ulisse racconta l’assassinio dei suoi compagni compiuto da Polifemo, figlio di Poseidone, dio del mare.]

Narratore1 (come una didascalia)
Ulisse seleziona alcuni dei suoi più forti compagni e si avvia verso la grotta dove dimora il potente e monocolo figlio di Poseidone, Polifemo, portando con sé un capace otre di vino nero, dolcissimo. Entrati nella grotta, subito i compagni di Ulisse, spinti da un atavico istinto predatorio, vorrebbero razziare il formaggio e la bianca ricotta, ma Ulisse li trattiene, perché la sua intenzione è di conoscere l’abitante, studiarne i costumi e il comportamento... Ed ecco che entra Polifemo e rovescia sul terreno con gran fracasso un’enorme fascina... Vede il gruppo degli estranei:

Polifemo
“Stranieri, chi siete? da dove siete giunti per le vie del mare?
Siete trafficanti o andate in giro alla ventura
sui mari, come pirati che scorrazzano, mettendo in gioco la vita
e causando danni alle genti straniere?”

Ulisse
“Siamo Achei di ritorno da Troia! sballottati
da molti venti sul vasto mare abissale,
ansiosi di tornare a casa, altre rotte e altre tappe
abbiamo percorso. Così ha deciso per noi Zeus.
Siamo orgogliosi di essere gente dell’Atride Agamennone
la cui fama oggi è grandiosa sotto il cielo
per aver distrutto una grande città e annientato tanti popoli.
Ai tuoi ginocchi noi ci prostriamo, semmai ci ospitassi
e ci offrissi un qualche dono, come è norma tra gli ospiti.
Ti supplichiamo, o potente, onora gli dei.
Zeus, vendicatore dei supplici e degli stranieri,
è un dio accogliente, che protegge i sacri ospiti.”

Polifemo
 “Straniero, o sei scemo o vieni da molto lontano
per invitarmi a temere e a onorare gli dèi.
I Ciclopi se ne fregano di Zeus fulminante
e degli dèi beati; noi siamo molto più forti.
Per schivare la collera di Zeus non risparmierei
né te né i tuoi compagni, se non me lo comanda il cuore.
Ma dimmi, al tuo arrivo, dove hai ormeggiato la veloce nave,
se lontano o nelle vicinanze, perché mi preme saperlo.”

Ulisse
“Così disse per provarmi; ma non m’ingannò, ci mancherebbe...
E di nuovo gli dissi con parole dolose:
­­– La nave me l’ha fracassata lo Scuotiterra Poseidone,
scagliandola contro gli scogli, ai confini del vostro paese,
per mezzo di un vento che veniva dal largo.
Io però assieme ai miei compagni ho evitato la precipite morte.–
Ma lui, cuore feroce, non mi rispose,
e d’un un balzò allungò sui compagni le mani,
e agguantati due li sbatté a terra come cuccioli:
sprizzò sul terreno il cervello, bagnandolo tutto.
Li squartò brano a brano, preparandosi la cena.
Mangiava come un leone cresciuto sui monti, senza nulla lasciare,
interiora, carni e ossa compreso il midollo.
Noi, piangendo, alzammo le mani a Zeus,
davanti a questo orrendo crimine, totalmente impotenti.
Quando il Ciclope s’ebbe riempito la gran ventraia,
mangiando carne umane e bevendo puro latte,
si distese nell’antro, in mezzo alle sue greggi.
Allora io pensai nel cuore mio magnanimo
di accostarlo e, tratta la spada aguzza da lungo la coscia,
infilargliela nel petto là dove il diaframma racchiude il fegato,
 ma un altro pensiero mi attraversò la mente.
Anche noi avremmo incontrata lì la precipite morte,
perché con le mani non avremmo potuto spostare
l’enorme masso posto da lui sull’alto ingresso.
E così, sospirando, attendemmo la chiara Aurora...
allora egli riaccese il fuoco e munse le grasse pecore,
con grande perizia, e spinse sotto ognuna un agnellino da latte.
Dopo aver finito, con rapidi gesti, il suo lavoro,
afferrò altri due miei compagni per colazione.
A pasto concluso, menò fuori le grasse pecore dall’antro,
dopo aver rimosso l’enorme masso…
e con alti fischi (come fanno i pastori con le greggi)
il Ciclope spinse su per i monti i pingui animali:
 io invece pensieri neri stavo almanaccando,
se mai potessi vendicarmi di lui, col favore della dea Atena.
E così, in cuor mio, questo mi parve il piano migliore:
teneva il Ciclope accanto al recinto un grande tronco
d’ulivo, verde: l’aveva tagliato per portarselo dietro,
appena fosse stagionato. Era simile a un grande
albero di nera nave, fornita di venti scalmi,
ampia, da carico, usa a varcare il vasto abisso,
tanto era lungo, a guardarlo, quanto era grosso.
Mi avvicinai e ne tagliai per due braccia
e lo passai ai compagni, ordinando di sgrossarlo
ed essi lo fecero liscio. E io ne affilai la punta…
poi lo presi e lo temprai alla vampa del fuoco.
E lo nascosi ben bene, coprendolo sotto il letame,
che in alto e copioso mucchio giaceva nell’antro,
agli altri ordinai di decidere tirando a sorte
chi assieme a me avrebbe ardito reggere il palo
e schiantarlo nell’occhio, quando l’avesse raggiunto il dolce sonno.
Uscirono sorteggiati i quattro, che io stesso
avrei scelto, e io con loro facevo il quinto.
La sera rientrò, guidando le greggi dalla bella lana.
Spinse nella capace spelonca i grassi animali,
tutti, non lasciando nessuno fuori dell’alto recinto;
era guardingo, sembrava sospettare qualcosa…
Poi afferrò il masso e bloccò l’entrata.
Seduto, prese a mungere le pecore e le capre belanti,
tutto secondo costume, dopo di ciò, agguantati
altri due uomini si preparava la cena.
Allora io, standogli accanto, gli dissi,
 avendo fra le mani una ciotola di nero vino:
­– Toh, Ciclope, bevi ’sto vino, dopo mangiata la carne umana
affinché tu conosca che razza di bevanda la nostra nave
trasportava. Te l’ho recato in offerta, se mai impietosito
mi mandassi a casa; ma sei furioso oltre ogni limite.
Malcreato, quale altro uomo oserà venire
in futuro da te? Ti comporti da pazzo scatenato.–
Così gli dissi e lui prese il vino e lo tracannò.
Ne fu deliziato...”

Polifemo
“Dammene ancora e dimmi intanto che nome hai,
subito, così ti do il dono ospitale che ti farà piacere.
Di certo la nostra terra feconda di biade dona ai Ciclopi
vino da ottimi grappoli e la pioggia di Zeus lo favorisce,
ma questo è un vero distillato di ambrosia e di nettare.”

Ulisse (continuando il racconto)
“... e io di nuovo gli porsi il vino nero,
e lo feci tre volte e per tre volte lo tracannò, l’idiota.
Ma quando il vino gli raggiunse i precordi,
allora gli rivolsi queste parole di miele:
– Ciclope, vuoi sapere il mio famoso nome e io te lo dirò:
e tu mi darai il dono ospitale, come promesso.
Nessuno è il mio nome. Nessuno mi chiamano
mia madre, mio padre e tutti gli altri compagni...–”

Ciclope
“E io ti mangerò, signor Nessuno, ultimo dei tuoi compagni:
eccoti il mio dono ospitale!”

Ulisse (continuando il racconto)
“E arrovesciandosi cadde supino e giacque.
Gorgogliava dalla bocca fiotti di vino
e pezzi di carne umana; strafatto dal nettare, ruttava.
Allora io spinsi sotto la gran cenere il palo
finché si arroventò. Intanto incoraggiavo tutti i compagni,
perché, spaventati, non abbandonassero l’impresa.
E non appena il palo d’ulivo fu ben arroventato,
io lo trassi dal fuoco. Intorno a me stavano i compagni.
L’indomito coraggio fu certo un dio a ispirarcelo.
I compagni, afferrato il palo d’ulivo, ben aguzzo,
lo schiantarono dentro l’occhio, e io, sulla punta dei piedi,
lo giravo e rigiravo, come quando si buca un legno di nave
con un trapano, che altri da sotto ruotano con una correggia,
tenuta da ambo i lati, e lo fan girare senza posa,
così giravamo nell’occhio il palo incandescente,
e intorno alla punta il sangue scorreva.
Le palpebre e le sopracciglia crepitavano nella vampa,
bruciando il bulbo: e sfrigolavano le radici dell’occhio.
Come quando un fabbro immerge una grande scure
o ascia nella gelida acqua con acuto stridìo
per indurirla, – perché è così che si tempra il ferro –
così sfrigolava il suo occhio intorno al palo d’ulivo.
Lanciò un terribile urlo, ne rimbombarono le caverne attorno.
Terrorizzati fuggimmo. Lui si strappò il palo
dall’occhio, tutto lordato di molto sangue.
Lo scagliò con le mani lontano da sé, furioso.
Poi si mise a chiamare a gran voce i Ciclopi, che le spelonche
lì attorno abitavano, sulle cime battute dai venti,
i quali, udito il grido, accorrevano chi qua, chi là,
e fermi davanti all’antro chiedevano chi lo molestasse...”

Ciclopi (alternandosi in coro)
 a) “Ehei, Polifemo, che cosa ti tormenta per gridare così
nella notte balsamica e ci tieni svegli?
b) Forse un mortale ti ruba le pecore contro la tua volontà?
c) O vuole ucciderti con l’inganno o con la forza?”

Polifemo (dolorante e con ira)
“Amici, Nessuno mi uccide con l’inganno, non colla forza.”

Ciclopi (alternandosi e schernendolo)
a) “Se nessuno ti mette in pericolo la vita e sei solo…
b) “non puoi certo evitare che il potente Zeus
ti stia facendo andare fuori di testa…
c) “e allora prega tuo padre Poseidone.”

Ulisse (continuando il suo racconto)
“Così dissero allontanandosi, e intanto il mio cuore rideva,
per averlo ingannato con l’astuta trovata del nome.
Il Ciclope gemendo per il dolore e brancolando
e tastando con le mani, tolse dall’ingresso il pietrone,
sedette davanti all’entrata, a braccia aperte,
se mai scoprisse tra le pecore qualcuno in uscita;
sperava che io fossi tanto sempliciotto d’animo.
Intanto io studiavo il modo migliore per uscirne,
per trovare scampo alla morte assieme ai compagni
 e mi prospettavo tutti gli inganni e le astuzie possibili,
per salvare la vita: grande era il pericolo che ci sovrastava.

Alla fine questo parve, in cuor mio, il piano migliore:
c’erano grossi montoni, pingui e villosi,
belli, grandi con una lana color violetto.
Li unii in silenzio con vimini ritorti,
a tre per tre; e quello di mezzo portava sotto un uomo,
mentre gli altri due seguivano ai lati, coprendo il compagno.
Tre montoni portavano un uomo; io invece –
ce n’era uno più imponente di tutti gli altri –
me lo avvicinai e mi sistemai sotto il lanoso ventre,
tutto ripiegato, e con le mani mi afferrai al manto lanoso,
rimanendo appeso, in tensione ma con cuore fermo.
E così, sospirando, attendemmo la chiara alba.
Quando mattutina apparve Aurora dalle dita di rosa
allora egli spinse al pascolo la gregge dei maschi;
e nei recinti fu tutto un belar di femmine non munte:
le loro poppe erano piene da scoppiare. Il padrone,
tormentato da lancinanti dolori, andava tastando le groppe
di tutte le bestie, ferme e diritte. E non sapeva, il malaccorto,
che gli uomini erano appesi sotto i loro lanosi ventri.
Per ultimo uscì dall’imboccatura il montone del gregge,
gravato dalla lana e da me coi miei folti pensieri.
Il forte Polifemo palpandolo sul dorso disse:

Polifemo (con voce dolente)
“Ah, mio più grosso montone, perché mi esci dalla grotta
per ultimo? prima non sei mai uscito dopo le pecore,
ma avanti a tutte correvi a brucare le tenere erbe dei prati,
a grandi salti, per primo raggiungevi i corsi d’acqua,
per primo desideravi rientrare nelle stalle
la sera; e ora sei l’ultimo. Forse piangi
l’occhio del tuo padrone? Lo accecò un vigliacco,
coi suoi vili compagni, dopo avermi vinta la mente col vino.
Nessuno, non credo potrà ancora a lungo sfuggire alla morte:
ah, se anche tu come me potessi pensare e parlarmi
per dirmi dove si è nascosto per scampare alla mia ira.
Gli sbatterei la testa per tutta la grotta
e col suo cervello innaffierei la terra, e il mio cuore
avrebbe sollievo, dal dolore inflittomi da questa nullità di Nessuno.”

Ulisse (continuando il racconto)
“Così disse e spinse fuori dall’antro il montone.
Giunto poco lontano dalla spelonca e dal recinto
per primo mi staccai dall’animale e slegai i compagni.
Spingemmo in fretta le grasse greggi dalle lunghe zampe,
volgendoci di continuo, finché non arrivammo alla nave.
Come ci videro i cari compagni esplosero di gioia,
poiché eravamo sfuggiti alla morte, e alcuni piansero.
Ma io non permisi il pianto, con un cenno degli occhi lo vietai,
e comandai di gettare le molte greggi dal bel manto
dentro la nave e di navigare sull’abisso salato.
Veloci si imbarcarono e presero posto agli scalmi:
e ritmicamente battevano il mare canuto coi remi.
Ma appena distammo quanto bastava per farci udire,
allora io gridai parole di scherno al Ciclope.
– Ciclope, non erano i compagni di un uomo vile
quelli che hai mangiato nell’antro con la tua forza bestiale.
E il male doveva ricadere proprio su di te,
disgraziato, che nella tua dimora hai fatto strage
degli ospiti stranieri: per questo Zeus ti ha punito.–
Dissi così e lui, ancora più furioso,
sradicò la cima di un gran monte e la scagliò giù...
cadde oltre la nave... il mare si sollevò
e il riflusso dell’onda sospinse la nave contro la costa.
Io allora afferrai una lunga pertica e diedi una spinta laterale;
ordinai ai compagni, incitandoli,
con cenni del capo, d’incurvarsi sui remi
per toglierci dal pericolo. A testa bassa, si misero a remare.
Quando fu raddoppiata la distanza, allora urlai
verso il Ciclope, sebbene intorno a me i compagni,
cercassero di trattenermi con dolci parole:

I compagni (alternandosi e in coro)
a) “Infelice, perché vuoi irritare ancora di più quel selvaggio?
che ora si è messo a tirar massi nel mare,
sospingendoci la nave verso terra,
così da mettere in pericolo le nostre vite,
b) “... sarebbe capace di sfracellarci le teste
e i legni della nave, colpendoci
con un aguzzo pietrone: quello ha un tiro lungo.”

Ulisse
“... Ma il mio cuore magnanimo
non ascoltava e presi a gridargli beffardo:
– Ehei, Ciclope, se qualche uomo mortale
ti chiede chi ti ha accecato così sconciamente
digli che a conciarti così fu Ulisse,
figlio di Laerte, che ha dimora in Itaca.–”

Polifemo
“Ahimè, così si compie un’antichissima profezia.
Un prode e illustre indovino,Telemo Eurimìde,
mi presagì che tutte queste cose si sarebbero avverate...
e che sarei stato privato della vista, per mano di Ulisse.
Ma io m’aspettavo l’arrivo di un pezzo d’uomo,
gigantesco e ben attrezzato, dotato di invincibile forza:
ed ecco un nanerottolo, un debole, una vera nullità
mi ha tolto l’unico occhio, dopo avermi tramortito col vino.
Orsù, Ulisse, vieni che ti offro il dono ospitale
e pregherò il glorioso Scuotiterra che ti sia propizio nel ritorno:
sono suo figlio, almeno lui dice di essere mio padre.
Se lo vuole, lui mi guarirà, esclusivamente lui e…
nessun altro , che sia un dio beato o  un uomo mortale.”

Ulisse
“Se avessi potuto cavarti il cuore e toglierti la vita
e accompagnarti io stesso nelle case dell’Ade,
il tuo occhio non l’avrebbe guarito neanche tuo padre Poseidone.”

Polifemo
“Ascolta, o azzurro Poseidone, che la terra circondi:
se sono tuo figlio e tu dici di essere mio padre,
fai che a casa non giunga Ulisse, il distruttore di città...
Ma se è destino che riveda i suoi cari e ritorni
nel suo bel palazzo e nella terra dei padri,
allora che ci arrivi tardi e malamente, dopo aver perduti
tutti i compagni, su una nave straniera e a casa trovi solo sciagure.”

 


 MAURO DELLA PORTA RAFFO

Mauro Della Porta raffo














Woody Allen, Denholm Elliott e io
 ‘The best cup of tea in the world’


“Correva il 1977. Credo fossimo quasi in autunno. Ibiza, al porto, lungo la banchina principale.
Uno dei primi locali. Nella memoria, una mezza bettola salmastra i cui consunti tavolini all’aperto, le cui logore insegne parevano collocarsi, in quel loro oramai scolorito e consumato blu tendente al biancastro, molto più a sud, in altri mari, che so? nella Sonda piuttosto che in Polinesia.
L’insegna, retaggio di lontani e migliori momenti e alquanto ridicola al dunque, recava un impegnativo ‘The best cup of tea in the world’.
Era lì che, invariabilmente, verso sera, ci si trovava. Un gruppo eterogeneo, una dozzina di persone in qualche modo diventate amiche per consuetudine, intenzionate ad attendere colà, bevendo e, se del caso, chiacchierando, l’ora di cena. Una specie di lingua franca, la nostra. Spagnolo, italiano, francese, inglese, mescolati. Segni d’intesa, qualche grugnito da parte dei più silenziosi. Pescatori, turisti fuori stagione e quegli inglesi in bermuda che ai tempi trovavi dovunque. Tutti maschi e tutti o quasi, salvo gli isolani, in attesa di possibili comunicazioni. Parentali, amicali o lavorative che potessero essere. Pochi essendo infatti i telefoni sull’isola, era il numero del ‘The best…’ che quanti volevano parlarci dovevano comporre dalle cinque di sera circa fin verso le nove.
 Fu alle otto precise di un giorno come tutti gli altri che il barista chiese a voce alta:
“Elliott? C’è qualcuno che si chiami Elliott?”
e, vedendo il mio vicino di destra alzarsi, aggiunse indicando l’apparecchio: “Al telefono”.
Un tipo con una faccia conosciuta, di taglia media, tendente al grassottello, che avevo inquadrato sempre in compagnia di un giovinetto alquanto effeminato. Ma non è forse vero che se frequenti per qualche giorno una persona ti capita di pensare di averla già vista altrove?
Non distante l’apparecchio, captai qualcosa di strano. Un po’ di chiacchiere indistinte ed ecco che Elliott comincia a declamare: “Hickory, dickory, dock/The mouse ran up the clock/The clock struck one/ And down he runs/ Hickory, dickory, dock”.
Per quanto digiuno d’inglese, mi sembrò avesse usato un accento particolare, quasi volesse far vedere che poteva mutare toni e atmosfere. Un paio di minuti ancora di conversazione di nuovo indistinta ed eccolo al tavolo. Curioso, per mezzo di un americano che bene o male qualche parola d’italiano sapeva, gli domandai ragione, se riteneva di darmela, di quella tiritera recitata tanto stranamente.
“Era Woody Allen”, rispose, “Mi chiedeva se ero capace di imitare il gergo newyorchese.
Per un film che deve cominciare, gli serve uno come me ma che parli come quelli della Grande Mela. Non mi pare di averlo convinto”.
Ecco il viso conosciuto: era Denholm Elliott, l’avevo visto almeno in ‘Alfie’.
Feci finta di nulla e della storia mi ero quasi dimenticato quando, nel 1987, mille anni dopo il felice periodo ibizano, vedo il buon Denholm protagonista di ‘Settembre’.
Woody non se ne era scordato.
Vedi, c’è stato un istante, un solo istante nel quale sono stato a un passo da Allen. Sarebbe bastato chiedere il numero all’attore inglese, ma non avevo niente da dirgli. Oggi che mi piacerebbe fargli leggere i miei racconti, nessun aggancio.
Quanto ad Elliott, è morto di Aids ad Ibiza nel 1992. Quella vita, quell’isola l’hanno incastrato”.



SILVANA BORUTTI


Silvana Borutti


















L’antropologia culturale e il sapere dei forti

Propongo qui alcune riflessioni e domande sulla relazione che il sapere antropologico, che ha portato alla nostra attenzione diverse “forme di vita”, intrattiene con il rapporto di potere che è l’Occidente.

1. Questioni epistemologiche

Se assumiamo un punto di vista epistemologico, se consideriamo cioè l’antropologia culturale come forma di sapere che è una relazione conoscitiva all’altro (alle altre culture), dobbiamo riconoscere che l’antropologia ha nella sua origine la compresenza di almeno due spinte opposte: da una parte, una pulsione epistemica di dominio, che si realizza nell’oggettivazione dell’altro; dall’altra, un relativismo spontaneo, che ha come effetto positivo una prospettiva epistemologica capace di  interiorizzare il senso dell’alterità.

1.1. L’oggettivazione dell’altro

In Etno-grafia. L’oralità, o lo spazio dell’altro: Léry,[1] Michel de Certeau ci mostra in modo icastico come anche l’etno-antropologia, in quanto forma di sapere che si è dato il compito di conoscere altre culture e altri soggetti, abbia praticato inconsapevolmente, fin dalla sua fondazione, una vera e propria volontà di sapere e di oggettivazione. L’antropologia ha nella sua origine una pulsione epistemica di dominio, che oggettiva l’altro. Commentando l’allegoria erotica-guerriera di Jan van der Straet, Certeau mostra che questa pulsione di dominio si realizza attraverso il potere oggettivante della scrittura.



Jan van der Straet,  Vespucci scopre l’America, (disegno per il volume di Jean-Théodore de Bry, Americae decima pars, 1619)

Con questa allegoria erotico-guerriera, Certeau ci spiega che il mito di fondazione dell’antropologia è il mito di una cultura che esercita sull’altro un gesto violento di oggettivazione attraverso la scrittura. L’antropologia è il sapere che l’Occidente moderno conquistatore riporta al ritorno dal suo viaggio presso l’Altro. Nel disegno, Amerigo Vespucci, corazzato e crociato, con i vascelli che riporteranno tesori in Occidente, sta in piedi di fronte alla donna indiana chiamata “America”. Amerigo, il protoantropologo, è armato delle «armi europee del senso»; America è rappresentata ai suoi piedi, come una donna distesa, un corpo nudo ed erotizzato, in uno spazio di vegetazioni e animali esotici. America è l’alterità: è un soggetto confinato nella forma orale della comunicazione, immerso in un tempo estraneo alla storia progressiva dell’Occidente, e legato a una dimensione corporea inconscia, inconsapevole cioè dei propri significati. L’Occidente traccia la propria storia sul corpo dell’altro. Nel suo lavoro di scrittura, l’antropologia traduce la parola orale e insensata dell’altro; Certeau mostra il legame dell’antropologia con gli altri saperi che, come la storiografia, pongono a distanza l’altro per comprenderlo attraverso la scrittura. Nella testualità antropologica si mostra così il legame tra scrittura come luogo di sapere e di potere, e l’Occidente: la scrittura appropria all’Occidente, e al suo presente, ciò che è stato proiettato, con una “grande divisione”, nella distanza spaziale (la geografia del dentro/fuori come allontanamento immaginario dell’altro), e nella distanza temporale (la primitività come costruzione politica del tempo dell’altro).
Ma è possibile tener separata la volontà di sapere occidentale dal rapporto di potere che è l’Occidente?
L’Occidente soffre di oblio dell'origine, cioè di oblio del proprio carattere storico, e quindi della differenza in rapporto ad altre forme di civiltà. La razionalità scientifica è di per sé monologica. Per chi vive in essa, la forma di vita scientifico-razionale, dominata dai modi tecnologici del rapporto col mondo e dai modi logico-calcolistici del pensiero, appare come una necessità e un assoluto: sembra di poter pensare solo in essa. L’etno-antropologia ha in fondo ripetuto questa rimozione, e ha praticato inconsapevolmente una vera e propria volontà di sapere, che è diventata un’oggettivazione dell’altro. Ma va osservato che, da una parte, il dibattito epistemologico nell’antropologia contemporanea, che è molto vivo (pensiamo ad esempio alla discussione tra la prospettiva oggettivistica del positivismo e la prospettiva interpretativa; pensiamo al pensiero post-coloniale, o agli studi sul meticciato culturale e sull’interculturalità), ci dice che l’etno-antropologia riflette ormai sulla propria volontà di oggettivazione e si pone il problema di conservare la dimensione della differenza. Dall’altra parte, il confronto e l’incontro tra il sentimento occidentale, molto più labile e incerto, dell’appartenenza e dell’identità (l’Occidente dei non luoghi) e forti esperienze di appartenenza comunitaria hanno trasformato il viaggio dell’antropologo da pura volontà di sapere in confessione e détour alla ricerca di sé.

Rilevante è che l’antropologia abbia incominciato a riflettere sulla propria volontà di oggettivazione, riconoscendo il pericolo connesso alla classificazione dell’altro, che crea etnicità separate. Negli ultimi due decenni, l’antropologia ha sottoposto a critica i concetti di identità e di etnicità. Si comincia infatti a vedere il pericolo del pensiero classificatorio che può portare a classificazioni arbitrarie di gruppi diversi, pericolo insito anche nelle forme di multiculturalismo contemporaneo. Si cominciano così a vedere le responsabilità della ragione antropologica, e a comprendere che il modello classificatorio dell’etnologia e il processo di “invenzione dell’identità” possono aver avuto l’effetto di rafforzare le politiche degli amministratori coloniali, piegandosi a fini di vantaggi economici e a fini politici. Si è capito che attribuire etnicità aumenta la distanza:[2] perché, ad esempio, per i conflitti africani si parla sempre di “guerre tribali in Africa”? Si comincia a capire che l’antropologia può contribuire a creare categorie politiche; e che anche l’eccesso di relativismo del multiculturalismo può dar luogo al mantenimento forzato delle differenze. Jean-Loup Amselle e Édouard Glissant,[3] in contributi che meritano grande attenzione, insegnano che occorre assottigliare le barriere, e aprirsi a maggior permeabilità. Amselle ci insegna che il meticciato è originario, non sopravviene alla purezza: anzi, è una categoria che serve proprio contro l’idea di purezza. Non si tratta solo di proteggere il diverso e le diversità, ma di far sparire le barriere e lasciare che le mescolanze sociali avvengano: le società e le culture si costituiscono in un processo inevitabile di creolizzazione. Un processo, non una struttura: Glissant si richiama alla nozione di “arcipelago”, che significa indefinitezza come matrice comune; e ci ricorda il diritto all’opacità – per cui comprendere l’altro non significa capirsi completamente, ma poter convivere, alimentandosi di quanto l’opacità dell’altro lascia filtrare.

In ultima analisi, è vero che l’orizzonte della conoscenza è profondamente cambiato, a partire dalla crescita dell’autoconsapevolezza epistemologica delle scienze umane. Si è capito che la cultura non è “qualche cosa” di cui parliamo, ma è il luogo a partire da cui parliamo, e siamo parlati e alterati dagli altri. Purtroppo se ne vedono però poco gli effetti politici.

1.2. Il relativismo spontaneo dell’antropologia

Il relativismo è un problema epistemologico connaturato per definizione al sapere antropologico. Francesco Remotti apre la voce Relativismo culturale dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani[4] ricordando che Erodoto è stato in fondo il primo antropologo, ed il primo sostenitore di una posizione che si può definire relativista. Nel III Libro delle Storie Erodoto racconta un esperimento antropologico fatto da Dario, re dei Persiani. Il re chiede ai Greci e agli Indiani Callati a quale prezzo siano disposti a rinunciare ai propri costumi funerari: gli uni bruciano i cadaveri, gli altri li divorano. Riceve in entrambi i casi una risposta indignata: ad ognuno appare repellente il comportamento dell’altro. Erodoto conclude “La consuetudine [nomos] è regina di tutte le cose”.[5] L’aneddoto è esemplare di più aspetti del problema del relativismo: da una parte, relativista è l’antropologo, cioè colui che riflette sulla pluralità delle culture; dall’altra parte, ogni cultura in sé tende ad essere etnocentrica, cioè ad affermare l’autenticità, se non la superiorità, della propria umanità, e a chiudersi nella propria identità. È noto che in molte culture arcaiche il nome del popolo coincide con il concetto di umanità: l’antropologo Clifford Geertz riferisce che per i Giavanesi “Essere umani è essere giavanesi”.[6] A questo proposito si fanno di solito esempi etnografici, ma sappiamo che l’etnocentrismo come forma di difesa della propria identità riguarda anche noi occidentali. Di fatto le ricerche etnografiche, che si sono imposte come forma di conoscenza nel mondo moderno almeno a partire dal Settecento, mostrano che ogni forma culturale, che modella i comportamenti sensati dei popoli, ha un significato unico, particolare, interno al contesto, un significato, diremmo con Windelband, “idiografico”; questo fa sì che il relativismo culturale appaia intimamente legato allo statuto scientifico dell’antropologia:
Ora, il problema da affrontare risiede, a mio parere, nel fatto che sia il relativismo degli antropologi, sia l’etnocentrismo delle culture finiscono per negare che tra le culture ci sia un dia-logos, uno spazio percorribile, un attraversamento possibile. Vorrei fare invece un’analisi del concetto di relativismo che porti, di contro, a una riconsiderazione dell’antropologia come dialogo di alterità.
Cosa significa di fatto relativismo? Significa assumere esplicitamente che il rapporto con l’altro è uno spazio di comunicazione e scambio, che comporta tuttavia un’opacità (Glissant), un residuo intraducibile, perché l’altro non è il nostro alter ego simmetrico e trasparente. C’è un limite nella messa in discorso dell’altro, un limite che va assunto e rispettato.[7]
La conoscenza antropologica lavora proprio in questo spazio informe e intraducibile. Ad esempio, non possiamo comprendere le rappresentazioni Fataleka dell’universo e dell’origine del mondo se non attraverso nozioni costitutive del nostro immaginario spaziale e della nostra ontologia (come le nozioni di “limite” e di “storia”), e attraverso nozioni con cui rappresentiamo la genesi della nostra cultura (come il tema greco dell’apeiron), ma che non arriviamo a rendere trasparenti neppure “per noi”;[8] non possiamo comprendere lo hau maori se non attraverso nozioni come “prezzo”, “dono”, “profitto”, “pagamento”, e attraverso opposizioni come utilità/gratuità, scambio/dono, intorno a cui si giocano i nostri stessi conflitti culturali, e che si trovano nel cuore dell’articolazione tra economico, giuridico e politico nella nostra forma di vita.[9] Ma proprio questi scarti e questi vuoti costituiscono lo spazio (e il tempo) in cui la conoscenza lavora: l’intraducibile, il limite non è semplicemente limite conoscitivo in rapporto ad un ideale di conoscenza trasparente; è, al contrario, il limite ontologico che definisce i bordi della nostra esperienza dell’altro, un’esperienza che diventa possibile contrastivamente, a partire da noi stessi, e che contribuisce nello stesso tempo alla nostra autocomprensione.
Io credo che si possa parlare di dialogo di alterità, ma nel senso puntuale, non universale, dell’apertura all’incontro e alla negoziazione, e quindi nel senso della traduzione e del compromesso. In quanto contrastivo e asimmetrico, il rapporto con l’alterità è costitutivo di “noi” stessi. Remotti ci ricorda che le società, anche quelle tradizionali, non sono entità chiuse, ma processi in cui è coinvolta l’alterità (pensiamo alla pratica dell’esogamia nelle società arcaiche; o al processo complesso di assimilazione della cultura greca con cui i Romani mettono in atto un processo di fondazione della propria cultura): egli parla di un lavoro di rimodellazione continua del “noi”, tra assimilazione e differenziazione.[10] In questo senso, il sapere antropologico deve sentirsi impegnato non tanto in una tipologia delle differenze, quanto nell’analisi dei problemi esemplari della “traduzione”, del passaggio, della “trasformazione” nell’attraversamento interculturale.
Ha dunque delle buone ragioni una forma di relativismo che sostenga che la teoria in antropologia non deve tendere alla legislazione universale, ma piuttosto a un compromesso traduttivo che abbia interiorizzato il senso dell’alterità.


2. Il relativismo culturale degli antropologi può contrastare in qualche modo il pensiero dei forti?

Claude Lévi-Strauss risponderebbe che lo può, in quanto sapere umanista che educa le coscienze: l’etnologia può difenderci dal pensiero dei forti, perché è sostanzialmente umanista. In che senso sia un umanesimo Lévi-Strauss lo spiega con  tre pagine folgoranti del 1956 su I tre umanismi.[11] Lo strutturalista (e, si diceva allora, anti-umanista) Lévi-Strauss parla dell’umanesimo dell’etnologia. «L’etnologia [la conoscenza dei popoli lontani] non è né una scienza a parte, né una scienza nuova: è la forma più antica e più generale di ciò che designiamo col nome di umanismo». Cosa intende Lévi-Strauss per etnologia? Cosa c’è di umanistico nell’etnologia? Lo capiamo subito: umanistico non è l’oggetto, cioè gli altri popoli, o una nozione generale di uomo, ma il modo di guardare all’alterità. E che idea di umanesimo è quella che Lévi-Strauss riconosce esemplarmente nello stile di conoscenza etnologica? Egli scrive: «Quando gli uomini delle fine del Medio Evo e del Rinascimento hanno riscoperto l’antichità greco-romana, e quando i Gesuiti hanno fatto del greco e del latino la base della formazione intellettuale, non è stata forse questa una prima forma di etnologia?» Etnologia, perché «Si riconosceva infatti che nessuna civiltà può pensare se stessa se non dispone di qualche altra che possa servire da termine di paragone».
Il tema etico del senso dell’alterità è in primo piano: Lévi-Strauss scrive che l’etnologia è pratica della relazione al diverso, e quindi conquista del senso dell’alterità e della comparazione, contro un’interpretazione unitaria e progressiva della storia e della metafisica. In quanto conquista del significato conoscitivo della comparazione, l’etnologia è umanesimo, anzi, la forma più antica e generale dell’umanesimo, inteso come capacità di mettere in prospettiva la propria cultura e confrontarsi con gli altri e con le altre culture (intese come insiemi differenzianti ed espressivi, come scrive James Clifford). Aggiunge Lévi-Strauss: così imparare latino e greco è aprirsi al metodo intellettuale dell’etnografia, che è lo spaesamento, lo sguardo da lontano.
Rispetto agli umanisti rinascimentali, che si rivolgono a un pubblico di élite, quando nasce l’etnologia in senso proprio, quando ci si volge cioè alle popolazioni arcaiche, senza scrittura e senza monumenti, l’umanesimo si potenzia, diventa democratico e universale. Nello stesso tempo deve dotarsi di «nuovi strumenti di investigazione» e di nuovi modi di conoscenza che attingono alle scienze umane come linguistica o economia, o alle scienze naturali, come antropologia fisica, tecnologia, e  nuovi modi di approccio all’oggetto, come l’osservazione partecipante e la ricerca sul campo.
Queste pagine di Lévi-Strauss ci fanno capire, che, contro il paradigma identitario, l’etnografia ci può fornire una via “comparatista” all’alterità. Che tipo di comparativismo? Da una parte, non il comparativismo che pure è riconoscibile nello strutturalismo di Lévi-Strauss, cioè la ricerca di strutture logiche e costanti comuni a tutte le culture, vere e proprie regole inconsce (ad esempio la regola inconscia della relazione e dell’alleanza tra gruppi sociali) che sottostanno a ogni struttura sociale e che si manifestano in diverse forme di concettualizzazione umana. Non il comparativismo strutturalista, dunque, ma neppure, dall’altra parte, il comparativismo positivista, cioè la ricerca di universali culturali attraverso generalizzazioni, perseguite dall’evoluzionismo e dal metodo comparativo positivista,[12] secondo una sequenza conoscitiva lineare, che va dall’osservazione e registrazione dei dati istituzionali e simbolici di una società (livello della documentazione etnografica), alla comparazione con aspetti simili di altre società, e infine alla formulazione di leggi generali concernenti la società e la cultura (generalizzazione in una teoria antropologica).
Un paradigma umanista oggi non ha bisogno di universali strutturali o evolutivi, ma semmai, come suggeriscono le tre pagine di Lévi-Strauss, di cogliere le differenze non in modo classificatorio, ma con uno sguardo contrastivo. Ha bisogno cioè di uno sguardo che colga similarità e differenze: sguardo ben presente anche in molti scritti di Lévi-Strauss, e in particolare nel Lévi-Strauss che legge nelle Confessioni di Rousseau la fondazione delle scienze dell’uomo,[13] in un saggio in cui mostra come lo studio e la comprensione dell’altro etnografico (o dell’altro storico) richiedano la radicale presa di distanza da noi stessi. Lo sguardo etnografico sull’alterità consente la comprensione delle differenze e insieme l’autocomprensione.
L’umanesimo ha bisogno di una metodologia della comparazione che risulti da uno sguardo contrastivo, contro il pregiudizio del simile.[14] Il pregiudizio e la ricerca precipitosa del simile e dell’universale impediscono di comprendere il procedere differenziale, e non associativo, della procedura comparativa.[15] Ciò che è comparabile, non lo si ricava attraverso l’associazione dei dati, secondo le procedure empiriche positiviste; non lo si deduce neppure da una pretesa legge o da un archetipo (come si fa ad esempio quando si assume il preteso significato originario di un mito antico, e lo si va a cercare nelle riscritture). Comparare è lavorare sulle differenze, con uno sguardo sinottico, che pone i dati o i testi in compresenza. Si parte quindi da un’operazione di differenziazione (individuare delle differenze), per costruire poi un asse di comparazione e dei criteri di confronto sulla base di tratti comuni (si tratta di «costruire i comparabili», scrive Detienne). Il tema del criterio è fondamentale: comparare infatti non è semplicemente vedere (osservare), ma piuttosto vedere come, vedere secondo una regola schematizzante. Come dice Wittgenstein, vedere come non è vedere delle proprietà negli oggetti, ma vedere le connessioni, vedere ciò che li connette sensatamente.
Un esempio del problema di come pensare la comparazione facendone un vero e proprio attraversamento culturale possono essere i tentativi che sono stati fatti, ad esempio da Kwasi Wiredu, di costruire una nozione di “filosofia africana” decolonizzata, che non rimandi cioè a differenze concettuali già gerarchizzate – come è successo di fatto con l’”etnofilosofia”.[16] Di fatto l’etnofilosofia, ricercando le ontologie dei popoli africani, ha finito per ricondurre la specificità della filosofia africana non tanto a una elaborazione concettuale specifica, e quindi simile e diversa rispetto a quella occidentale, quanto a una serie di pratiche e di visioni del mondo, a quell’universo di significati e di comportamenti simbolici che la filosofia occidentale tende a definire come mitici e prescientifici. L’etnofilosofia è stata al centro di un dibattito post-coloniale tanto più significativo, in quanto animato da pensatori africani, da Gyekye a Hountondji, a Oruka, a Eboussi-Boulaga. Questo dibattito ha mostrato che l’etnofilosofia ha finito per riproporre in ultima analisi una legittimazione dall’esterno della filosofia africana: si pensi all’esemplarità del concetto di Senghor di “négritude”, concetto che esprime una passione identitaria e insieme un processo di auto-comprensione che si realizza sotto lo sguardo dell’altro. C’è evidentemente un legame non ben dominato di dipendenza dai paradigmi del pensiero occidentale e una contraddizione tra, da una parte, la ricerca di una cultura originaria, e, dall’altra, la sua espressione in termini occidentali, senza una vera e propria costruzione di un criterio di comparazione.
Interessante è invece come alcuni topoi del pensiero occidentale, come le dicotomie tra filosofia e cultura, tra tradizione e modernità, tra oralità e scrittura, tra lingue indigene e lingue dominanti della comunicazione, tra nord e sud, siano ripensati in Wiredu e in altri autori africani non come un insieme di opposizioni, ma come traduzioni e attraversamenti di frontiere mobili: si rivelano così dei concetti relazionali, che mostrano la specificità dei contesti e la loro differenza non gerarchica – una differenza non cristallizzata e non gerarchizzata, nel senso dinamico proposto da Jean-Loup Amselle. La filosofia come un’esperienza di traversata culturale, tra la razionalità occidentale e l’eredità tradizionale africana.
Capiamo meglio, alla luce di questa concezione della conoscenza umanistica come conoscenza delle differenze, l’affermazione Walter Benjamin, ripresa da Edward Said,[17] per cui ogni documento di civiltà e cultura è anche un documento di barbarie:
Tutto il patrimonio culturale che [un osservatore distaccato] abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non può pensare senza orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie.[18]
O anche il passo in cui Said dice: ciò che rende interessanti culture e civiltà non è «la loro essenza o purezza, ma le loro mescolanze e diversità».[19] Sono queste, a mio parere, indicazioni metodologiche umanistiche. Suggeriscono che le società, anche quelle tradizionali, non sono entità chiuse, ma processi in cui è coinvolta l’alterità, in un lavoro di rimodellazione continua del “noi”, tra assimilazione e differenziazione. L’auspicio è che questa consapevolezza epistemologica, che è una conquista dell’antropologia, produca anche effetti politici.




[1] M. de Certeau, Etno-grafia. L’oralità, o lo spazio dell’altro: Léry, in La scrittura della storia, 1975, trad. it. di A. Jeronimidis, Il Pensiero Scientifico, Roma 1976, pp. 219-257. Cfr. S. Borutti, U. Fabietti, Introduzione a M. de Certeau, La scrittura dell’altro, Raffaello Cortina, Milano 2005.
[2] Sulla critica della ragione etnica, sono ormai classici i libri di Ugo Fabietti (L’identità etnica. Storia di un concetto equivoco, Carocci, Roma 20132) e di Francesco Remotti (L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010).
[3] J.-L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, 1990, trad. it. di M. Aime, Bollati Boringhieri, Torino 1999; É. Glissant, Poetica del diverso, 1996, trad. it. di F. Neri, Meltemi, Roma 1998.
[4] F. Remotti, Relativismo culturale, in Istituto della Enciclopedia Italiana, Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, vol. VII, 1997, pp. 325-332.
[5] Erodoto, Storie, trad. it. di A. Izzo D’Accinni, BUR, Milano 1998, L. III, 38, 3-4.
[6] C. Geertz, Interpretazione di culture, 1973, trad. it. di E. Bona, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 97.
[7] Attenzione: “intraducibile” non significa qui banalmente lo scacco nel passaggio da un codice linguistico a un altro, cioè l’impossibilità di restituire un termine o un messaggio equivalente in un’altra lingua; significa piuttosto che un rapporto ontologico asimmetrico è la base della produzione della conoscenza antropologica, e che questo rapporto ontologico fa in modo che la conoscenza sia segnata dal presupposto del non rappresentabile in quanto limite della messa in discorso dell’altro.
[8] Cfr. R. Guidieri, La route des morts, Seuil, Paris, 1980, 1.2. e 1.3.
[9] Così lo spazio indeterminato Fataleka diventa concepibile comparando e modificando nello stesso tempo la nostra e la loro concezione di “limite” e di “illimitato”; così l’indecisione di Mauss, che nel suo famoso saggio presenta il dono come un ibrido tra scambio e reciprocità, tra prestazione gratuita e scambio utilitario, può gettar luce sull’oblio occidentale del dono come dismisura, e come “generazione”, apertura di un debito e di una temporalità senza ritorno. Cfr. M. Kilani, Que de  hau! Le débat autour de l’Essai sur le don et la construction e l’objet en anthropologie, in J.-M. Adam, M.-J. Borel, C. Calame, M. Kilani, Le discours anthropologique, Klincksieck, Paris, 1990, pp. 135-167; R. Guidieri, Voci da Babele. Saggi di critica dell’antropologia, trad. it. di S. De Matteis, Guida, Napoli, 1990, pp. 21 sgg.
[10] Cfr. F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, 20092.
[11] C. Lévi-Strauss, I tre umanismi, trad. it. in Antropologia strutturale 2, Il Saggiatore, Milano 1978, pp. 311-314.
[12] In una sequenza conoscitiva lineare, che va dall’osservazione e registrazione dei dati, alla descrizione di una società nei suoi aspetti istituzionali e simbolici (livello della documentazione etnografica), alla comparazione con aspetti simili di altre società, e infine alla formulazione di leggi generali concernenti la società e la cultura (livello della generalizzazione in una teoria antropologica).
[13] Jean-Jacques Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo, 1962, trad. it. di P. Caruso in Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino, 1967, pp. 83-96.
[14] Come abbiamo letto in Lévi-Strauss, « nessuna civiltà può pensare se stessa se non dispone di qualche altra che possa servire da termine di paragone». Cfr Borutti, Heidmann, cap. 7
[15] «Costruire i comparabili», precisa Marcel Detienne, significa oltrepassare il «cerchio ristretto dell’immediatamente “comparabile”», andare al di là dell’«orizzonte ristretto all’opinione dominante» (M. Detienne, Comparer l’incomparable, Seuil, Paris 2001, p. 10).
[16] Cfr. D. Mozzato, Filosofia (africana) in progress. Studio su Kwasi Wiredu, Mimesis, Milano 2013.
[17] E. Said, Umanesimo e critica democratica, trad. it. Il Saggiatore, 2004, p. 53.
[18] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, trad. it. a cura di R. Solmi in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 19952, p. 79.
[19] E. Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 57.





ANTONIO LUBRANO


Antonio Lubrano












Lirica in crisi: come sciupiamo un patrimonio nazionale
"Non ci resta che chiudere". Questa sconsolata battuta del Sovrintendente del Teatro dell'Opera di Roma, Carlo Fuortes, comparve su tutti i giornali nel luglio scorso. Be', potrebbe essere il titolo dell'intero capitolo riguardante l'attuale stato del settore lirico in Italia. E i numeri come al solito dicono più di qualunque discorso. Ecco qua: le 14  fondazioni lirico-sinfoniche italiane contano seimila dipendenti, dai ballerini agli orchestrali, dai coristi ai fonici, ai tecnici in generale. Organici fissi, i cui costi assorbono più del 70% delle entrate.  Oltre la metà dell'intero Fondo unico per lo spettacolo(il Fus) serve a coprire i costi di gestione. Nel 2013 non furono sufficienti 183 milioni di euro. E si calcola che in dieci anni i teatri lirici abbiano perso 250 milioni di euro e accumulato debiti per 328 milioni! Cifre pazzesche.
Un'idea più concreta ce la fornisce il sipario. Sì, proprio quel telo pesante, solitamente rosso, che quando si alza segna l'inizio di ogni magìa teatrale. All'Opera di Roma -giusto per stare sul tempio lirico attualmente più discusso- si alza 163 volte all'anno mentre a Londra  360. I contributi pubblici nella Capitale toccano i 40 milioni di euro, nella capitale inglese 30 milioni di euro, badate bene per il doppio delle alzate.
A Roma il piano di risanamento della Fondazione è praticamente saltato, sicché secondo la legge Bray l'ente non potrebbe avere altro destino che la liquidazione. Naturalmente si tentano salvataggi. "Il primo caso in Italia", ha scritto un giornale. Sì, se non consideriamo il precedente del San Carlo di Napoli che alla fine dell'Ottocento fu costretto a chiudere per debiti (e poi come sappiamo risorto faticosamente dalle ceneri finanziarie). Del resto lo stesso San Carlo è di nuovo in crisi e non si capisce bene quale potrà essere la sua sorte.
L'immediata conseguenza è che le fondazioni non sono più in grado economicamente di produrre nuovi spettacoli. A complicare le cose ci si mettono poi anche gli scioperi indetti da questo o da quel sindacato, che fanno saltare le prime o le repliche. Esempio ultimo La Bohème di Puccini a Caracalla, per tre volte (luglio 14). Immaginatevi la delusione dei turisti stranieri attratti dalla suggestione del monumento e dal mito musicale italiano. Il colmo, nel caso di Caracalla, è dato dal fatto che a mandare a carte quarantotto lo spettacolo sono stati due sindacati di minoranza (appena il 30% del personale), e uno dei due è -nientemeno- la Cgil.
Del resto, a dare una sfumatura di ridicolo al quadro ci si mettono talora certe pretese dei sindacati. Anche qui valgano pochi esempi. Se All'Arena di Verona va in scena l'Aida ed è previsto l'impiego di spade finte, chi le brandisce ha diritto alla "indennità armi". Sempre all'Arena c'è l'indennità lingue per le rappresentazioni in lingua straniera. Alla Scala una prima di Romeo e Giulietta con la coreografia di Sasha Waltz è saltata perché i ballerini volevano un supplemento paga del 10% per la pendenza del palcoscenico: pare  che provocasse l'infiammazione delle caviglie. E il coro a sua volta dovendo in certi passaggi inclinare la testa chiedeva l'indennità piegamenti!
Negli anni Novanta, se ricordo bene, un orchestrale molto sindacalizzato provocò la fine della collaborazione del maestro Riccardo Muti con il S. Carlo. Durante una prova un flautista mostrò con insistenza il suo orologio al direttore. “Che cosa c'è?” - chiese Muti poggiando la bacchetta sullo spartito. “Maestro, a quest'ora abbiamo diritto a un pausa, per contratto!”
Potete immaginare la reazione del maestro. Il quale sembra propenso ad abbandonare anche l'Opera di Roma, dov'era approdato dopo l'esperienza scaligera.
E' triste dover constatare che a far scivolare verso l'abisso la lirica italiana contribuiscano anche episodi del genere. E torna puntualmente in mente il felliniano "Prova d'orchestra", un film che possiamo considerare come il presagio della crisi.
A onor del vero alcune fondazioni liriche sembrano voler seguire l'esempio dei 28  teatri di tradizione italiani, per la gran parte al Nord e una decina al centro-sud: puntano sulle coproduzioni, riducendo così i costi. Tre fondazioni, il Massimo di Palermo, il San Carlo di Napoli e il Petruzzelli di Bari collaborano fra loro per l'allestimento di nuovi spettacoli. Quindi vale il vecchio detto: dove si vuole si può.
Antonio Lubrano

Nel panorama nazionale fa eccezione il Teatro alla Scala che riceve finanziamenti da privati. E coloro che propongono rimedi per la crisi consigliano infatti due vie: riduzione degli esuberi negli organici e quindi esternalizzazione (orribile parola, ma si dice così adesso) delle orchestre e dei corpi di ballo; e sgravi fiscali per le aziende che sponsorizzano le iniziative culturali; quindi in primis la lirica, patrimonio nazionale da oltre 400 anni. Voglio ricordare, per chi non lo sapesse, che la prima opera lirica, Euridice, favola drammatica di Ottavio Rinuccini, messa in musica prima da Jacopo Peri e poi da Giulio Caccini, è del 1600. Di certo più famosa è l'Orfeo di Monteverdi, un prologo e cinque atti, su libretto di Alessandro Striggio, andata in scena al Palazzo Ducale di Mantova nel 1607. Sia l'una che l'altra celebrano la storia d'amore della ninfa Euridice e del cantore Orfeo che incantava con la sua lira gli animali e le anime trapassate.
Al momento la sensazione è che lo stiamo buttando alle ortiche questo patrimonio così squisitamente italiano. Mentre altrove, in tutta l'Asia per esempio, sono nati o sono in costruzione ben 200 teatri d'opera!
(8 agosto 2014)       

 


           
 PINO CORBO
 
Pino Corbo


Autodafé

Atto di fede, proclamazione della propria sedicente innocenza o della compiaciuta condizione ereticale: intervenire sulla mia poesia (o più pomposamente sulla mia poetica) mi crea quell’imbarazzo dell’accusato che deve difendersi, del reo che deve in qualche modo giustificarsi.              
Basterebbe più semplicemente dichiararsi colpevole, o meglio corresponsabile, nell’ammissione di una certa incapacità ad essere normale, cioè  normatizzato  rappresentante della collettività sociale, lusingato dalla conseguente renitenza agli obblighi precostituiti, al consapevole conformismo.
Colpevole di che cosa? Corresponsabile di chi? Colpevole (finalmente libero di esprimere un fastidioso senso di colpa o di inferiorità) di non essere produttivo, anzi in qualche modo di essere uno spreco per l’economia nazionale (forse planetaria), colpevole di occupare spazi nascosti, interspazi, senza avere il coraggio di comiziare, di trascinare masse; in definitiva reo di diserzione, opacità pensosa, disfattismo etico, “distimìe” energetiche, opportunista giocoliere di sintagmi stucchevoli, di stati d’animo sospesi, astratti come i pensieri che li nutrono.

Corresponsabile (ora diranno i più che si tratta di un puro escamotage) di tutti coloro che rappresento e che si possono chiamare (data la situazione tribunalesca) complici; non dico che essi si riconoscano in toto in me, perché, malgrado l’omogeneizzazione di massa, ognuno virtualmente è irripetibile ed insostituibile, ma almeno i miei compagni di strada condividono con me il senso estremo delle cose, la coscienza dell’insondabile e del sublime effimero; ripeto, non parlo per tutti loro, tanto, pure se colpevole appaio, il mondo fortunatamente continuerà a ruotare senza minimamente variare per la colpevolezza mia e di chi sa  quanti altri correi, costretti anch’essi da un atto di fede pubblico a un manifesto atto di accusa.



MARILENA VITA 

Marilena Vita



















LA BELLEZZA E LA QUIETE NELLA FOTOGRAFIA

I maestri Zen usano il termine satori per descrivere un lampo di intuizione, un momento di assenza di mente e di presenza totale.
E un attimo di illuminazione, di bellezza che per essere colta ha bisogno di una nostra totale presenza. Il satori è il momento più alto nella pratica del Buddismo Zen, momento in cui l'intera esperienza personale è proiettata in un unico istante, e porta ad un annullarsi cosciente e momentaneo del soggetto, che non deriva  da una rinuncia del  mondo esterno ma dalla partecipazione ad esso tramite l'atto puro.
Al di là della bellezza della  forma esteriore il corpo in fotografia ha  qualcosa di ineffabile, un’essenza profonda, interiore e sacra.
Se poi quell’attimo bloccato diventa autoscatto ecco che il corpo assume in quel preciso momento la consapevolezza dell’esserci.
Lo scatto in questo genere di fotografia è una libertà, che attraverso l’auto-osservazione ci permette di entrare in profondità nel corpo.
Quando e dove vi è ”bellezza” questa essenza interiore traspare in qualche modo anche all’esterno.
Questa si percepisce appunto attraverso la contemplazione del proprio corpo che crea un ponte tra il soggetto che si ritrae e l’opera/immagine, che scaturisce una quiete interiore.

The sun on the city (2012)

Una visione a circuito chiuso che quasi in forma narrativa ci riporta ad una condizione che ci appartiene che  abbiamo smarrito nel mondo della forma.

«visibile e mobile il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio attorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo». (L’occhio e lo spirito, di Maurice Merleau-Ponty).

Il corpo, autoritratto in fotografia a volte gioca con la propria ombra, si assimila agli intonaci di muri fatiscenti, compare da porte, si fonde con la natura, la luce gli dona quasi un senso di apparizione. Anche il fondersi con gli ambienti che le appartengono, non rappresenta la volontà di nascondersi ma al contrario quella di mostrare il proprio io e di parlare di sé attraverso le immagini. Gli ambienti dove il corpo si innesta  assumono il valore simbolico di giardino sacro suggerendo l’invisibile attraverso il visibile. La fotografia in questo caso ci mostra il non manifestato per mezzo della forma, con l’ausilio del silenzio e della contemplazione. Un’esternazione di uno spazio  interiore ed esteriore che  ha  il potere di persistere  in una dimensione senza tempo (data dall’opera) in un equilibrio sempre  precario tra vita e la morte. 




MAURIZIO MESCHIA



Maurizio Meschia





















DISORIENTAMENTI


Nessuna notizia.
In ascolto soltanto del suono

di un verso in esilio
















Si forma, si sforma.
Nell’eterno ritorna

ciò che non era















Celeste promessa
scritta nel vento,
quale udito hai mai offeso?


Incompiuta e amata
una scrittura si dipana
perché la lingua madre

sia una lingua ignota















Nel disorientamento
puoi vedere il movimento

che impagina infinito stupore
















Triste il lascito del sapere,
tragico quello del suo opposto.
Non resta che un volo incauto

su un acuto trascendente

Lettere mai scritte
per un destinatario inesistente
che tutto conosce del mittente
















Non ha direzione
la grigia cometa
pulsante di vita smarrita

Suona una partitura ma
solo da un errore di battitura
sboccia inattesa meraviglia

Tutte le ali battono
per l’angelo perduto,
quasi un estremo applauso

a lenire la vergogna

















A sin. Maurizio Meschia, a des. Angelo Gaccione















ALEX ZANOTELLI


padre Alex Zanotelli














NON LASCIAMO SOLI I PALESTINESI                        

La solitudine del popolo palestinese è la vergogna del mondo. Una immensa  sofferenza che dura da 70 anni, sfociata adesso  in un urlo di disperazione per questa assurda e impari guerra tra Israele e Palestina. E come risposta c’è solo silenzio, indifferenza, sia da parte dell’Unione Europea, sempre più assente, sia da parte dell’Italia, sempre più legata ad Israele, sia da parte della chiesa italiana, sempre più silente.
E’ un grido di dolore che mi tocca profondamente come credente nel Dio della vita, come missionario inviato a costruire un mondo ‘altro’ da quello che abbiamo.
In questo tragico momento faccio mio il grido lanciato dai leaders delle chiese cristiane in Palestina, in un documento del 2009, Kairòs  Palestina, che è stato volutamente boicottato e oscurato: "Noi ….gridiamo dal cuore della sofferenza che stiamo vivendo nella nostra terra, sotto occupazione israeliana, con un grido di speranza in assenza di ogni speranza….” Un grido di sofferenza che riassumono così :”Il Muro di separazione eretto in territorio palestinese… ha reso le nostre città e i nostri villaggi come prigioni, separandoli gli uni dagli altri; Gaza, specialmente, continua a vivere in condizioni inumane, sotto assedio permanente…Gli insediamenti israeliani devastano la nostra terra in nome di Dio o in nome della forza, controllando le nostre risorse naturali, specialmente l’acqua e le risorse agricole…”
 Partendo da questa violenza sistemica, i pastori delle chiese dichiarano : "L’occupazione israeliana della terra palestinese è un peccato contro Dio e contro l’umanità poiché depriva i palestinesi dei fondamentali diritti umani". I leaders delle chiese invitano quindi i palestinesi alla resistenza come nelle prima intifada: "Affermiamo che la nostra scelta come cristiani di fronte all’occupazione israeliana è di resistere. La resistenza è un diritto e un dovere per il cristiano. Ma è una resistenza che ha l’amore come logica. E’ quindi una resistenza creativa, poiché deve trovare strade umane che impegnino l’umanità del nemico. Dobbiamo combattere il male, ma Gesù ci ha insegnato che non possiamo combattere il male con il male. Possiamo resistere attraverso la disobbedienza civile."
E’ la via seguita nella lotta contro il regime dell’apartheid in Sudafrica da uomini come il Premio Nobel per la pace Desmond Tutu, che giorni fa ha affermato: "Israeliti e Palestinesi devono uscire dalla logica dell’odio e della guerra. Israele non otterrà mai una vera sicurezza per mezzo dell’oppressione dei Palestinesi. E la Palestina non otterrà mai una pacifica autodeterminazione per mezzo della violenza dei razzi. Nessun conflito è irrimediabile. Nessun dissidio è così assoluto da non poter mai essere riconciliato.”
Per questo i leaders delle chiese in Palestina offrono come primo  strumento di resistenza il boicottaggio. “Individui, aziende e stati si impegnino nel disinvestimento e nel boicottaggio di ciò che viene prodotto dall’occupazione.”
E’ da chiedere altresì l’embargo militare contro Israele come proposto dai Premi Nobel in un recente appello. Nel periodo 2008-2019, gli USA forniranno ad Israele aiuti militari per 30 milardi di dollari. Altrettanto sta facendo la UE, che ha inoltre concesso alle imprese militari e alle università israeliane centinaia di milioni di euro per la ricerca militare. Israele è uno dei principali produttori e/o esportatori mondiali di droni militarizzati.
L’Italia è nella UE il primo esportatore di armi verso Israele. Nel 2012 abbiamo esportato armi a quel paese per un valore di 470 milioni di euro. Il 9 luglio, mentre era in atto il bombardamento di Gaza, l’Italia ha consegnato a Israele i primi due veivoli Alenia-Aermacchi M 346. Questo in barba alla legge 185 che vieta la vendita di armi a paesi in guerra. L’Italia deve rifiutarsi di consegnare gli altri 28 esemplari.


padre Alex Zanotelli

Chiediamo inoltre la revoca del Trattato militare segreto Italia-Israele,  conosciuto come "Accordo generale di cooperazione militare e della difesa".
Riteniamo altrettanto importante il Boicottaggio delle Banche, che pagano per questo commercio di armi (Campagna Banche armate), ritirando i nostri soldi dalle banche ‘armate’.
Infine proponiamo una grande manifestazione nazionale che includa tutti (Chiese, sindacati, movimenti), per far sentire di nuovo la voce di un popolo che ha il coraggio di dire NO a un mondo in guerra, a un Sistema che ha bisogno delle armi e della guerra per continuare a permettere a pochi di avere quasi tutto.
“Speranza è fede in azione contro l’Impero- scrive il pastore luterano palestinese Mitri Raheb, nel suo potente libro Faith in the face of Empire. Speranza è quello che noi oggi facciamo. Solo quello che noi oggi facciamo come popolo della fede e come cittadini impegnati, può cambiare il corso della storia e mettere le fondamenta per un futuro alternativo. Questa è la tradizione profetica che è venuta dalla Palestina , una tradizione che dobbiamo tenere viva.”
[Napoli, 28/7/ 2014]                                                                        




RENATO SEREGNI   

Renato Seregni













DIO
un... Eppure
Affermazionismi


“Dopo tutto, che cosa è Dio?
Un fanciullo eterno che gioca a un
gioco eterno in un giardino eterno”.
Sri Aurobindo
(filosofo e mistico indiano1872-1950)



Speranza: balistica di Dio.
Dio ci ha dato talenti diversi. La pubblicità ci vuole simili.
Padre nostro che sei.

Localizzare la Divinità ci esclude dalla Divinità.
Risurrezione: l’ottimismo del settimo giorno.
Fiera delle vanità: Fede e Ragione, incontro scontro.
Ingresso libero.

Croce: lacrime da bere per stretta dieta spirituale.
Dio, un pensiero che brucia.
Dammi preghiere bonsai per sciogliere inquietudini.

Cerco verità con la fierezza del pianto. Placato, srotolo
il cielo dell’anima.
Cercare Dio è piacere enigmistico.
Dio è come la nebbia, quando c’è non si vede.
Io, filosofico sputo di Dio.

Al Dio dell’ironia offro la mia incoscienza cosciente
della Sua.
L’universo: lo stile di Dio.
Domenicani e Gesuiti uniti. Dio, dove stai?

Giuda: il politico di Gesù.
Spastico emotivo m’affido a Dio che accorda i ricordi.
Il mio Dio bambino prima crea, poi colora.

È da uno spiraglio che Dio invade.
Dio è un pensiero che vive.
Se spegni la speranza Dio si rabbuia.

Dio ha buon tempo perché sa aspettare.
Vorrei Dio come amante discreta.
Sono una negazione, capovolto sono la negazione
di una negazione, trapezista di Dio.

Colui che cerca l’ordine spirituale culmina nella
contemplazione di Dio. Alle volte.
La verità gioca alle mille porte.
Se il gesto è metafisico, sono Dio.

Gli uccelli del cielo e i fiori dei campi sono
gli spot di Dio.
Se pensa a me, Dio incrocia le dita.
Cogliere Dio nel rumore dei capelli.

Dio pescatore nell’ambiguità del vivere.
Relativismo etico: fratelli di un Dio sconosciuto.
Non ho interlocutori, solo Dio mi ascolta.

L'inconscio collettivo attende un Dio che acquieta.
Padre nostro che sei.
Verticalizzo con Dio.

Innamorarsi avvicina a Dio.
Dio è vivo, solo che non vuole essere coinvolto.
Dio: teorema con tre incognite.


Opera di J. Mirò
















Croce e amore. Da Dio!
Dio gioca a braccia aperte.






LUIGI CAROLI


Col cartello Luigi Caroli (a si. A. Gaccione)



















Scenari

I giusti non si aspettino giustizia,
premi ad onesti? Giammai ci fu dovizia.

Chi sempre mediocre fu finì per vincere
chi mai disobbedì non può che fingere!

Sappiano i liberi pensatori,
i dotti ingegni, artisti e scrittori

e gli assetati di accordi col nemico.
Di loro agli altri non importa un fico.

Lame affilate son per gli assassini
ed è illusion servan a mozzar panini.

(Milano, 15 aprile 2014.
Testo ispirato al dramma teatrale di Angelo Gaccione
La porta del sangue e a lui dedicata)



 


ROBERTO MARELLI


Roberto Marelli (foto Elisabetta Marelli)










NOSTALGIA

Mi sto recando in una Emittente Televisiva privata per raccontare le mie Storie di Lombardia.
Ho appena parcheggiato la macchina, quando vengo fermato da una persona anziana che mi chiede se posso cambiargli un euro perché deve entrare in un COSO pubblico e può farlo solo con una moneta da 10 centesimi. Dai tremolii delle gambe e dai movimenti che fa, il bisogno deve essere urgente; nel timore che da lì a poco se la farà addosso, cerco di aiutarlo. Frugo nelle tasche, ma monete non ne ho... che fare? Gente da lì ne passa poca e chi passa ha fretta... Chiedo ai tassisti del vicino posteggio... niente da fare: la moneta serve a loro... anche per le necessità impellenti!
Mi viene in mente che nel posacenere della macchina tengo sempre degli spiccioli per il parcheggio automatico; vado a prendere 10 centesimi che consegno all'uomo, il quale mi ringrazia, corre a metterle nell'apposita fessura ed entra al suono di una musichetta -ideata forse, per predisporre meglio alla minzione-. Quando la porta si chiude alle sue spalle, incuriosito mi avvicino e leggo le istruzioni; le modalità d'uso sono scritte in quattro lingue: italiano, francese, inglese e tedesco - se arrivasse un giapponese, anche con la monetina, rischierebbe di farsela addosso! -La moneta giusta è quella da 10 centesimi , ma anche le altre vanno bene, solo che la macchina non dà il resto. Altra avvertenza: i bambini inferiori agli anni dieci devono essere accompagnati (e qui possono nascere degli equivoci ed essere accusati di pedofilia); non bisogna fermarsi più di TOT minuti, dopodiché le porte si aprono e si rischia di essere investiti da un getto d'acqua e detersivo. Un disc play, difficile da leggere tanto è piccolo e veloce, detta le istruzioni: salvietta umidificata e carta igienica sono all'interno a disposizione del fruitore; una volta dentro prima di uscire bisogna premere un pedale e tirare la maniglia, nel caso in cui si rimanga bloccati bisogna avvertire telefonicamente la ditta installatrice (E se uno non ha il cellulare?), infine luce verde se è libero, luce rossa se è occupato. Altro non ho letto ma mi basta. Vere cattedrali nel deserto, i COSI sono semi nascosti in alcune piazze e viali della città, pochi li sanno riconoscere.
Risultato: la gente rimpiange quelli vecchi, che presero il nome dall'Imperatore romano Tito Flavio Vespasiano, che per primo li installò a Roma; poiché era in deficit per 40.000 milioni di sesterzi, nella sua azione di risanamento delle finanze, mise una tassa su di loro e l'orina veniva raccolta per ricavarne ammoniaca!
Vecchio vespasiano


I vespasiani di color verde a forma di garitta, col tettuccio antipioggia, acqua corrente continua e assoluta libertà di accesso, senza il rischio per un povero diavolo sofferente di enùresi, e magari al minimo della pensione, di spenderla tutta in monetine per orinare nei moderni COSI! Continuo a chiamarli COSI perché mi rifiuto di associarli ai pratici vespasiani di un tempo! Qualcuno obietterà: ma nei vespasiani potevano andarci solo gli uomini, nei COSI finalmente le donne hanno raggiunto la tanto sospirata parità di... pipì! D'accordo, però coi vespasiani circa la metà del popolo italiano aveva risolto il problema della pipì, ma adesso? O hanno la monetina o tutti, uomini e donne, se la faranno addosso! Penso, chissà se ce ne saranno ancora a Milano, è tanto che non ne vedo più uno! Incuriosito faccio un giro per la città, ma di vespasiani nemmeno l'ombra, l'ultimo rimasto era al capolinea tramviario di piazza Negrelli, secondo la testimonianza di un pensionato ATM che passava le sue giornate girando gratis da un tram all'altro, ma da quando cominciò a soffrire di incontinenza era la sola linea che percorreva, rassicurato dalla certezza di poter espletare in tutta tranquillità prima di ricominciare il giro. Ora in piazza Negrelli è rimasta solo la vedova - ossia la fontanella. - Mi lascio prendere dai ricordi: caro vespasiano del tempo che fu, fonte termale dei poveri, luogo di incontro estivo tra pensionati che tra una bevuta alla vedova e una pipì, discutevano sulle sorti dell'Italia, come se si trovassero a passare le acque a Fiuggi, a Chianciano o chissà dove! Caro vespasiano, paradiso dei gay che allora ambrosianamente si chiamavano flobert, e passavano ore e ore lì  vicino facendo la posta a chissà quale preda!


Vespasiano verde


Caro vespasiano, fonte d'ispirazione di tanti poeti, memorabile la lirica del perugino Sandro Penna che, come scrive Luigi De Bellis: trasfigura ogni cosa anche la più squallida.

"Nel fresco orinatoio alla stazione
sono disceso dalla collina ardente.
Sulla mia pelle polvere e sudore
m'inebriano. Negli occhi ancora canta
il sole. Anima e corpo ora abbandono
fra la lucida bianca porcellana...
Il cielo è vuoto, ma negli occhi neri     
di quel fanciullo pregherò il mio dio.
Ma il mio dio se ne va in bicicletta
o bagna il muro con disinvoltura...".

Giosafatte Rotondi, bravissimo cantore lombardo, ha dedicato al vespasiano una delle sue rime più geniali, continuate poi, con una variazione sul tema, dal suo amico e nostro massimo lirico del novecento, Delio Tessa!
A conclusione di queste riflessioni voglio riproporvele; le prime strofe sono del Rotondi che chiamò la poesia Nostalgia, poi, in perfetta sintonia continua il Tessa che chiamò la sua I pissatoj vecc de Milan.
 
"Pissatòj di temp andaa,
alla bonna, in sul canton,
nient pretés e invernisaa
cont ona man de godron;
senza lussi e senza gioeugh
de idraulica, ma a loeugh!
Quatter pass - e el viandant
l'era franch - de sodisfass!
Ma... lalella incoeu! a spand
acqua in straa, per no pissass
in la patta, - pover omm
toeu su el tramm e cor al Domm!
Pissatoj d'on temp! adess, 
soeuja mi, tuscoss se accentra;
fin l'orina, el gius, i cess;
tutt a l'orden, vun che l'entra,
vun ch'el pissa, vun ch'el sort...
pissatoj di noster mort!......
Pissatoj del dì d'incoeu!
cent volt mej qui d'ona volta!...
cont i so teccett de tolla
e coi so dò bravi alett
part e part e intorna al boeuc
poeu...cristofen! che laghett!
 

Pisciatoi dei tempi andati, /alla buona, un po' appartati, /niente pretese e verniciati /con una mano di catrame; /senza lussi e senza artifici /di sorta, ma all'uòpo!/

Quattro passi - e il viandante /era sicuro di soddisfarsi! /Ma... oggi 

accipicchia! a spandere / acqua in strada, per non bagnarsi /la patta - 
poveràccio - /prendi il tram e corri in Duomo!/ Pisciatoi di un tempo! adesso, / che ne so, tutto si accentra; / perfino l'orina, il liquame, i cessi; / tutto ordinato, uno che entra, / uno che orina, uno che esce.../pisciatoi dei tempi andati!.../
Pisciatoi del giorno d'oggi! / cento volte meglio quelli di una volta!.../ con i suoi tettucci di latta / e con le sue due brave alette / da una parte e dall'altra e attorno al buco / poi... cristofen! che laghetto!


  
                                         

GABRIELE SCARAMUZZA


Gabriele Scaramuzza



















NUOVE SU KAFKA

Né nel ’13 né nel ’14 ricorre alcun anniversario kafkiano, eppure quest’ultimo scorcio di tempo ha visto quanto meno la ripubblicazione di un romanzo di Kafka, e di alcuni saggi su Kafka. 
        
1. La cosa che per prima dà nell’occhio è naturalmente l’uscita, presso Mimesis (Milano, 2014), di una nuova traduzione di Il Castello (condotta sull’edizione critica del romanzo a cura di Malcolm Pasley, uscita da Fischer nel 1981) a cura di Barbara di Noi, cui si deve il saggio introduttivo (“Congetture su K. Landstreicher e Landvermesser: l’ambiguità dell’evidenza”); a Franco Rella si deve la postfazione (“Kafka. Raccontare l’esilio”).        
La riproposta del Castello offre lo spunto per ripensare qualche tratto di questo romanzo, e per confermare convinzioni già formatesi. Mi permetto solo qualche riflessione, le prime che la rilettura mi offre.  
Il tema di fondo, come è risaputo, è l’estraneità di K., il ritrovarsi in un mondo ostile, il sentirsi in esso “di troppo”. Nel secondo capitolo del romanzo leggiamo (nella traduzione di A. Rho): “K. sapeva che non lo minacciavano costrizioni, di questo non aveva paura, soprattutto nel caso presente; temeva invece la potenza d’un ambiente scoraggiante, l’abitudine alle delusioni, la violenza degli influssi imponderabili che avrebbe subito ad ogni momento, ma contro questo pericolo doveva arrischiare la lotta”. K. vive “la condizione esistenziale dell’uomo cui il proprio destino non appartiene” - scrive Remo Cantoni nella sua prefazione alla prima traduzione in italiano del romanzo, tuttora da tenere ben presente, di Anita Rho (Milano, Mondadori, 1948). Ma al tempo stesso K. è animato dalla costante attesa, dal profondo desiderio anzi, di venir accolto, di essere accettato nel mondo in cui approda.  

Come sempre in Kafka, anche questa storia non ha una trama che cresce su se stessa, si chiarisce, si compie; qualcosa in essa, piuttosto, sembra chiaro all’inizio e si presenta con tutti i crismi della plausibilità, ma di fatto si disfa e si perde. Come il canto di Giuseppina, come le leggi che motivano l’arresto di Josef K., come il messaggio dell’imperatore. Così la lettera che K. riceve tramite Barnaba, e che pare dapprima fugare ogni sospetto, è sottoposta nel corso del romanzo a esegesi, precisazioni, messe a punto, che rendono precaria, e di fatto annullano, la conferma della chiamata come agrimensore, che aveva spinto K. ad approdare al villaggio raccolto attorno al castello.  Qualcosa è atteso, disperatamente perseguito, con determinazione, e tuttavia sfugge. Il riconoscimento resta solo sperato, la condizione di straniero resterà tale.  
Non sappiamo come vada a finire la vicenda: il romanzo resta incompiuto. La testimonianza di Max Brod non gli toglie, anzi ne conferma, l’enigmaticità: Kafka stesso gli avrebbe confidato che nel finale del romanzo K., ormai morente (come il contadino della parabola della legge), vede giungere dal Castello la decisione, “che non dà a K. diritto di cittadinanza nel villaggio, ma, per riguardo a certe circostanze accessorie, gli concede tuttavia di vivere e di lavorarci” (Nota di Brod posta alla fine dell’edizione mondadoriana del Castello).  L’incompiutezza non è tanto un caso infelice, una carenza; in certo modo appartiene alla sostanza stessa del romanzo – come Remo Cantoni ha sottolineato nella prefazione cui già s’è fatto cenno.      

2. Già il titolo Kafka è stato con me tutta la vita (Bologna, Il Mulino, 2014), di Antonio Cassese, prestigioso giurista da poco scomparso, è quanto mai sintomatico: segnala la profonda complicità dell’autore con Kafka. “Kafka - scrive - è grande perché ha saputo esprimere la sua irrequietudine disperata in termini così universali, che ognuno di noi, leggendolo, vede nei suoi racconti il riflesso delle proprie incertezze e fragilità”. Perché “esprime per immagini” quel “senso profondo di inquietudine per l’incomprensibilità del mondo”, che ci è comune.       
Trova consenzienti ovviamente il riconoscimento esplicito della grandezza di Kafka, messa in discussione da pochi - tra cui in particolare, come ci ricorda lo stesso Cassese, Edmund Wilson (Saggi letterari 1920-1950, Milano, Garzanti, 1967, pp. 273 e 279).
Ci sono poi motivi enucleati con grande finezza, quale quello della finestra: nel Processo è ad es. presente in momenti chiave quali l’inizio e la fine, col senso di sospensione, di inquietante stranezza, di misteriosità, che reca in sé.   
Assai rilevante, e per nulla scontato (non è affatto presente, a quanto mi consta, nel panorama delle letture kafkiane), è il problema che Cassese vede come centrale in Kafka: il desiderio di esser di aiuto agli altri, la necessità di difendere gli altri, la ribellione all’ingiustizia. E, insieme, il vivere come colpa la propria impotenza, il non potersi opporre agli ostacoli immani che gli si parano davanti; il non potersi emancipare neppure attraverso lo scrivere. Questo tema, esemplificato da Cassese in modo magistrale nella sua esegesi di Il fuochista, è veramente “uno dei nodi essenziali dell’esistenza” di Kafka. È ricorrente in lui la disperante convinzione che “la redenzione, la fine del sentimento di colpa, la liberazione da tutte le lacerazioni e da tutti i conflitti, non potranno mai realizzarsi”.


Sono problemi che Cassese dovette sentire profondamente nella propria vita, animata da una profonda volontà di venire incontro agli altri, dal desiderio, sempre frustrato, di contrastare gli orrori della storia. Cassese fu attivo in vari organismi per la denuncia dei crimini della ex Jugoslavia, del Darfur, del Libano; prestò la sua opera nel Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura, si impegnò nella Commissione dei diritti umani all’Onu. Insieme tuttavia la sua esistenza fu scossa dagli insuperabili ostacoli a realizzare i propri intenti e, con essi, se stesso. A suo parere trova eco in Kafka l’atroce delusione di non poter compiere la propria missione, l’angoscia di fronte a una violenza, a una sopraffazione che imperterrite mai cessano la propria opera.    
Un’ultima cosa è da rilevare: il dubbio di Cassese, radicale, che sbagliato fosse porsi quel problema, “che mi ha assillato così a lungo. Ma forse non esiste una risposta” - come afferma. Considero tipicamente kafkiano (almeno nell’interpretazione che alcuni ne danno) un simile dubbio: che sbagliato sia porsi domande, insistere a voler chiarimenti di qualcosa che è semplicemente da vivere nella sua enigmaticità.  
   

3. Il libro di gran lunga più impegnato sul fronte delle specifiche ricerche kafkiane  è tuttavia quello di Simonetta Sanna: Franz Kafka (Roma, Istituto Italiano di Studi Germanici, 2013).
Dell’autrice ricorderei la formazione soprattutto berlinese e dunque di respiro assai più ampio di quello sardo in cui vive e opera (insegna all’Università di Sassari). Ha scritto comunque due libri sulla “questione sarda” e in Sardegna si è impegnata anche politicamente. Questo l’ha resa avvertita dei meccanismi del potere, e le è stato utile anche per affrontare adeguatamente in particolare, ad es., il dramma di Büchner, Dantons Tod. Da ultimo ha collaborato con artisti tedeschi ed è stata coinvolta in progetti di ricerca europea sul tema della violenza e del male; mi ha scritto che si occuperà delle donne naziste attive nella letteratura dal secondo dopoguerra a oggi - e spero di poter leggere i risultati di queste sue ultime ricerche. Di scritti e film sul nazismo, la shoah e l’antisemitismo sono infatti un assiduo (ancorché dilettante) frequentatore, complice non solo Kafka, ma anche l’interesse, che dovrebbe essere di tutti, per il problema della violenza della storia, e per il peculiare intreccio di alta cultura e barbarie nella storia della Germania, che Georg Steiner ha posto al centro dei suoi scritti.    
Il testo di Sanna è ricco, informato, convincente; “attento e prudente proprio là dove con Kafka bisogna esserlo” (adotto qui a mio uso parole sue). La scrittura non è arida ma accattivante, fluida anche laddove si fa densa. Non si perde in ampie discussioni critiche, ma insegue una propria via con determinazione ed equilibrio. La lettura del libro prende, e invoglia a parlarne, a farne oggetto di spontanee considerazioni. Questo vale tanto più nel mio caso, dato che in parte avalla tesi che ho sostenuto nel coevo Kafka a Milano. La città, la testimonianza, la legge (Milano, Mimesis, 2013).
Mi ha trovato del tutto d’accordo il suo avvicinarsi all’opera di Kafka attraverso la vita, l’intrecciare arte e vita nella ricostruzione del mondo kafkiano. Senza mai tuttavia perdere la consapevolezza dell’alterità dell’opera rispetto alle rimanenti dimensioni del vivere. Il non abbandonare la vita a una sorta di mero preliminare, a un limbo da tener in disparte, quasi contasse solo una scrittura “autonoma” e valida a prescindere, lo condivido. Senza contare che di ciò che chiamiamo vita anche lo scrivere è pur parte, e non secondaria.  
Le pagine sulla vita sono già di per sé molto dense; così lo sono le pagine sul ruolo delle donne nell’esistenza di Kafka. Sul tema Simonetta Sanna ha detto le cose per me più vere; non ho mai letto nulla che mi convincesse di più. E non condivido proprio quello che altri hanno scritto, relegando questi eventi in una privatezza che ne sminuisce il senso e il valore. A proposito dei fidanzamenti di Kafka, dei suoi rapporti con la sessualità, un interesse biografico non comporta alcuna “deformazione soggettiva”, dato che simili eventi hanno una “portata conoscitiva”, volta a esperienze non solo soggettive.
Oltre al tema delle donne, mi hanno poi colpito nella seconda parte il tema della “soglia” (già il titolo, di cui il termine fa parte, è benissimo scelto) e quello del possibile; oltre ad alcune osservazioni puntuali da cui ho imparato non poco. Felice è anche quanto una volta mi ha scritto, e che trova in me una conferma, circa “l'essere uno con se stessi, premessa per aprirsi agli altri e alla loro complessità”.   
In modo particolare è da rilevare il modo equilibrato, e senz’altro da tener presente, con cui è stato affrontato il problema dell’ebraismo in Kafka. Sul mio interesse per questo tema hanno senz’altro agito, oltre a Kafka, anche le mie frequentazioni del tema della Shoah, e alcuni studi che ho letto da ultimo, tra cui in particolare, di Elie Wiesel, Celebrazione hassidica. Aggiungo che mi ha fatto piacere che Sanna non abbia dato un rilievo esclusivo alle ricerche di Baioni, di cui è da apprezzare il grande lavoro, ma di cui anche non sono da accettare, a mio avviso, tutte le opinioni, e neppure le tesi di fondo. L’ebraismo è ovviamente importante per Kafka, ma non è tutto; più condivisibile è qui la posizione di Remo Cantoni, ebreo per parte di padre (la madre era berlinese ma non ebrea; anche per questo conosceva perfettamente la lingua e la cultura tedesca), per cui l’incidenza dell’ebraismo in Kafka non deve lasciare in ombra il suo profondo senso anche per chi ebreo non sia. Kafka era soprattutto scrittore, nella sua complessa personalità l’ebraismo, è innegabile, c’entra non poco; ma non è tutto. È solo un piano, per nulla trascurabile com’è ovvio, della sua personale torre di Babele. 
Non a caso tornano di continuo nelle pagine di Sanna il termine Eigentümlichkeit e simili, accanto al termine riconoscimento.  Eigentümlichkeit, mi ha spiegato, consiste in “eigen più tre suffissi, come se si trattasse della massima sostantivizzazione possibile di ciò che è proprio, peculiare, caratteristico, distintivo di quell'individuo; ma proprio perché le differenze sono minime tanto più contraddistinguono proprio il singolo”.
Quanto a “riconoscimento”, tra le cose che mi hanno catturato maggiormente sta proprio l’aver messo al centro, e poi sviluppato ampiamente, il tema del riconoscimento. È un tema centrale per me, lo sento anche personalmente come attuale. 
  
Concludo ricordando: ho chiesto a Simonetta Sanna la sua opinione circa i due termini con cui si apre e si chiude Il Processo: la calunnia e la vergogna. Per quanto restia a scender nel mondo estremamente complesso delle interpretazioni, e dunque cauta e portata a relativizzare le proprie tesi, mi ha offerto ipotesi utili; anche se, mi scrive, “soltanto come individuo, non come studioso” (ciascun lettore, aggiunge, ha diritto ad avere una propria, purché non arbitraria, idea su cui riflettere). “Tutto - sostiene - calunnia Kafka, proprio perché nel caso della famiglia, della religione, dell’ebraismo, della burocrazia ecc. intende individuare una sua propria ‘legge’, una sua visione, un suo atteggiamento rispetto a ogni norma e a questo vuole incoraggiare anche gli altri/il lettore”.      
Quanto alla vergogna: “per questa volta – non come negli ultimi racconti ‘berlinesi’, in cui l’identità del narratore è quella dell’arte, dell’artista – non riesce a imporre in alcun modo una sua legge (che qualcuno ci sia riuscito si narra soltanto nelle leggende, ossia vi era riuscita – sul piano della storia – una figura mitica come Napoleone, su cui non a caso K. sempre torna: essere riuscito a partire per Berlino è impresa napoleonica!). Di conseguenza rimane la colpa della diversità e la vergogna”.
Dà non poco da pensare anche questo, e anche di questo c’è da essere grati a Simonetta Sanna.


 




GIOVANNI BIANCHI



Giovanni Bianchi



Il politico e il tempo

Perde, chi scruta,
L’irrevocabil presente.
Clemente Rebora, Frammenti Lirici



La crescita

Il tempo va guadagnando importanza Rispetto allo spazio. Implicati nell'operazione Einstein e papa Bergoglio. Le ripercussioni della crescita del tempo vanno via via manifestandosi anche nell'arena politica e massimamente nella fase marinettiana della Repubblica Italiana che stiamo attraversando. Un fattore da non mitizzare ideologicamente (come di fatto avviene) e da analizzare nelle ragioni della crescita. Intorno al tempo s'era già esercitata la meditazione di don Giuseppe Dossetti e quindi mette conto ritornare ancora una volta nella miniera appenninica del profeta di Monte Sole. Confesso subito la mia inadeguatezza ad affrontare un tema che ha nello svolgimento l'aggettivo "kairologico", impronunciabile a Sesto San Giovanni.
Confesso anche la difficoltà a confrontarmi con su un tema così arduo con Giuseppe Dosetti, il grande rimosso della politica e della Chiesa italiana, in una fase nella quale l'aggettivo “dossettiano” suona sulla stampa e nel politichese corrente quasi un insulto. Non potendo tuttavia sottrarmi al compito e all'insistenza degli amici mi accingo a trattare le parti del discorso avvertendo che temi interni al tema, o conseguenti, possono risultare politica e profezia o anche politica e memoria. Passato e futuro, nel pensiero anarchico di Herzen. Responsabilità ("coscienza vigile" in Dossetti) nella stagione globalmente determinata da circostanze che nulla hanno a che vedere con il troppo ripetuto mantra gramsciano che contrappone al pessimismo della ragione l'ottimismo della volontà. Kairòs descrive comunque in teologia la forma qualitativa del tempo, e cioè il tempo designato nello scopo di  Dio, in contrapposizione al tempo come sequenza.
È possibile un tempo politico lontano dai vantaggi che sono “seduttori” non solo per la Chiesa? Una politica nemica delle convenienze e aliena dai narcisismi del sondaggismo volgare, eppure obbligatoriamente astuta come serpente?

Decisione e decisionismo

Anzitutto, questa politica non ha tempo, perché non può perdere il tempo della decisione. Il suo imperativo categorico e la sua costrizione stanno esattamente lì. La sua verità è a tempo, un tempo più rapido delle scadenze segnate sui barattoli dei commestibili. Eppure - questo il paradosso - l'essere completamente nel tempo (che è sequenza di attimi fuggenti e determinati da sopra e da fuori) le impedisce di pensare il tempo, ossia di avere tempo per sé, per riflettere cioè sulla propria responsabilità e sul destino. Val la pena ricordare una volta ancora che Aldo Moro, notoriamente assai meno radicale di Dossetti, aveva l'abitudine di ripetere che il "pensare politica e già per il novanta percento fare politica".
La mancanza di tempo asserve la politica al pilota automatico della finanza, al casinò borsistico, e la condanna a quella "grettezza" che il presidente Obama stigmatizza nel primo discorso di insediamento a Washington. La rende smemorata rispetto alla propria storia, alla carta vincente del New Deal, che discende dalla decisione tutta politica di Roosevelt. Come ha puntualmente osservato Alberto Berrini, l'attuale crisi economica nasce infatti da una cattiva distribuzione del reddito.
Nel 1999 Paul Krugman - al quale adesso, grazie alla crisi, hanno dato il Nobel - scrisse un libro dal titolo Il ritorno della grande depressione. È possibile un altro ‘29?. Nel ‘99, quando il testo è uscito, non l’ha letto nessuno. In quel testo Krugman osservava che il mondo si stava avviando verso una situazione di grave crisi, perché mai come in quel momento vi era un gap, cioè una distanza enorme tra ciò che si produceva (l'offerta) e ciò che si riusciva ad acquistare (la domanda). Nessun fulmine a ciel sereno dunque nel “settembre nero” di Wall Street. Si trattava di acquisire la documentazione pertinente, pur tenendo conto del fatto che la crisi, iniziata come finanziaria, va man mano rivelandosi a tappe forzate come un imbuto di diverse crisi: economica, sociale, politica, culturale e infine etica. Non basta perciò una sola chiave inglese per venirne a capo.

La risorsa

Il tempo è tuttavia risorsa indispensabile per il politico. Parlamento non a caso significa parlare. L'ostruzionismo parlamentare è stiramento e perdita organizzata di tempo. Il decisionismo  insofferenza delle procedure democratiche. Così l'esplosione delle tecniche azzera il discernimento… Non ci è concesso dalla Provvidenza di essere umanamente saggi in tempo reale. La crisi finanziaria aveva del resto richiamato nel lessico del ministro Tremonti come in quello del cardinal Tettamanzi la metafora pertinente della peste.
L'Arcivescovo di Milano - che forse ha frequentato con più attenzione le pagine di Manzoni - invita a guardare alla crisi con l'avventatezza fiduciosa di Renzo Tramaglino, che nel momento di massima incertezza, quando, al di là dell'Adda, non ha più nulla se non due soldi, decide di disfarsene a favore dei poveri e, come alleggerito, ricomincia veramente da zero. Siamo al capitolo XVII de I Promessi Sposi: "Tutt’e tre tesero la mano verso colui che usciva con passo franco, e con l'aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera? "La c'è la Provvidenza!" disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò di quei pochi soldi: li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada [...]. Certo, dall'essersi così spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l'avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti."
In tali frangenti l'unica saggezza consentita risiede nella scommessa di puntare sulla "divina economia", appunto: "La c'è la Provvidenza!". Non si tratta, neppure stavolta, di ottimismo della volontà; più semplicemente di quella fede che Unamuno attribuiva al carbonaio. Senza calcolo e senza progetto. Semplicemente dovuta dal credente, anche in un Paese che qualche decennio fa Norberto Bobbio definì di "diversamente credenti".

Le querce

Neppure la Chiesa, per Dossetti, può e doveva sottrarsi al rischio, ancorché alto, nei decenni fra le due guerre, "in cui sarebbe stato possibile e doveroso rendere la sua testimonianza". È questo il senso sintetico e profondo del paragrafo tredicesimo della introduzione a Le querce di Monte Sole, saggio densissimo di teologia della storia. L'acribia dossettiana indica la fase, quella che nel linguaggio odierno verrebbe definita una "finestra di opportunità". Essa è individuata nel "momento di trapasso da Pio XI al suo successore, nei mesi che vanno dal febbraio all'autunno 1939".
La distinzione "diplomatica" della Chiesa di allora può alludere alle condiscendenza attuali che ancora una volta si trovano a differenziare tra "i massimi dirigenti e gli estremisti neopagani, all’uopo riciclatisi in "atei devoti": tra Bossi e Borghezio e tra Berlusconi e Bondi o la Gelmini.
"Il 1° settembre 1939 - sentenzia Dossetti - il gioco era fatto". E infatti "lo stesso episcopato tedesco non avrebbe avuto di fatto più altra guida se non quella del suo presidente, in presenza di un Nunzio a Berlino assolutamente e manifestamente inadeguato al suo ruolo e le cui relazioni erano più fatte per disorientare che per valutare con realismo quello che stava accadendo."
La conseguenza, ad un tempo tragica e macroscopica, fu che "la funzione di testimonianza, che è propria del concetto stesso del Magistero supremo, restò, su questo punto nodale, incompiuta".
Viene alla mente - e il rischio è di risultare leggermente salottieri nella citazione - un altro celebre  episodio interno alla vicenda del cattolicesimo di Germania.
Georg Simmel viene considerato uno dei più grandi pensatori del Novecento tedesco, e non soltanto. Autore tra l’altro di due libri dai titoli precorritori ed evocativi: Filosofia del denaro e La metropoli e la vita dello spirito.  Massimo Cacciari vi ha dedicato un saggio notevole. Simmel era anche esponente di spicco dell’establishment intellettuale cattolico del suo Paese e intimo alla curia della diocesi di Berlino. Ebbe la ventura un giorno, anzi, una notte, di essere scoperto intimo della segretaria in un alberghetto di periferia. Il grande intellettuale ammise francamente la colpa, e poi dirottò dialetticamente l’argomentazione sul piano professionale. Disse: “Tocca al filosofo indicare la strada, non percorrerla.” Perfino simpatico.
Scissione comunque non consentita non soltanto a chi esercita le funzioni del Magistero supremo, ma neppure al singolo credente. E Dossetti può puntualmente chiosare che "resta indubbiamente un caso significativo di mancanza di vigilanza lucida e preveniente contro il "male sistematico": definizione quest'ultima -"male sistematico"- che, oltre a richiamare la dizione wojtyliana di "strutture di peccato", appare come l'altro simmetrico rispetto al concetto di bene comune. Per questo la conclusione non può che risultare perentoria: "Piuttosto che tacere tutti, occorre che qualcuno si assuma l'iniziativa".

Responsabilità verso la storia

Viene così chiamata inesorabilmente in campo la responsabilità verso la storia. Responsabilità alla quale la politica non può evidentemente sottrarsi, tantomeno la “grande politica”, che, secondo Mario Tronti, è destinata a muoversi contro la storia. Tanto più che non sono mancate, nel medesimo frangente, posizioni ben altrimenti determinate ed esplicite.
Sto pensando a Dietrich Bonhoeffer, impiccato per aver preso parte alla attività cospirativa del "gruppo" dell'ammiraglio Canaris, implicato nell'attentato di von Stauffenberg ad Hitler, fallito il 20 luglio 1944. Il pastore della Chiesa confessante in lotta contro l'accomodamento tra la Chiesa evangelica tedesca e il regime nazista, che, rientrato dagli Stati Uniti d'America dove stava occupandosi di ecumenismo, decise di misurarsi fino in fondo con i problemi della responsabilità politica del cristiano, compreso quello dell'uccisione del tiranno.
Non a caso il teologo che aveva giudicato necessario fermare il pazzo che guida a velocità folle un’auto per le vie della capitale Berlino mettendo sotto i passanti, era il medesimo che pensava: "Per ogni buona predicazione c'è bisogno di un certo carico di eresia". E cioè la predicazione deve abbandonare l'equilibrio dottrinale, divenire unilaterale, prendere parte, correre il rischio di superare i confini di ciò che viene permesso. E c’è nella sua morte quasi una figura della sua ricerca teologica: l’uomo adulto che muore insieme all’uomo di preghiera, la Bibbia e il volume di Goethe trovati sul tavolino della cella.
Grande pensatore, grandissimo teologo, ma anche profeta e testimone. Per questo fu fatto oggetto tra i militanti cattolici degli anni sessanta e settanta in Italia di una lettura "di massa", che ebbe l'esito di sottrarli con l'esempio della coerenza alle tentazioni diffuse di una scelta violenta.
Davvero appare invece scadente teologia automobilistica quella sorta di esorcismo che attraversa talune assemblee di cristiani dove si ripete, quasi a cantare di notte per farsi coraggio, che "il credente ha una marcia in più".
Bonhoeffer non fornisce ovviamente soluzioni, ma strumenti. Ripete, quasi a spaventare i benpensanti, che il suo intento è farsi uomo, non santo. Nessuna rincorsa dunque agli stereotipi di una impensabile canonizzazione, e del resto il Dio del quale si parla è un Dio che chiede semplicemente discernimento, coinvolgimento, responsabilità e decisione, senza tralasciare alcuna delle istanze trascendenti che accompagnano l'esistenza umana di quanti si professano non-credenti.
E infatti, se è vero, come scrive, che se il capo "permette al seguace che questi faccia di lui il suo idolo allora la figura del capo si trasforma in quella di corruttore... ", è altrettanto vero che vale per Bonhoeffer l'affermazione che troviamo nelle prime pagine di Fuga dalla libertà di Eric Fromm: troppo comodo sarebbe concentrare colpa e responsabilità soltanto su Hitler per la Germania e Mussolini per l'Italia, senza tenere conto che alla loro smodata voglia di potere corrispondeva una altrettanto smodata voglia di asservimento nei rispettivi popoli. I conti con la libertà del resto si confrontano con unico vincolo: obbedienza a Dio e compassione per il prossimo. Non come faccio ad essere a posto, ma come posso essere utile.

Resistenza come liberazione

Chi sa resistere? Solo chi sa liberarsi dalle ideologie. Senza fuggire la colpa e l’idea di colpa. Bonhoeffer ha piena coscienza di aver partecipato alla congiura per l'assassinio del Führer, e questa è posizione compiutamente luterana che comporta il riconoscersi in colpa; tuttavia più colpevole sarebbe stato non fare nulla. Posizione che ritroveremo poi nella teologa Dorothee Solle.
Non è rintracciabile in lui per così dire l'equilibrio con il quale San Tommaso pensa il tirannicidio,  osservando che chi si appresta ad uccidere il tiranno deve anche farsi carico di una attenta valutazione  circa le condizioni posteriori al tirannicidio: che il conto e le conseguenze non risultino cioè peggiori. L'imperativo è di cercare il bene nella città nella quale si vive. Per questo l'assunzione di responsabilità è il principio dell'azione. Il Vangelo di Matteo è del resto inequivocabile: "Non chiunque mi dice  Signore, Signore..."(Mt 7,21).
Anzi,l'approccio bonhoefferiano è semplicemente disarmante: Dio sta con gli uomini, e se la religione si svuota di umanità, Dio sta con gli uomini e tralascia la religione. L'interpretazione non-religiosa significa perciò in Bonhoeffer che Dio vuole essere creduto in Gesù Cristo Crocifisso, senza alcuna utilità. La vera trascendenza sta qui. Si intende allora quale sia la via: "L'origine dell'azione non è il pensiero ma la disponibilità alla responsabilità. Per voi pensare e agire entreranno in un nuovo rapporto. Voi penserete solo ciò di cui dovrete assumervi la responsabilità agendo. Per noi il pensiero era molte volte il lusso dello spettatore, per voi sarà completamente al servizio del fare."

Finché ci sia tempo

Ma veniamo alla presente situazione, dove pure nuove calamità, di diverso segno, non fanno difetto, sempre riproponendo l’incipit dossettiano: Finché ci sia tempo... Non male sistematico, ma scandaloso quello che ha attraversato la Chiesa con i suoi sacerdoti accusati di pedofilia. Anche qui "resta indubbiamente un caso significativo di mancanza di vigilanza lucida". E anche in questa occasione "piuttosto che tacere tutti, occorre che qualcuno si assuma l'iniziativa". Iniziative del resto non sono mancate, quale ad esempio il grande raduno in piazza San Pietro intorno a papa Benedetto XVI la domenica di Pentecoste del 23 maggio, organizzato dalle associazioni cattoliche, quasi a replicare piazze oceaniche di geddiana restaurazione raccolte intorno al motto: "Bianco Padre che da Roma ci sei meta, luce e guida"... E’ la giusta risposta per una Chiesa cattolica che - scrive "il Regno Attualità" del 15 maggio 2010 - "si trova di fronte a una delle crisi più profonde della sua storia"?
I fatti anche in questo caso hanno la testa dura, come i non pochi nemici. Ci sono anche e soprattutto al di là della Manica e più ancora al di là dell'Atlantico una morale e un'etica che hanno radici profonde che non possono essere né ignorate né sottovalutate. Nessuno scriverebbe in Italia un romanzo come La lettera scarlatta.
Osserva sempre "il Regno": "Il fatto che il muro di silenzio sia stato abbattuto dai media e, negli Usa, dalla lobby degli avvocati -che hanno portato alla bancarotta alcune diocesi-, ha determinato una dinamica istituzionalizzata e contrappositiva del confronto pubblico e inizialmente un'errata reazione difensiva dell'istituzione ecclesiastica". Il fatto poi che i media si pensino e vengano percepiti come una istituzione della verità, ha ulteriormente sospinto i vertici ecclesiastici all’arrocco. Proprio per questo si è fatto evidente che se da un lato "la crisi ha anche reso più umile la Chiesa", dall'altro "lo scandalo grave non tocca solo il manifestarsi di un crimine così odioso all'interno della Chiesa, bensì riguarda anche il fatto che la Chiesa in diversi dei suoi pastori si è comportata al riguardo come una casta."
La prima reazione cioè è stata quella di proteggere dallo scandalo l'istituzione ecclesiastica e non di preoccuparsi dello scandalo per le vittime. E il punto non è se sia necessario difendere l'onore e la credibilità della Chiesa in quanto istituzione: "Il punto è che le vittime sono Chiesa".
Non a caso la rivista pertinentemente insiste: "Di chi è Dio? Di chi è Dio che la Chiesa (non solo istituzione, ma popolo di Dio) annuncia? Dio è delle vittime. Dio è nelle vittime. Là egli si è fatto sentire". E non è davvero impensabile che una reazione di verità in questo senso fosse e sia possibile.
Non sarebbero mancate nel popolo di Dio, al di qua e al di là dell'oceano, "madri-coraggio", madri delle vittime disponibili a testimoniare che una diversa via sarebbe stata ed è percorribile. Dio dunque è nelle vittime non soltanto nella tragedia dell'Olocausto, ma anche nella banalità odiosa del male quotidiano. (E ho preferito soffermarmi sulla stagione precedente a papa Francesco per indicare le radici e le ragioni di un percorso che ha opportunamente ricevuto un'accelerazione.)

Ma quale tempo?

Finché ci sia tempo... Ma quale tempo? Crisi è sicuramente il tempo della politica, ma ancor più della profezia e del suo analogo laico, l'utopia. Ed è tale il bisogno diffuso che essa produce -un risucchio- che, se la profezia pare assente, la gente si butta dietro ai falsi profeti. Anzi, tale è il bisogno che ad essere preferiti sono generalmente i falsi profeti, perché più rassicuranti, più prossimi a un desiderio angosciante e psicologicamente impaziente.
Quale differenza allora tra krònos e kairòs? Come consideriamo il nostro tempo sociale? È un tempo per fare, per accumulare, per riempire - in sostanza una cronologia che diventa tentazione -, oppure è, Dossetti alla mente, "un'occasione", direi ancora di più, un’occasione politica, un frattempo nel quale noi, con le nostre azioni e decisioni, ci avviciniamo a Dio? Viviamo i rapporti sociali per costruire, oppure per "utilizzare", "consumare", nel senso pieno del termine, cioè logorare, far invecchiare, far marcire?
La stagione del mercatismo (Tremonti) è quella che cerca ossessivamente la via più breve tra il supermercato e il cassonetto della spazzatura... C'è dunque, provando a rifare il verso al Qoèlet, un tempo per consumare? Anche dentro la crisi globale l'Apocalisse ripete: "Ecco, sto alla porta e busso" (Ap 3,20). Anche se non sarebbe trovata da buontemponi piazzare nottetempo sopra l'edificio di un grande supermercato la parodia del motto che contrassegnava l'ingresso al Lager: Konsum Macht Frei.
Il pensare politica assume un’urgenza che non può demotivarne l’esigenza di un’architettura prima fondante e poi complessa. Zagrebelsky in Imparare democrazia lamenta la circostanza che la democrazia sia intesa come la religione dei buoni cittadini e si sia trasformata in un concetto idolatrico onnicomprensivo: "E’ il regime in cui il popolo ama essere adulato, piuttosto che educato."
Nessun tirocinio e nessuna pedagogia. Nessun curriculum. Parrebbe che nelle odierne democrazie si nasca "imparati", come si dice alla plebea. E invece una democrazia per non esaurirsi non deve dimenticare di non essere un guadagno fatto una volta per tutte. L'esempio e lo studio restano necessari. Non basta vivere all'interno di una democrazia per diventare democratici, altrimenti le assemblee di condominio si presenterebbero come il nuovo infallibile areopago.
Il tempo dell’apprendere, lo studio, è esattamente ciò di cui questa politica fa totalmente difetto, lasciata com’è nelle mani di rabdomanti mediatici e “annusatori” di posizionamento e di consensi, il più delle volte “spensierati” per ragioni di tempo e di “necessità”.
Ha scritto con amara diagnosi Claudio Magris: “Quanto più rilevante è il suo ruolo, tanto più il politico, in un sistema democratico, è costretto a rappresentare e a sottrarre ore e ore al lavoro per dedicarle alla rappresentazione; a inaugurare scuole, ricevere imprenditori, sindacalisti, orfani di guerra, obiettori di coscienza, associazioni di volontariato, pacifisti, reduci, incontri che, ancorché sinceramente sentiti, non affrontano e non risolvono nulla. L’enfasi mediatica e la spettacolarizzazione televisiva hanno esasperato all’ennesima potenza questa tendenza alla dispersione e alla irrealtà insita nella democrazia, costringendo sempre più i politici -specialmente quelli più importanti, da cui dipende la sorte del Paese e che dunque più dovrebbero agire concretamente- a parlare e parlare, assorbendo sempre più il loro tempo (la loro vitalità, la loro energia, il loro essere) in una logorrea che sommerge tutto come un fiume in piena, in un’alluvione di parole. Basti pensare al tempo febbrilmente sprecato o alle energie sterilmente dilapidate, soprattutto ma non solo durante le campagne elettorali, nelle trasmissioni televisive di confronto e scontro di opinioni, che in questi anni si sono moltiplicate e costituiscono spesso un gradevole intrattenimento per gli spettatori, come un serial poliziesco o una saga familiare senza fine, ma uno spreco per chi vi partecipa”.

Divismo e leadership 

Talk show e impegno appaiono così in antitesi, come i poli di una calamita che si respingono.  Nella politica dell’immagine la politica ha la fonte della sua esasperante superficialità. Divismo e leadership si sovrappongono, al punto che il divo può essere contrabbandato per leader, contrariamente ai canoni che Francesco Alberoni seppe escogitare qualche decennio fa in L’élite senza potere.
A patirne è anzitutto la politica, con il tendenziale azzeramento del pensiero politico. E infatti non esistono più i gramsciani  “intellettuali organici” perché non esistono intellettuali politici o politici intellettuali. Solo lamentazione?
Basti riflettere alla scarsa elasticità della variabile tempo, suggerisce Magris, tanto più rigida se confrontata con le questioni e le emergenze che la stagione politica sforna con continuità impressionate. Annota ancora Magris: “Il tempo, nonostante la sua elasticità e relatività psichica rivendicate soprattutto dalla letteratura ma attestate pure dalla scienza, ha alcune inesorabili misure e limiti uguali per tutti. […]  Il confronto, anche cinico e brutale, con le cose richiede energia e tempo, il quale tende invece a venire assorbito in altre faccende”.
Si è già evocata, più sopra, accanto alla rigidità della variabile tempo, l’effetto della incontenibile diffusività dell’immagine. Essa se da un lato spettacolarizza la vita, dall’altro cancella la normalità, e quella politica e quella del quotidiano. Nell’ambiente metropolitano anche il Percennius quidam è sospinto a dar spettacolo di sé, uti singulus o in branco. Quanta della violenza delle bande giovanili è indotta dal trend della spettacolarizzazione?

Oltre il tempo cronologico

Qual è ancora il rapporto tra tempo cronologico, politica e profezia? Dove s’annida il kairòs?
Qui è necessario anzitutto sgomberare il campo. Distinguere cioè la profezia dalla profezia al tramonto, che si torce in apocalittica.
Operazione che avviene all'interno del sentire del pensiero religioso, ma anche di quello laico. Interpreto così lo struggente rimpianto che cogliamo negli ultimi saggi di Mario Tronti, il vero ed estremo depositario del pensiero operaista, quando scrive: "Se usiamo il linguaggio della teologia politica - checché se ne dica, il più pregnante nel dire la verità sul secolo passato - possiamo affermare che l'operaismo, mentre si esprimeva, prima metà degli anni Sessanta,  aveva un segno escatologico: non si proponeva certo di concludere al meglio la storia della salvezza, ma, più modestamente, puntava a dare alle lotte operaie uno sbocco politico." 
Per Tronti "le moderne fabbriche dismesse, come gli antichi monasteri decaduti, sono luoghi di storia della cultura umana, cultura appunto come civiltà, depositata nelle città del passato, incompatibile dunque con la barbarie del presente."
Pare a Mario Tronti che gli operai abbiano agito "nella crisi dell'età moderna come i monaci nella crisi dell'età antica: conservatori della civiltà, contestatori del mondo. Hanno salvato i manoscritti di tutte le lotte passate delle classi subalterne e hanno affermato che erano "nella" società ma non "della" società." Per questo "la sconfitta operaia è stata una tragedia per la civiltà umana." La storia si stempera in una suggestiva metafora sottratta a Gogol: "La vita, in questo caso la storia, mi ha sempre mostrato il volto del mastro di posta, che scuote la testa e ti dice: non ci sono cavalli. Si poteva percorrere a piedi la via al socialismo, nell'età, adveniente, del turbo-capitalismo?"  Conclude Tronti: "Portare nella classe operaia dall'esterno la coscienza della politica moderna e così inventarsi le istituzioni operaie di una rivoluzione realizzata. Potevano riuscirci solo i comunisti del Novecento. Se non ci sono riusciti loro, l'impresa non poteva riuscire. E forse non riuscirà più." Dissolto il soggetto storico che ne era il legittimo portatore, la visione operaista si trova costretta ad assumere l'alto tono elegiaco dell'apocalittica, che, anche qui, significa esaurimento, e quindi altro dalla profezia che, quotidianamente in tensione, è in grado di confrontarsi con la politica e il suo volo alto.

Sergio Quinzio

Lo stesso struggimento troviamo nelle pagine “irregolari” di Sergio Quinzio. Ci imbattiamo per così dire nello stupore e nel risentimento per il venir meno dell’onnipotenza di Dio: “Per noi comunque, e certo non soltanto da oggi, il divino non può più essere l’orizzonte, ma tutt’al più il Problema”. Il Signore della storia e della vita può compitare sulle orme di Cicerone il suo De senectute e malinconicamente cedere il passo alle generazioni successive…
Insiste Quinzio, con l’esacerbata delusione dell’apocalittica: “Le promesse procrastinate per millenni sono dunque, di per sé, delle promesse non mantenute, delle promesse fallite. Resterebbero tali anche se dovessero compiersi in questo istante, manterrebbero comunque al loro interno, anche se ne venisse cancellata la consapevolezza, un abisso di delusione, di stanchezza.  Il Messia, come ha detto Kafka, sarebbe arrivato “solo un giorno dopo il proprio arrivo”, quando l’attesa si è consumata. Dopo interminabili doglie, secondo il testo ebraico di Isaia, “abbiamo partorito vento” (26, 18). Questa è certamente una sconfitta dei credenti, una sconfitta della fede, ma è anzitutto una sconfitta di Dio, che lungo tutte le pagine della Bibbia si rivela come colui che dà la vita, come colui che salva. Il fallimento della salvezza è il fallimento stesso di Dio”.
Non so quanto la debolezza di un Dio del quale l’onnipotenza era attributo costitutivo incida sul senso di questa politica e sul peso dei poteri che la governano. Non so quanto faccia da risucchio per il lungo elenco di virtù che Norberto Bobbio assegna alla sfera della normalità quotidiana: infatti “vi sono virtù, come l’umiltà, la modestia, la moderazione, la verecondia, la pudicizia, la castità, la continenza, la sobrietà, la temperanza, la decenza, l’innocenza, l’ingenuità, la semplicità, e fra queste la mansuetudine, la dolcezza e la mitezza, che sono proprie dell’uomo privato, dell’insignificante, dell’inappariscente, di colui che nella gerarchia sociale sta in basso, non detiene potere su nessuno, talora neppure su se stesso, di colui di cui nessuno si accorge, e non lascia alcuna traccia negli archivi in cui debbono essere conservate solo le memorie dei personaggi e dei fatti memorabili”.
Chi meglio e più diffusamente corrisponde alla perdita dell’onnipotenza di Dio? Il politico mite o l’arrogante? Resta comunque attuale l’osservazione di Quinzio circa il difetto culturale delle sinistre, riformiste o radicali: “Anche se può fare la sua bella figura quando si confronta con il conservatorismo, manca oggi al progressismo una adeguata teologia”. Lacuna da non sottovalutare dal momento che i buchi teorici in politica sono destinati a pesare più nella prassi che sulla pagina. E comunque mi metto tra quanti non pensano il credente come un apocalittico, bensì un perseverante.

Non si deve tacere

Sempre nel tredicesimo paragrafo della introduzione a Le querce di Monte Sole, Dossetti afferma la  necessità che "piuttosto che tacere tutti, occorre che qualcuno si assuma l'iniziativa -non velleità di protagonismo, ma con cuore umile e mosso solo da parrhesia evangelica- di professare pubblicamente la legge evangelica dell'amore e del rispetto dovuto ad ogni uomo." Proprio perché la storia è insieme il campo di Dio e il campo di Satana, è necessario che la politica, quanto meno la grande politica, sappia muoversi contro la storia. La pretesa della grande politica è infatti quella di dare forma alla storia, così come lo Stato moderno ha inteso dare forma alla società.
Ma la politica contro la storia è l'attitudine del profeta, che non si sottrae al proprio carisma. Per questo bisogna che qualcuno assuma l’iniziativa. Per questo don Giuseppe riflette sulla catastrofe nella storia e sulla criticità concomitante della Chiesa. Si colloca dalla parte delle vittime, che l'abisso della Shoà e la strage di Monte Sole aprono davanti non soltanto al pensiero, ma non si colloca all'interno della categoria dello sconfittismo: è spietatamente critico, non apocalittico.
Sa bene che la Chiesa non sa prendere congedo dalla cristianità e dall’Occidente e che sempre la Chiesa ha fatto pace con la modernità quando essa è giunta al suo esito finale. Un conto però è rivendicare la presenza e il segno ineludibile della catastrofe, e un conto fare del catastrofismo. Lui stesso, nella sua breve ma contrastatissima  vicenda politica, risulta più volte uno sconfitto, come nelle elezioni amministrative che lo vedono nel 1956 opposto al comunista Giuseppe Dozza come candidato sindaco di Bologna. Ma non mancò di usare la circostanza di quella campagna elettorale per elaborare -coadiuvato da un gruppo di giovani e finissimi intellettuali- un programma poi adottato dalla stessa maggioranza felsinea e in seguito dalle amministrazioni di molti Comuni italiani, e di celebrare per la prima volta nel nostro Paese elezioni primarie.
Uno sconfitto che non fa professione di sconfittismo. Anzi, nel celebre discorso all'Archiginnasio rivendicherà non a caso che più di una volta le sconfitte da lui riportate furono anche “mezze vittorie”... Non l'attivismo illusorio che comporta il rischio, più volte additato, del semipelagianesimo, ma l’attitudine di stare nella storia contro la storia. Anche quando i tempi si presentano come "il baccanale dell'esteriore", come ebbe a dire in memoria di Giuseppe Lazzati a Milano nel maggio del 1994.
In questa occasione anzi Dossetti non parla di catastrofe ma di notte e si volge alla sentinella biblica per porre la domanda su quanto resti della notte. E ben sappiamo che il compito della sentinella – per definizione - è di dare l'allarme, piuttosto che risposte.
È mia convinzione che quindi Dossetti elabori la catastrofe come un teologumeno, ma non varchi il confine della profezia al tramonto che si concede all'apocalittica.
La più alta testimonianza in questo senso mi pare di leggere nel suo ritorno, al modo del monaco San Saba, nell'arena della politica per difendere la Carta Costituzionale del 1948 contro uno sgorbio di riforma. E, grazie soprattutto alla sua lucidità e al suo vigore, la vittoria referendaria del 2006 risulta il più consistente risultato degli italiani e dell'opposizione contro il berlusconismo dilagante. Come a dire che non soltanto la politica, ma anche la storia può sbagliare...
La profezia non può essere ridotta a politica, ma senza profezia la politica riduce inevitabilmente se stessa e si condanna alla sconfitta. Sono temi evidentemente sui quali sarà necessario ritornare, costringendo le carte dossettiane ad uscire dal nascondimento e a cantare il loro inno che non è invariabilmente un epicedio.

Nella secolarizzazione

Quale kairòs, infine, in questa fase della secolarizzazione che, lungi dal presentarci una sorta di Francia universale dei Lumi, ci appare come un pieno di idoli cui si accompagna un ritorno massiccio delle religioni, delle loro pratiche e delle etiche?
Davvero l'analisi di un tempo kairologico impone di fare i conti con il rapporto possibile tra tempo della politica e tempo dalla profezia. Anzitutto senza dare per scontato che vi sia incomponibilità e separazione. I profeti, soprattutto i grandi profeti, ma anche i trentasei zaddiqim occulti che secondo la tradizione ebraica sostengono il mondo a loro insaputa (“Ogni essere che sostiene è occulto”, scrive Martin Buber), non si collocano sul versante dell'ottimismo della volontà, ma piuttosto su quello che chiamerei l'ottimismo della ragione. Per questo il pensiero filosofico contemporaneo pare difficilmente applicabile alla Bibbia.
Le parole dei profeti risultano sovente cupe, mai pessimiste. I profeti si giocano dentro il secolo, nel krònos che si consuma. Perché il profeta accetta e interpreta la contingenza del secolo. Uomo politico per eccellenza dunque, perché lo stesso rapporto con Dio si gioca nella polis, nel senso che prima viene il popolo e poi vengono i profeti. Israele è semplice etnia all’inizio e diventa popolo con la base costituzionale dei Dieci Comandamenti e poi di tutto il Pentateuco.
La profezia non vi preesiste. Il profeta nasce quando Israele si costituisce come popolo e cessa di essere soltanto etnia. Un'etnia che neppure riesce a difendere il proprio sangue in terra d'Egitto, condannata a sopprimere i figli maschi. Un'etnia che per costituirsi in popolo ha bisogno di una terra, perché la terra è di Dio, e non del faraone.
Il profeta è uno che custodisce l'alleanza. Il diritto e la giustizia stanno infatti in un patto di fedeltà: l'alleanza. In nome di essa Dio scende e si prende cura del popolo, di quegli ebrei che vivevano dispersi nelle suburre -dice Rosanna  Virgili- delle metropoli egiziane. In questo rapporto la sapienza umana rivela che da sola è poca cosa, ma anche la sapienza divina, da sola, è poca cosa. La vera sapienza (Gb 28) è al confine e all'incrocio tra le due sapienze.
Qui profezia e politica sono coppia sponsale, e la politica può davvero incominciare illuminata da ciò che ad essa non si riduce. In tal senso la profezia è anche un'istanza critica. Il popolo invece non critica e non fa autocritica: queste sono riservate al profeta. Si corre dietro alle mode e alle bustarelle. Ci si affida al giovanilismo... "Io metterò come loro capi ragazzi,/monelli li domineranno"(Is 3,4).
La stessa disincantata osservazione che troviamo nell’Aristotele del libro primo dell'Etica Nicomachea:  "Per questo il giovane non è adatto ad ascoltare l'insegnamento della politica,  dato che è inesperto delle azioni di cui si compone la nostra vita." Il politico infatti ha bisogno di saggezza, perché  ha bisogno della memoria. I rabbini dicono che il futuro viene da dietro, anche se per leggerlo non è necessario voltarsi indietro.
È così che siamo confrontati con la saggezza della Dei Verbum: "Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili  al parlare dell'uomo"(DV 13,11).

Il problema centrale

Qual è dunque il problema centrale in questo frattempo?
Il problema -pare a me- non è l'assenza di profeti. Il problema è che non li sappiamo riconoscere. Così come gli statunitensi, sull'orlo della crisi, continuavano ad affidarsi ai monetaristi della Scuola di Chicago piuttosto che prendere sul serio Krugman o magari Lindon LaRouche, che invece suonavano campane a martello per i rischi dell'età dell'oro delle Borse-Casinò, dei derivati, dei subprime, del vivere comunque a credito…
La profezia non è infatti sulla bocca di chi si mette in positura di sciamano e ne alimenta la fama. Il problema è trovare un punto di vista che consenta il discernimento. La parola è strumento di comunicazione tra il profeta e il popolo. Perché la parola custodisce la verità prima e più del pane (Dt 8,1). Il problema cioè non è chiedersi se ci siano ancora profeti: essi sono disseminati agli angoli della storia. Il problema è acquisire la capacità del riconoscimento. Perché il popolo -come si è già osservato- si fa prendere dal panico e gioca al ribasso e va dietro ai falsi profeti proprio perché, nella sua angoscia, avverte l'esigenza di profezia e si adatta ad ottenerla a basso prezzo.
E i falsi profeti pullulano proprio perché c'è sete di profezia. I falsi profeti di corte, quelli che oggi s'annidano nell'universo mediatico.  Perché il problema è la mistificazione e la sua critica; dicono: "Bene, bene!" ma bene non va"(Ger 6,14). 
Il profeta, il vero profeta è qualcuno che non dipende da nessuno, non sta su nessun libro paga, né a destra né a sinistra né al centro. Il profeta non attacca il culto puro, ma i riti di coloro che ci mangiano. Di quelli che si cibano interessatamente del corpo delle vittime.
Il profeta è infatti un luogo di passaggio. Non ha l'esclusiva di Dio e neanche Dio ha l'esclusiva del profeta. Non ci sono confini da rispettare. E il profeta è tale quando, come Mosè, è in grado di far cambiare idea al suo Dio (Es 32,11-14).  "Il signore se ne pentì: "Neanche questo avverrà", disse il Signore"(Am  7,6).

Profezia come responsabilità

Tutti possono profetizzare, perché la profezia è una responsabilità, un compito che obbliga a scalfire la crosta, avvertendo i dolori dalla storia. Davvero troppo rinunciataria mi appare la nostra attitudine a inseguire e indagare segni, a trovare punti di riferimento, a scoprire il sale della profezia in luoghi non deputati.
Come stiamo? Non troppo bene, ma non così male come generalmente pensiamo…
Non è vero che manchino i punti di riferimento; mi ostino piuttosto a pensare che non li sappiamo riconoscere. Direbbe don Giuseppe Dossetti: immersi in Dio e immersi nella storia. Senza neppure il timore di confrontarci con il tema tutto interno, addirittura “classico” dentro la modernità, della paura, certamente non concentrabile soltanto nella pressione del fenomeno immigratorio.
Se ha ragione -come penso abbia ragione- Massimo Toschi, a dire che atei sono i cristiani, questa osservazione disloca non il problema della profezia, non il bisogno del rapporto tra profezia politica, ma il luogo dove ascoltare e da chi ascoltarla.
Penso da tempo che senza la presenza dei cosiddetti "vati" sarebbe risultato impossibile il nostro Risorgimento Nazionale. Una sorta di umanizzazione della profezia e una sua laicizzazione. Mazzini (canzonato come Teopompo per la sua ridondante religiosità laica da Marx), Massimo d'Azeglio, Gioberti, Foscolo, Leopardi, l'Alfieri, Giuseppe Verdi... Detto altrimenti e ricondotta la questione all’oggi: per cogliere semi di profezia il luogo più acconcio è la “Cattedra dei non credenti” martiniana. Una iniziativa da valutare ben oltre la formula e il successo milanese.
In Italia, dove il dossettiano "male sistematico" è certamente rintracciabile nell'abnorme storica diffusione dell'economia criminale, troviamo Roberto Saviano che dalle pagine di un grande quotidiano invita il capo dei capi della camorra in carcere, soprannominato Sandokan, al pentimento.
Gomorra nella nostra storia nazionale non conta meno di Le mie prigioni di Silvio Pellico. Don Puglisi abbattuto dalla mafia. Don Gigi Ciotti e Libera. E poi la grande battaglia popolare apertasi sull'acqua in quanto bene pubblico, con le posizioni di riferimento di un Riccardo Petrella e di Alex Zanotelli, sempre sulla breccia, anche lui non sempre vincente, da Korogocho a Napoli...

Il tempo dell'ascolto

Per questo la democrazia è chiamata ad acquisire, nell'epoca della sua crisi e dei troppi post, il tempo kairologico dell'ascolto. Per questo "gestire" la politica è un abuso. Si tratta di "ascoltare" quel che accade. Anche se nell'ascolto c'è sempre una sensazione di perdita. Eppure si tratta di ascoltare il tempo: lì incontrerai etica e kairòs, perché non c’è kairòs senza krònos.
C'è piuttosto sempre discontinuità, quasi un’eccedenza, che obbliga a raccogliere la "stranezza", meglio, dossettianamente, l'occasione in quanto "fortuità" e "gratuità".
 Il "cigno nero" di Nassim Nicholas Taleb, che "in primo luogo, è un evento isolato, che non rientra nel campo delle normali aspettative, poiché niente nel passato può indicare in modo plausibile la sua possibilità. In secondo luogo, ha un impatto enorme."
A sua volta si pone come elemento dentro il crollo o la transizione, come pertugio e porta aperta al kairòs. E proprio quando tutto sembra adattarsi ad un minzolinismo onnivoro, è allora che più si avverte il bisogno di discontinuità.
La società e la politica rivivono se c'è una fenditura, se si riapre una finestra di opportunità, concretamente e sorprendentemente. Per questo Max Weber individuava la vera vocazione politica là dove c'è l'ostinazione di tentare ogni volta l'impossibile come condizione per realizzare quel poco che già oggi è possibile… Più che gestire, si tratta, ancora una volta, di ascoltare.
Saprà questa democrazia recuperare il carisma, per molti versi inedito, dell'ascolto?
[Sesto San Giovanni Luglio 2014]


                                                                                        




FRANCESCA ROMANA DI BIAGIO


Francesca Romana Di Biagio


QUANDO I LIBRI ERANO DI CARTA

Come si stava più di venti anni fa senza cellulari e Internet? Ci saremmo posti questa domanda migliaia di volte, sempre con la stessa risposta: si viveva meglio di oggi, ma non torneremmo mai indietro. Ebbene, può sorprendere sapere che la nostra civiltà- stressantemente connessa e severamente punitiva nei confronti di chi non mastica tecnologia- serba ancora degli angoli dove il tempo sembra essersi fermato. E dove è possibile assaporare i piaceri di un passato in cui il web era pura immaginazione futuristica e le relazioni umane erano fatte di parole, gesti e pensieri scritti sulla carta.
Io quest’angolo l’ho scoperto nel cuore della città dove vivo: Milano. Me l’hanno fatto conoscere delle amiche, con le quali spesso si conversa di letteratura e ci si scambiano dei consigli sui libri. Un giorno mi hanno detto: “Perché non vai nella biblioteca del tuo quartiere e se ti piace sottoscrivi la tessera?”. La biblioteca, già.  E’ dai tempi del liceo che non ne sentivo più parlare; mi ero quasi dimenticata dell’esistenza di questo luogo. Forse credevo, addirittura, che fosse stato fagocitato dalla modernità, un po’ come è accaduto alle piccole botteghe, sconfitte dalla potenza dei supermercati. Invece questa sorta di baluardo dei secoli trascorsi esiste ancora e ritrovarlo è stato incredibilmente bello.
Per un’amante della lettura come me si è trattato di una rivelazione: puoi prendere in prestito tutti i libri che vuoi e ordinare anche quelli che sono disponibili nelle altre biblioteche della tua città. Devi consegnarli entro un mese, ma puoi anche richiedere una prolungamento dei tempi. Stessa cosa per i dvd (qui però il tempo di consegna è di una settimana tassativa). Negli ultimi quattro anni mi sono così letta tanti volumi, dai classici ai contemporanei- perché la biblioteca della mia città acquista quasi subito le novità- e guardata molti film che avrei sempre voluto vedere. Sarò all’antica, ma io preferisco la carta ai tablet e il tradizionale dischetto, da inserire nel lettore (a proposito, ne vendono ancora?), al tanto di moda download cinematografico da Internet. Gli amici più all’avanguardia in fatto di tecnologie mi prendono in giro per questa mia abitudine, ma cosa ci posso fare? La biblioteca per me è un toccasana, un posto magico dallo stile retrò dove mi rifugio quando mi sento un po’ giù, o ho semplicemente voglia di evasione.
Evasione esatto, è questo il termine più appropriato per descrivere un luogo completamente fuori dal mondo, dove sono banditi i cellulari ed è proibito fare e ricevere chiamate. Dove la cortesia è la regola. Dove si possono sfogliare giornali e riviste, cartacei naturalmente. Dove tanti stranieri e anziani che non possiedono telefonini di ultima generazione possono navigare in Internet. La biblioteca è anche l’ambiente in cui si organizzano conferenze, presentazioni, dibattiti letterari e rappresentazioni teatrali ed è difficile sentirsi soli tra le sue mura, come spesso invece accade nelle grandi città, anche quando si è in mezzo alla folla.

In una società dove tutti corrono, calpestandosi a vicenda, mi stupisce apprendere l’esistenza di un’oasi del genere. E mi auguro che il tanto amato- da me in primis che come tanti altri ne sono dipendente- progresso tecnologico non distrugga mai il libro di carta. Significherebbe annientare l’ultimo spiraglio di umanità che il pianeta è riuscito a preservare dalle fauci dell’indifferenza regnante.




EMILIO RENZI


Emilio Renzi












“Il Nanni Filippini, senti”


Tutti lo chiamavano Nanni, ma qualcuno anche Nani: o così si trova scritto da qualche parte. Ovviamente Enrico Filippini è il nome con cui appare nei repertori di filosofia contemporanea e della contemporanea letteratura tedesca come traduttore, anzi per alcuni anni come un nome principe: ché tradusse Husserl e Benjamin e Dürrenmatt e Grass eccetera. Scrisse anche alcuni saggi sulla fenomenologia ma quando Enzo Paci, il professore da cui alla Statale di Milano dopo la laurea a Berlino si era fatto attrarre, gli disse che lo avrebbe aiutato nella carriera universitaria gli rispose di no, non gli piaceva la vita accademica.

Enrico Filippini "Nanni"

Gli piaceva invece la vita delle case editrici e dell’amicizia a ore tarde e degli amori a ore ancora più tarde. Gli piaceva il pizzicore del tabacco delle sigarette francesi, quelle forti, Gauloises papier mais. E un baby, come si diceva allora a indicare del whisky in un bicchiere piccolo, per dar fuoco alle micce di una dialogata di libri e di idee, di informazioni e di congetture e di sarcasmi, di scambi insomma assolutamente non a somma zero. Ascoltava molto e restituiva sempre di più. Come diavolo gli riuscisse poi durante gli scampoli delle mattine e sostanzialmente nei pomeriggi a tradurre pagine e pagine del più arduo contenuto filosofico del Novecento e dello sperimentalismo letterario del secondo dopoguerra, e nel frattempo tenere i rapporti con molte persone ognuna delle quali era una individualità dai tratti molto marcati, è un mistero che a distanza di anni non sono ancora riuscito a spiegarmi. Allora scrivere voleva dire picchiare sui tasti di una macchina per scrivere e poi correggere a mano e poi ricominciare: i muscoli della schiena erano impegnati quanto il cervello, facevano male, letteralmente. Io ero più giovane e soprattutto incomparabilmente più ingenuo e forse il segreto era dormire poco o ricaricarsi con la propria stessa carica di curiosità o non concepire nessun traguardo nemmeno come una tappa di un’unica gara ma come altrettante segrete assoluzioni da un’inquietudine che gli aveva fatto abbandonare ragazzo l’interno della scabra valle ticinese in cui era nato, i massi a fianco del torrente, il lindore delle case che noi ogni volta ripetiamo, ah sì è la Svizzera. Non lo so, forse.
So solo e un certo numero di lettori sa bene che l’ultima scrittura di Nanni è un racconto che si intitola “L’ultimo viaggio” ed è un racconto straordinario. Feltrinelli lo ha ripubblicato assieme ai suoi lavori “sperimentali” di vent’anni prima, leader del Gruppo 63. Quando intellettuali e professorini si riunirono a Palermo per cercare di cambiare lo stile di scrittura e quindi la letteratura italiana sul modello del Gruppo 47 che si era formata in Germania dopo la fine della guerra, si capisce bene come Nanni fosse della partita. Quelli del Gruppo 47 lui li aveva letti per davvero. Fece degli interventi, tentò una pièce teatrale e scrisse dei racconti. Adesso dunque possiamo leggerli di seguito a “L’ultimo viaggio”. E già l’ordine dice qualcosa: non seguite la cronologia, seguite il valore. Quelli sono scritti di testa; se non sforzati, volonterosi. Forse sono ingiusto ma non corrispondono più ai nostri gusti, sono reperti per gli studiosi. Invece “L’ultimo viaggio” è scritto con la pancia. E con l’intelligenza, va da sé. Non bisogna sfuggire dalla percezione immediata che lo sta scrivendo un uomo che viaggia con la morte dentro di sé. Letteralmente. Viaggia a ritroso: porta la donna amata a conoscere “il suo paese”. Dalle città del cantone risalgono per le rive dei laghi e poi su per le valli sino alle case del villaggio natio e alle tombe dei genitori. Lei ci viene descritta bella e colta, con un libro in pancia (e in testa, naturalmente), insieme innamorata e fuggitiva. Lui è innamorato ma ogni tanto un altro pensiero se lo porta. Il racconta affida lo strazio a una scrittura appena mossa, periodi brevi, riferimenti precisi, persino del realismo. Corretto da rimandi a un “lontano”, un “fuori scena” che è quello che ogni lettore ha subito capito, simpateticamente.
Nanni alla fine fece la sua scelta, entrò a “Repubblica”, praticamente alla fondazione del quotidiano nel 1976, redazione cultura. Si segnalò subito per le interviste e ne fece oltre cinquecento, l’editore Castelvecchi ha cominciato a ripubblicarne una parte. In un certo senso del termine, sono anch’esse pièces teatrali. Perché gli intervistati non rispondono come se avessero uno schema delle domande sotto gli occhi e l’intervistatore sembra che non si sia preparato, le domande non sono state messe giù a tavolino. Naturalmente non è così: Nanni sapeva bene di che cosa stesse parlando e con chi, si capisce che era uno che i libri li aveva letti sino a squadernarli. Sia pure con una voracità che in parte è marchio del mestiere di giornalista in parte era uno dei suoi modi di vivere senza conteggio del tempo, senza computo dell’avere e del dare. Nel letterato sentivi la persona che aveva studiato filosofia ma non se faceva sopraffare e nell'intellettuale che aveva abbracciato il giornalismo colto sentivi la persona che guardava oltre la filosofia strettamente intesa.

Vi sono interviste che a leggerle oggi ossia trent’anni dopo potrebbero essere ripubblicate tal quali tanto Nanni è folletto serio e il pensiero dell’illustre intervistato è colto nella sua corporeità, nei suoi tic. Umberto Eco ha scritto che “gli articoli di Filippini sono una bellissima prova di alto giornalismo, ma certamente fuori delle regole”. Ha scritto anche che il contratto fatto apposta per lui gli permetteva di scegliersi le persone che gli interessavano, non quelle che il caposervizio giudicava doversi fare. Credo che Eco si sbagli, nelle redazioni esiste pur sempre una dialettica realistica. Ma non importa, Eco coglie invece un altro punto quando aggiunge che il suo “non-giornalismo non era un modello”. Certo oggi nei giornali non mancano bravi intervistatori ma sono, appunto, “professionali”; e dubito che nelle dispense delle scuole di giornalismo figuri il Filippini Nanni.
Memorabile il “Gabo” (Garcia Marquez), che parla sciolto perché ricorda una gran bella e allegra e comune bevuta finale all’Arco della Pace. Foucault, “proprio sotto il ponticello degli occhiali, sul dorso del naso, ha una piccola ferita”. L’abbraccio pieno con Herberto Padilla, il romanziere cubano, “fatto fuori” (id est, gettato nel carcere duro da Fidel Castro), è “un po’ ostacolato dall’enorme sigaro” che resta piantato nella bocca del fumatore. Ma non si creda che Filippini ricorresse solo a questi mezzucci narrativi. Le domande partono basso e arrivano presto al cuore del problema. E poi Nanni ha il coraggio, a quei tempi dei primi Ottanta, di scegliere di affrontare i Grandi Vecchi della Destra: Karl Popper (direttamente), Carl Schmitt, Jurgis Baltrušajtis, Ernst Jünger (recensioni).
La sua Svizzera lo ha riscoperto recentemente. Roma e “Repubblica” gli hanno dedicato due convegni. Milano, che pure fu la sua città d’elezione e dei suoi incontri e amici primi e più veri, ch’io sappia nulla.

Nota biografica.Enrico Filippini, nato nel 1932 a Cevio in Vallemaggia nel Canton Ticino e scomparso a Roma nel 1988, dopo la laurea a Berlino in filosofia si trasferì a Milano alla fine degli anni Cinquanta e frequentò alla Statale di Milano i corsi di filosofia teoretica di Enzo Paci. Su suo suggerimento tradusse la Krisis e Ideen di Husserl, e altri testi filosofici tra cui Biswanger e Benjamin. Nella romanzistica tradusse Uwe Johnson, Günther Grass, Max Frisch e molti altri. Fu tra quelli che avviarono la Casa editrice Feltrinelli. Collaborò con la Bompiani e con il Saggiatore di Alberto Mondadori, fu tra i protagonisti del Gruppo 63. Pubblicò su “Menabò” di Vittorini e Calvino Dal 1976 alla morte, inviato speciale del quotidiano “La Repubblica”. “L’ultimo viaggio” e gli scritti sperimentali sono stati pubblicati da Feltrinelli nel 1991 e ristampati nel 2013 in una nuova edizione rivista e accresciuta con introduzione e cura di Alessandro Bosco. Bosco è anche il curatore di “Frammenti di una conversazione interrotta. Interviste 1976-1987. Vol. I”, per Castelvecchi, Roma. Una prima cernita di interviste era stata edita da Einaudi nel 1990 sotto il titolo “La verità del gatto”, a cura di Federico Pietranera, introduzione di Umberto Eco. Nel 2003 la Casa editrice Nino Aragno di Torino ha pubblicato “Byron&Shelley”, con prefazione di Paolo Mauri e nota di Sergio Frau: una mai realizzata sceneggiatura televisiva, cui Filippini aveva atteso tra il 1982 e il 1983. In rete è visibile un documentario della RSI (radiotelevisione Svizzera Italiana), http://www4.rsi.ch/trasm/archivio_storie/welcome.cfm?idg=0&ids=1799&idc=36436
(versione 23 luglio 2014) 





CLAUDIA AZZOLA



Claudia Azzola



IL BEL PAESE LÀ DOVE L’ OK SUONA

Pezzo dopo pezzo procedono i saldi dell’italiano causa diversi ma convergenti intendimenti.
La semplificazione del pensiero in atto, il parlato televisivo, asintattico, il lancio pubblicitario gridato in slogan all’insegna dell’ottimismo d’obbligo, l’uso acritico e provinciale dell’inglese  riempiono il vuoto che non è più colmato dalla letteratura, ma solo dai romanzi commerciali. La corrente lingua d’uso s’avvita sulla pigrizia mentale e relazionale dove, dominante  e pervasiva, è la rete, sede di  tutti gli avvenimenti degni, a portata dei followers; il web è agente corrosivo del linguaggio, già drogato dal giornalismo facile, dal politically correct, dall’editoria, dagli scrittori in primis, dai critici ex maestri di pensiero, oggi imbalsamatori dell’italiano, dal parlare di politici non acculturati e privi di  spessore, dai  divulgatori di mestiere.  
La lingua parlata poteva essere povera di contenuti, inconsapevole, rarefatta, ma sotto c’era una tradizione, c’era la lingua parlata e c’erano la lingua della ufficialità e la lingua letteraria, e anche c’erano spazi di silenzio. La letteratura del Novecento si è servita di dialettismi, di voci popolari, e intanto ha imparato a fare a meno della storia da feuilleton per privilegiare lo stile, per fare della parola e del testo un’opera d’arte, non il calco della realtà minimale, che si chiude su se stesso, mentre l’oggetto d’arte letterario apre sul mondo, si innerva di apporti surreali, esperienziali, del  sogno, filtrati dalla memoria, del repechâge di termini antichi per rinvigorire il presente.  
 L’io narrante ingombra un po’ meno e lascia spazio alla memoria selettiva, come nella Recherche, nel gioco delle parti pirandelliano, nelle parole in libertà, all’obscuritas della parola che si accende nella psiche.
Nell’epoca post letteraria, post-novecentista, post-moderna non c’è spazio per la letteratura di sperimentazione, perché l’immaginario è stato impoverito e la lingua non filtra esperienza attraverso il crogiuolo alchemico dove il fuoco arde i materiali e li restituisce, purificati e  vivi, come la salamandra che guizza rafforzata attraverso il fuoco.  La lingua letteraria è alchemica nella sua sintassi, passione, nel divenire, che non cede il passo all’italiano slombato (termine che rubo a uno scrittore che ancora fa ricerca e fa sintassi). Mettiamo, due-trecento parole? In sfregio allo sforzo dei parlanti dei secoli e delle terre d’Italia.  Il bel paese là dove l’OK suona.  
OK ha sostituito “va bene”, “d’accordo”, ma ultimamente usurpa il “sì”.  Monosillabo che non ha più significato e che, se proprio lo si deve pronunciare, di malavoglia, si tende a rafforzarlo con un “assolutamente”. Assolutamente sì. Garantisco io, lo dico io, quindi è vero. E bisogna vedere l’espressione facciale dell’automa pronunciante, facitore di sottocultura, ignaro della secolare portata individuale e corale di forma, miti e favole, di creazione dell’ambiente, di arte, di conoscenza. Le periferie insensate che lacerano i nostri paesaggi, l’abbandono di siti storici e coste allo sbarco di marziani distruttori sono l’emblema dell’Italia senza lingua e senza identità, desemantizzata, ecolalica nei suoni rozzi e spezzati, nelle nuove cadenze di recente conio, che tocca ascoltare se e quando le genti emergono per un attimo dall’adorazione del totem, cellulare o tablet. Guardano nel totem anche quando camminano, o quando sono al caffè con l’amico o con l’innamorato o l’amata.  
Le parole belle cadono in ombra, sostituite con anglismi di conio italiota, anfibi buoni per tutto, oppure da orridi neologismi. Le belle parole non ritorneranno, come le coste, le bellezze sfregiate. Caso unico italiano in Europa, le grandi opere che impegnano capitali, anni di lavori, appalti, arricchimenti illeciti, finiscono in niente, le famose cattedrali nel deserto non sono consuete nelle nazioni evolute del vecchio continente.  
Parlare della pubblicità forse porta una nota di leggerezza, in uno scritto come questo che tende a essere alquanto serioso. La pubblicità è autoritaria in quanto impositiva del pensiero unico iper-ottimista, assertivo, portatore di visione omologata, tutto per dare il la al consumo di un dato prodotto: “venite numerosi…”, che sottintende: se non vieni, non fai parte della maggioranza, non sei dei nostri, oppure, “…che cosa aspetti per…comperare, ecc.… Ho sentito anche “sbrigati”. Viene forte la voglia di rispondere: aspetto il treno, aspetto il ritorno delle rondini, aspetto la fioritura del giardino, aspetto l’amante, aspetto i ragazzi, aspetto buone notizie.
Luoghi della complessità e del sogno, da cui l’esprit, trae humus creativo, inabissandosi nel pensiero immaginale, parlare, atto di vita, come la semina, il lavoro dell’artigiano, l’erranza: happenstance, questo sì un termine complesso dell’inglese che scava nell’essere dell’uomo di ricerca radicato -paradossalmente- nel farsi e nel suo stato, se li lasciamo inaridire è solo per inadeguatezza a farsene carico e a trasmettere un patrimonio ai prossimi che meritano di vivere in un contesto meno meschino del presente.
Non dico che non ci siano eccezioni, che cercano di salvare la diversità, nel paesaggio, nel modo di vivere, nel cibo, mai come oggi oggetto di culto e continua trattazione. Di salvare la lingua italiana mi pare che se ne parli poco o niente. Dovrebbe essere un imperativo degli scrittori, ma negli ultimi decenni si è imposta la lingua generica, che si identifica col niente di fatto, che non ricerca l’etimo delle parole, la sua origine nel latino.  Risulta che la ricchezza e la complessità possano interferire con la storia piena di colpi di scena che il mercato richiede e il lettore brama. Libri da non tramandare. E poi, lasciati a sé, questi scrittori e questi romanzi, non hanno niente da dire dopo il primo lancio promozionale e qualche articolo compiacente di pseudo letterati, animatori da villaggio-vacanze. Alcuni i personaggi sono sempre in televisione a presentare i loro libri, con il presentatore che sollecita il pubblico a leggere il prodotto del giornalista-scrittore, o scrittore-giornalista. È tutto uguale, dalla promozione del prêt-à-porter, prêt-à-manger, alla presentazione del romanzo di turno, tutto ciò che sembra raggiungibile allungando la mano e il pronto cassa, in un egualitarismo generico ormai instillato fin dalla più tenera infanzia. Quando mamme e papà  istigano i pargoli a prodigarsi in multiformi attività, e non nell’unica che forse è affine al vero talento del pargolo, che vorrebbe sbocciare come le primule sotto l’ultima neve dell’inverno.     Credo che si stia assistendo a un processo irreversibile, per quanto riguardala la lingua italiana.
Ma è d’obbligo poggiare l’orecchio a terra, come gli indiani, per captare ogni suono nuovo, ogni sonorità recuperata, individuando le forze nuove che si agitano dando segni di novità. Che ricerca la diversità, il piacere, il gusto, il tempo, il silenzio, lo scambio intellettuale, i riti di passaggio dell’esistenza, l’eleganza nel parlare e nei gesti sapienziali, il recupero della pausa metrica, del respiro poetico, nel  repechâge di contenuto e stilemi del passato per rinvigorire il presente, la riammissione della sonorità nel parlato. Semi di ripresa spuntano, per quanto riguarda la difesa del suolo e della natura nella consapevolezza dell’importanza dell’ambiente e della storia, della ricerca dei cibi che mangiamo, ma scarsi sembrano essere i segni di rinascita della lingua. I semi sono in mano a pochi scrittori, pensatori, filologi, studiosi e studenti, che li ritengono pronti a sbocciare come le primule sotto l’ultima neve dell’inverno.
Milano, Luglio 2014




FRANCO ESPOSITO



Franco Esposito



Il Cristo dei poveri
Come facciamo ad amare fratelli
che hanno sparato al Cristo dei poveri:
quattro pallottole di lupara sul costato.
Qualcuno ha la sfrontatezza di rispondere,
al falso cronista di turno: “In fondo era
solo un dipinto sul muro!”.
Spero che mani samaritane chiudano
quei buchi. Il Cristo dei poveri,
spero perdoni questi fratelli meschini,
miscredenti, di una Calabria amara
che oggi non spera più nella preghiera.
Le loro false vite, le loro mani di sangue,
i loro falsi capitali anonimi
sono un potere a tempo, distruttivo,
sono la loro tomba eterna.
Il Cristo sul muro, ricordate fratelli,
è una virgola di civiltà,
la Voce, l’esistenza di un popolo.



Franco Esposito
                                


FRANCESCO PISCITELLO



Francesco Piscitello

LA DEA


Parvati è la sposa di Shiva e madre di Ganesh, il dio dalla testa di elefante veneratissimo in tutto il mondo indù. In India, e anche qui, in Nepal, Ganesh lo si vede dappertutto, persino sui taxi, come da noi il rosario appeso allo specchietto retrovisore. Per lo più si tratta di una statuetta di plastica ricoperta, come i David di Michelangelo delle bancarelle, da quelle pagliuzze che si tingono di violetto o di rosa secondo che si prospetti pioggia o bel tempo; talvolta invece si trova immerso nell’acqua contenuta in quei piccoli globi di vetro che, quando vengono agitati, lasciano cadere scagliette di materiale bianco che simula una nevicata: la neve, del resto, è di casa, qui, tra le cime himalayane. Come tutte le divinità indù, anche Parvati si manifesta in molti modi: una delle sue epifanie è Durga, che incarna l’energia creativa femminile - Shakti - ed è raffigurata come una donna che cavalca una tigre. La sua impresa principale è stata sconfiggere il demone Mahishasura che aveva fondato in terra un regno di terrore.
Parvati-Durga è la divinità protettrice del Nepal. Durante il regno di Jayaprakasha Malla (1735-1768) una vergine della famiglia Shakya si disse posseduta da Durga. Il sovrano prese l’affermazione come una sorta di bestemmia e bandì la fanciulla dal paese: ma sua moglie, la regina, fu presa da convulsioni che il re interpretò come segno del suo errore. Richiamata la ragazza, dispose che fosse venerata come Durga.
Da allora, Durga s’incarna in una bambina della famiglia Shakya: la Kumari. Per essere ritenuto idoneo ad accogliere lo spirito della dea, il corpo della bambina deve possedere trentadue segni definiti e riconoscibili. Ma questo non basta. La piccola deve superare molte prove, tra le quali una destinata a dimostrare il suo coraggio: dopotutto è chiamata a custodire lo spirito di colei che ha trionfato su un demone perverso e terrificante. Per questo dovrà dormire una notte, sola e senza dar segno di paura, in un cortile buio guardata a vista dalle innumerevoli teste sanguinanti dei bufali offerti in sacrificio.
Una dea non deve lavorare, affaticarsi: per questo la sua servitù le eviterà ogni possibile attività, mentale o fisica, anche quelle più banali, persino lo stesso camminare. La Kumari infatti non cammina, viene portata: i suoi piedi non toccano mai il suolo. E non può perdere mai una goccia di sangue: svanirebbe la sua divinità e tornerebbe a essere una persona come tutte, una dei quindici milioni di donne nepalesi. Il sangue della prima mestruazione è però inevitabile e non appena questa si verifica inizia la ricerca di una nuova incarnazione di Durga. È come quando, morto un Papa, inizia il periodo di sede vacante e si convoca il conclave per sceglierne un altro.

Francesco Piscitello e Angelo Gaccione

L’ho vista, la dea.  Vive nella Kumari Bahal, o “Casa della Kumari”, un edificio quadrato che si affaccia in parte su Basantapur Square e in parte su Durbar Square, la piazza principale di Kathmandu. Proteggono l’ingresso due enormi leoni di pietra, alti quanto il portone. Il cortile interno è pieno di fedeli che portano in omaggio fiori e polvere di cinabro e aspettano che la dea si affacci o, per essere più precisi, che venga fatta affacciare. Io però non posso entrare: dal privilegio di vederla è escluso chi non è induista, ma qualche rupia nepalese mi consente ugualmente l’ingresso. Qui, mescolati ai fedeli, ci sono molti che la fisionomia, l’abbigliamento e l’ostentazione di una Nikon appesa al collo, che però non si può adoperare, fa riconoscere come occidentali: o giapponesi, se hanno anche gli occhi a mandorla. Pochi minuti dopo, d’improvviso, cala un silenzio profondo, raccolto, rotto soltanto dai commenti ad alta voce di qualcuno di quelli con la Nikon (ha ragione il mio amico Viviano Domenici: per viaggiare ci vorrebbe la patente), e tutti gli sguardi si volgono in alto. Al secondo piano, dietro il vetro di una finestra, compare diafana la figura della dea. L’evento, che non è obbligatorio (non si può costringere una divinità a mostrarsi ai fedeli), si è avverato. Però mi coglie un sospetto: se gli stranieri sono parecchi, anche le rupie versate non devono essere poche. Vuoi vedere che hanno facilitato, oltre l’ingresso, anche l’apparizione?
Nell’uscire dalla sacra bahal per raggiungere i miei poco mistici compagni, che alle dee preferiscono lo shopping nei negozietti del centro, non posso impedirmi riflessioni che mi rattristano. Cosa avverrà della povera Kumari, ex dea che con la sopraggiunta pubertà verrà restituita alla comunità dei comuni mortali? Privata della sua aura sacrale, del tutto inetta com’è nei confronti delle più elementari cose materiali, incapace di fare alcunché, priva di qualsiasi istruzione, di quale dotazione disporrà per vivere nel mondo, oltre alla pensione statale di seimila rupie mensili?  Seimila rupie, nel momento in cui scrivo, sono un po’ meno del triplo del reddito medio di un nepalese, una bella cifra che certo farà gola a più d’un pretendente alle nozze: ma sarà qualcuno sedotto da null’altro che dall’avidità o dal bisogno, che non sono buone credenziali, e in cambio dovrà accettare il rischio - come vuole un’antica superstizione - di morire entro sei mesi dalle nozze tossendo sangue.
Un marito, comunque, lo troverà, come lo ha trovato la maggioranza delle ex Kumari, e con quella dote anche presto: un marito al quale non avrà nulla da offrire salvo il corpo e al quale non saprà cosa chiedere salvo quello che possono chiedere i suoi giovanili estrogeni. Ed è tutto. A fronte di questo, la devastazione psichica che si può supporre abbia prodotto un’infanzia vissuta nei panni di una dea, privata delle comuni esperienze infantili, circondata da un rispetto e da una venerazione che costituiscono la più impenetrabile barriera all’amore, alla tenerezza, al contatto fisico oltre che sociale e con chissà quante altre deformità che non so neppure immaginare.
Ma eccomi arrivato in Freak Street. Freak Street, come dice il nome, è la via dedicata ai freak che un tempo si davano convegno qui a Kathmandu. Se ne vede ancora qualche raro esemplare, in là con gli anni e appesantito dalla pinguedine ma che non ha rinunciato all’abbigliamento variopinto di allora, con le sue brave collane di perline e semi colorati, i capelli lunghi e ingrigiti - quei pochi che la calvizie gli ha lasciato - raccolti a coda di cavallo o arrotolati sulla nuca in un approssimativo chignon.

da sin. Piscitello, in centro Gaccione, a des. Eliio Vetri

Sarà forse perché non riesco a distogliere il pensiero dalla bambina che ho appena visto, dal suo malinconico destino di dea pensionata prossima a ridursi a una povera bambola, a un inutile fantoccio di carne, che anche l’atmosfera di questa strada mi appare triste, stagnante, il suo carattere pittoresco un poco artificioso e forzata la sua vivacità. Altrettanto falsa è l’aria di complicità del ragazzotto che mi si avvicina e sussurra, fingendo di guardare altrove con fare circospetto, “opium, opium, very good”: mi deve aver scambiato per un vecchio hippy dismesso e senza uniforme, tornato in pellegrinaggio nei luoghi della sua trasgressiva gioventù.

                                  



 LUCA MARCHESINI


Luca Marchesini















(S)PUNTI INTERROGATIVI

“Proletari di tutti i Paesi unitevi”: un'eredità cosmopolitica di stampo settecentesco capace ancora di riassorbire il richiamo romantico alle radici nazionali, solo facendone ruotare l'asse da verticale a orizzontale; sostituendo i confini fra gli Stati con confini di classe, la guerra nazionale con la guerra (lotta) di classe; dove tuttavia il proletariato viene infine a configurarsi come classe universale, riassorbendo in sé il ruolo della ragione illuministica.
Probabilmente, nel caso dell'Illuminismo, o, nel caso di Marx, più che probabilmente, un errore di calcolo; un nobile errore di calcolo. I romantici assertori di mitologie nazionalistiche (particolaristiche) potrebbero anche avere una facile, ignobile ragione.

L'uomo reazionario e l'uomo fascista non coincidono; nel senso che il fascista è sempre nel fondo un reazionario (qualunque cosa ciò voglia dire) ma il reazionario non necessariamente è un fascista. Anzi, il reazionario puro tutto sommato non lo è, mancandogli, del fascista, tutto l'armamentario neo-pagano iperattivistico e fallocratico. Il reazionario puro in genere non ha bisogno di pose rodomontesche.
Al contrario, donna reazionaria e donna fascista tendono a coincidere. Questo perché, mentre l'uomo fascista presenta il proprio volto reazionario all'interno della famiglia ma all'esterno è chiamato a mostrare un volto sempre al fondo reazionario ma autoaffermativo e dunque vagamente trasgressivo, la donna fascista deve essere come il fascismo la vuole: sottomessa, sposa e madre, perennemente incinta (secondo uno schema tipicamente reazionario), caratterizzandosi tuttavia per la disposizione a non accettare tutto ciò in modo puramente passivo (altrimenti, per paradosso, non potrebbe essere né fascista né reazionaria, fascisti e reazionari non contemplando la possibilità, per una donna, di occuparsi di politica, di prendere posizione, e dunque neppure di essere reazionaria o fascista) ma, al contrario, rivendicando, con maschile cipiglio guerriero, il proprio ruolo subordinato di femmina. Un proto-esempio di donna reazionaria (fascista)? Nel Re Lear: Gonerilla, quando, idealmente rivolgendosi all'amato, gli dice che a lui è dovuto ciò che il marito usurpa. Sta parlando del proprio apparato genitale, di cui il marito sarebbe indegno in quanto mite e riflessivo e dunque smidollato: vuole essere schiava, ma di qualcuno che secondo i suoi parametri sia degno di possederla come schiava. Sarà lei, guerriera, a decidere davanti a chi deporre docilmente le armi.

Niente di troppo. Ineccepibile. Come tutte le tautologie.

L'umorismo fine nasce dal disvelamento di ciò che sapevamo e non sapevamo di sapere, la comicità di bassa lega dal finto disvelamento consistente nel dire ciò che sapevamo e sapevamo benissimo di sapere e che ragioni perlopiù di buona creanza impediscono di manifestare troppo spesso.

L'uomo che non sa (che cosa, e in base a quali parametri? Ma passiamo oltre) non è libero quanto quello che sa (ut supra). Dunque istruirlo è renderlo (più) libero. Mettiamo però che lui non voglia essere istruito: se lo istruisci a forza, il lui di dopo magari ti ringrazierà (di averlo reso ora più libero), il lui di adesso ti accuserà, non senza ragione, di stare conculcando la sua libertà di non venire istruito.
Per una critica e un'apologia dello Stato educatore (illuministicamente paternalista-autoritario).

A questo punto, l'essere stata, per un certo periodo, la parte meno abbiente della popolazione, e segnatamente la classe operaia, su posizioni laiche, internazionaliste, diciamo così progressiste (cosa che a quelli della mia generazione sembrava un dato ovvio e destinato a durare nel e oltre il tempo) sempre più appare come una temporanea e vistosa anomalia (la maggioranza, il cosiddetto, con termine generico e vagamente truffaldino, popolo, è, da sempre, e in un certo senso per definizione, gregaria e dunque tendenzialmente reazionaria); frutto, forse, di un tardo e mediato contagio illuministico.

Altro che Übermensch: sarebbe già tanto riuscire a realizzare l'oltrescimmia.

A costo di passare per oscurantista, dichiaro qui di nutrire qualche perplessità circa i matrimoni omosessuali. E spiego perché.
Non ho ovviamente nulla contro l'omosessualità; semmai, contro il matrimonio. Il matrimonio in quanto tale rappresenta una sorta di contratto di schiavitù (più bilaterale e bilanciato nelle società moderne, più asimmetrico nelle società arcaiche), che implica la rinuncia ad alcune libertà fondamentali dell'individuo e con ciò stride con i fondamenti dello Stato liberale. Ciò, ovvero una tale eccezione, può essere giustificato solo sulla base dell'importanza fondamentale che ricoprono, per ogni società, la riproduzione dei suoi membri e l'allevamento delle nuove generazioni; il che costringe a porre, intorno ai luoghi (ideali) deputati a tutto questo, una particolare barriera protettiva. Uno stato d'eccezione, che esige procedure eccezionali: tale la ratio.
Ma se tale è la ratio, perché estendere simili misure emergenziali anche là dove la mancanza stessa dei presupposti di base (in sostanza, la capacità riproduttiva) le renderebbe del tutto incongrue? Chi ha detto che, in mancanza di quei presupposti, i rapporti sessual-affettivi fra gli individui debbano essere fondamentalmente diadici anziché triadici o quant'altro? La coppia omosessuale: una sorta di scimmiottatura della coppia eterosessuale, in assenza delle condizioni che rendono la seconda una soluzione particolarmente funzionale. Estendere le misure d'eccezione che la società, anche la società più liberale, è in un certo senso costretta ad applicare al sesso procreativo, estenderle anche là dove la situazione non lo esige, mi sembra paradossalmente il primo passo verso una sorta di militarizzazione-fascistizzazione generalizzata della società stessa: come applicare le misure di sicurezza che circondano i centri nevralgici di un Paese, tipo dighe o centrali elettriche, anche alle fontanelle.
A parziale rettifica di quanto sopra. Le considerazioni appena esposte hanno senso in quanto si riferiscano all'istituzione matrimoniale di tipo tradizionale, intesa cioè in senso forte. A fronte dell'attuale tendenza a un suo depotenziamento (con la possibilità di ottenere il divorzio in tempi non lunghissimi, e la depenalizzazione dei reati di adulterio e abbandono del tetto coniugale), la consistenza di esse viene in larga misura meno.

Secondo una certa visione, riconducibile, forse più che a Marx, a certi suoi epigoni, il potere politico (e dunque anche il potere militare) deriverebbe dal potere economico. Ora, è pur vero che una pistola bisogna essersela comprata (a meno di non essere in grado di fabbricarsela, e anche in questo caso bisogna essersi comprati know how e utensili adatti). Ma, in ultima analisi: mettiamo che su un'isola deserta si trovino due persone, l'una munita di pistola e l'altra di un prezioso sacco di nocci di cocco. Quale delle due cose passerà a chi?

I profondi si dividono fra incanto e disincanto. In mezzo: il non incanto; il mai incanto.

Quante cose può dire l'ubriaco al non ubriaco. E viceversa.

L'imperativo categorico è solo un imperativo ipotetico a cui è stato tolto un pezzo.

Minosse si è inventato il taurino adulterio per esorcizzare l'animale che porta in sé.
(In un certo senso, si è quindi inventato anche Dedalo.)

Non giudico le persone dal fatto che recitino o meno una parte (forse solo i morti non recitano), ma da come recitano. Sopporto gli attori cani solo a teatro.

La lingua tedesca, specie nel canto, ha le sonorità di un'acqua di sorgente che rimbalza su pietre ben levigate.

La congettura di Goldbach. Possibile traduzione: ogni multiplo di due maggiore di due è la somma di due numeri con due soli divisori.

L'odine delle conseguenze logiche, rispetto a quello delle conseguenze temporali, è rovesciato.

Il fatto che ciò che in certi insetti è mimetico rispetto a possibili predatori non umani lo sia anche rispetto a me fa pensare che la struttura sensibile (in questo caso perlopiù visiva, ma non solo) di molti viventi sia suppergiù la stessa (un realista metafisico si spingerebbe oltre). Ma chissà di quanti viventi non scorgiamo la natura mimetica semplicemente perché tale essa non è per noi.

Mi viene difficile immaginare una donna solipsista. Sola (ego) ipsa. Stride.

Il cielo diurno non esiste, se non come miraggio: un'azzurra rifrazione.
L'Italia (o la Francia, l'Olanda...) non esiste: un territorio? Un insieme di persone che parlano la stessa (?) lingua?
Ma, insomma: che cosa esiste?

Dice un provrerbio siciliano (traduco): Chi non sa cosa fare pettina il cane.
Applicato alla vista: fosfeni.

Un'assai italiana porcheriola è il cosiddetto familismo amorale. Il fatto è che il familismo amorale è ciò che tiene il posto, in Italia, di qualcosa che alberga in tutti o quasi gli altri paesi e da cui noi italiani siamo pressoché immuni: il, chiamiamolo così, nazionalismo amorale. Right or wrong, my country: la versione anglosassone del nostro tengo famiglia.

Colti si diventa. Ma coltivabili si nasce.

Cultura: ripensamento; non importa di cosa.

In ogni etica di stampo materialistico si annida una contraddizione. Sia detto non contro le visioni materialistiche ma contro ogni etica.

Seneca genera (per così dire) Nerone. Marco Aurelio genera (per così fare) Commodo.
La pacatezza della ragione genera mostri?
Nella storia, dei fiumi la follia fa spesso le scaturigini; la saggezza, gli argini e tutto il resto. Nella storia e non solo.

Quando in te la ragione arriva a porsi contro la vita, sei giunto alla fine. Un uomo di Chiesa potrebbe sottoscrivere. Solo che lui e io non vogliamo dire la stessa cosa: lui parla in difesa della vita; io, della ragione.

I giovani delle epoche contraddistinte da grandi attese collettive non fanno in genere che esasperare in senso consequenzial-guerriero (complice anche il ribollimento ormonale) l'etica dei padri. Sono dei tradizionalisti camuffati.

Si possono giudicare le persone da quello che rispondono quando si chiede a una di loro quale sia il suo peggior difetto: i più stronzi ne approfittano, fingendo di confessare un difetto, per millantare un pregio.

A volte uno ha quasi l'impressione, il tempo, di non averlo saputo trattenere abbastanza. Un po' come se fosse colpa sua.

In un dizionario di una qualsiasi lingua, le parole da definire sono poi le stesse con le quali le si definisce. Il linguaggio, in particolare il linguaggio verbale, è autoreferenziale: un sistema di specchi che non fanno altro che rispecchiarsi tra loro (e dunque non rispecchiano nulla).
Non si esce da una tale tautologica vuotezza se non facendo ricorso alla definizione ostensiva. L'ostensione, tuttavia, ubbidisce a regole precise (lo stesso dito puntato implica una tacita convenzione, quella in base alla quale, prolungando indefinitamente il segmento rappresentato dal dito, il primo oggetto solido che tale prolungamento incontra è ciò a cui intendevamo riferirci). Se tali regole pretendessimo di enunciare verbalmente, o comunque nei termini di un linguaggio convenzionale, torneremmo alla precedente aporia. Dunque tali regole non possono essere definite all'interno del sistema di segni che esse stesse regolano, garantendone la significatività col rapportarlo ad altro (a un universo di significati a esso anteriore). Deve dunque trattarsi di regole pre-convenzionali (o legate comunque a una convenzione più profonda, altre rispetto al sistema di convenzioni più o meno consapevolmente e volontariamente stipulate fra esseri umani): tendenzialmente, innate; legate alla struttura stessa del vivente. La vita comincia (si stacca dall'inorganico), in un certo senso, là dove comincia il linguaggio.
E, tuttavia: dietro un linguaggio, sempre un altro linguaggio. E così indietro, sempre più indietro: dall'organico all'inorganico a...
Il primo vagito dell'universo: una fluttuazione quantistica, una fluttuazione linguistica.

Per poter dire che Achille ha superato (raggiungerla non poteva) la tartaruga, è necessario che 1) i due abbiano seguito lo stesso percorso, cioè occupato via via le stesse caselle spaziali: cosa impossibile, in tempi diversi e con diverse volumetrie; 2) il corpo dell'uno e dell'altra abbia confini netti, cioè che nel loro caso la natura faccia i famosi salti; 3) in fase di sorpasso i due corpi si siano compenetrati; 4) nessuno abbia barato alla partenza, non mantenendosi, prima del via, in stato di quiete assoluta: cosa impossibile, il passaggio dalla quiete al moto (e viceversa) essendo logicamente contraddittorio; 5) eccetera.
L'aporia segnalata da Zenone potrebbe nascere dall'assolutizzazione metafisica di concetti mutuati dall'esperienza, come quelli di corpo, contatto, quiete, moto rettilineo eccetera: concetti apparentemente familiari, che in condizioni estreme rivelano una costitutiva indeterminatezza.

Rispetto al non vivente, che cosa caratterizza il vivente? La capacità di riprodursi (non solo di creare individui simili, ma di ricostituire istante per istante la propria stessa struttura fisica)? O solo una sorta di interno finalismo? (Lasciando da parte qualsiasi riferimento all'ambiguo concetto di coscienza.) In fondo, la stessa cosa: se il finalismo caratteristico del vivente non si compendiasse nel fine specifico dell'autoriproduzione, si annullerebbe automaticamente. Ma, poi, che cosa si deve intendere per finalismo? Solo una forma particolarmente complessa di causalità, diciamo così, meccanica (in senso lato). Dunque, ciò che indichiamo come vivente non è che un sistema complesso che attraverso meccanismi complessi produce in ogni istante qualcosa di molto simile al se stesso dell'istante che precede. Ma cosa vuol dire simile? Simile rispetto a quali parametri; a quale osservatore (il concetto di somiglianza, a differenza di quello di identità, rimandando a qualcosa di relativo)? Dunque, traducendo: vivente è ciò che, istante per istante, morendo, produce qualcosa che qualcuno, un qualsiasi ipotetico soggetto, percepisce come simile a esso.
Una conseguenza paradossale di quanto osservato sinora è che il concetto stesso di vita sembrerebbe assumere così un carattere relativo: se a produce a*, e a* è simile ad a rispetto ai parametri di Tizio ma non a quelli di Caio, a potrà essere considerato insieme vivente e non vivente: vivente rispetto a Tizio, non vivente rispetto a Caio.
Ma proseguiamo. Due cose in assoluto non simili non esistono: due cose, cioè, che non possano essere percepite come simili da alcun soggetto possibile. Da ciò la conclusione che le vite sono tante quanti gli infiniti (sempre che non ci troviamo di fronte a un discretum; ma passiamo oltre) segmenti che fra loro collegano gli infiniti punti dello spazio e del tempo, fra i quali punti uno o l'altro degli infiniti soggetti possibili necessariamente individuerebbe una somiglianza-continuità. Anzi: poiché ciascun soggetto non può non percepire se stesso in termini di continuità temporale, e dunque come una successione di istantanee in cui esso appare a se stesso sempre a se stesso simile, ogni vita giustificherebbe in base alla sua semplice percezione di sé il proprio carattere vitale: una sorta di causa sui.
Si potrebbe continuare.

(Corollario. In una simile prospettiva, organismi viventi in numero almeno tendenzialmente infinito si intersecherebbero senza reciprocamente percepirsi come tali e rimanendo sostanzialmente estranei.)




CATALDO RUSSO

Cataldo Russo



















Chi è il Grande Fratello e chi è Godot?

Chi è il Grande Fratello o chi è Godot? Sono domande destinate a non avere una risposta certa. Nel romanzo 1984 di George Orwell non viene mai chiarito se il Grande Fratello sia una persona reale e vivente, o semplicemente un simbolo creato dal partito per avere il controllo di tutto e di tutti. Rimane un mistero, così come un mistero è Godot, l’altro personaggio emblematico del  Novecento, uscito dalla penna di Samuel Beckett, destinato a restare un’entità indefinibile, di cui tutti parlano, tutti sentono la presenza, ma nessuno veramente sa chi sia o come sia fatto, come nella migliore tradizione del teatro dell’assurdo. Quando Winston Smith, il personaggio principale di 1984, chiede esplicitamente a O'Brien, durante la tortura, se il Grande Fratello esiste, egli gli risponde "Tu non esisti", lasciando intendere  che il suo destino di spione sarà l’oblio.
Al di là dell’invenzione e degli espedienti letterari e teatrali, credo che in qualsiasi realtà, piccola o grande che sia, progressista o conservatrice, monarchica o repubblicana,  esista sempre  un Grande Fratello e un Godot che tengono la scena.
Il Grande Fratello è l’attitudine di chi comanda a spiare, più o meno consapevolmente, supposti nemici o potenziali dissidenti. Di solito i governanti, qualunque essi siano, si servono di quegli individui che evidenziano una certa attitudine alla denuncia e alla delazione. Questi ultimi sono per lo più persone normalissime, apparentemente innocue, che spesso non esprimono il loro pensiero nelle occasioni pubbliche, ma che amano origliare e riferire. A volte si tratta di amici o familiari che agiscono, consapevolmente o non,  per ingraziarsi chi esercita il potere.  
La storia, purtroppo, strabocca di personaggi del genere.
Godot, al contrario, rappresenta l’attesa di un avvenimento che dà l'apparenza di essere imminente, quasi a portata di mano, ma che nella realtà non accade mai, anche perché di solito chi l'attende non fa nulla affinché esso si concretizzi.
Vladimiro e Estragon, i due personaggi principali del testo di Beckett,  stanno aspettando su una desolata strada di campagna un certo "Signor Godot". Dietro ai due personaggi c’è solo un albero che regola la concezione temporale attraverso la caduta delle foglie, che stanno a indicare il passare dei giorni. Godot non appare, si limita a mandare un ragazzo dai due strampalati vagabondi, il quale dirà loro che Godot "oggi non verrà ma verrà domani".
Godot nella metafora della quotidianità potrebbe essere il buon governo che si annuncia sempre con grande enfasi e non arriva mai, ma potrebbe anche essere l’onestà che tutti sbandierano e che pochi praticano. Oppure potrebbe rappresentare la professionalità e la serietà che tutti dicono di apprezzare ma che in pochi riconoscono e stimano sul serio, preferendo gratificare e arricchire veline, soubrette e falsi artisti.
Vi sono due tipi di politici. Quelli che sono convinti di fare sempre il bene del popolo e di soddisfarne egregiamente sia i bisogni materiali sia le loro aspirazioni. Costoro vedono nella richiesta più semplice da parte del cittadino un atto di insulsa ribellione da punire. Per loro il mondo è popolato per lo più da innumerevoli Bruto, pronti a dare la pugnalata alle spalle dell’immacolato Cesare. Questa fauna di politici predilige i delatori alla Wiston Smith, sempre pronti a denunciare il compagno di lavoro o il vicino della porta accanto. L’arma con la quale hanno maggiore dimestichezza è la ritorsione, ma non disdegnano l’eliminazione anche fisica del supposto nemico.
Poi vi sono i politici che creano speranze e illusioni, annunciando, come il ragazzo di “Aspettando Godot”, un domani radioso con il PIL che navigherà a gonfie vele, con milioni di nuovi posti di lavoro che nascono come funghi alle prime piogge autunnali. Costoro sono anche dei maestri del “passa parola”, del tam-tam perché trovano sempre persone in ogni ambito disposte ad amplificare quel poco che fanno e a giustificare le “promesse da marinai” o i fallimenti
Insomma per dirla alla Novalis (pseudonimo di Friedrich von Hardenberg) “ Quando si vede un gigante si ponga mente anzitutto alla posizione del sole e si badi che non sia l’ombra di un pigmeo”.
Molti dei nostri politici oggi sono dei pigmei per statura morale e per capacità professionali. Sono persone ambiziose quanto modeste,  abituate agli inciuci, agli intrallazzi, alle ruberie, ma che per uno strano capriccio del sole appaiono giganti  È avvilente il confronto fra i politici e gli amministratori di oggi e quelli del passato. Molti politici contemporanei sono ignoranti. Sanno poco di politica e quasi niente di arte, letteratura, geografia, storia, filosofia. Si esprimono per lo più con slogan e incappano facilmente nell’errore, perché usano molto la lingua e poco il cervello. Non si sente più un discorso profondo, ricco, compiuto, ma solo promesse e intrighi di parole, dietro le quali si nasconde l’inganno. Ho visionato un video nel quale si vedeva il Presidente del Consiglio conversare nell’idioma di Shakespeare, una cosa da far rabbrividire persino un principiante della lingua inglese, tanta era l’improvvisazione e la pochezza.  Eppure non c’è discorso, dichiarazione, progetto, riforma dove Renzi non usi un termine anglosassone di cui, dopo quel video, dubito conosca il significato. Ma lui si sa è un autentico Gianburrasca e lo fa non per farsi capire ma, come nella migliore tradizione degli azzeccagarbugli, per confondere e stupire.

*** 
                                                                                 
Il maggiolone

Cataldo Russo











«Questa sì che era una macchina! Che carrozzeria…! Nulla a  che fare con le macchine di adesso, le cui carrozzerie sembrano  sfogliatelle, lingue di gatto,  ostie, tanto le lamiere sono sottili e fragili. In molti casi non sono fatte nemmeno di lamiera, ma di plastica. Questa la potevi prendere anche a calci. Ti rompevi i piedi, ma lei niente» mi dice un tipo sui cinquant’anni, mentre cerca di addentarla su un parafango per saggiarne la durezza. Accenno un sorriso, mentre l’altro sputa il dente che si è appena scardinato. Aspetta qualche attimo per riprendersi,  si pulisce la bocca con la manica della camicia, poi mi chiede, come se fosse a una fiera di bestiame: «Quanti anni ha la macchina?»
«Quarantuno» rispondo.
«Quarantuno…Ne sono passati di anni, eh!»
«Quarantuno, appunto» rispondo un po’ ironico.  
«È già d’epoca, quindi? »
«Sì, l’ho iscritta al registro delle macchine d’epoca qualche anno fa». Mi stava venendo spontaneo dire “Al registro degli indagati”.
«A posto con i certificati?»
«Sì, nascita, battesimo, cr…»
«Battesimo!?»
«Mi scusi, foglio di immatricolazione, tagliandi, revisioni… volevo dire, signore».
«E il bollo!?»
«Per adesso è esente dal pagamento di questa tassa»
«Non lo sapevo. Quindi, vuol dire che  le macchine d’epoca non pagano il bollo?»
«Esatto».
«Quasi quasi me ne compero una solo per il piacere di non pagare il bollo. Stato ladrone!»
«Fantastica l’idea di comperarne una solo per non pagare il bollo allo stato ladrone» gli rispondo.
«Può ben dirla. Pensi, ne ho avuta una anch’io tanto tempo fa. Ricordo che ho fatto su è giù Milano-Catanzaro una decina di volte in due anni». Dal timbro nasale avevo capito che si trattava di uno del catanzarese.
«E poi?»
«L’ho dovuta rottamare. Gli incentivi sull’acquisto di una macchina nuova, sa? Pensi che me l’hanno valutata 4 milioni delle vecchie lire e aveva il motore completamente fuso». Sto per fargli notare che il rovescio della generosa valutazione è dovuto all’aumento del prezzo di listino della macchina nuova, ma mi pento
Si concede una breve pausa, poi mi dice: «Le voglio raccontare un fatto»
«Prego».
«In Germania, tanti anni fa, un tedesco, che ogni tanto mi faceva fare qualche lavoretto nel giardino, mi ha chiesto di demolire  un muro».    
«Non ci vedo niente di strano. Suppongo che l’abbia pagato».
«Certo che mi ha pagato. I tedeschi sono di parola»
«Buon per lei».
«E no, deve stare ad ascoltarmi».
«Bene, sono tutto orecchie?»
«Come pensa, lei, che abbia demolito il muro?»
«Questo me lo deve dire lei».
«Con lo scalpello e la mazzetta…?»
«Suppongo di sì».
«E invece si sbaglia. Con il paraurti. Tutto con il paraurti del mio maggiolone, una vola di muso e una vola di culo, una volta di culo e un’altra di muso,  finché il muro non si è sbriciolato ed è caduto a terra».
«Geniale».
«Può ben dirlo». Finì, con sommo piacere da parte mia, di dare nocche sul cofano per confermare la robustezza della lamiera, poi disse: «Le voglio dire un’altra cosa».
«Un altro muro?»
«No, una gara»
«Una gara?!»
«Sì, e che gara! Pensi che eravamo in sei».
«Una mezza dozzina, insomma».
«Cosa ha detto?»
«Che eravate in sei».
«Io ho sentito un’altra cosa, sa!»
«Le giuro che ho detto sei».  Pauso un po’, poi chiedo: «E in che cosa consisteva questa gara?»
«Ognuno di noi aveva una macchina differente, di marca intendo».
«Bene».
«Dovevamo strappare un pezzo della carrozzeria della nostra macchina con i denti. Vinceva chi…»
«Chi perdeva più denti?»
«La smetta di fare lo spiritoso e mi stia ad ascoltare. Vinceva chi, nonostante gli sforzi non riusciva a strappare nemmeno un centimetro di lamiera»
«Gara veramente geniale, non c’è che dire!»
«Può ben dirlo. E vuole sapere chi ha vinto la scommessa, nonostante i 15 denti caduti?»
«Certo, muoio dalla voglia di…»
«Il sottoscritto. Per quanti tentativi avessi fatto non sono riuscito a strappare un solo pezzetto di carrozzeria, perché questa è una macchina che sembra tale, ma è un carrarmato». Dopo avermi rivelato questo segreto mi dice: «Se un giorno volesse venderla, io…»
«La terrò presente, ma solo quando nella sua bocca non sarà rimasto più un dente. Sa io sono per la protezione delle carrozzerie».
Cataldo Russo   

       



GIORGIO COLOMBO


Giorgio Colombo




















BIO-GRAFIE

Servono le biografie di un artista, pittore, scrittore, musicista, per capire meglio la sua opera? Oppure no, non servono perché spostano l’attenzione sugli aspetti bizzarri del comportamento, sul pettegolezzo, i difetti, le debolezze, le scelte sbagliate, riscattate, al contrario, con l’impegno esclusivo nella propria vocazione artistica, unico elemento di prova sulla qualità dell’opera. Attardarsi sulla biografia sarebbe una dannosa distrazione dal compito critico vero  e proprio.
“Ci fu un tempo in cui chi scrive (Sergio Solmi, anni ’70), usava mettersi in  guardia contro la confusione della vita con l’arte, stimando utile disciplina critica il distinguere recisamente le due cose…. persuasi che solo l’opera, e non fuori di essa, possa reperirsi una traccia del mistero insondabile della vita.”
Solmi sta scrivendo di un autore, Alfred Jarry (1873-1907), per il quale privato e pubblico “fecero tutt’uno, dappoiché egli si identificò con la propria maschera”, il grottesco “Ubu Roi”.
Casomai è nei suoi personaggi caricati e stravolti che si riconoscono significativi squarci autobiografici. E’ l’opera che illumina la vita, non viceversa.
Non intendo certo discutere su Jarry, ma piuttosto riflettere sul termine ambiguo della “bio-grafia”, “scrivere la vita”, scrivere di una vita, perché se lo scrivere è un’attività ben riconoscibile, con le sue regole e i suoi principi, una lingua, molto più  complicato è convenire cosa s’intenda per  ‘vita’, un complesso integrato di…., un insieme mobile di…, e i puntini possono essere riempiti da una serie indefinita di elementi  (percezioni, sogni, visioni, emozioni, sentimenti, respiri, battiti, appetiti  ecc. ecc.), concentrati  in un punto, il soggetto e nell’ambiente nel quale il soggetto interagisce.
Due attività, scrivere e vivere, disomogenee, ma in qualche modo, sempre congiunte.
Mi fermo qui, trascurando l’enormità di studi che sono stati fatti su questo argomento, perché vorrei dire, per cominciare, che ogni opera artistica possiede una compattezza, un’unità relativa, monca; piuttosto parlerei di varietà nella sua definizione interna, la sua forma,  e nei suoi rapporti esterni, scuole, modelli, programmi, pubblico. E poi un rapporto problematico anche con il suo autore, dall’affermazione di Verlaine: “L’art, mes amis, c’est d’être absolument soi-même”, all’opera pura, il poeta scomparso, di Mallarmé. Come configurare il ‘se stesso’ dell’uno e la ‘parola’ assoluta dell’altro? Tutto nell’io- autore o invece tutto nella forma dell’opera?
Naturalmente invocare la totalità è sempre sbagliato.
Ogni biografia fornisce degli elementi, delle notizie sull’autore che possono essere bene o male utilizzate, come qualsiasi elemento stilistico dell’opera. Ma aggiungerei che, tra gli elementi utili, vorrei sottolineare l’importanza di quelli che sfuggono ad ogni grammatica, ad ogni discorso piano e conclusivo, ad ogni già visto, già sentito. C’è sempre una zona d’ombra sfuggente che accompagna parole, forme, suoni, una tonalità, una spinta o una frenata che pure si mescola a quelle parole e forme e suoni. Ecco, nelle biografie io cercherei, con l’aiuto della psicologia, quei toni, quelle spinte, quei  nascondimenti, quegli a(e)ffetti  che circondano di ‘senso’ il significato, o, in altri termini, che danno  senso al significato di ogni opera, di ogni discorso.
Lo sforzo di trasposizione, dall’informe al linguaggio. L’ombra che ci accompagna.
Quindi nessuna opera ha in sé tutta la sua significazione e nessuna biografia ha in sé il segreto dell’opera. Il che non vuol dire escludere la illuminazione che l’una può dare sull’altra. Entrambi le parti forniscono un reciproco aiuto, chiedono una appropriata collaborazione. E’ nel trasferimento dall’una (l’esperienza  vissuta) all’altra (l’opera), e viceversa che, a mio parere, occorre esercitarsi.

L’ESEMPIO DEI DUE FRATELLI DE CHIRICO. LA MATRIA.



I fratelli De Chirico

In tempi, tra Otto e Novecento, nei quali si andavano confermando mondi contrapposti, solide unità, patrie conclamate e nemiche, l’artista si trova ancora una volta spiazzato. Prima, alcuni decenni prima, spiazzato di fronte alla macchina, al prodotto standard, per tutti, il contrario della manualità, dell’opera individuale. Spiazzato e inutile. Ora, di fronte alla conformità del gruppo, alla sua richiesta insistente di appartenenza, dentro quei confini sicuri che stabiliscono, con un taglio netto, le figure del compagno e del nemico. Può l’artista abdicare all’opera, al gesto di individuazione? Può l’artista indossare felicemente una divisa? Può essere con e contro con tanta sicurezza?
E’ questo il prezzo per essere ‘moderno’? per stare dentro la realtà? che vorrebbe dire dentro confini immobili? E’ questo l’unico modo per appartenere ad una comunità, ad una storia comune?


De Chirico

Le risposte furono, ovviamente, varie, relative ai macro e micro-contesti di ciascuno. Prendo il caso dei due fratelli de Chirico che, pur difendendo strenuamente la propria singolarità, elaborano, altrettanto strenuamente, le forme dell’appartenenza, non nello stare, nell’appartenere fisicamente a una terra, ma nella costruzione simbolica della patria, o ‘matria’, la terra dell’immaginario. I loro spostamenti, insieme alla madre, dalla Grecia all’’Italia, dall’Italia alla Germania, i loro andirivieni dall’Italia a Parigi li rendono viandanti inquieti, stranieri sempre. Isolare l’opera di un fratello dall’altro, Giorgio e Alberto - non per nulla chiamati “Dioscuri” -, come due strade separate, è un errore, così come ignorare la parte della madre in questo piccolo gruppo, almeno sino alla morte di lei nel 1937. Il nucleo parentale e il ‘luogo’ costituiscono non solo un vincolo affettivo permanente, ma anche un sottofondo che accompagna e accende l’immaginazione dei due  fratelli. Vorrei anche insistere sulla parte di Alberto, forse penalizzata dagli storici perché divisa in una molteplice attività di scrittore, di musicista e di pittore. La sua morte nel 1952 chiude il sodalizio.
La pluralità delle scelte insieme alla forte identità familiare e personale, il legame con l’infanzia mescolata a una mitologia della grecità e delle origini, contribuisce alla formazione di una patria simbolica, ben più forte di qualsiasi patria reale. Di qui il desiderio di una ‘casa’ nella quale trovare  quiete, in conflitto con il senso ricorrente di estraneità, di esilio che accompagna il vagabondare dei due fratelli. All’ironia beffarda di Alberto si unisce la reazione sempre indispettita di Giorgio, che appesantirà il suo lamento col passare degli anni. Una sofferta e necessaria distanza, dalla separazione originaria (dalla madre, dall’infanzia) al ricongiungimento immaginario, dalla perdita dell’innocenza alla promessa utopica della felicità: carattere, forse, non solo del loro lavoro, ma di una parte significativa dell’arte del  Novecento.

 



LIDIA SELLA


Lidia Sella



















LETTERA AD ALESSANDRO
a mio nipote Alessandro, per il suo dodicesimo compleanno

Panta rei”, “tutto scorre”… così si espresse Eraclito - filosofo greco vissuto a cavallo fra VI e V secolo a.C. - riflettendo sulla natura effimera e inafferrabile del tempo. Infatti, mio adorato Alessandro, mai potrai immergerti una seconda volta nello stesso fiume: quell’acqua non sarebbe più la stessa e nemmeno tu. Poiché tutto muta, si trasforma. E ci sfugge. È la legge inesorabile del cosmo. Ogni attimo è unico, irripetibile, dunque preziosissimo.
Questa dozzina d’anni ha prodotto in te una prodigiosa metamorfosi: l’aspetto, i modi, lo sguardo, un mondo interiore via via più ricco di emozioni, sfumature, contrasti, e i soliti turbamenti di chi si affaccia titubante alla vita. Noi, che ti precediamo di qualche passo soltanto sul misterioso tapis roulant dell’eternità, osserviamo affascinati il tuo universo in continua espansione: solo ieri tenero bimbo, oggi già piccolo uomo.
Se moltiplichi per quattro i tuoi anni, ottieni la mia età di adesso, quarantotto. E quando ti avvicinerai al traguardo del mezzo secolo, presumo sarò morta da un pezzo… oppure avrò la mente ottenebrata dalla vecchiaia. Se fra tre dozzine d’anni, cioè nel 2044, noi due potremo viceversa conversare ancora amabilmente, magari mi confiderai quante difficoltà avrai trovato nel dare un significato alla tua esistenza…
Al termine di questa vita non ce ne offrono un’altra in omaggio. Da giovani il tempo pare infinito. E si tende a sprecarlo. Senza rendersi conto di quanto sia importante - in ogni ambito -  imboccare la strada giusta sin dall’inizio. La dozzina d’anni dai dodici ai ventiquattro sarà quella che imprimerà al tuo futuro una prima spinta in una direzione piuttosto che in un’altra. Cerca quindi di ponderare con cura le tue scelte. Per te saranno anni decisivi: passeranno in fretta, non torneranno più e, una volta vissuti, non potrai modificarli. Goditeli, perciò, e divertiti. Ma spendili bene. Con intelligenza, saggiamente. I bei ricordi sono l’unico paradiso dal quale nessuno ti potrà cacciare. (Jean Cau)
Accontentati di quel che hai, puntando a migliorare ciò che sei.
Riconosci e asseconda le tue inclinazioni più autentiche.
Credi in te e nella tua volontà, sii fabbro del tuo destino. (Seneca)
Ascolta la tua coscienza. Quasi sempre saprà indicarti che cosa è buono e giusto.
Rammenta che i tuoi ideali sono come le stelle per gli antichi naviganti. Dante ci ha avvisati: Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.
Evita di cadere nel gorgo del consumismo, non esser schiavo del denaro. Le mete intellettuali, spirituali o professionali apportano soddisfazioni di gran lunga superiori. Lo studio e la conoscenza, affinando il tuo spirito critico e la capacità di ragionare in modo autonomo, ti renderanno un uomo libero.
Onora la famiglia e considera che lesperienza di chi ti vuol bene potrà illuminare il tuo cammino. Mettiti nei panni di chi è solo, anziano, malato, infelice, e ti verrà più naturale nutrire per lui comprensione e rispetto (in questo caso gli antichi avrebbero utilizzato il termine “pìetas”.)
Io ho quel che ho donato”. Il poeta Gabriele DAnnunzio ne era convinto. Un insegnamento valido anche sul fronte dei sentimenti. Un podi prudenza però non guasta. Domandati se chi ti sta di fronte è persona di cui fidarti. Rifuggi da chi è avido, falso, invidioso, prepotente, presuntuoso. Guardati dallignoranza, dalla stupidità, dal vizio.

 Se poi un giorno ti accorgerai che, pur in minima parte, il male alberga anche in te, non te ne crucciare in maniera eccessiva. Ognuno di noi ha la sua “anima nera”. Impara a conviverci, accettala, perdonati. Consolati pensando che non saresti umano se fossi perfetto.
Sforzati desser generoso con gli altri. E severo con te stesso. Senza tuttavia esagerare. “In medio stat virtus”, “La virtù sta nel mezzo”. (Aristotele)

Non permettere agli affanni di minare la tua serenità, condizionando oltremodo i tuoi umori. Attribuisci ai problemi che ti angustiano il loro giusto peso. Perché prima o poi tutto passa.
Quasi sempre esiste una soluzione, un rimedio, un diversivo. Di fronte alla tragedia, invece, risollevati e prosegui il cammino, perché soffrire fa parte della vita. (Leopardi)

Nei rapporti interpersonali non aspettarti nulla, almeno non resterai deluso. Se al contrario qualcosa di positivo arriverà lo stesso, tanto meglio.
Nellamicizia, come in amore, se puoi coltiva affetti sinceri. Lessere umano è una sorta di universo infinito. Conoscere se stessi è unimpresa. Ancor più complicato entrare in sintonia coi nostri simili. Se aggiungi barriere di maschere, finzioni e corazze, il rischio che corri è di costruire un labirinto. Non tenere celato il tuo pensiero, e le tue emozioni, se vuoi che gli altri possano capirti. 

Mens sana in corpore sano”. “Mente sana in corpo sano”. È un’altra massima latina. Se da un lato eserciti i muscoli con lo sport, dallaltro addestra il cervello con letture intelligenti. Prenditi cura della tua salute, fra tutte la fortuna più grande. Però non scordarti che il nostro organismo e la razionalità di cui siamo provvisti rappresentano un mezzo, non un fine.

Le tue passioni e i tuoi interessi rafforzeranno le radici che ti legano alla vita. Ma soprattutto mira a diventare ciò che sei veramente. Perché un giorno tu non debba fare i conti coi rimpianti.
Con impareggiabile arguzia Oscar Wilde ha suggerito che: Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze.” Eppure spesso l’apparenza inganna. La verità presenta mille facce. Al punto che talvolta ti capiterà di concludere che tutto sia vero, come pure che sia vero il contrario di tutto. La realtà è ingannevole, assai più complessa di quanto non sembri, simile a un gioco di immagini che si specchiano allinfinito. Ecco perché solo gli sciocchi non hanno mai dubbi.

Quasi in ogni campo del sapere, a mano a mano che scendi in profondità, le certezze svaniscono o si fanno più confuse e sfumate. Quando comunque avrai forgiato le tue personali convinzioni, allora ti accorgerai che sarà come possedere utili bussole per muoverti nella selva della vita. Non illuderti daltronde che il tuo sistema di valori rimanga immutato. Col suo andamento imprevedibile e capriccioso, tante volte è la vita stessa - un decennio dopo laltro - a stravolgere molte delle nostre idee originarie.
Su questioni ideologiche, storiche, sociali o lavorative cerca di formarti un pensiero solido, documentato, obiettivo. Se discuterai con qualcuno, pensa a lungo prima di parlare, esponi le tue opinioni in modo chiaro, logico, misurato, senza offendere o ferire il tuo interlocutore. Risulterai più convincente e, oltretutto, non passerai dalla parte del torto.

Durante il viaggio, dispiaceri e delusioni purtroppo non mancheranno. Tu non lasciarti abbattere, tesoro, considerali semplici ostacoli lungo il percorso, prove del fuoco verso una dimensione di maggior equilibrio e maturità, stratagemmi escogitati dal destino per indurti a sprigionare il massimo del tuo potenziale di umanità.
Aggrappati allironia di cui sei dotato, è unefficace ancora di salvezza.
I tuoi sorrisi sono splendidi: radiosi e dolcissimi. Non lesinarli.
Vivi ogni minuto come fosse lultimo. Con entusiasmo, intensità, leggerezza. E gratitudine.

Marguerite Yourcenar, letterata belga, ha scritto: “Non perder di vista il grafico di unesistenza umana, che non si compone mai, checché se ne dica, duna orizzontale e due perpendicolari, ma piuttosto di tre linee sinuose, prolungate allinfinito, ravvicinate e divergenti senza posa: che corrispondono a ciò che un uomo ha creduto di essere, a ciò che ha voluto essere, a ciò che è stato.” Adoro questa frase, vi è racchiusa lessenza stessa della vita. Da adulto forse lapprezzerai anche tu…

Crescendo scoprirai che la gioia è qualcosa che deve partire da te stesso: è unimpronta che si vuol dare alla propria vita e non è mai disgiunta da un forte sentire, e quindi soffrire. Non confonderla con le esigenze sentimentali: questa è solo una componente, e spesso ambigua. E neppure con la spensieratezza o con lappagamento. Gioia è saper e poter vibrare di fronte a ogni situazione o sollecitazione della vita in modo da non fermarsi a piangere su se stessi, aprendosi anzi a cogliere la bellezza, la poesia, il desiderio, lindicibile.

Sacro è lamore che provo per te, Alessandro, non solo in quanto sangue, carne e anima di Paolo -che era tuo padre e mio fratello - ma perché tu sei per me quel figlio che la sorte mi ha negato.

Lorologio da tavolo che ti ho regalato non è che un simbolo. Per ricordarti che quando avrai bisogno di aiuto, e di consigli… io ci sarò, in ogni momento. 





CESARE VERGATI

Cesare Vergati














IL RE DI SPEZIE


La vecchissima Signora tanto stanca la vita sua lunghissima certo gli anni attuali novantanove – si racconta ancora ancora si racconta sua turbolenta esistenza tale irrequieta se girovaga mai paga sapeva eccessi di gusto e maniere – tuttora appena il chino capo frugava attentissima – lo spettacolo teso un dramma a teatro il prossimo tragico epilogo la piena allora catarsi la passione – scrutava davvero tale singolare tenzone il basilico ed il basilisco, meraviglioso duello l’erba regia ed il reuccio, per cui osservava la erbacea pianta i raccolti suoi bianchi fiori in spighe e foglie quale aroma il condimento al mondo mediterraneo dappertutto per cui osservava – il lieve sorriso indulgente benevolo di colei che viaggia certamente verso il nulla e niente più turba, il rettile grosso il continente d’America in centro ed a sud comunque innocuo la strana coda e lunghissima la eccentrica per di più cresta la forma a corona sul capo e per di più cresta a corona sul dorso – il genere a mito la salamandra anfibio al corpo allungato – quale tuttavia leggendario animale il quale il fisso sguardo – il simile il bracco che accanito ostinato non perde d’occhio la volpe a tana – intende far diventare vizza la erbacea pianta la forza degli  occhi far perdere turgore e freschezza insomma esser causa d‘appassimento – l’esempio umano la donna il volto che secca l’inaridimento il bel viso d’un tempo remoto – determinato vertebrato che striscia sul terreno il rettile giocatore e birichino che sa il potere la morte e la vita quindi immobile – la posa a rigore di statua ferma stabile pur ad intemperie sebbene si elevi e vento freddo tuttora – il rettile che ama e clima caldo forse temperato, lo sguardo si narra mortale, nel mentre che il basilisco poco si piega a momentanea raffica di pioggia improvvisa eppur solo a modesta violenza – se il basilico sorpreso qualche poco trasecola l’increscioso passeggero evento odierno fa nondimeno grande resistenza fosse il tutto un nulla di fatto – e pervicace mai stacca il mortifero sguardo dalla debole si dice pianta – re dei condimenti che combatte la presunzione il reuccio – il grande re contro il piccolo re ancora per tempo sembra non oltre la metà del giorno – quando abitualmente il sole assurge ad apologia tutti gli uomini dopo la gela stagione - , se la vecchiarda il tempo lentamente passando verso andando la presta morte sul luogo presente effimera dimora, divertita gli allegri occhi – la madre che in sentimento di tenerezza soverchia illanguidisce il bimbo che sta su due piedi la prima volta di tutte – fruga ancora ancora rovista inosservata la gentile lotta tra vegetale ed animale tra re e reuccio e non demorde poiché sa l’epilogo – la ribalta che mostra la decapitata testa il nobile straziato finora a tortura per trionfo il monarca spietato implacabile la ragione la corona alle tante preziose pietre agli splendidi diamanti la bellezza i loro riflessi alla luce prepotente naturale il giardino ampio vasto della corte ormai vuoto i cortigiani – e a concetto crede innocente la diatriba tra piccole cose. Finché esausto – prematuramente – il basilisco ad impulso – l’impeto irresistibile lo spasimante a possedere l’amante che si lascia desiderare in tutto e per tutto – famelica sua storia d’un colpo morde un piccolo tratto la vellutata pelle il basilico, se la belva strappa il terribile morso il fianco esposto il ruminante mammifero selvatico cervo alle tanti carni a soddisfare la fame il leone ad esempio – ed avidamente mastica frettolosamente – la furia e l’idea di correre al prossimo boccone – pare come interminabile masticamento – fosse la cruda indigesta carne il cinghiale – se davvero l’animale non riesce – il portare a termine, il triturare lo schiacciare appena il pezzetto il vegetale – fosse natura di veleno – natura di rabbia – così che la bocca il rettile sempre più inutilmente biascica a creare immonda bava insulsa abbondante salivazione – lo sdentato senile uomo che mangia di mala voglia – ed il basilico in dolore – quando il guerriero si trova il braccio membro staccato su suolo di battaglia la mano ancora impugna l’arma anodina la qualità la lancia spezzata il cavernicolo l’orso mostruoso contro – che leggermente – in questo grande sole – piega il corpo suo come l’intento la difesa e la cura l’arto vituperato e silente attende il destino nel mentre che il rettile incapace l’alimento il ridicolo pasto rimette il luogo presente su terreno appena umido – il disgusto la moglie che rimbrotta il coniuge ubriaco fradicio al vomito su sua sensuale rossa camicetta estiva il maschio al tentativo risibile dare virile godimento alla femmina pronta e sola all’amplesso – e piega a sua volta il ventre offeso lo sguardo finalmente stravolto gli occhi pianti – quale il riflesso loro al pungente fumo il grande incendio il fuoco invadente e spavaldo la natura del più forte – mostra e convulsioni mostra e contorsioni il giusto malessere se veleno se avariato cibo se alimento lungamente alterato e così il basilico storpio sofferente tuttora testimone la mala sorte il rettile malato, alza il capo – lo sforzo sovrumano lo zoppo colpito in fronte che giace nella polvere impotente – guarda fissamente il basilisco gli occhi fermi su quello strano corpo le due creste, la cresta il capo la cresta il dorso e poi infine gli occhi dell’animale umiliato il quale la bava tuttavia a bocca schifosa attualmente come guarisce d’immediato – la insolita cura l’estro l’originale taumaturgo – guarda il senso pieno del saluto d’alto in basso lo sguardo del vegetale il quale guarda il senso pieno del saluto dal basso in alto lo sguardo dell’animale e sembra alla vecchia Signora – che stramazza il breve tempo morta su suolo terrestre – d’avvertire insomma nel basilico un certo sorriso di malizia e nel basilisco un certo sorriso di malizia, chissà la forma i complici.


In primo piano l'attrice Valentina Cortese
alle spalle Cesare Vergati e suoi amici

                                      


OTTAVIO ROSSANI


Ottavio Rossani

















Canzone del niño triste dell’Amazzonia

Niño scalzo, dal viso sporco, giochi a schizzare i compagni
con il liquido puzzolente, viscido, nero, della pozza
che si estende ogni giorno di più nel campo di mais.
La tua sorellina è da poco morta per infezione polmonare.
Ecco tua madre, torna dal podere coltivato a verdure,
in una cesta porta la crocchia di banane annerite,
il pasto di stasera, non c’è niente altro.
Non dovresti mangiare quelle banane bacate, ma hai fame.
Come sarebbero buone quattro zucchine bollite,
fino a due anni fa la sera a tavola c’erano tante cose buone.

Sono arrivati i manager per costruire l’oleodotto.  
Il grosso e lungo tubo corre a vista, velenoso serpente,
cinquecento chilometri oltre le montagne fino al mare.
Qui nell’Amazzonia equatoriale disboscata e trivellata,
corrono ora mille ruscelli di acqua nera aspirata dalla terra.
E pulsa il motore selvaggio della più grande raffineria:
sbuffi bollenti in aria e fiamme azzurrine  alte trenta metri.
Tutto ricade su questa tua regione, niño triste e scheletrito,
pioggia vendicativa del giacimento d’oro nero violato.
Coalizione di multinazionali, sfruttamento intensivo.
A te e ai tuoi amici, vi cola ancora il naso, hanno regalato
un colorato pallone da football, magliette e due porte a rete.
Quante divertenti partite potrete fare!

Ministri e funzionari sono stati uniti dal petrolio.
Soldi e soldi, business, guardie del corpo, grandi sorrisi.
Comandano i potenti specialisti ricchi, adiposi, arroganti.
I loro figli sono a Boston. Vestono pantaloni di cotone bianco.
Studiano? Sicuramente giocano a baseball, bevono cocacola,
che piace anche a te ma tua madre non può comprarla.
Le mogli fanno shopping in via Veneto a Roma
o più spesso nella Fifth Avenue a New York e vanno
anche a pregare nella Cattedrale di Saint Patrick.
Oggetto di scambio una semplice concessione di scavo
ed estrazione dell’oleosa nera fangosità da depurare.
Per i cittadini nessuna sicurezza ed espropri senza indennizzi.
Sono morti già trecento uomini, donne e bambini.
Registrati negli ospedali mille infetti in cinque anni.
Terreni bruciati, banani rinsecchiti. Inarrestabile distruzione.

Gli indios hanno trovato il coraggio di un avvocato.
Organizza una marcia di protesta dalla foresta alla Capitale.
Il Presidente li riceve tutti nel salone d’onore,
ha promesso controlli, sanzioni, redistribuzione degli utili.
Accanto a lui un supermanager americano dal volto doberman
esprime  con le ciglia i sì e i no alle parole dette.
Gli indios sono tornati delusi sul bordo del grande fiume.
Sanno che molti di loro moriranno presto.
Rifiutano ormai ogni contatto con chi viene da lontano.
L’avvocato li invita a votare per lui nelle prossime elezioni.
Ce la farà a portare in Parlamento il ricordo dei morti?
Riuscirà a proclamare davanti all’alto consesso di deputati
che gli indios non vogliono più ingegneri né altre lingue?

Niño triste dagli occhi dolci, non vai più alla scuola pubblica.
Quindici chilometri al giorno a piedi erano troppi.
Con lo stomaco quasi vuoto non si comprende e spesso si sviene.
Tuo padre, indio di forza e di mente, ha capito cosa fare:
ha costruito in laguna una capanna e dà lezioni di cittadinanza.
Siete ora tutti lì, niños, ascoltate parole antiche di fierezza e onestà.
Nessuno di voi si sente protetto però dalle guardie con i fucili
che notte e giorno girano attorno ai villaggi tra gli alberi.

Niño triste che vedi tua madre sfiorire ogni mattina,
hai giurato dentro i tuoi occhi di combattere come tuo padre,
e quando diventerai adulto riparare la foresta defraudata.
Ancora non hai confidato ad alcuno questo pensiero,
neppure a tua madre che pesta con poca forza il poco mais.
Ne parlerai nel giorno giusto con i tuoi amici diventati grandi.
Ora stai imparando a soffrire. Ora stai imparando a sperare.
                                                     
*Viaggio nella foresta Amazzonica ecuadoriana disboscata e inquinata dai pozzi di petrolio 
e dall’oleodotto.

Milano 2009/2014

***


 Via della dignità

L’aria impregnata di venenici umori,
provenienti dal disfacimento dei corpi,
sporcata da violatori di norme e doveri,
si sostituisce lenta e gelida all’allegria
del cielo azzurro e festoso per il ritorno.
Si respira troppo male l’odore fuorilegge.
Si sussurra l’impotenza degli eventi.
I cittadini sono esclusi dal comando.
I demiurghi del denaro non lasciano
spazio a menti libere e sguardi limpidi
rivolti all’ orizzonte del bene.

Onesti e sognatori, siete estranei
a terre inaridite da sete di sangue.
Mio mondo dorato, violentato da mostri
che desertificano le coscienze pulite,
quando potrai sottrarti ai soprusi?
Cosa ti serve per rispondere al buio?
Venite tutti ad ascoltare le denunce
che oggi faremo nella piazza della vita,
lasciate la rassegnazione e venite.
Marciate insieme, con la mente e il cuore,
unitevi e urlate i diritti umiliati.
Alzate quel capo troppo a lungo chinato.
Insieme, insieme si potrà cambiare ogni cosa
e affrancare la dignità percossa.
Non è più tempo di eroi silenziosi.
Meglio oggi un trambusto di desideri.
Alzatevi tutti, miei fratelli di dolore,
camminate orgogliosi di essere marginali,
convinti che il male alla fine non vincerà.

 


GIUSEPPE DENTI


Giuseppe Denti

















Fuori dai denti
***
L’uomo del ventiduesimo secolo
è sicuramente
della specie “imbecillibus
che ha fra le tante caratteristiche,
(oltre a quella del facile manipolamento
e della plasmabilità)
assomma anche quella della cretinità.
E la dimostrazione di questa
nuova attribuzione  
-non meno grave delle altre-
consiste nell’acquisto di vestiti strappati volontariamente,
di calze da donna appositamente rotte
e tant’altro:
si è fatto tatuare il proprio corpo,
senza minimamente preoccuparsi
delle conseguenze (possibili cancellazioni)
che gli inchiostri e gli attrezzi usati
non disinfettati causano: malattie/morti e depressioni,
con immagini osé,
con frasi d’amore e di odio,
con racconti di vario tipo
illustrati fumettisticamente o realisticamente,
con date di nascita o di ricordi
e segni indecifrabili o illeggibili.
Alcuni per distinguersi,
si sono fatti tatuare anche le parti intime.
E pensare che c’è gente
che involontariamente è stata tatuata dalla natura
e che farebbe di tutto per togliersi i segni
di quell'oppressione.

***
Elogio del pane e dell’acqua

Si può vivere di solo pane
Si può vivere di solo pane?
potrebbe sembrare
il titolo di una canzone,
invece non lo è!
E non è solo una domanda retorica,
poiché prima a poi
dovremo per forza
accettare l'imposizione,
da una crisi che ci coinvolge sempre più.
Io credo di sì.
Per vivere,
però abbiamo bisogno anche di un altro elemento
che è l’acqua, ma non santa,
anche se in effetti lo è
perché ci permette di vivere,
essendo noi fatti di essa.
Questo connubio
ha consentito e consente
ai carcerati (pane e acqua),
pasto ancora vigente in certe carceri
e ai deportati o prigionieri di tutte le guerre
di sopravvivere.
Il pane è un alimento duttile
che si presta e si è prestato
alla trasmutazione:
dal pezzetto in porzione
e dal duro al molle.
Un uomo lo ha dimostrato
sfamando cinquemila bocche
con cinque pani
e avanzandone anche alcune ceste
per altri affamati.
Quest’uomo oggi ci servirebbe,
visto il numero sempre più crescente dei bisognosi.
Alcuni, non potendolo comperare,
sono costretti a cercarlo
nei cestini dei rifiuti.
Pane nostrum, sii santificato
perché ci concedi la vita.






 La realtà del sogno musicale
di Gabriele Scaramuzza

Una stimolante conversazione fra il musicologo e filosofo Gabriele Scaramuzza
e la violoncellista Alice Cappagli dell’Orchestra della Scala

Al centro della foto Gabriele Scaramuzza fra Nando Della Chiesa (a sin.)
e Claudio Colombo (a des.) alla Biblioteca Sormani in occasione del decennale
di "Odissea". Milano 27 settembre 2013 (foto: Fabiano Braccini)


In una sala da concerto, o a teatro, il nostro punto di vista abituale è quello dello spettatore, in atteggiamento più o meno “contemplativo”. Rarissimamente accade che qualcuno ascolti in modo più attivo, con una partitura sotto gli occhi ad es.; nel caso di un’opera ci aiutano i testi sul display. Il nostro atteggiamento è quello dell’ascoltatore davanti a un lavoro già fatto; che non ha presenti la fatica del suo farsi, e i modi di essere di chi lo esegue.  
Per lo più valgono pregiudizi di stampo neo-idealistico, che corrispondono alla situazione di chi, appunto, ascolta soltanto un lavoro nei suoi esiti finali, per poi giudicarli “belli” o “brutti”. E mette in secondo piano il contesto, le condizioni di lavoro, la preparazione tecnica e culturale: la vita di un'orchestra in una parola, che ha prodotto quel risultato. Correlativamente si costruisce un’idea più o meno “angelicata” degli esecutori, li si identificano nei risultati che hanno raggiunto, e non nella realtà del loro fare.            
È importante invece rendersi conto del lavoro, se si vuol capire l’insieme della realtà di un’opera d’arte. Rifacendoci a uno Hegel per nulla “idealistico”: “Il risultato non è tutto ciò che è effettivamente reale”: la realtà include anche il cammino in cui si costruisce. Il risultato acquista tanto più evidenza e vita, lo si gode meglio, se non lo si considera a sé, astratto, con una logica del “prescindere da”, che è fuorviante non solo in ambito artistico. Hegel ci aiuta a capire la "materialità" dell’impegno, i suoi rischi, le sue condizioni di possibilità, i suoi ritmi ecc. - è un problema non da poco.
Da questo punto di vista abbiamo posto alcune domande a una musicista di professione, Alice Cappagli. Fa parte dell’organico dell’Orchestra della Scala come violoncellista; si è laureata in Filosofia (Estetica) presso l’Università degli Studi di Milano e ha pubblicato vari scritti di argomento filosofico-musicale.

Anche noi, noi musicisti di professione, siamo stati spettatori e ascoltatori prima di diventare col tempo parte integrante di un’opera o di un concerto. Quindi sappiamo benissimo che, da una poltrona di platea o da un loggione, si ha una tentazione forte di estraniare l’evento musicale da qualunque contesto che l’abbia preceduto o che lo seguirà. Eppure, pur essendo stati spettatori interessati al dettaglio e anche per così dire didatticamente indirizzati all’ascolto critico, abbiamo fatto una grande fatica ad immaginare l’iter che compie un’opera musicale prima di essere “servita” sul palcoscenico come un piatto inimitabile.
Non c’è quindi da stupirsi che per la Filosofia della musica o per l’ Estetica (illustri Spettatrici) il problema dell’identità di tale opera o della sua esecuzione, siano state o lo siano ancora, temi di indagine. Tuttavia, tengo a precisare per quanto mi riguarda, che nonostante mi sia cimentata in tale approfondimento teorico dopo già molti anni di professione, non mi ha, ahimè, portato ad alcuna soluzione. Pare cioè che la speculazione e il suonare, lo sporcarsi le mani con la musica, siano due campi non comunicanti.
Forse, volendo continuare il paragone gastronomico, pare che il sommelier nulla intuisca della crescita della vite, del colore degli acini, della giusta potatura, della vendemmia, della grandine, delle botti etc.
Quindi, se vogliamo dare ragione a Hegel e inglobare dunque il sudore nel risultato, lo si farà solo perché Hegel aveva genialmente costruito un sistema onnicomprensivo al riguardo. Però, se vogliamo dare delle indicazioni prosaiche su ciò che accade, vedremo che sbriciolare un risultato temporale di questa fatta (quale appunto è l’opera musicale) equivale a ritrovarci davanti una caterva di ore piene di piccoli miracoli da perfezionare. E’ così anche se si guarda al microscopio la perfezione di un’ala di farfalla.

 I tipi di preparazione variano a seconda di ciò che è in gioco; non è la stessa cosa preparare un concerto e un’opera, un dramma musicale. Ma immagino vi sia un iter iniziale comune a livello musicale, che riguarda entrambe i casi. Ma poi gli iter si diversificano non di poco.       

Alice Cappagli

Dunque cercherò di spiegare in termini comprensibili e universali: tanto per cominciare c’è una differenza enorme tra preparare un concerto e preparare un’opera.
Il concerto presenta due aspetti. Primo: si tratta solo dell’orchestra, quindi è numericamente e tecnicamente controllabile dal direttore in modo estremamente semplice e diretto. Secondo: è più gratificante, ma anche più impegnativo per chi suona in quanto si sa che l’attenzione è interamente convogliata sul discorso musicale. Aspetto poi non irrilevante è anche quello della durata, perché il concerto al massimo dura un paio d’ore (tranne casi eccezionali).
La gran parte dei problemi da affrontare è relativa all’ insieme, questo perché un’orchestra di livello deve essere in grado di presentarsi alle prove già preparata dal punto di vista individuale. Mi spiego: quella che chiamiamo “lettura” è semplicemente l’esecuzione collettiva di una parte già visionata da ogni sezione. E questo non perché violini, viole etc. si ritrovino a studiare insieme la parte prima della prova, ma perché chi è stato scelto per suonare a quel determinato livello deve sapere quello che fa. Sia che non l’abbia studiato sia che l’abbia studiato. Tutti devono essere in grado di eseguire da subito la parte che hanno davanti, quindi organizzandosi in modo da non far perdere tempo a nessuno dei convocati. E’ chiaro anche che in questo meccanismo è compreso l’errore di stampa, l’equivoco, la distrazione, ma tutti questi possibili incidenti fanno parte del momento collettivo. Il direttore d’orchestra deve poter “usare” l’orchestra come fosse il suo strumento musicale perciò l’orchestra deve essere estremamente duttile e soprattutto affidabile al limite delle possibilità.
La prova in genere si articola in due momenti variamente alternati dai direttori: uno di lettura complessiva di un pezzo da cima fondo (che è il metodo più produttivo adottato dai più grandi direttori guarda caso), l’altro è il momento “chirurgico”, ossia quello in cui si ritagliano i punti più critici e si studiano con la lente di ingrandimento. Con “lente di ingrandimento” intendo la parcellizzazione estrema del brano fino al mezzo minuto reale di musica. I problemi possono essere molti: quello ritmico per esempio, quello strettamente tecnico derivato dalla velocità estrema richiesta (una cosa è suonare molte piccole note in 4 altra è suonarle in 40 o in 50), un altro problema tecnico è l’intonazione di insieme perché quando si è in molti va bandito il relativismo e quindi ci deve essere una struttura sonora di riferimento che faccia da ancoraggio. Tale lavoro non è semplice e difficilmente l’ascoltatore si può accorgere del problema. Diciamo che è un tipico problema di cui tutti si possono accorgere se non viene risolto. Un po’ come succede con l’aria: nessuno si accorge dell’aria finché non sente che sta mancando l’ossigeno. 


Puoi dirci qualcosa sul vostro rapporto coi direttoti d’orchestra? Ci sono direttori con cui vi trovate bene, altri meno, immagino. Ci sono proposte dio esecuzione che vi lasciano perplessi, anche se la vostra professionalità vi impone di rispettarle.


Alice Coppagli in una foto inedita di Oliviero Toscani

In fine la prova, risolti i problemi tecnici, ha l’aspetto interpretativo da perfezionare. Questo, tengo a precisarlo, è importante sia nel caso che sia condivisibile la volontà del direttore, e sia che non lo sia affatto. L’orchestra come dicevo è lo strumento, e lo strumento deve essere duttile e non impuntarsi come un mulo che viene condotto dove non vuole. Detto questo tuttavia, è anche difficile che il risultato di un’esecuzione fatta controvoglia, sia particolarmente riuscito.  Questo è imputabile più all’aspetto psicologico che artistico, però se un direttore sa farsi capire, cerca di comunicare qualcosa di interessante, arricchisce l’orchestra della propria esperienza, è anche improbabile che chieda delle assurdità interpretative. Pertanto l’esecuzione verrà.
In realtà chi suona ha le proprie personali opinioni, e anche parecchie. Certo non le dice, non le può dire, semplicemente alle volte può farle capire (al direttore) e può instaurare un rapporto collaborativo che può avere anche un peso decisionale, ma non sempre. Tuttavia credo che questo faccia parte di ogni lavoro di squadra tanto è vero che, qualora il direttore sia visibilmente alla deriva, si tende sempre e comunque a “salvare” l’opera musicale in modo da non creare mai dei conflitti. Con “salvare” intendo fare di tutto perché l’errore o l’incoerenza non “arrivi” all’orecchio di chi ascolta, correggere rapidamente, operare un miracolo temporale fattibile col suono visto che la bacchetta in ogni caso è silenziosa. Almeno al momento dell’esecuzione con pubblico. Noi musicisti sintetizziamo così: “se va bene è stato bravo il direttore, se va male è sempre colpa nostra”. Questo perché, diciamolo, il narcisismo dei direttori d’orchestra è un fatto assodato e non temo a dichiararlo.


Come vi preparate all'esecuzione di una sinfonia, di un’opera: superati i problemi tecnici da risolvere, vi soccorrono anche informazioni storico-culturali sull’opera d’art, sul suo autore? O una sorta di autoanalisi del vostro rapporto con quel concerto, quell’opera…? 

Quanto alla preparazione “teorica” di quello che suoniamo, è mitologia. A pochi interessa, (ma farei prima a dire quasi a nessuno) l’antecedente storico e culturale. Ma la ragione è molto semplice: il linguaggio musicale è autonomo, ha i suoi codici, trasmette senza concetti, senza parole, senza date, senza postille e senza note a piè di pagina. E’ un linguaggio che si riferisce ad un artigianato di lusso e chiede solo una sensibilità musicale e una manualità precisa. Chi ha scritto la musica sta già parlando di sé con quella. La gran parte dei musicisti d’ orchestra,  ha una tale quantità di musica da suonare che se si dovesse mettere a focalizzare anche l’aspetto storico-culturale ogni volta che si mette davanti al proprio leggìo, perderebbe tempo. Innanzi tutto chi ha fatto il conservatorio (tutti, visto che i concorsi richiedono il titolo) ha necessariamente passato tutti gli esami teorici, ha nozioni obbligatorie di carattere storico, e quindi sa perfettamente a distinguere stili e i sottintesi culturali che li caratterizzano. Ma, con l’esperienza, il tutto avviene in modo automatico e fa parte del “pacchetto” di un musicista di un certo livello. Altrimenti se ogni aspetto dovesse essere costruito volta per volta, si avrebbe una fatica all’interno dell’ esecuzione che renderebbe ogni concerto un puzzle nozionistico e non un vissuto temporale.


Un'opera vi pone certo problemi particolari. Ad esempio: colpisce noi spettatori  che durante la rappresentazione di un’opera avete una scarsa possibilità, dalla buca, di vedere il lavoro nel suo insieme. Potete assistere da spettatori  a una rappresentazione dalla platea ?  E sarebbe importante: credo che un regista si metta d’accordo col direttore oltre che con lo scenografo, la sartoria, le luci; e dunque anche l’orchestra deve entrare in consonanza col tutto. Nell’ultima Traviata alla Scala ho avvertito una certa rispondenza tra le scelte imposte dal regista, il tipo di canto, la coreografia, le scene e la direzione dell’orchestra     

Passiamo all’opera: l’esecuzione dell’opera è diversa, come dicevo. Innanzi tutto sono coinvolti altri sensi per cui l’elemento scenico a volte travalica quello musicale, poi lo spettacolo ha una maggiore complessità di insieme perché ci sono i cantanti solisti e il coro. Il palcoscenico è profondo e distante dalla buca d’orchestra, per cui ci sono problemi di lontananza e di “mancanza di contatto” che possono diventare seri in certe opere; infine qui l’orchestra, oltre ad essere strumento, deve vigilare.
Il direttore fa prove diversificate: legge la musica con l’orchestra, poi segue le prove di sala con i cantanti, poi mette insieme la parte musicale nella cosiddetta “prova all’italiana” a sipario abbassato senza regia, e infine dirige le prove di insieme in cui c’è anche la regia.
L’opera è quindi complessa, macchinosa, lenta, piena di aspetti a volte incompatibili fra registi ed esigenze musicali,  è a rischio di scollamenti, popolata di figure collaterali quali mimi, comparse, scenografi, costumisti, maestri collaboratori che si occupano di eventuali bande interne (si pensi a un Rigoletto, a un baccanale di Traviata, alla scena del cimitero di un don Giovanni etc). E poi, fatto non secondario, l’opera dura molto. A volte, raramente, ci si imbatte in un Rheingold o in una Elektra che seppure brevi sono fisicamente estenuanti da eseguire, ma molto più spesso l’opera dura come minimo sulle tre ore e mezzo. E quindi comporta anche una fatica fisica prolungata perché suonare stanca, come stanca ogni impegno fisico e di concentrazione.
L’orchestra, ho scritto, deve vigilare. Questo perché il direttore non può dedicarsi a lei durante un’opera. Proprio per le ragioni di cui ho parlato sopra, anzi tende ad appoggiarsi all’orchestra in quanto è questa che dà il supporto allo sviluppo scenico. E paradossalmente noi non vediamo nulla però riusciamo a sentire, o per lo meno a capire che cosa sta succedendo sul palco: se i cantanti vadano seguiti, se hanno sbagliato, se si stanno prendendo delle libertà che il direttore non può o non vuole arginare. Così per ogni opera viene fatto in forma indiretta una sorta di “addestramento”, un tipo di lavoro che consenta una confidenza pressoché totale con l’insieme auspicato. Quindi si fa un lavoro come dire da sostegno, che consenta molte possibili vie da percorrere per ogni evenienza. Poi l’opera di per sé è un evento, un “happening”, per il quale l’imprevisto è da tempo individuato e possibilmente neutralizzato, però è anche sempre e costantemente in agguato. Faccio qualche esempio pratico: il solista che canta ha un vuoto di memoria, salta qualcosa, un altro sbaglia il momento di entrata o non entra, il coro non sente o non vede il direttore perché si rompe un monitor che riporta il gesto, il maestro collaboratore interno sbaglia il ritmo di attacco a dare alla banda interna, etc. Sono tutte possibilità che diventano tanto più remote quanto più è alta la qualità della produzione. Ma nessuno è una macchina. 
Quanto all’assistere alla rappresentazione nessuno vieta che ci si possa sedere in platea a guardare: a patto che non si debba suonare, ovviamente. Siamo pagati per produrre e non per usufruire. Inoltre in buca non abbiamo la possibilità di guardare sul palcoscenico perché dobbiamo leggere la parte e guardare il direttore. Solo a volte, a seconda della disposizione riusciamo a seguire qualcosa, ma è assolutamente arbitrario e deve essere fatto con criterio. Cioè quando ci sono le condizioni per farlo (se sulla parte sono segnate pause d’aspetto, per intenderci). 


Nel vostro lavoro incidono infine,  e non poco, sul lato “materialistico” in senso ampio, condizionamenti economici e sociali, problemi di rapporti di lavoro: sindacali, con la Direzione, con le altre componenti del,la vita del teatro. E le patologie in agguato, sul piano vuoi fisico vuoi psicologico.     

Alice Coppagli (sullo sfondo le Apuane)

  
E’ nell’ambito del lavoro complesso che si verificano le difficoltà di rapporto fra settori.
Come infatti dicevo, sia nell’opera (che nel balletto), c’è una situazione estremamente variegata in cui sono presenti le figure citate ma anche tecnici di palcoscenico, macchinisti, elettricisti, sarte, ballo. Inoltre il teatro è corredato di un importante apparato amministrativo che non è in contatto diretto con lo spettacolo e che ne ignora i tecnicismi. Le ricadute pratiche a volte si vedono nella durata di contratti che per motivi legali e amministrativi cadono a metà di una produzione non finita. Parlo almeno per l’orchestra o il coro. Come se il teorico ignorasse che, nel pratico, chi ha fatto tutte le prove e 5 recite di una determinata opera, avesse perso il diritto di da fare le ultime due. Diritto decaduto per contratto, e conseguente disagio per chi deve improvvisamente sostituire senza prove chi ha finito il contratto. Anacronismi e bizantinismi di matrice ministeriale da cui in Italia nessuno si salva, neppure Verdi o Wagner.
Dovrei qui fare un rapporto dettagliato della situazione storica (qui si!) dei teatri, ma senza dilungarmi dirò solo che con il tempo, mentre orchestra coro e ballo sono rimasti delle stesse dimensioni, tutto il resto si è ingigantito fino a rappresentare la parte più cospicua della popolazione del teatro. Il tutto con ricadute sull’equilibrio sociale delle Fondazioni.
D’altra parte le esigenze registiche sempre più alte, la necessità di costruire strutture sempre più originali e laboriose, la richiesta di ampliare il marketing, la domanda di spettacolarità, l’aumento di produttività voluto dai Ministeri (con realtà diversissime da teatro a teatro), la competitività a livello internazionale, hanno trasformato di molto la natura dei cosiddetti “teatri di tradizione”.  
Sintetizzando comunque vorrei solo citare questo particolare che ritengo significativo, e che fa “pendant” con la mitologia che ha il fruitore: sono solo tre anni che l’orchestra della Scala (certamente la stakanovista italiana e la più tutelata) è entrata nel Documento di Valutazione Rischi della Fondazione. In altre parole fino a un paio di anni fa i cosiddetti “professori d’orchestra” non risultavano minimamente dipendenti soggetti a una qualunque forma di rischio professionale. Come non fossero lì per lavorare ma per divertirsi.
Con una fatica enorme il Ministero, con l’aiuto della medicina del lavoro, e alla luce di dati europei supportati da un’ indagine svolta all’interno del teatro,  ha emanato delle linee guida a seguito delle quali si è riconosciuto che: i decibel oltrepassano la soglia legalmente stabilita di 80 , che ci sono problemi posturali certificati, patologie pesanti da sovraccarico degli arti superiori (sui quali ci sono indagini in corso), che c’è un fattore di stress come  per gli altri lavori (ma i presupposti fanno intravedere anche un fattore di rischio maggiore), e che sarà necessario procedere anche sui problemi respiratori e dell’apparato buccale.
Infine per la prima volta nel CCNL siglato quest’anno, compare l’esigenza di assicurare con l’ INAIL le orchestre....diciamo quindi che l’angelica versione del suonatore è dura a morire. Certo, la prosaicità di questi argomenti è sconfortante, è la stessa che ci spinge a riconoscere che babbo Natale non esiste… ma prima o poi bisogna crescere.



                                           



IL BICENTENARIO VERDI-WAGNER: UN CONSUNTIVO
di Gabriele Scaramuzza  





Fondamentale resta l’ascolto e, se una lettura è da accompagnare ad esso, è la lettura dei testi, dei libretti delle opere. È quanto basta per iniziare. Non si deve soffocar l’ascolto dietro una cortina di pregiudiziali conoscenze, prepararsi con uno studio di scritti tendenzialmente infiniti. Primo viene l’ascolto, ripetiamo, il resto verrà poi, sulla sua scia, per chi ne sentirà l’esigenza. La presenza alle rappresentazioni, con le orecchie e gli occhi, infatti, prende, dà piacere, qualcosa di per sé dice. Ma insieme è un nucleo di energia che si irradia in mille modi oltre se stesso; per quanto ci riguarda fa pensare, e chiede approfondimenti. A questo tornano utili in prima approssimazione anche i programma di sala, che hanno assunto ormai un notevole spessore culturale, e invitano essi stessi a letture ulteriori più ampie. Nell’anno del bicentenario della nascita di Verdi e di Wagner, segnalo alcune ultime pubblicazioni. Per quanto riguarda Wagner, Quirino Principe ha avviato una collana: “La spada della dualità”, edita da Jaca Musica, e che avrà per oggetto tutte le opere di Wagner, anche le meno note e ascoltate, quali Le fate e Le nozze. Il primo volume è apparso alla fine del 2012 ed è dedicato a Lohengrin, in concomitanza con l’inaugurazione della stagione scaligera del 2012-13. Contiene il testo wagneriano nell’originale e in una nuova traduzione, magistrale come sempre sa fare Principe, ricca di sapori che gettano nuove luci sulle opere e sulla figura del loro autore. Segue Wagner e noi, sempre di Quirino Principe: pagine ricche di notizie imprescindibili per contestualizzare il dramma, e di riflessioni assai stimolanti per meglio penetrarlo nel nostro oggi. Giustamente il problema infatti non è solo di collocare Wagner in una tempo lontano, a noi estraneo, ma anche di interrogarsi circa il senso che assume per noi, che ai tempi nostri e nei luoghi in cui viviamo continuiamo ad ascoltarlo. Lo snello volume è infine corredato da una essenziale Bibliodiscovideografia, assai utile per orientare il lettore. Non vorrei tacere, al di fuori dell’ambito wagneriano e verdiano, ma attinente una musica che è ben presente a Wagner e a Verdi, l’encomiabile riedizione, a cura di Gaia Varon, di un classico della musicologia: Charles Rosen, Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven, Milano, Adelphi, 2013. Sul versante verdiano restano tuttora imprescindibili le opere di Gilles De Van, Emilio Sala, Fabrizio Della Seta, edite tuttavia da tempo. Di quest’anno segnalo intanto il ritratto di Verdi di Raffaele Mellace, Con moltissima passione, edito da Carocci. Il titolo è  il riadattamento di un’affermazione verdiana, ma anche denota verso Verdi un’inclinazione che condivido. Ci offre un panorama completo del mondo verdiano, articolato su vari piani che si succedono e si intersecano in modo tutt’altro che convenzionale. E ora due parole sulle rappresentazioni alla Scala. La prima impressione è che si sia trattato molto meglio Wagner di Verdi. Lohengrin, con cui si è aperta la stagione 2012-13, diretto da Barenboim, è stato di tutto rispetto, per interpreti, direzione d’orchestra, regia. Assai discutibile invece L’Olandese volante; ma l’eccellenza è stata raggiunta con la rappresentazione della Tetralogia lo scorso anno, data per intero due settimane successive di giugno, con le distanze tra le opere in uso a Bayreuth: Das Rheingold, Die Walküre, mercoledì pausa, Siegfried, venerdì pausa, Göttedämmerung. Nel 2007 una splendida edizione di Tristan und Isolde, con la regia di Chéreau (mancato purtroppo da poco), la direzione di Barenboim, interpreti di grande rilievo, ha in certo modo preparato il terreno a questo Ring. In questa occasione è poi encomiabile il cofanetto contenente due volumi che - oltre ai testi wagneriani, ai corposi saggi di Michael P. Steinberg e di Erwin Jans, e alle presentazioni dei collaboratori - contiene anche utili guide ai Leitmotive che percorrono le opere, di cui ha particolare cura Raffaele Mellace; altri collaboratori sono Bentoglio per i soggetti, Fertonani per la cronologia della vita e delle opere di Wagner, Sala per le “opere in breve”; Serpa per le traduzioni. Una misura diversa è stata usata per Verdi, di cui nessuna opera ha soddisfatto fino in fondo (salvo Oberto conte di San Bonifacio con la regia di Martone). Anche le direzioni di Barenboim, di Aida, Requiem e Simon Boccanegra gli scorsi anni, non erano manifestamente nelle corde di questo pur eccellente direttore.

L’edizione di La Traviata che ha inaugurato la stagione in corso è parsa a molti insoddisfacente. Riprendo qui adattandolo al mio contesto quanto mi scrive Nicola Pedone: è apprezzabile “il tentativo di uscire dalla pesante, per quanto prestigiosa, eredità viscontiana e zeffirelliana”. Benvengano le letture che (come questa) si pongano il problema della Traviata “oggi”, del “rapporto tra il teatro e la vita contemporanea”. Ma c’è modo e modo: ci sono “cose non risolte e altre decisamente sbagliate”; “prima fra tutte l'intervallo di 40 minuti nel bel mezzo del secondo atto, spezzando un'unità drammaturgica che non a caso un grande uomo di teatro come Verdi aveva voluto come tale”. Si possono apprezzare gli spazi chiusi delle scene, dato che Traviata è un’opera di interni  - al contrario del Trovatore, per cui lo stesso regista ha scelto, e devo ancora capire perché, uno salotto immobile e chiuso, sempre lo stesso. Ho trovato la sua recente regia di La sposa dello zar  meno irritante e più gradevole della regia della Traviata, ma ha spostato l’azione in una sorta di Truman ShowLa sposa: così viene tradotto il termine Nevesta, cui meglio di addirebbe, mi assicurano, “promessa sposa” in italiano; è un’opera davvero bella, e ben riuscita sul piano musicale, sfortunatamente la danno rarissimamente in Italia.    


Tornando alla Traviata, la scelta dei colori programmaticamente (più che nella resa reale) è interessante, qualche momento nel comportamento dei personaggi è apprezzabile: Germont nei gesti sembra più contenuto degli altri. Ma non basta.
Diana Damrau vocalmente è il meglio (persone competenti me lo confermano), ma lascia perplessi sul piano espressivo; è inconfrontabile per intensità con le splendide Violette che restano dei modelli, non dico solo la mitica Callas, ma Montserrat Caballé, Renata Scotto, Raina Kabaivanska, anche Patrizia Ciofi nell’edizione veneziana che ha inaugurato La Fenice risorta, diretta da Maazel. E, a proposito, sul piano della direzione d’orchestra sono da ricordare Toscanini, Serafini, Giulini, Karajan,  Kleiber, Solti….
La Violetta incarnata da Damrau non sembra  la donna “disperatamente innamorata” che è; non c’è eco della sua rivendicazione di una dignità, di un “riconoscimento di sé attraverso l’amore” (ricorro a un’affermazione di Benedetta Craveri). Sembra più che altro presa nel meccanismo crudele che la società costruisce intorno a lei, anche ai nostri giorni. “Non sapete”, “Dite alla giovine”, “Così alla  misera”, “Amami Alfredo” ?  mancano della tensione espressiva che mi aspetto; trovo azzeccato solo l’ “Addio del passato”.  
Alfredo è sopra le righe; nel primo quadro del secondo atto il suo impastare la pizza e tagliare le verdure è forse sintomo del suo disagio, forse perché il rapporto tra lui e Violetta, anche in campagna, incontra difficoltà. Nell’ultimo atto compare con pessimi fiori e improponibili dolcetti cremosi; orologio alla mano attende la morte di Violetta.
Infine perché la parrucca punk dell’attempata e inspiegabilmente onnipresente Annina, peraltro Mara Zampieri, nota cantante del passato ?  Flora ha una bella figura ma ha travestimenti da squaw e modi scomposti, pari a quelli di altri danzatori e comparse.
Non convince insomma l’idea della regia, a suo modo coraggiosa, coerentemente realizzata anche nelle scelte interpretative dei cantanti, nelle scene, nel modo di gestire la musica; ma difficilmente condivisibile. La regia propone una sgradevole visione della Traviata; a questa tende a sottomettere i gesti, la mimica dei personaggi, le posizioni, e il tipo di vocalità.  Anche qui si sente l’idea del regista.   
Nel programma di sala della Scala Antonio Rostagno parla di “regie azzardate, che frenano quel coinvolgimento emotivo collettivo e che gettano lo spettatore nella solitudine”. È il caso di questa Traviata, che nei suoi toni grotteschi o superficiali più che umoristici, irride ogni tensione drammatica. L’opera appare svaporata, decostruita; spesso artificiosa nei tratti dei cantanti: a volte scostanti, a volte duri, a volte surreali.  
Alla domanda se sia “possibile un ascolto non ironico del grande melodramma ottocentesco, e cioè che empatizzi ‘ingenuamente’ con quelle grandi passioni portate all’estremo”, Mengaldo risponde di essere, “per età e formazione” quanto meno, “assolutamente incapace di un ascolto ironico”, e che anzi questo tipo di ascolto decreterebbe “né più né meno che la fine del melodramma come forma artistica viva”. Ma anche, aggiungerei, sancirebbe la crisi di un’intera dimensione del sentire, la cui impossibilità è dichiarata quasi si trattasse di una necessità storica inderogabile - come accade in questa Traviata. Questo vale anche per un modo, incoraggiato da non poca neoavanguardia, di disporsi verso la musica, o verso tutta la musica (da Monteverdi a Webern quanto meno) che per noi conserva un sapore di, si diceva un tempo, “autenticità”. 
Che senso hanno le scelte interpretative proposte? I movimenti degli attori, come mi suggerisce Nicola Pedone, sembrano avere tratti parossistici da commedia russa. Nelle feste compaiono gesti e abbigliamenti che rasentano il kitsch. Nel saggio Il secolo di Grete Samsa Karel Kosìk sostiene che il secolo di Kafka è al culmine del “nefasto processo di trasformazione del senso del tragico”, distrutto dal grottesco e dal caricaturale, e dal kitsch che spesso li accompagna. Grete irride il lato tragico della vicenda del fratello, volgarizza tutto, banalizza la morte. Questa Traviata sembra darle ragione. 
Tcherniakov persegue di fatto esprime quell’understatement dell’opera, e della figura di Verdi, che è un luogo comune più diffuso di quanto si pensi - presumibilmente sulla scia dell’immagine di Verdi attiva nell’era Lissner, non a caso (come Barenboim) legato a Boulez, tra i più antiverdiani dei musicisti contemporanei. Gli anni di Lissner hanno visto eccellenti rappresentazioni di Janàcek, di Britten, di Strauss… Ma la regia di Traviata suona per me come una sorta di decreto di morte per l’opera (e per Verdi), o comunque ne denuncia l’assoluta inattualità, la perdita di senso ai tempi nostri. Smozzicati il respiro dell’opera, il dolore, la denuncia, la tensione drammatica, l’enorme ansia di riscatto, la spinta liberatoria che è di Verdi. E che è testimoniata a livelli altissimi da Il Requiem di Terezìn di Josef Bor, appena edito da Passigli. 

Nel programma di sala Tcherniakov sostiene che la regia attualizza l’opera, sposta l’amore nel nostro mondo. Resto convinto che un’attualizzazione (spostare l’opera da un’oggettività fermata nel passato al suo “senso per noi”) sia imprescindibile. Ma c’è attualizzazione e attualizzazione. Tcherniakov rende attuale La Traviata, nel senso che la destituisce di senso per noi, ne denuncia l’inattualità. La commisura a una “sua” attualità, che non è affatto detto sia la nostra o quella di tutti, tanto meno è la mia, che avverto invece la grande attualità del Requiem suonato a Terezìn. Perché sostenere che “tutto è relativo”, “tutto è gioco, tutto è manipolazione” ? perché calcare la mano sul tema dell’amore (e solo su quello), dandone però poi una visione così riduttiva ? Non siamo capaci di amare, sappiamo solo “raccontarcelo”, abbiamo paura di amare, come sintetizza giustamente Emilio Sala. Ma che obbligo c’è di sentire così l’amore oggi? è davvero ridotto solo a questo? la crisi della coppia è vista in suoi aspetti banali e astratti. A Tcherniakov sfugge lo spessore etico ed esistenziale, la critica sociale al perbenismo ipocrita, alla pressione della “morale” allora corrente; la presenza della malattia, gli effetti di contrasto delle feste e del carnevale parigino. In proposito, Nicola Pedone offre, in sue interviste a Gatti e ai principali responsabili dell’opera, interessanti osservazioni su “sfondo e primo piano”: “una tipica modalità drammaturgica verdiana, che è quella appunto di creare uno ‘sfondo’ (in Traviata è spesso costituito da musica da ballo, ma c’è anche il carnevale dell’ultimo atto), su cui far risaltare i ‘primi piani’, spesso di tutt’altro orientamento affettivo, con effetti di potente contrasto drammatico”.     
La verità drammatica dell’opera è anche la sua eticità, che in nessun caso può essere elusa, pena la perdita della sostanza dell’opera stessa.    



                                         


LA MANO, L’ERRORE, IL TRIONFO
Verdi al Conservatorio di Milano
Di Paolo Maria Di Stefano





Giuseppe Verdi non fu ammesso al Conservatorio di Milano – era il 1832 e Verdi aveva diciotto anni circa - anche per la sua “non corretta posizione delle mani sul pianoforte”, oltre che per “la non sufficiente cognizione delle regole del contrappunto” e per la scarsa disponibilità di posti nel convitto. Che è bello e istruttivo, avrebbe scritto Giovannino Guareschi che con Le Roncole e Busseto aveva più di qualche vicinanza, peraltro perpetuata attraverso un ristorante e una fondazione museo voluti dai figli che a Le Roncole hanno dapprima invaso, per poi dimensionarsi, lo spazio vissuto da un Giuseppe Verdi giovanissimo, immagino arrampicato sulla tastiera della spinetta donatagli dal padre, prima, e dell’armonium della Chiesa, poi, intento più che ad eseguire disciplinatamente la musica da Chiesa richiestagli, a cercar di capire cosa lo strumento fosse capace di dargli. Anche perché a Le Roncole era molto ma molto più facile improvvisare alla tastiera che studiare quella lingua difficile che è la musica.
E mi piace pensare che, all’inizio, Giuseppe abbia precorso quella che io rivendo come una mia personale teoria musicale: trovata la prima nota sulla tastiera, le altre sono alla sua destra e alla sua sinistra, con qualche variazione verso l’alto. E, sempre trovata la prima nota, le dita cercano spontaneamente le altre.


E se, come Verdi, hai una naturale inclinazione alla musica, qualcosa accade.
Il problema, credo, nasce soprattutto quando si vogliano eseguire composizioni di maestri, grandi o piccoli che siano, ma comunque codificate sul pentagramma; oppure, o anche, quando si vuole scrivere ciò che si è improvvisato. E si tratta di problemi non da poco, che vanno dalla disponibilità finanziaria alla necessità di trasferirsi in luoghi nei quali vivono gli insegnanti e sono strutturate e funzionanti le scuole di musica.
Verdi trovò negozianti animati da spirito di mecenatismo: una razza in Italia estinta da tempo, quella dei negozianti sensibili alla cultura in genere e a quella musicale in particolare, ma che fece in tempo a consentire la formazione di una “cultura musicale” elementare, da approfondire e migliorare, e tale da spingere il giovane diciottenne a sperare di poter essere ammesso al Conservatorio di Milano. Il quale ebbe a stabilire che Giuseppe Verdi non aveva una buona posizione della mano sulla tastiera, appunto. Che non è poco, essendo un sintomo chiarissimo di un atteggiamento accademico senza troppe eccezioni: la ricerca della perfezione “formale” del corpo di fronte allo strumento quale condizione (una delle condizioni) essenziale per essere un buon pianista. Con il che, Glen Gould oppure anche Horowitz o molti altri interpreti giudicati eccezionali non sarebbero stati che il frutto di errori di valutazione e di insegnamento commessi dai Conservatori di provenienza.
E il Conservatorio di Milano, il cui curioso destino ha portato ad intitolarsi proprio a Giuseppe Verdi, assieme a Tomo Quarto di Bologna ha dato vita ad una piccola mostra organizzata nel foyer della Sala Grande sul tema “La mano, l’Errore, il Trionfo”: sintesi estremamente significativa dei rapporti tra Verdi e il Conservatorio stesso. Ho avuto la fortuna di esserci, accompagnato e guidato dal coordinatore, maestro Raffaele Deluca, signore di straordinaria cortesia e preparazione.


Ed ecco, allora, una ricostruzione del dactylion, strumento di tortura applicato alla tastiera, composto di dieci anelli destinati ad accogliere le dita, bloccati in alto in modo da obbligare lo studente ad eseguire quanto e come stabilito. Strumento di tortura, ma anche dimostrazione di una creatività senza limiti. Poi, gli spartiti, da Oberto a Falstaff, e una testimonianza per me assolutamente commovente: gli interventi di Verdi a correzione delle bozze di stampa. Seduto alla Scala, armato di foglietti e di matita, un lavoro da certosino.
E non a caso il Conservatorio ha collaborato con il Centro Studi di Musica Sacra “Tomo Quarto” di Bologna. Padre Gianbattista Martini, musicista e musicologo bolognese, ha lasciato incompiuta la sua grande Storia della Musica, solo abbozzando quel “tomo quarto” che avrebbe narrato della musica sacra e al quale Bologna ha voluto intitolare il suo Centro Studi di musica sacra.
Io vedo in questo anche il significare la musica come linguaggio immortale e realmente universale, in perpetuo divenire sulle solide fondamenta di una storia che comunque affonda le sue radici nella nascita dell’uomo e che, probabilmente, non avrà fine neppure quando il genere umano non ci sarà più. Perché la musica è il linguaggio di Dio.
[Le foto a corredo dell'articolo sono di Paolo Maria Di Stefano] 


                            




MINIMA VOLUPTAS  
di Maurizio Meschia  
                                                                                                     
Elogio di pane e pomodoro      
  
Nella foto: Maurizio Meschia




Lo spirito che oggi pare stimolare una riappropriazione della cultura del gusto semplice e naturale ci spinge a rivalorizzare alcune piccole, quasi banali preparazioni, che tanta storia e suggestioni trasmettono e che forse le giovani generazioni non comprendono, involontariamente diseducate ai sapori veri e disincentivate dalla troppa “povertà” degli ingredienti.  Una di queste è pane e pomodoro.  
Paradigma di frugalità, antica colazione di contadini e braccianti del nostro Meridione, questo alimento merita di essere riportato in auge, laddove non lo è già, con tutti i suoi valori e colori da cui sprigionano i sapori del Mediterraneo.  Pane e pomodoro: una soluzione rapida, gustosa e sana per un leggero pranzo o una merenda, una semplice meraviglia per il palato quanto più freschi e naturali sono gli ingredienti.
Su una fetta di pane casereccio, meglio se del giorno prima, si schiacciano delicatamente e si strofinano le due metà di un pomodoro di bel rosso vivo, maturo, possibilmente un San Marzano o perino. Si cosparge di sale e si irrora di olio extravergine di oliva. Si può arricchire con foglie di basilico fresco o con una spolverata di origano. Se non ci si vuole ungere, un’alternativa è quella di tagliare un panino morbido e imbottirlo di pomodoro tagliuzzato e condito con sale, olio e le eventuali erbe. E qui ci starebbe anche qualche sottile fetta di cipolla dolce di Tropea.  
Come non condividere infine le parole dello scrittore catalano Manuel Vàzquez Montalbàn nelle sue Ricette immorali (Feltrinelli, 1992): “ È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana...”.
                                                                                                                             


                                                     


GIUSEPPE  VENDITTELLI  
Un tenore da riscoprire
















Ritiratosi dalle scene a metà degli anni novanta, abbiamo conosciuto personalmente il tenore Vendittelli intorno al duemila. Non ha abiurato all’arte ma al teatro; ancora nel pieno possesso delle sue facoltà canore, se ne è distaccato consapevolmente, stanco dell’ambiente che non era come lui lo sognava. Il suo excursus artistico è un caleidoscopio di interpretazioni in recite sostenute in giro per il Mondo tra il 1974 e il 1995, che solo recentemente sono state raccolte in tre CD pubblicati dall’editore bolognese Bongiovanni nella collezione “Il Mito dell’Opera”, (che ha curato anche la registrazione dell’opera “La Parisina” di Mascagni eseguita all’inaugurazione della stagione del 1978/1979 al Teatro dell’Opera di Roma con Gianandrea Gavazzeni Direttore).
Si tratta dei più noti brani operistici registrati direttamente dal vivo in teatro durante l’esecuzione di opere e concerti , quindi con evidenti disturbi di fondo senza possibilità di interventi correttivi. E proprio qui sta il valore delle incisioni del nostro tenore che denota una preparazione di scuola vocale all’antica; “una voce seconda a nessuno”, come gli diceva il grande Gavazzeni.  
Non è soltanto la bellezza della voce del Vendittelli che risalta in queste registrazioni, ma si evidenzia anche l’espressività interpretativa di un canto sostenuto da una tecnica respiratoria appoggiata sul diaframma, frutto di uno studio meticoloso che fa apparire una emissione facile anche nelle tessiture più impervie per la bronzea voce di tenore drammatico.
Per condividere le emozioni del bel canto tra i tanti pezzi proposti, per l’omogeneità dei suoni e la linea di canto, si ascolti la forza verista del messaggio espressivo ne I Pagliacci piuttosto che nell’Otello e Andrea Chenier , o la morbidezza di canto sul fiato che traspare nel “Cielo e Mar” dalla Gioconda (intenzionalmente proposto in due versioni per valutarne i particolari musicali nel forte-piano o le accattivanti smorzature: con orchestra e accompagnato da solo pianoforte) e la Serenata “O Lola” dalla Cavalleria Rusticana, (“scoperta” perché a sostegno della voce c’è solo il contrappunto dell’arpa).
Si riscopre così le sorprendenti interpretazioni di oltre vent’anni di carriera assemblate in tre CD dal Bongiovanni e in vendita presso i negozi musicali di tutto il mondo o via internet, che segnaliamo all’attenzione degli appassionati che si sono persi l’ascolto dal vero del tenore Vendittelli in teatro.  Ed infine ne raccomandiamo l’attento e meditato ascolto ai giovani che vogliono intraprendere la carriera di cantante lirico nel registro di tenore, e non solo.
Per maggiori informazioni sulla storia della vita artistica del Vendittelli, vi rimandiamo alla  biografia pubblicata su Internet.  
Giorgio Aleardo Zentilomo

 


LA  VOCE DEL TENORE FRANCO  CORELLI  
Una personale testimonianza.

In questo scritto di Giorgio Aleardo Zentilomo
Un doveroso ricordo del tenore Franco Corelli


Al suo funerale nell’ottobre 2003 presso la chiesa di San Carlo al Corso, alcuna delegazione del Teatro alla Scala era presente. Tra gli artisti si era visto solo Andrea Bocelli. A dieci anni dalla sua morte, qualche giorno fa, la Scala ha dedicato un doveroso omaggio alla memoria di una delle più belle voci da tenore del secolo scorso, quella di Franco Corelli. In attesa di accedere al foyer del teatro, risultato troppo piccolo a fronte della numerosa affluenza, già dal primo pomeriggio tanti erano gli appassionati in coda per poter entrare. Molti capelli bianchi e volti che lasciavano trasparire trascorsi artistici da comprimari e coristi, condivisi con anonimi spettatori di allora. Dopo un’introduzione (in un italiano fastidioso) del Sovrintendente Stephane Lissner (che finalmente se ne andrà ad ottobre), i commenti tecnici e le lodi delle indubbie qualità vocali di Franco Corelli, sono state ricordate e validamente commentate dal competente musicologo Giancarlo Landini. Affiancate alle parole di encomio (tutte in positivo), delle caratteristiche del mezzo vocale di Corelli, abbiamo riudito alcuni brani d’opera magistralmente eseguiti, facendoci tornare alla memoria quelle straordinarie serate da tifo calcistico vissute in loggione. E pensare che agli inizi alle sue prime apparizioni (una disastrosa recita de I Pagliacci), i loggionisti, io tra questi, stante l’accentuato tremolio dei suoi cantabili dove si evidenziavano imbarazzanti difficoltà di sillabazione (un qualcosa di biascicato), lo avevano “pizzicato” storpiandogli ingenerosamente il nome in “Pe-Corelli”; difetti poi opportunamente risolti grazie all’attenta scuola del “vecchio” tenore Lauri Volpi.
Al suo ritorno alla Scala, ricordando le non felici serate, aleggiava più di qualche perplessità. Magicamente spariti i difetti accennati, il suo canto sublime tacitò presto ogni dubbio offrendo memorabili emozioni di bel canto a fianco di artisti quali la Callas, la Simionato e il baritono Bastianini. Un’ampia estensione, (oltre al fatidico “do di petto” Lui arrivava anche al “re bemolle” della romanza “a Te o cara” dei Puritani), il corretto fraseggio, la sicurezza e la limpidezza degli acuti tenuti ad effetto anche oltre il valore della nota scritta, suggellavano  i personaggi di opere mai viste prima: La Vestale, Il Pirata, Medea piuttosto che nelle più note: Fedora, Fanciulla del West, Carmen, Andrea Chenier, Norma ecc. Pastosità vocale, un bel timbro brunito e rotondità di suoni in una linearità di canto che attanagliava l’attenzione degli esigenti critici e dei melomani che non smettevano di applaudire fino a spellarsi le mani.
Padrone della tecnica dell’emissione “sul fiato”, di cui abbondava nella disponibilità grazie alla controllata gestione del diaframma, mostrava l’esigente rigore della preparazione musicale e la tensione emotiva che lo avvolgeva prima di entrare in scena, dove finalmente cessava ogni preoccupazione dopo i primi confortanti fraseggi. In breve, una delle indimenticabili voci tenorili di fine anni ’50 fino al ’70 quando alla Scala si alternavano strepitosi cantanti, offrendo serate magiche mai più riproposte. Tra questi ricordiamo: Del Monaco: impressionava per la perentorietà del suo canto cristallino e convincente.  Di Stefano: emozionava per il verismo interpretativo con la bellezza della sua voce. Corelli: trascinava fino alle vette con lo squillo degli armonici in tutta la gamma delle partiture più ardite.

Giorgio Aleardo Zentilomo  



                               



PER CLAUDIO ABBADO 

di Gabriele Scaramuzza






Non starò a ripercorrere la storia, nota, e ripetuta in questi giorni su tutti i giornali, di Claudio Abbado. Mi soffermo piuttosto su alcuni punti cardine della lezione che ci ha lasciato, ed è di valore duraturo. Abbado lavora fino alla fine, inseguendo un sogno non di solo perfezionamento professionale del suo lavoro, bensì soprattutto di testimonianza dell’alto valore, culturale, esistenziale e civile insieme, della musica. Non a caso Fulvio Papi, che lo conobbe, lo ricorda tuttora con ammirazione e affetto.
Non so più quale è stata la prima volta che ho visto Abbado alla Scala; l’ultima volta fu nel concerto del ritorno, nel novembre del 2012, in giorni in cui è mancata la sorella Luciana Pestalozza, pure musicalmente assai impegnata: seguo ogni anno Milano Musica, da lei fondata.
A chi ascolta resta il senso che Abbado imprime alle sue esecuzioni, e trascina dall’inizio alla fine; qualcosa di simile mi accade con Furtwängler. Pochissimi giorni fa ho potuto ascoltare il video della sua direzione dell’ultimo tempo della Nona di Mahler: l’intensità emotiva del suo volto si trasmetteva nei volti dei giovani esecutori che lo attorniavano, con profonda gratitudine. 
Tra Milano e Pesaro ha contribuito alla rinascita di Rossini: hanno fatto epoca le sue esecuzioni di Cenerentola, di Il viaggio a Reims. Ma restano indimenticabili, per citare le opere cui mi sento più intimamente legato, Mahler (a partire dalla Seconda, con cui si è presentato e ha preso congedo dalla Scala), Wozzeck. E tanto Verdi: il Requiem, il Ballo in maschera; il Macbeth e il Simon Boccanegra con Strehler; il Don Carlo con Ronconi; per tacere di Otello e Falstaff. In anni più recenti rivisto Abbado nel Simon Boccanegra a Firenze, con l’orchestra che letteralmente volava, presa dall’unità di senso che le sapeva imprimere. Indimenticabile anche l’attimo di silenzio finale, la sospensione prima di abbassare la bacchetta e ricevere gli applausi. Un momento di alto raccoglimento per non disperdere l’intensità dell’ascolto e lasciar vibrare il dramma dentro di noi.
Quanto al suo modo di dirigere sono grato a Alice Cappagli (violoncellista nell’Orchestra della Scala fin dai primi anni ’80, ha suonato sotto la direzione di Abbado più volte) per avermi offerto una testimonianza di prima mano, e competente, in proposito. La riporto qui sotto con le sue parole: 






“Non è affatto facile parlare di un personaggio "simbolico" come Claudio Abbado, come non sarebbe comunque facile parlare dei punti cardinali in base ai quali ci muoviamo come musicisti. L'ultima volta che vedemmo Abbado fu il 30 ottobre 2012, per la famosa seconda sinfonia di Mahler fatta alla Scala con la Filarmonica in collaborazione con la Mozart. L'orchestra Mozart di Abbado, una formazione da lui voluta e da lui plasmata con la stessa passione e la stessa dedizione con cui nel 1982 aveva fondato la Filarmonica.In quell'occasione avevamo visto un uomo fragile, fisicamente provatissimo, con una determinazione e una voglia di lavorare intatte rispetto a quelle in cui aveva impiegato le sue energie negli anni alla guida della Scala. Nell'orchestra, tutti coloro che l'hanno conosciuto ricordano due aspetti : il metodo e la  classe. Metodo che ha permesso di raggiungere dei grandissimi risultati musicali la cui principale prerogativa era l'infaticabilità, e la classe con cui si è sempre imposto senza alzare la voce ma con una determinazione assoluta. Diremo che l'eleganza si è rivelata sovranamente efficace  nella costruzione del gesto e nella resa dell'insieme, in un modo assolutamente unico e pertanto irripetibile. Tuttavia paradigmatico.Forse sarebbe il caso di fare degli esempi, tuttavia raccontare la musica è sempre stato e sempre sarà un compito arduo: l'unica cosa che si può spiegare è dire che nel suo modo di comunicare era presente anche una dose di "stupore" con cui l' autorevolezza sapeva convivere con l'estemporaneità dell'esecuzione. Mai una vera costrizione, mai un'imposizione assoluta laddove il valore di un'iniziativa, se contestualizzata, avrebbe potuto aggiungere qualcosa alle sue scelte.Dovremmo forse parlare di una sorta di "democratica collaborazione" sebbene il compito di un direttore d'orchestra nulla abbia a che fare per sua natura con il concetto di democrazia. Tutt' altro.Invece con Abbado era spontaneo assimilare il suo pensiero e appropriarsene senza sforzo per lavorare insieme in forma "corale".  Quindi sì, un personaggio "simbolico", un direttore con un gesto denso di idee ma anche di possibilità, le stesse che hanno fatto di lui un pezzo della nostra storia dell'interpretazione”.






In una recente intervista a Fournier-Facio Abbado difende un senso “forte” (per dirla con Quirino Principe) della musica, per nulla riducibile a efficienza, rendimento, tornaconto affaristico, fama. Obbiettivi che purtroppo perseguono anche grandi istituzioni musicali, che sembrano dimenticare l’ “alta destinazione”, per dirla con Hegel, della musica. Per lui la musica, dichiara, è una ragione di vita, non divertimento. Nelle pagine finali dell’Estetica di Hegel leggiamo che nell’arte “non abbiamo a che fare con un congegno meramente piacevole o utile”, bensì “con un dispiegarsi della verità”; nei modi letteralmente estetici, cioè legati al “sentire”, che le sono propri. Questo vale indubbiamente anche  per la musica: nel cap. XXI del Doktor Faustus (in cui come noto è presente in controluce Schönberg) troviamo scritto che l’arte non accetta più di essere “parvenza e il gioco”; vuole invece “diventare conoscenza”     
Vorremmo insistere su questo, chiamando a testimone un'altra grande figura, tuttora vivente, della nostra cultura: George Steiner (che ama Schönberg, e mostra simpatia per Verdi, musicisti che certamente sono nelle corde di Abbado). In uno dei suoi più noti libri, Nel castello di Barbablù, si trovano passi che esprimono il senso profondo che la musica assume per lui: “si conosce un buon numero di esistenze individuali e familiari in cui l’esecuzione o il godimento della musica ha funzioni altrettanto sottilmente indispensabili, altrettanto esaltanti e consolatorie, di quelle che potrebbe avere, o può aver avuto in passato, la pratica religiosa. Ciò che colpisce è questa indispensabilità, la sensazione (da me condivisa) che c’è una musica di cui non si può fare a meno a lungo, che certi brani musicali sono il talismano dell’ordine e della fiducia interiore”. “La musica sembra ricomporci, raccoglierci, restituirci a noi stessi”. E “forse può farlo grazie al suo particolare rapporto con la verità”. 
Abbado confessa che la musica gli “salvò la vita”, letteralmente, dopo il primo grave intervento chirurgico che subì. E capì presto quanto potesse riscattare le vite altrui, incidendo profondamente sulla qualità della la vita degli abitanti dei barrios venezuelani. Com’è ampiamente noto Abbado ha stretto un forte legame con Abreu e l’orchestra giovanile “Simon Bolivar”. Gustavo Dudamel lo ricorda con parole non meno toccanti di quelle con cui ne parla, su un altro versante, Daniel Harding.  
Potrà sembrare utopia questo ideale di musica, i nostri anni sembrano averne decretato l’illusorietà. Ma vorrei insistere su questo, perché le interpretazioni di Abbado lo riflettono, ne è determinata la sua concezione del mondo, il senso di un riscatto personale e sociale che annette alla musica. Questo è chiaro soprattutto nella sua dedizione a diffondere la musica, di portare alla Scala studenti e lavoratori, di allargare il pubblico degli ascoltatori suonando nelle fabbriche. Ma è chiaro anche nell’alto impegno civile che accompagna il suo far musica, e anche politico nel senso nobile del termine: generosamente impegnato, non partiticamente compromesso, negli anni della guerra del VietNam, dei colonnelli in Grecia, dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. In ciò gli furono vicini Pollini e Nono; ma anche Benigni. Di Nono conservo come la sua opera per me più preziosa Il canto sospeso, diretto da Abbado. Sul lato della versatilità e della finezza umoristica non passerei sotto silenzio Pierino e il lupo, con la voce recitante di Benigni. 
Difende il valore sociale della musica, esorta al “fare musica insieme”, come fattore di coesione etica e sociale, di fratellanza. Questo si traduce anche nel suo impegno di contribuire a far nascere organismi orchestrali giovanili, quali le ormai note Mahler Chamber Orchestra, Chamber Orchestra of Europe, da ultimo l’Orchestra Mozart. Colpisce la sua difesa della musica contemporanea tutta, da Schönberg a Nono, e che si esprime anche nella fondazione del Wien Modern.
È scontato ricordare il suo impegno a Vienna, l’azione profonda che col suo stile ha impresso su una grande orchestra quale i Berliner, la sua collaborazione con altri famosi esecutori, orchestre, teatri. Per parte mia, da appassionato ascoltatore e spettatore, mi sono limitato a ricordare quanto mi rimane, e rimarrà per sempre, delle esecuzioni di Abbado, partendo naturalmente dagli anni della sua direzione musicale della Scala, dove fonda la Filarmonica.     
E vorrei concludere con un’altra testimonianza, di Tiziana Canfori, che si è diplomata al Conservatorio di Bolzano e ora insegna al Conservatorio di Genova.



“Non ha mai suonato con Abbado, l'ho ascoltato dal vivo cinque o sei volte in tutto.          I miei ricordi più caldi di lui sono sinfonici e sono legati alla nascita dell'Orchestra giovanile europea, che è nata a Bolzano a inizio anni '80. Ricordo soprattutto Mahler (una Quinta che faceva stare col fiato sospeso). Era bellissimo vederlo sul podio:  il gesto non era teatrale, ma anticipava ogni colore.Ricordo bene la ventata di novità e di energia che ha portato a Bolzano, quella sensazione che ci faceva avvertire di essere al centro di uno sviluppo importante. Ci sentivamo privilegiati di averlo lì da noi, ad inventare un'orchestra. Il giornale ce lo raccontava nella sua vita bolzanina: il rigore delle prove, ma anche le partite a tennis con la Mullova... E poi i concerti (i primi li ha tenuti in Duomo), dove potevamo vederlo lavorare da vicino. Alcuni di noi poi avevano avuto la fortuna di entrare nella Giovanile Europea, e ci raccontavano del lavoro e delle tournée. Un paio di anni fa Abbado era tornato a Bolzano per fondere in un concerto la Haydn e la Mozart, conquistando tutti gli orchestrali con la sua profonda gentilezza e le sue idee chiarissime. Ero presente quando Bolzano ha attribuito la cittadinanza onoraria a Giulini (presente) e ad Abbado (assente per uno dei suoi ricoveri; era presente il figlio Daniele). L'affetto della città circondava questi due personaggi come aveva circondato a suo tempo Benedetti Michelangeli (Bolzano è una città musicalmente fortunata...).Mi rimane di lui l'emozione dello stile, quella capacità di farti sentire il dolore con il sorriso, il profondo senso della morte, la consapevolezza del mistero, la sobrietà e la cura delle sfumature.Se penso che negli ultimi giorni si agitavano quelle storie sulla chiusura della Mozart, mi pare che avremmo potuto fargli sentire che il suo lavoro ci premeva di più, che avremmo potuto garantirlo anche dopo di lui....Ho vissuto le sue proposte sempre come uno stimolo vitale, rivolto soprattutto ai giovani. Ho amato sconfinatamente le sue interpretazioni "nordiche" e "filosofiche", ma anche Mozart e Rossini per il perfetto equilibrio fra testa e passione, per l'eleganza tragica e intima.L'anno scorso l'ho rivisto a Genova con i Brandeburghesi di Bach e ne ho avuto un'impressione contraddittoria: le sue scelte erano perfette, ineccepibili, anche "barocche", ma non c'era l'energia che avrei voluto. Era un Bach malato, distante... lui non si muoveva quasi (non che sia necessario per uno col suo carisma, ma proprio la gioia sembrava appannata). È stato un successo senza pari: il teatro tutto in piedi, numerose chiamate, ovazioni a non finire...  Ma a me è parso di fargli già un applauso "alla memoria". Sembrava come dietro a un vetro, come una registrazione. La sua personalità e il suo studio c'erano, ma non mi arrivava la fusione e l'energia un po' scapigliata che i Brandeburghesi in fondo hanno in abbondanza. Mi è sembrato di assistere a una Dämmerung, a un distacco dalla materia musicale, a una specie di sublimazione. Perciò ne ho tratto un presagio di morte”.





                                      



ANARCHIA E SURREALISMO
di Arturo Schwarz







Iniziamo con un’osservazione di carattere semantico a proposito della parola Anarchia composta da due lemmi An-arcos. An: privativo, arché: comando potere. Il che implica, in primo luogo, il rifiuto del principio d’autorità, della delega del potere, delle condizioni associate al potere e a chi lo esercita: violenza e oppressione, arbitrio e distruzione – anche di questo nostro pianeta – come le recenti catastrofe ecologiche ben dimostrano. Anarchia non è quindi sinonimo di disordine e confusione – come molti dizionari invitano a credere – ma al contrario, questa filosofia della vita implica un ordine superiore fondato sulla conoscenza, l’aiuto reciproco e l’armonia.

E’ opportuno – e l’ho sottolineato in un articolo recente per un numero speciale di A – che sia il poeta sia l’artista sono un modo d’essere dell’anarchico perché creare significa dare origine a qualcosa che non è esistito prima. Ogni creatore parte dalla tabula rasa, rifiuta il principio di autorità così come ogni modello anteriore. Ne consegue dunque che, coscientemente o meno, chiunque è impegnato in una attività creativa è un anarchico. Infatti, “poeta”, "artista" e "anarchico" sono, per me, termini intercambiabili, sinonimi perfetti. L'anarchia è la forma di esistenza del creatore, proprio come il movimento lo è della materia. Allo stesso modo in cui la materia è la dimensione del movimento, il creatore è la dimensione estetica dell'anarchico.





Alla domanda su cosa resta del surrealismo oggi, risponderei: tutto. Non ho in mente l’arte o la poesia, il cinema o il teatro, la fotografia o la scrittura; penso ad una filosofia di vita, a uno stato d’animo, a una morale, a una purezza, a un bisogno di libertà, alla necessità di riconoscere alla donna il suo giusto posto, il primo. Come dalla nozione di lotta di classe o di inconscio, dal surrealismo non si può tornare indietro. Col surrealismo, qualcosa è successo per sempre. La rivolta, per la sua stessa natura, rifiuta ogni filiazione; non ci si bagna due volte nello stesso fiume. Breton è il primo a ricordarlo: “A venti o venticinque anni la volontà di lotta si definisce in relazione a ciò che si trova attorno a sé di più offensivo, di più intollerabile”1.

Egli preciserà, “l’attività d’interpretazione del mondo deve continuare ad essere legata all’attività di trasformazione del mondo. Sta al poeta, all’artista, approfondire il problema umano in tutte le sue forme, il procedere illimitato del suo spirito in questo senso ha un valore potenziale di mutamento del mondo […] ‘Trasformare il mondo’, ha detto Marx, ‘cambiare la vita’, ha detto Rimbaud: per noi, queste due parole d’ordine fanno tutt’uno”2.

Un luogo comune solidamente radicato nella sinistra – rivoluzionaria e non – vuole che l’azione politica di Breton e dei suoi amici fosse dilettantesca e superficiale. Per confutare questo pregiudizio e documentare fino a che punto l’attività del movimento fu ragionata e aderente alle necessità di una prassi autenticamente rivoluzionaria basta seguire la cronaca degli eventi. Si vede allora come il surrealismo, sin dall’inizio del movimento nel 1924, sia stato autorevolmente presente in tutti i momenti chiave – piccoli o grandi che fossero – della storia contemporanea con prese di posizione, sia politiche sia estetiche, altamente chiarificatrici. Nessun altro movimento culturale può rivendicare una tale continuità d’interventi politici, altrettanto lungimiranti e su un periodo di tempo così lungo. Il sogno a occhi aperti dei surrealisti non fece mai perdere loro di vista la realtà nella quale lottavano.
Il primo proclama del gruppo, nel 1925, riprende una classica rivendicazione del pensiero anarchico: “Aprite le prigioni. Sciogliete l’esercito. Non esistono reati di diritto comune”. Vi si legge tra l’altro: “Le costrizioni sociali hanno fatto il loro tempo. Niente, né la constatazione di un fatto compiuto, né il contributo alla difesa nazionale potrebbero costringere l’uomo a fare a meno della libertà. L’idea di prigione, l’idea di caserma hanno oggi pieno corso; queste mostruosità non vi sorprendono più... Non abbiamo paura di confessare che noi attendiamo, che noi auspichiamo la catastrofe. La catastrofe consisterebbe nel persistere di un mondo in cui l’uomo ha dei diritti sull’uomo. L’unione sacra dinanzi ai coltelli o alle mitragliatrici: come fare appello più a lungo a questo argomento squalificato? Restituite ai campi i soldati e i galeotti. La vostra libertà? Non c’è libertà per i nemici della libertà. Non saremo complici dei carcerieri”3.





Questa prima presa di coscienza è di carattere ancora generico. Più tardi, Breton preciserà, ancora meglio: “il rifiuto surrealista è totale. […]. Tutte le istituzioni sulle quali si fonda il mondo moderno e che hanno avuto la loro risultante nella prima guerra mondiale sono considerate da noi aberranti e scandalose. Per cominciare, ci scagliamo contro tutto l’apparato di difesa della società: esercito, ‘giustizia’, polizia, religione, medicina mentale e legale, scuola [...] Ma per combattere con qualche speranza di successo è necessario attaccarne la struttura portante, la quale, in ultima analisi, è di ordine logico e morale: la pretesa ‘ragione’ di uso corrente, la quale ricopre – con un’etichetta fraudolenta – il ‘buon senso’ più logoro, la ‘morale’ falsificata dal cristianesimo allo scopo di scoraggiare ogni resistenza contro lo sfruttamento dell’uomo.”4

In un volantino del 21 settembre 1925, intitolato La rivoluzione innanzitutto e sempre i surrealisti già affermano “Ben consci della natura delle forze che attualmente turbano il mondo […] vogliamo proclamare il nostro assoluto distacco e in qualche modo la nostra purificazione dalle idee che sono alla base della civiltà europea […] Dovunque regni la civiltà occidentale, tutti i vincoli umani sono venuti meno, tranne quelli che hanno una ragion d’essere nell’interesse, nel ‘duro pagamento in contanti’. Da più di un secolo, la dignità umana è ridotta al rango di un valore di scambio. È già ingiusto che chi non possiede sia asservito da chi possiede, ma quando questa oppressione supera il quadro di un semplice salario da pagare e assume come esempio la forma di schiavitù che l’alta finanza internazionale fa pesare sui popoli, è una iniquità che nessun massacro riuscirà a espiare. Non accettiamo le leggi dell’Economia e dello Scambio, non accettiamo la schiavitù del Lavoro e, su un piano ancora più ampio, ci dichiariamo in stato di insurrezione contro la Storia […] Noi siamo la rivolta dello spirito; consideriamo la Rivoluzione sanguinosa come la vendetta ineluttabile dello spirito umiliato dalle vostre opere. Non siamo degli utopisti: questa Rivoluzione non la concepiamo che in forma sociale”.





Molto spesso, negli ambienti della sinistra, si esige dagli artisti di essere “i pifferi della rivoluzione”, come già condannava Elio Vittorini. In proposito la posizione dei surrealisti è molto decisa. Nel “Secondo manifesto” Breton afferma: “Non credo alla possibilità di esistenza attuale di una letteratura o un’arte che esprimano le aspirazioni della classe operaia. Se rifiuto di crederci, è perché in periodo pre-rivoluzionario lo scrittore o l’artista, di formazione necessariamente borghese, è per definizione inetto a tradurle”5. Infatti, come si potrebbero difendere una letteratura e un’arte cosiddette proletarie “in un’epoca in cui nessuno potrebbe vantarsi di appartenere alla cultura proletaria per l’ottima ragione che quella cultura non ha ancora potuto essere realizzata, nemmeno in regime proletario”6.

A partire dalla primavera del 1931 si susseguono quattro documenti, i primi due con titoli che si commentano da soli: “Non visitate l’esposizione coloniale” (maggio) e “Primo bilancio dell’esposizione coloniale” (3 luglio). “Al fuoco” inneggia invece alla ripresa delle lotte in Spagna: “A partire dal 10 maggio 1931, a Madrid, Cordova, Siviglia, Bilbao, Alicante, Malaga, Granada, Valenza, Algeciras, San Roque, La Linea, Cadice, Arcos de la Frontera, Huelva, Badajoz, Jerez, Almeria, Murcia, Gijon, Teruel, Santander, La Coruña, Santa Fé, ecc., la folla ha incendiato le chiese, i conventi, le università religiose, distrutto le statue, i quadri che questi edifici contenevano, devastato gli uffici dei giornali cattolici, cacciato tra le urla i preti, i monaci, le suore, che passano in fretta le frontiere. Cinquecento edifici distrutti per cominciare non chiuderanno questo bilancio di fuoco. Opponendo a tutti i roghi una volta innalzati dal clero di Spagna la grande luce materialista delle chiese bruciate, le masse sapranno trovare nei tesori di queste chiese l’oro necessario per armarsi, lottare, e trasformare la Rivoluzione borghese in Rivoluzione proletaria”.

Nel febbraio 1933 i nazisti danno fuoco al Reichstag accusando del rogo i comunisti e dando così un pretesto a Hindenburg per abrogare i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione di Weimar. Il decreto che mette fine alla repubblica prepara il terreno per la vittoria (truccata) dei nazisti, che in marzo ottengono il 44 per cento dei seggi in Parlamento. Per consolidarne il dominio Hindenburg firma un nuovo decreto che autorizza Hitler a legiferare per quattro anni senza il controllo del Reichstag.

L’Associazione degli artisti e scrittori rivoluzionari (AEAR) e i surrealisti sono gli unici gruppi di intellettuali che in Francia cercano di allertare l’opinione pubblica. Nell’appello “Protestate!” essi avvertono che il risultato elettorale in Germania è il prologo di un regresso della civiltà, della messa fuori legge di ogni pensiero che non sia retrogrado, del ritorno al più cupo e feroce antisemitismo da medioevo. L’appello auspica un fronte unico di lavoratori e intellettuali per lottare contro il terrore in Germania e contro il Trattato di Versailles, le cui clausole inique hanno favorito, se non provocato, l’ascesa del nazismo.



L’anno seguente, le giornate dal 6 al 10 febbraio 1934 segnano l’offensiva del fascismo francese. La reazione di Breton e dei suoi amici è immediata: “È la sera stessa del 6 febbraio 1934, cioè tre o quattro ore dopo il putsch fascista di cui alcuni di noi erano stati a osservare il concreto sviluppo, chi sui grandi boulevards, chi nelle vicinanze della Place de la Madeleine, che, dietro mio suggerimento, si stabilì di invitare a riunirsi subito il maggior numero possibile di intellettuali dl tutte le tendenze decisi a far fronte alla situazione. Si trattava di fissare immediatamente le misure di resistenza che potevano essere prospettate. Questa riunione – che doveva durare tutta la notte – si concluse con la redazione, [il 10 febbraio 1934] di un documento intitolato ‘Appello alla lotta’ che scongiurava le organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia di realizzare l’unità d’azione e si pronunciava per lo sciopero generale”7.

Dal primo al secondo dopoguerra i surrealisti sono stati quasi isolati nel denunciare la degenerazione dello Stato Sovietico. Mi basti citare una sola dichiarazione redatta nel 1935. “Limitiamoci a registrare il processo di rapido regresso per cui dopo la patria è la famiglia a uscire indenne dalla rivoluzione russa agonizzante (che ne pensa Gide?). Laggiù non resta altro che restaurare la religione e – perché no? – la proprietà privata perché sia finita con le più belle conquiste del socialismo. A costo di provocare il furore dei loro turiferari, chiediamo se vi sia bisogno di un altro bilancio per giudicare dalle loro opere un regime, in particolare il regime attuale della Russia sovietica e l’onnipossente capo sotto il quale quel regime sta volgendo alla negazione radicale di ciò che dovrebbe essere e di ciò che è stato. A quel regime, a quel capo, non possiamo che significare formalmente la nostra sfiducia”8.
In questo convegno dominato dagli stalinisti – nel quale si tentò perfino di impedire ai surrealisti di leggere la loro relazione – le sole voci di dissenso furono quelle di Waldo Frank, André Malraux, Boris Pasternak, Magdeleine Paz, Charles Plisnier e Gaetano Salvemini.

Nel manifesto “Al tempo che i surrealisti avevano ragione” (1935), Breton e i suoi amici tornando sulla questione della difesa della cultura, affermano: “Il problema non può essere quello della difesa e della conservazione della cultura. La cultura, dicevamo, ci interessa solo nel suo divenire, e questo divenire esige prima di tutto la trasformazione della società mediante la rivoluzione proletaria”9.




Nel 1936 la congiuntura internazionale diventa esplosiva. Il 18 luglio in Spagna il generale fellone Franco si ammutina e aggredisce la Repubblica: è il prologo della resa delle “democrazie” occidentali alla peste bruna. In Francia la vittoria del Fronte popolare in giugno non frena la corsa all’abisso. Lo stesso anno la Renania è rioccupata. Quando l’eroica resistenza spagnola viene tradita dal governo francese del Fronte popolare, sono ancora i surrealisti ad avvertire che l’abbandono della Spagna repubblicana non può essere che il preludio alla realizzazione del piano di egemonia mondiale dei nazifascisti. Essi reclamano una decisa azione prima che sia troppo tardi: “Fronte popolare! Organizza d’urgenza le masse! Costituisci, esercita, arma le milizie proletarie senza le quali non sei che una facciata! È venuto il momento di mettere a profitto il vecchio argomento dei tuoi avversari: l’affermazione concreta della forza è la prima garanzia di sicurezza! (Neutralité? Non-sens, crime et trahison, 20 agosto 1936).

Il 3 settembre 1936 e il 26 gennaio 1937 André Breton prenderà posizione sui primi e sui secondi processi di Mosca. Ne rimase così sconvolto che quindici anni dopo la sua indignazione rimaneva intatta: “Non riesco a spiegarmi come oggi, anche con quel minimo di coscienza che può sussistere, non ci si ribelli dinanzi alla sfida impudente non dico a ogni sentimento di giustizia, ma addirittura al più elementare buon senso, costituita dalla messa in scena di quei processi e dalle motivazioni delle sentenze”10.

Poco più di un anno dopo Breton parte per il Messico per incontrare l’uomo il cui pensiero politico e il cui rigore morale egli ha ammirato e difeso sin dal 1925, e cioè sin dall’inizio del periodo “ragionante” del surrealismo. Gli incontri con Trotsky permisero presto di “giungere a un accordo circa le condizioni che, da un punto di vista rivoluzionario, dovevano essere riservate all’arte e alla poesia, affinché queste partecipassero alla lotta emancipatrice, pur rimanendo interamente libere nelle loro ricerche”11. Questa intesa si espresse in un testo, pubblicato il 25 luglio 1938, con il titolo Per un’arte rivoluzionaria indipendente e si concluse, l’anno seguente, con la fondazione di una ‘Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria indipendente’ (FIARI)”.

È sintomatico che l’ultima presa di posizione dei surrealisti, poco prima dello scoppio della guerra, nel luglio del ‘39, sia una protesta contro l’arresto di tre militanti rivoluzionari, nel quale i surrealisti vedono l’annuncio della soppressione di tutte le libertà. “Stiamo bene attenti! L’incarcerazione di questi tre nostri compagni è solo un piccolo saggio. Se riesce, è la fine anche delle poche libertà che ancora ci restano [...] Invitiamo tutti coloro che non sono stati ancora colpiti da questo ignobile contagio sciovinistico, tutti coloro che osano pensare liberamente, a unirsi a noi per protestare contro gli scellerati decreti-legge che autorizzano lo stato maggiore a far pesare fin da ora la sua dittatura facendo passare per un ‘attentato alla difesa nazionale’, anzi per una operazione spionistica, l’azione di uomini coraggiosi, dell’onestà e della lucidità dei quali rispondiamo noi. C’è di mezzo non la loro libertà, ma la libertà di tutti” (A bas les lettres de cachet” (luglio 1939).




Nel 1941 Breton, rifugiato a Marsiglia in zono non-occupato parte per New York, tornato a Parigi nella primavera del 1946. Il suo primo intervento pubblico – un discorso, il 7 giugno, in difesa di Antonin Artaud al Teatro Sarah Bernhardt – gli dà l’occasione di chiarire il carattere irrisorio di “ogni forma di engagement che stia al di qua di questo triplice e indivisibile obiettivo: trasformare il mondo, cambiare la vita, rifare da cima a fondo l’intelletto”12. L’anno seguente tira altre stoccate contro l’engagement di molti intellettuali, per la maggior parte stalinisti, spesso gli stessi che durante l’occupazione nazista, e prima che il conflitto coinvolgesse l’URSS, incitavano a fraternizzare con il soldato tedesco e a collaborare con il regime di Pétain: “L’ignobile parola impegno [engagement], che è diventata alla moda durante la guerra, trasuda un servilismo che fa orrore alla poesia e all’arte”13.

Lo stesso anno ricorda il concetto base del surrealismo: per trasformare il mondo bisogna prima conoscerlo. E come possono trasformarlo coloro che tradiscono la verità e la bellezza? Breton scrive: “Che aberrazione, che impudenza c’è nel volere ‘trasformare’ un mondo quando si fa così poco caso della necessità di interpretarlo in ciò che ha di più permanente!”14.

La prima dichiarazione collettiva del gruppo va situata nel clima politico dell’immediato dopoguerra, quando, conniventi i comunisti al governo, si abiuravano gli ideali della Resistenza. Le forze del colonialismo francese avevano represso con furore selvaggio le istanze nazionaliste in Algeria (45.000 massacrati in seguito alla repressione di una manifestazione dei braccianti del Setif), e in Madagascar (85.000 morti tra il 1947 e il ‘48). Ora si trattava di condannare il tentativo di ridurre nuovamente a colonia la Repubblica Democratica del Vietnam, la cui indipendenza era stata proclamata da Ho Chi-minh il 29 agosto 1945. Con vigore e lucidità il gruppo riconferma le proprie opzioni rivoluzionarie e internazionaliste, concludendo il loro manifesto di condanna con queste parole, “il surrealismo dichiara di non aver rinunciato a nessuna delle sue rivendicazioni e meno che mai alla volontà di una trasformazione radicale della società. Ma esso sa quanto siano illusori gli appelli alla coscienza, all’intelligenza e persino agli interessi degli uomini, quanto siano facili su questo piano la menzogna e l’errore e quanto le divisioni siano inevitabili: per questo il campo che si è prescelto è al tempo stesso il più ampio e il più profondo, commisurato a una vera fraternità umana. Esso è dunque qualificato per elevare la sua protesta veemente contro l’aggressione imperialista e per rivolgere il suo saluto fraterno a coloro che in questo stesso momento incarnano il divenire della libertà”15.

Questa dichiarazione e le due seguenti (“Rottura inaugurale” e “A cuccia, i piagnoni di dio!”) esplicitano – e il discorso è diretto in particolare alle nuove leve – le direttive fondamentali che hanno caratterizzato la riflessione poetica e ideologica nel periodo tra le due guerre, e cioè: internazionalismo, antistalinismo e anticlericalismo. “Rottura inaugurale” (giugno 1947) ribadisce l’autonomia del pensiero surrealista dai partiti, in primo luogo da quello comunista, e persino dal trotskista, e conclude: “È nella misura in cui chiede alla rivoluzione di inglobare la totalità dell’uomo, di non concepirne la liberazione da un angolo visuale particolare bensì sotto tutti gli aspetti contemporaneamente che il surrealismo si dichiara il solo qualificato a gettare sulla bilancia le forze di cui si è fatto l’indagatore e poi il conduttore meravigliosamente magnetico – dalla donna-bambina allo humour nero, dal caso oggettivo alla volontà del mito. Queste forze hanno come luogo di elezione l’amore incondizionato, sconvolgente e folle che solo permette all’uomo di vivere in tutta la sua ampiezza, di evolvere secondo dimensioni psicologiche nuove.
“Questa impresa è l’impresa specifica del surrealismo. È il suo grande appuntamento con la Storia. Il sogno e la rivoluzione sono fatti per conciliarsi, non per escludersi. Sognare la Rivoluzione non significa rinunciarvi, ma farla doppiamente e senza riserve mentali. Sventare l’invivibile non significa fuggire la vita, ma precipitarvisi totalmente e senza ritorno. “IL SURREALISMO È QUELLO CHE SARÀ”16.



In Arcane 1717, uno scritto redatto durante gli anni dell’ultimo conflitto mondiale, Breton per la prima volta esprime dubbi sulla via proposta dai marxisti-leninisti per giungere alla liberazione dell’uomo. Egli è scosso dalla sterile esperienza di quindici anni di lotta accanto alla sinistra, sia pure non stalinista, ma comunque marxista. Questi anni gli hanno fatto constatare quanto i militanti, non solo di questa sinistra, siano sordi alle rivendicazioni che non siano sociali. L’unico uomo politico – Trotsky – che aveva capito il carattere insopprimibile delle rivendicazioni dell’uomo come individuo, e non come un’entità astratta indissolubilmente legata alla massa, era stato assassinato quattro anni prima.

Breton torna allora al suo primo amore, torna alla grande corrente del pensiero libertario, alle fonti, al socialismo utopico di Fourier18. Rievoca l’emozione che provò, a diciassette anni, all’apparire delle bandiere nere in una dimostrazione popolare: “Ritroverò sempre per la bandiera rossa, spoglia di sigle e di emblemi, lo sguardo che ho avuto a diciassette anni, quando, nel corso di una manifestazione popolare, alla vigilia dell’altra guerra, l’ho vista dispiegarsi a migliaia nel cielo basso di Pré Saint-Gervais. E tuttavia – sento che, razionalmente non posso evitarlo – continuerò a fremere ancora di più evocando il momento in cui, quel mare fiammeggiante in punti poco numerosi e ben circoscritti, è stato forato dal volo delle bandiere nere”19.

Poi il suo ricordo va ancora più lontano, alla sua infanzia: “Non dimenticherò mai il sollievo, l’esaltazione e l’intima soddisfazione suscitata in me, una delle prime volte in cui da bambino fui accompagnato in un cimitero – fra tanti monumenti funebri deprimenti o ridicoli – dalla scoperta di una semplice lastra di granito dov’era inciso in lettere maiuscole rosse il superbo motto: NÉ DIO NÉ PADRONE. La poesia e l’arte avranno sempre un predilezione per tutto ciò che trasfigura l’uomo in questa ingiunzione disperata, irriducibile che, di quando come una sfida derisoria egli rivolge alla vita. Perché al di sopra dell’arte e della poesia, lo si voglia o no, sventola una bandiera rossa e nera di volta in volta”20.

“A cuccia, i piagnoni di dio!” (giugno 1948) denuncia i vari tentativi di strumentalizzare, a profitto del cristianesimo, il pensiero di Rimbaud, di Lautréamont e persino di Sade. Vi si osserva che “i cristiani d’oggi dispongono di argomenti presi in immondezzai teologici abbastanza eterocliti da far fronte alle circostanze più diverse. In queste condizioni, non essendovi la benché minima costanza nel linguaggio da essi impiegato, a causa della loro fondamentale duplicità, ogni discussione è impossibile. Del resto lo è sempre stata. E così, anche se l’idea di dio, considerata in quanto tale, non riuscirebbe che a strapparci degli sbadigli di noia, poiché le circostanze in cui questa idea interviene sono tali da suscitare la nostra collera, gli esegeti non siano sorpresi di vederci ricorrere ancora alle ‘grossolanità’ dell’anticlericalismo elementare dove il Merde à dieu iscritto sugli edifici del culto a Charleville resta l’esempio tipico. Il fatto che i politici tra loro rinuncino all’anatema non basta perché noi rinunciamo a quelle che chiamano bestemmie, apostrofi evidentemente prive ai nostri occhi di ogni obiettivo sul piano divino, ma che continuano a esprimere la nostra irriducibile avversione verso qualunque essere inginocchiato”21.

Dalla fine degli anni Quaranta in poi le presi di posizioni surrealiste arrivano sempre puntuali per condannare ogni involuzione reazionaria. Ma per concludere vorrei ricordare la collaborazione dei surrealisti con Le Libertaire – settimanale della Federazione anarchica in Francia – che, a partire da 22 maggio del 1947 inizia ad ospitare testi surrealisti pubblicando la prima dichiarazione collettiva del dopoguerra, “Libertà è una parola vietnamita”. Tra il 17 giugno e il 20 novembre 1952 uscirono altri trentuno testi tra i quali due discorsi di Breton: quello pronunciato alla Mutualité (21 ottobre 1949), dove, dopo aver ribadito la profonda affinità tra surrealismo e anarchia. viene commentato il programma del movimento “Cittadino del mondo” lanciato da Gary Davis; e quello a Wagram (6 marzo 1952) in difesa dei sindacalisti condannati a morte da Franco.

Con la “Dichiarazione preliminare” (12 ottobre 1951) iniziava, sotto forma di “Billets surréalistes”, la collaborazione regolare al già citato Le Libertaire: “Surrealisti, noi non abbiamo mai cessato di riservare alla trinità Stato-lavoro-religione un’esecrazione che ci ha spesso condotti a incontrarci con i compagni della Fédération anarchiste. Questo accostamento ci conduce oggi a esprimerci sul Libertaire. Ce ne rallegriamo tanto più in quanto questa collaborazione ci consentirà, pensiamo, di definire alcune delle grandi linee di forza comuni a tutti gli spiriti rivoluzionari […]




Questa sovversione, il surrealismo è stato e rimane il solo a intraprenderla sul terreno sensibile che gli è proprio. Il suo sviluppo, la sua penetrazione negli spiriti hanno messo in evidenza l’insuccesso di tutte le forme di espressione tradizionali e hanno dimostrato che esse erano inadeguate alla manifestazione di una rivolta cosciente dell’artista contro le condizioni materiali e morali imposte all’uomo. La lotta per la sostituzione delle strutture sociali e l’attività profusa dal surrealismo per trasformare le strutture mentali, lungi dall’escludersi, sono complementari. La loro unione dovrà affrettare l’avvento di un’èra libera da ogni gerarchia e da ogni costrizione”22.
Oggi, come ieri, il movimento surrealista continua la stessa lotta su una scala internazionale più estesa che mai. Si veda in proposito il mio Il Surrealismo, ieri e oggi / Storia, filosofia, politica, in corso di stampa dove do la parola a oltre 40 militanti sparsi in Europa, nell’America del Nord e del Sud, in Africa, in Asia e in Australia dove il surrealismo è tutt’ora, per dirla con un espressione inglese, alive and kicking, e cioè, vivo e scalciante.

1 Breton, Entretiens 1913-1952 (interviste radiofoniche con André Parinaud), trad. Livio Maitan e Tristan Sauvage [Arturo Schwarz], Storia del Surrealismo, Schwarz Editore, Milano 1960, p. 197
2 “Discorso al Congresso degli scrittori”, giugno 1935 in Manifesti del Surrealismo, Einaudi, Torino 1966, p. 172.
3 La Révolution Surréaliste (Paris), n. 2, 15 gennaio 1925, p. 18, ripreso in André Breton, Storia del surrealismo 1919-1945, cit. p. 211
4 “La claire tour”, in Le Libertaire (Paris), 11 gennaio 1952, p. 2, ripreso in La clé des champs, Editions du Sagittaire, Paris 1953, pp. 272-73.
5 Seconde manifeste du surréalisme” (1930), in Breton, Manifesti del surrealismo, cit., p. 90
6 ibid, p. 91
7 Breton, Storia del surrealismo, cit. pp. 157-58
8 Breton, “Posizione politica del Surrealismo”, 1935 in Manifesti del Surrealismo, cit., p. 183-84
9 “Du temps que les surréalistes avaient raison” (1935), ibid., p. 173.
10 Breton, Storia del Surrealismo, cit., p. 161
11 idem, p. 172
12 Breton, “Hommage à Antonin Artaud” (7 giugno 1946), in La clé des champs, cit., p. 84.
13 Breton, “Seconde arche”, ibid., p. 109. Vedi anche, su questo argomento, Benjamin Péret, Le déshonneur des poètes (1945), Pauvert, Paris 1965, ripreso qui quasi integralmente alle pp. 209-11.
14 Breton, “Signe ascendant” (30 dicembre 1947), in La clé des champs, cit., p. 113
15 “Liberté est un mot vietnamien” (aprile 1947), in Jean-Louis Bédouin, Storia del Surrealismo, dal 1945 ai nostri giorni, Schwarz Editore, 1960, pp. 253-55.
16 “Rupture inaugurale” (21 giugno 1947), ibid., p. 263.
17 Breton, Arcane 17 (1944), Sagittaire, Paris 1947.
18 Breton, Ode à Charles Fourier, Fontaine, Paris 1947.
19 Breton, Arcane 17, cit., p. 20.
20 Ibid., p. 21.
21 “A la niche les glapisseurs de dieu” (14 giugno 1948), in Bédouin, Storia del Surrealismo, dal 1945 ai nostri giorni, cit., « Documenti » p. 269.
22 “Déclaration préalable”, in Le Libertaire (Paris), 12 ottobre 1951, ripreso in Arturo Schwarz, Breton Trotskij e l’anarchia, Multhipla, Milano 1980 (I ed., Savelli, Roma 1974), pp. 177-78. 
Giugno 2013




A PROPOSITO DI UN PERSISTENTE FALSO STORICO
 
Nel Novecento, critici e storici dell’arte accolsero come una rivoluzionaria novità la seguente poesia che Tristan Tzara pubblicò nel 1921 nel Manifeste sur l’amour faible et sur l’amour amère:
  
Per fare un poema dadaista

Prendete un giornale

Prendete delle forbici

Scegliete in questo giornale un articolo che abbia la lunghezza che intendete dare al vostro poema

Ritagliate l’articolo

Ritagliate poi con cura le parole che compongono questo articolo e mettetele in un sacco

Agitate dolcemente

Estraete poi i ritagli uno dopo l’altro nell’ordine che hanno lasciato il sacco

Copiate coscienziosamente

Il poema vi assomiglierà

Ed ecco che siete uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità incantevole anche se non capita dal volgo

Senza che sia necessario tornare a Platone che nel Simposio riconosce che vi è “una singola scienza che è la scienza della bellezza ovunque”, sin dall’Settecento il poeta Novalis anticipò lo spirito che mosse Tzara, mentre, Lewis Carroll propose, nel 1860, esattamente la stessa ricetta per comporre una poesia nelle 18 strofe del suo Poeta Fit, Non Nascitur del quale mi limito a tradurne un paio:
Dapprima scrivi un periodo

E poi lo tagli a pezzetti;

Poi mescola i pezzi e li tiri fuori

Proprio come capitano:

L’ordine delle frasi

Non fa nessuna differenza



Allora, se siete stati emozionanti

Ricordate quello che dico,

Che le qualità astratte iniziano

Sempre con la maiuscola:

Il Vero, il Buono, il Bello –

Queste sono le cose che rendono!1

Ma, a proposito del ruolo del caso quale fattore di un testo poetico o di un opera d’arte – e di conseguenza, della valenza estetica di un oggetto comune – ricordiamo alcuni precedenti oltremodo significativi. Senza che sia necessario tornare a Platone – che nel Simposio riconosce che vi è “una singola scienza che è la scienza della bellezza ovunque” – per tornare al nostro tempo, iniziamo con Novalis e, a quando il sublime romantico intuisce che, “La poesia è il reale, il reale veramente assoluto” aggiungendo, “Ci sono momenti nei quali perfino sillabari e dizionari ci sembrano poetici” e poi, come per concludere, “Regno del poeta sia il mondo collocato nel centro focale dl suo tempo” 2. In altri termini, viene riconosciuto che la bellezza può essere celata anche nell’oggetto più banale e/o essere il prodotto del puro caso. In proposito Lautréamont, fra gli altri, scrive, “Bello come l’incontro casuale sul tavolo anatomico di una macchina da cucire con un ombrello”3. Anche Baudelaire e Rimbaud battono lo stesso tasto. Per Baudelaire non vi è nulla, “di più affascinante, di più fertile e di più sicuramente eccitante del luogo comune” e aggiunge, “Immensa profondità di pensiero nei comuni modi di dire”4. Di rimando, Rimbaud ha spiegato, “Il vecchio materiale della poesia ha avuto una parte importante nella mia alchimia della parola”, precisando, “Io credevo in tutti gli incantesimi: amavo quadri idioti, stipiti delle porte, scene teatrali, insegne dei tendoni dei saltimbanchi, insegne dei negozi, oleografie popolari, ritornelli idioti, ritmi ingenui”5. Apollinaire chiede, “Leggete volantini, cataloghi, cartelli cantando a voce spiegata/ Questa è la poesia stamattina, e per la prosa ci sono i giornali”6.

Per arrivare ai nostri contemporanei, nel 1913, Marcel Duchamp compose Erratum musical, uno spartito per tre voci (la sua e quelle delle sorelle Yvonne e Magdeleine) usando il metodo di Lewis Carroll ma sostituendo alle parole le note musicali che estraeva da un cappello7. Ribemont-Dessaignes seguì subito il suo esempio componendo Le Pas de la chicorée frisée, un breve pezzo per il piano dove, come spiega, usò “una specie di roulette tascabile”8. A sua volta Breton, compose nel 1918 – tre anni prima della ricetta di Tzara – Le Corset mystère – una poesia ottenuta “con l’accozzaglia più gratuita (osserviamo, se volete la sintassi) di titoli e frammenti di titoli ritagliati dai giornali”9. La poesia inviata all’amico Jacques Vaché, che mi ha colmato di gioia provoco la seguente lettera datata 19 dicembre1918, “Ho ricevuto la vostra lettera in molteplici ritagli incollati che mi hanno colmato di gioia” qualche giorno dopo, il 26 novembre 1918, cita la poesia di Breton, Blanche Acétylène, con un semplice, ma evocativo, punto esclamativo10.

1The Complete Works of Lewis Carroll, The Nonesuch Press, London 1939, pp.790-91
2Novalis / Frammenti [1795-1801], a cura di Erwin Pocar, prefazione di Enzo Paci, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1948, frammenti n° 1186, p. 303 e 1220, p. 310, 1221, p. 310
3 Comte de Lautréamont, Œuvres Complètes, GLM, Paris 1938; trad it. Einaudi , Torino 1967, p. 257
4 Charles Baudelaire, Œuvres Complètes, Gallimard, Paris1956, pp. 761-62 e 1189-90
5Arthur Rimbaud, Œuvres Complètes, Gallimard, Paris 1963; trad. it. Feltrinelli, Milano, pp. 234, 232
6 Guillaume Apollinaire, Œuvres poétiques, Gallimard, Paris 1959; trad. it,: Tutta l’opera completa, Guanda, Parma 1967, p. 39
7 Arturo Schwarz, The Complete Works of Marcel Duchamp, Thames & Hudson, Londra 1969; trad. it. La Sposa messa a nudo in Marcel Duchamp, anche, Einaudi, Torino 1944, p. 44
8 Georges Ribemont Dessaignes, Déjà jadis, R. Juillard, Parigi 1958, p. 276
9 André Breton, Manifeste du Surréalisme, Éditions du Sagittaire, Paris 1924; trad. it. in Manifesti del Surrealismo, Einaudi, Torino 1966, p. 44
10 Lettres de guerre de Jacques Vaché, Au Sans Pareil, Paris 1919, p. 26, 27




 
RENZO  MARGONARI: SURREALISTA PER NATURA  



Pittore e saggista. “Ho imparato a disegnare prima che a scrivere, molto prima, verso i tre anni”, racconta Margonari. Venendo ai giorni nostri, egli precisa ancora, “Ancora oggi, se mi trovo in difficoltà nel descrivere un oggetto o un concetto, mi spiego disegnando”. Inutile ricordare che il disegno è la chiave d’accesso più diretta alla propria realtà interiore e quindi è la pratica più affine alla scrittura automatica. A sua volta questa permette di esprimere, come ricorda Breton nel primo Manifesto del Surrealismo, “sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo […] il dettato del pensiero in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”. Il disegno permette così di fissare il reale nella sua fisicità più immediata e primordiale, riuscendo a coglierne l’essenza poetica.
Rimbaud esigeva che l’artista diventasse un veggente. Per esserlo l’artista deve sprofondare in uno stato ipnagogico per raggiungere la propria fonte segreta in fondo al pozzo dell’inconscio. Scrivendo su questo tema e su quello della scrittura automatica, Margonari ricorda anche che, già all’età di tre anni, disegnava, “assorto in una specie di trance medianica, a volte per l’intera giornata”. Forse è per questo che Margonari mi ha confessato che ha sempre tentato di mantenere il legame con il mondo dell’infanzia. Sia Arp, sia Brancusi, hanno sottolineato, proprio attraverso le loro opere, quanto fosse necessario e vitale questo legame. Deleuze ha anzi postulato che “l’arte permette di ridiventare bambini”, in altre parole, di raggiungere lo stato di grazia del puer aeternus, del filius sapientiae.
Se Margonari è “surrealista per natura” come si autodefinisce è perché le opzioni fondamentali del Surrealismo conservano tuttora la loro carica eversiva dato che esprimono le aspirazioni più profonde dell’uomo, aspirazioni che non cambiano ogni venti anni né ogni venti secoli. Vi sono delle costanti dello spirito umano che sono inestinguibili. Nel 1942, Breton spiegava agli studenti dell’Università di Yale che il “Surrealismo avrebbe avuto fine solo con la nascita di un movimento ancora più emancipatore al quale, del resto, i surrealisti avrebbero aderito immediatamente”. Ricordo una riflessione che mi fece l’amico anarchico Maurice Joyeux, editore del Libertaire, “Il Surrealismo è inalienabile. Quello che cambia non è lo spirito surrealista ma il clima sociale e i mezzi per metterlo in pratica”.
Margonari ha sempre fieramente rivendicato di essere figlio di “genitori anarco-socialisti, Wanda e Alfredo” dei quali condivide le idee. Per il surrealista l’esplorazione del proprio inconscio significa dare via libera al suo dettato senza preoccuparsi di null’altro che ascoltarne e trascriverne fedelmente la voce. In questo senso si potrebbe dire che Margonari non è un artista che dipinge; Margonari è dipinto: davanti all’opera egli obbedirà a pulsioni a lui ignote, e sarà il primo a stupirsene, come scrive egli stesso, “Il pittore dovrebbe essere sorpreso dai propri quadri come un ladro colto con le mani nel sacco”, e ancora: “l’artista deve essere spettatore del proprio lavoro…aspetto che la materia m’interroghi" (catalogo della mostra a Nonantola, novembre 1996-gennaio 1997, p. n.n., il corsivo è mio). Il titolo di un suo  quadro del 1981, Pitturato e dipinto, lo conferma. Margonari non cerca mai l’immagine, ma è l’immagine che lo trova. Nel creare un’opera, più che essere ispirato egli ispira, qualità questa, diceva Paul Éluard, che contraddistingue ogni opera capace di suscitare emozioni. Il nostro artista non perde il suo tempo a guardare e riflettere una realtà esterna -comunque illusoria- ma ama vagabondare nel labirinto senza inizio e senza fine del proprio immaginario, complesso come pochi. Egli si compiace di rovesciare l’assunto hegeliano “solo il reale è verità”, affermando sovversivamente “solo l’irreale è verità”. Freud ricordava che la psiche umana è come un iceberg, il visibile (il conscio) è soltanto la decima parte che emerge, mentre i nove decimi sott’acqua rimangano invisibili. Margonari si è assunto il compito che Paul Klee assegnava all’artista: “rendere visibile l’invisibile”. 



Margonari allestisce la sua prima mostra personale nel 1959, a Mantova. Nel 1960, inizia a lavorare come aiutante per alcuni artisti dell’area avanguardistica milanese e romana, e a collaborare nel settore della critica d’arte. Compie poi una serie di viaggi in Europa, Asia, Africa. Già nel 1961 è segnalata la sua partecipazione a importanti mostre collettive. Nel 1966 è tra gli organizzatori della Prima Mostra Mondiale di Poesia Visiva alla Casa del Mantegna di Mantova, e l’anno successivo cura per Franco Solmi, a Bologna, l’organizzazione della mostra “Il Presente Contestato”, una delle prime rassegne intemazionali a tesi critica d’arte contemporanea in Italia. Dopo l’esordio in campo artistico nell’ambito del nuclearismo milanese e dell’informale segnico (ispirandosi soprattutto a Scanavino), Margonari approda a una figurazione fantastico-espressionista, realizzando diverse opere dedicate alla liberazione dell’Algeria e altre appartenenti alla serie dei “vescovi”. Conosce i pittori Sebastian Matta,  Maurice Henry, Manina e Carlos Revilla, con i quali instaura uno stretto legame d’amicizia. Entra in contatto anche con Max Ernst e Marcel Jean, per i quali scrive note di presentazione alle mostre personali che questi artisti allestiscono in Italia. Contemporaneamente si accosta all’ambiente dell’avanguardia letteraria e diventando amico di Giorgio Celli, Adriano Spatola, Cesare Vivaldi.
Margonari collabora con testi e disegni a vari periodici para-surrealisti: tra i quali: Phases di Édouard Jaguer, nel 1954; Brumes Blondes (Amsterdam) di Her de Vries, nel 1974; La Tortue-Lièvre (Montreal), nel 1999; Infosurr (Paris), nel 1996, nel 1970 partecipa alla mostra Nuovi aspetti del Surrealismo (Angolare, Galleria d’arte contemporanea, Milano). Per ulteriori ragguagli rimando al mio “Margonari, infaticabile esploratore di un mondo nuovo” in Renzo Margonari alchimie dell’inconscio, Casa del Mantegna, 2003.