L’ANNIVERSARIO
Nell’estate
del 2013 “Odissea” cartacea compiva 10 anni di vita. Il 27 Settembre di quello stesso anno, alla presenza di
tanti amici e collaboratori, in una Sala del Grechetto della
Biblioteca Sormani di Milano bella piena, un incontro pubblico tirava le
somme di quella esperienza, e decideva di passare ad una nuova fase: dal
cartaceo alla Rete; da Gutenberg a Bill Gates, come avevamo titolato la prima
pagina dell’ultimo numero, con la lettera ai lettori che abbiamo poi
riprodotta sulla prima pagina dell’edizione on line. In quell’incontro, presero la
parola diversi amici: dal filosofo Fulvio Papi al filosofo Gabriele Scaramuzza;
dal saggista e scrittore Giovanni Bianchi al saggista e critico d’arte Giorgio
Colombo, dal filosofo Roberta De Monticelli al sociologo Nando Dalla Chiesa.
Tante anche le testimonianze di affetto, i messaggi, le presenze qualificate in quella
Sala.
Dalla Chiesa, che intervenne subito dopo il direttore
Angelo Gaccione, accolse la decisione di quel passaggio con molto entusiasmo, e
predisse un’espansione esponenziale di contatti e di lettori a seguito dell’immissione in
Rete del giornale. Cosa che è davvero e fulmineamente avvenuta, sia per la disponibilità di
“Odissea” a sostenere tutte le battaglie civili e culturali possibili come aveva fatto con
l’edizione cartacea, sia per la sua autorevolezza morale che ne fa un punto di riferimento e di vicinanza
ideale per gli strati sociali e culturali più diversi. Ora siamo qui a festeggiare un altro
anniversario: il primo di “Odissea” in Rete, testata rossa come il suo appassionato rosso cuore. In
questo primo anno gli scritti ospitati sono stati tantissimi (solo la prima
pagina ne ha ospitati circa 500) e i contatti sono diventati decine di
migliaia. Probabilmente sono cambiati i lettori, altri se ne sono aggiunti e
sicuramente il mezzo virtuale della Rete è molto diverso dallo strumento
cartaceo. In più, concepito come strumento di Rete, “Odissea” ha finito per svolgere, accanto alla
funzione di analisi e riflessione a più lungo termine che aveva già, anche una
funzione tipica del quotidiano. Da questo punto di vista è incredibile la
quantità di materiale che arriva dalla società civile, dai movimenti sociali e
dagli ambienti culturali. “Odissea” ha sempre sostenuto questa ricchezza e
questa pluralità e continuerà a farlo. Sarà sempre dentro la conflittualità
dialettica, fuori dagli intrighi di potere che combatterà, e in prima fila per la difesa dell’etica pubblica e degli
interessi collettivi. Più di un amico ha segnalato che fra i meriti di
“Odissea”, c’è quello di aver messo al centro della sua azione, la moralità
pubblica; per noi è un motivo di orgoglio e di onore, soprattutto in anni di
degenerazione etica della politica. È un compito che ci siamo assunti e a cui
non verremo meno. “Odissea” continuerà ad essere la coscienza critica e morale
della Nazione, ai lettori chiediamo di essere solidali e di difendere assieme a
noi queste ragioni.
Angelo Gaccione
La Bacheca della Biblioteca Sormani con la locandina del convegno per il decennale di Odissea cartaceo il 27 settembre 2013 |
A sin. Max Luciani, a des. Angelo Gaccione |
CENTO AUTORI PER ODISSEA
I primi 37 interventi (come da elenco qui riportato)
sono stati inseriti nella Rubrica
"Fuori Luogo” che risulta completa.
Anche la Rubrica "Campi Elisi" che contiene 48 interventi
di altrettanti autori è oramai completa.
Tutti i successivi interventi saranno pubblicati nella Rubrica
"La Carboneria" dove i lettori possono seguitare a leggerli.
sono stati inseriti nella Rubrica
"Fuori Luogo” che risulta completa.
Anche la Rubrica "Campi Elisi" che contiene 48 interventi
di altrettanti autori è oramai completa.
Tutti i successivi interventi saranno pubblicati nella Rubrica
"La Carboneria" dove i lettori possono seguitare a leggerli.
Elenco degli autori inseriti nella Rubrica "Fuori Luogo".
1.Fulvio Papi
2.Morando
Morandini
3.Arturo Schwarz
4.Giuseppe Bonura
5.Tomaso Kemeny
6.Laura Margherita
Volante
7.Pier Luigi
Amietta
8.Franco Manzoni
9.Don Luigi Ciotti
10.Giulio Stocchi
11.Attilio Mangano
12.Fabio Minazzi
13.Adamo Calabrese
14.Franco
Dionesalvi
15.Adele Desideri
16.Stefano
Raimondi
17.Dino Ignani
18.Adam Vaccaro
19.Paolo Maria Di
Stefano
20.Dario
Pericolosi
21.Maria Carla
Baroni
22.Livia Corona
23.Rinaldo Caddeo
24.Meeten Nasr
25.Annalisa
Bellerio
26.Lisa Albertini
27.Fabiano
Braccini
28.Ornella
Ferrerio
29.Graziella
Poluzzi
30.Tiziano Rovelli
31.Leonardo Nobili
32.Alberto
Casiraghy
33.Giuseppe De
Vincenti
34.Angela
Passarello
35.Roberto Carusi
36.Maria Gabriella
Carbonetto
37.Maria Cristina
Spigaglia
Elenco degli autori inseriti nella Rubrica "Campi Elisi".
38.Emilio Molinari
39.Gabriele
Scaramuzza
40.Emilio Renzi
41.Giorgio Colombo
42.Lidia Sella
43.Cesare Vergati
44.Ottavio Rossani
45.Giuseppe Denti
46.Luca Marchesini
47.Cataldo Russo
48.Francesco
Piscitello
49.Franco Esposito
50.Claudia Azzola
51.Francesca
Romana Di Biagio
52.Giovanni
Bianchi
53.padre Alex
Zanotelli
54.Maurizio
Meschia
55.Roberto Marelli
56.Marilena Vita
57.Gilberto Finzi
58.Mauro Della
Porta Raffo
59.Luigi Caroli
60.Anita Guarino
Sanesi
61.Renato Seregni
62.Raffaele Talarico
63.Pino Corbo
64.Antonio Lubrano
65.Silvana Borutti
66.Michela
Beatrice Ferri
67.Valerio
Fantinel
68.Tiziana Canfori
69.Gilberto Isella
70.Alessandro
Zaccuri
71.Alice Cappagli
72.Luigi Tasso
73.Felice Carlo
Besostri
74.Donatella
Bisutti
75.Gio Ferri
76.Giacomo
Guidetti
77.Barabara
Gabotto
78.Lelio Scanavini
79.Leandro Fossi
80.Mariella De
Santis
81.Alessandra
Paganardi
82.Tiziano Rossi
83.Vittorio Sedini
84.Carlo
Cipparrone
85.Edoardo Water Porzio
85.Edoardo Water Porzio
ALESSANDRO ZACCURI
Alessandro Zaccuri |
Il sugo di tutta la storia
Milano
tra cibo e letteratura
Milano
e l’Expo, l’Expo e il cibo, Milano e il cibo. È una concatenazione che invita
alla prudenza, almeno per quanto riguarda i precedenti letterari. Se infatti ci
rifacciamo alla “storia milanese” per eccellenza, e cioè I Promessi Sposi manzoniani, ci accorgiamo di quanta ambiguità e di
quali insidie si carichi il cibo non appena ci si sposta all’interno delle mura
cittadine. Basta seguire, per questo, le peregrinazioni di Renzo, il cui primo
ingresso in Milano coincide appunto con lo spettacolo impressionante
dell’assalto ai forni. L’istantanea che gli si presenta, con quelle “strisce
bianche e soffici, come di neve” che sono in realtà le tracce della farina depredata,
lo induce a un fraintendimento non estraneo, a sua volta, all’immagine che
Milano ha dato di sé nei secoli. L’equivoco della “grand’abbondanza”, che
subito l’ingenuo Renzo rielabora in un complotto ordito ai danni dei campagnoli
(ogni teorema cospiratorio è, del resto, un’attestazione di ingenuità), richiama
alla mente un altro classico urbano, il De
magnalibus Mediolani in cui, all’altezza del 1288, Bonvesin da la Riva non
si risparmia in iperboli pur di affermare la grandezza, lo splendore e la ricchezza
della città.
Illuminante,
in questo, l’intero capitolo quarto, dove il tema della copia, ossia dell’abbondanza, assume caratteri addirittura
ossessivi. Il paragrafo consacrato ai mulini, nella fattispecie, contiene una
notazione che, sia pure originata dalle consuetudini della retorica medievale,
non può non colpire la sensibilità moderna. I cani dei milanesi, sostiene Bonvesin,
mangiano da soli più pane di quanto ne sia consumato in altre città da uomini e
donne messi insieme (ab utriusque sexus
indigenis). Nei Promessi Sposi accade
qualcosa di simile, nel senso che la folla in assedio sotto la casa del vicario
di provvisione ha ormai perso quasi del tutto i tratti caratteristici dell’umanità
e si costituisce in organismo autonomo, più animale che razionale.
Anche il seguito della prima
avventura milanese di Renzo, del resto, riguarda il cibo, non tanto nella sua
dimensione di immediata disponibilità materiale, ma di occasione e condivisione
comunitaria. La “piccola polenta bigia, di gran saraceno” che al paese aveva
fatto la sua apparizione sul tavolo di Tonio mentre stava per cominciare la
notte degli imbrogli bastava, da sola, a disegnare i contorni di un’intimità domestica,
ribadita dalla visione incantata della pietanza come “piccola luna”. Lo stufato
che Renzo trangugia all’Osteria della Luna Piena è un boccone dal ben diverso
significato simbolico: qui, nel labirinto urbano, la comunità è dissolta,
sostituita o dall’impersonalità della folla (come nell’assalto ai forni) o dall’attenzione
capziosa della delazione e del tradimento.
A. Zaccuri |
Contribuisce a mettere nei guai
Renzo il molto vino tracannato all’osteria “per bagnar le labbra” e capace,
invece, di sciogliergli fin troppo la lingua. E anche questa, dopo quella tra
la polenta di Tonio e il pane trafugato, è un’analogia rivelatrice. Quando,
alla fine delle sue peripezie, Renzo tornerà a Pescarenico sarà proprio la sua
vigna a dargli benvenuto, ma devastata dagli stessi compaesani e ridotta a una
“marmaglia di piante”, a un “guazzabuglio di steli” da cui è impossibile
ricavare qualsiasi alimento. Ancora Bonvesin, ancora il capitolo quarto del De magnalibus Mediolani: da noi, scrive
il frate, le mosche succhiano tanto vino quanto altrove ne finisce nelle
cantine. La città è il luogo dell’abbondanza incontrollata, è la mercificazione
vanagloriosa di beni e vettovaglie, è la sede dello spreco e del saccheggio. Tornato
a casa, è come se Renzo ritrovasse la vigna contaminata da questa insensatezza.
Ripercorrere la strada al
contrario, restituendo al pane e al vino il significato sacrale che il cibo
sembra avere perduto, è la vera missione che la Milano dell’Expo dovrebbe
cercare di portare a compimento. “Il sugo di tutta la storia”, per dirla ancora
una volta con Manzoni. E il sugo, non per niente, è qualcosa che si mangia.
EMILIO MOLINARI
Emilio Molinari |
Rifacciamo
il punto.
Come si può
parlare di acqua mentre ogni giorno va in scena la sofferenza della
disoccupazione e l'impotenza del sistema a darle una risposta?
Il
destino dell'acqua non interessa e quando se ne parla gli argomenti sono: la
tariffa, il ruolo dell'Autority dell'energia che la decide e che di fatto ha
tolto un altro po' di sovranità agli enti locali e qualcuno accenna anche al
referendum tradito.
Eppure
oggi, e non in un lontano futuro, è in gioco la mercificazione globale
dell'acqua del pianeta: una prospettiva che cambierà ogni rapporto tra
l'umanità e i poteri reali.
Sui
beni comuni essenziali alla vita: l'acqua, la terra, il cibo e l'energia, si
gioca il destino dei popoli. La pace e la sovranità di tutte le istituzioni (stati,
enti locali, UE stessa e le Costituzioni) che tenderà a trasferirsi sempre più
ad organismi privati, lobbisti e transnazionali.
La
crisi è un ricatto che zittisce, una clave che distrugge ogni idea di pubblico. Piega così la
resistenza dei cittadini, dei lavoratori e di quanto resta della moribonda politica.
Ridare
vigore alla narrazione universale dell'acqua è riprendere il filo di un
pensiero, è parlare di nuovo alla gente dei grandi diritti negati.
I
ricercatori universitari: Chiara Carrozza ed Emanuele Fantini hanno
scritto, che le motivazioni prevalenti nel voto di 27 milioni di persone nei
referendum, non sono state meramente economiche. Sono state bensì il
diritto umano, il bene comune e i pericoli che corre l'umanità se consegna
ai privati l'acqua. Nel referendum abbiamo toccato le corde solidali della
gente, abbiamo evocato il senso della vita, della spiritualità dell'acqua e per
i credenti, il grande paradigma della “custodia del creato”.
Questi
argomenti hanno sconfitto le tesi dominanti degli economisti senza anima della
Bocconi: sull'incapacità del pubblico, sull'efficacia, l'efficienza e
l'economicità del mercato e del privato.
Tesi
sconfitte e riproposte oggi nei piani europei e nei trattati internazionali, su
scala ancora più ampia e più globale:
-Il
trattato USA /UE (TTIT);
-Il
Blueprint della commissione europea.
In
questi documenti si afferma che siamo nel pieno di una crisi idrica (meglio
definirla disastro idrico, la crisi da l'idea di un qualcosa da cui si può uscire
con dei correttivi).
Un
paradosso. Dopo aver occultato il disastro per tanti anni, gli autori del
disastro diventano i profeti di sventura dell'acqua e si candidano a dare
soluzioni.
Questo
fanno l'ONU, l'UE, gli USA, la Banca Mondiale, il FMI, ma soprattutto le lobby
multinazionali come Il Consiglio Mondiale dell'acqua controllato da Suez
e Veolia, il CEO Water Mandate controllato da 50 multinazionali dei sistemi idrici,
dell'agroalimentare, della energia, della grande distribuzione, il Water
end Food for live della Nestlè (alla quale in EXPO viene data la piazzetta
tematica dell'acqua), il Barilla center for food end nutrition,
(che in EXPO si candida a lanciare il Protocollo di Milano sul cibo). Si
assiste al ribaltamento d'ogni ruolo: ora sono le multinazionali che dettano
l'agenda e le istituzioni che devono legiferare in tal senso.
Il
disastro idrico
Il
rapporto dell'intelligence USA del 2011, afferma che a partire dal 2022, si
assisterà al diffondersi di conflitti e di guerre idriche. Si parla di un
Mediterraneo in fiamme, oltre che per il petrolio anche per l'acqua e si dice:
“sono prospettive che potrebbero danneggiare gli interessi degli USA e delle
sue imprese”.
Il
Blueprint dell'UE parla dello stato delle risorse idriche europee: 1/5 del
territorio a rischio di carenza d'acqua, il 57% dei fiumi in pessimo stato e di
un peggioramento a partire dal 2030 e
che il 70% della popolazione vivrà nelle città con il conseguente problema
dell'accesso ai servizi essenziali.
E'
quanto il Movimento dell'acqua ha da sempre sostenuto, ma non dalla
consapevolezza di dover cambiare l'idea di crescita, ma solo da come assicurare
acqua alle proprie imprese.
Da
qui si dilata il concetto di monetizzazione a tutta l'acqua, della sua gestione
e della sua proprietà.
Spariscono
dal vocabolario politico/ legislativo le nozioni di diritto umano e di
naturalità delle fonti idriche.
Si
afferma l'ineluttabilità di certi processi:
-la
finanziarizzazione globale della risorsa naturale;
-la
perdita della sovranità della politica, degli stati, delle comunità locali,
della stessa Europa verso i poteri transnazionali attraverso i trattati;
-l'annullamento
della partecipazione e delle lotte dei cittadini, il valore dei referendum;
-il
water grabbin come nuova “corsa all'oro”
-il
modello cileno (proprio così quello concepito dal binomio Pinochet -Freedman
nel 1973) che di fatto lottizza i fiumi e
poi la vendita delle concessioni e dei “diritti” all'accesso.
-L'immissione
sul mercato di crediti idrici sul modello di quelli della CO2 e le banche di
mitigazione a regolare tali crediti.
Nel
Blueprint
questo risulta chiaro.
L'acqua
scarseggia?... Si produca industrialmente con le tecnologie di depurazione/purificazione
e rimessa in ciclo (berremo acqua di fogna più volte depurata come avviene già
a Singapore e a Los Angeles), di desalinizzazione e di concessione/vendita dell'acqua del mare,
di trasferimento da un luogo ad un altro, di risparmio per unità di prodotto ma
per aumentare complessivamente la produzione.
Expo
sarà un po' la vetrina di queste politiche.
Si
sostiene, che la salvezza sta nell'innovazione, nella tecnologia e quindi nella
finanza. Da applicare a tutte le acque e a tutti i suoi usi. Acqua quindi, come
prodotto industriale e tecnologico e mercato come unico regolatore dei consumi,
degli usi e delle priorità.
Risultato
il: Prezzo dell'acqua e la borsa dell'acqua. Un tragico passaggio
epocale
Il
trattato USA /UE.
E'
il futuro che ci attende dietro all'angolo. Un primo incontro è avvenuto il 20
di Novembre e l'accordo è atteso per il 2015.
Gli
stati, gli enti locali (le leggi, le delibere) saranno chiamati ad uniformare
le proprie norme, mentre tribunali arbitrali privati e avvocati aziendali,
giudicheranno le violazioni che limitano i profitti.
Le
lotte sociali, i referendum ecc... possono essere messi in discussione dalle
aziende.
Gli
stati saranno costretti a sottomettere al trattato tutti i servizi pubblici e a
rinunciare ad intervenire sui fornitori stranieri di questi servizi che
ambiscono ai loro mercati.
E
tutto, in grande silenzio “per non creare ansia e senso di minaccia da
parte dei cittadini”... Come recita un memo riservato.
Io
credo perciò, nella necessità tornare a guardare e parlare al mondo e del
mondo, a mettere in campo nuovi contenuti come la Costituzionalizzazione dell'acqua.
Ma anche di pensare ad Una Autorità Mondiale (politica e pubblica) dell'Acqua.
A questo proposito cogliendo, per lanciarla, l'opportunità di Expo 2015 di fare
di Milano la città che si candida a questa “missione”
Non
ha senso limitarci a dire NO EXPO, giustamente schifati dagli scandali, dalla
vetrina gastronomica che si annuncia o dal contenuto “Nutrire il pianeta”
svenduto alle multinazionali.
E'
tutto vero. Ma instancabilmente è necessario anche in questa occasione, parlare
alla gente che vi partecipa e a tutte le istituzioni a quelle milanesi innanzitutto.
E'
in discussione il futuro di tutti e il senso universale dei diritti. Riprendere
una battaglia che già ci ha permesso di strappare nel 2010 la risoluzione delle
Nazioni Unite che dichiara l'acqua e i servizi sanitari diritti umani è quasi
un dovere.
(Emilio
Molinari. Comitato italiano per un Contratto Mondiale dell'acqua.18 Luglio 2014)
RAFFAELE TALARICO
Inediti per Odissea
SE FOSSI
INTELLETTUALE DEL SUD
Verserei lacrime
sulle occhiaie di terra
delle radici strappate
nel rosso della collina
e sulle vesti nere
delle mie madri
e parlerei con scarne sillabe
di cristalli opachi di mare
e di saline calcinate
come polvere d’ossa
e di acque di corallo
alle tonnare.
Se fossi intellettuale del sud
salperei su muli di
broccato,
di garofano rossi e sonagliere,
per le vene asciutte
delle fiumare,
alle case di gesso
nell’argilla.
Se fossi intellettuale del sud
berrei acqua di Sila
nelle mie mani di pietra,
a fianco la cavalla
dalle groppe d’argento,
e parlerei col sole
di mura assetate,
di volti di cuoio rosso
e di mammelle inturgidite
e di steli di campanili
e di vecchi sul sagrato
e di rondini intorno al pioppo
e di pane grande di grano,
e di bocche pulite
a dorso di mano,
e avrei rabbia e furore
e voglia di vendetta.
Se fossi intellettuale del sud
canterei di porte spalancate,
di bocche fiorite,
di ginestre inghirlandate,
di notti d’albe,
di ascelle profumate,
di fuochi di gerani,
di finestre imbiancate,
di soli appesi come pani,
di primavere scordate.
di rocche cadenti,
di bianco di via,
di lungo bianco di via.
Se fossi intellettuale del sud.
***
NON C’E’ PIÙ IL TUO
PAESE
Perché vai
cercando le vecchie mura
e le magre porte
con mano antica
e sollevi lo sguardo di ieri
sulla torre scarna
dove le campane
vuote di rintocchi
sono fantasmi
cuciti nel muto arazzo del cielo
Non c’è più il tuo paese
Se i piedi cercano
i pugni levigati dei sassi
i ciottoli sapienti
del lungo annoiato andirivieni
ora c’è solo
carta vetrata d’asfalto
che porta lontano
La madre
la tua madre
nera contro il bianco del muro
non più scava coi dolci occhi
il tuo ritorno
nel vivace crepuscolo
soltanto il suo odore di bucato
s’è stampato
nella lontananza del tuo cuore
Tutte le rondini
sono cadute come sassi
giacciono morte e nere
e il cielo è vuoto
Vieni fratello
andiamo via
non c’è più il tuo paese.
***
PER UN ESULE
Perché vai portando la tua morte
come donna la sua
bellezza
e tossisci
sul viso rubicondo
del pigro occidente
i germi
della tua pena?
Dovevi restare
nella gelida steppa
dove il silenzio
cuce
con fili di ghiaccio
la tua schiavitù
alla cadenza ferrata
di scarponi
di sentinella
Qui
soffiano venti leggieri
e suonano campane
e cantano canzoni:
non c’è tempo
per te
Forse una madre
un’antica madre
crederà alle tue parole
tra i mattoni sconnessi
del muto focolare:
ma essa è vecchia…
come la libertà
che s’è ammantata di muschio
sui monumenti di pietra dell’occidente.
Edoardo Walter Porzio in Namimbia |
FILOSOFIA DEL VIAGGIO
“Le persone non fanno
viaggi
Sono i viaggi che
fanno le persone”
John Steiback
Lungo il mio
percorso vitale, dai quindici anni in su, ho viaggiato parecchio malgrado
vicissitudini di vario tipo legate al vivere comune, come, studio, lavoro,
sport, hobby e, dato il mio carattere eclettico, assaporando una pletora di situazioni
emotive di ogni genere. Oggi ,che nell’accezione comune del termine, posso definirmi “maturo”, sento nascere dentro di
me il desiderio, di esternare ad amici e compagni di viaggio la conclusione filosofica
del mio excursus esistenziale. Lungi da me l’idea di scrivere una biografia, voglio
solamente esprimere (se ci riesco?) il mio pensiero riguardante la “passione”
per l’arte del viaggiare. Una ventina d’anni orsono (cosa abbastanza singolare
in editoria) fui chiamato da un grosso Editore (Mursia) il quale mi invitò a
scrivere un libro che illustrasse alcuni dei miei viaggi più significativi. Il
testo che ne uscì “Impariamo a viaggiare” non volle essere un abc del
viaggiatore ne, tantomeno, una guida tradizionale, bensì l’invito ad una
riflessione interione con cui, ciascun lettore potesse cimentarsi confrontandosi
,in qualche modo, con l’autore. Ossia, considerare nell’intimo i reali motivi
di attrazione verso l’avventura che quasi sempre comporta un viaggio, analizzando gli
scopi intrinseci e personali legati alla propria sensibilità e ai propri gusti.
Questo fu il mio primo libro. Gli articoli di viaggio che sino ad allora avevo
scritto, per varie riviste del settore, rappresentavano solo racconti di vita
vissuta ma non necessariamente il sentimento che mi aveva spinto a visitare
quei luoghi. La scaletta di “impariamo a viaggiare”, fu impostata espressamente
con l’intento di obbligare, in qualche modo, il lettore a rispondere ad una serie
di quesiti del tipo: Perché viaggiare? Come viaggiare? Quando? Con chi? In che
luoghi? Con che mezzi? Perché in alcuni luoghi e non in altri? Quali sacrifici
si è disposti ad affrontare? Ma, soprattutto, per quale motivo spendere soldi, affrontare
fatiche, rischi e stressi, in nome di che cosa? E’ normale che nel tempo si
possa cambiare opinione, io stesso a questi “input” oggi do risposte diverse da
quelle che avrei dato in passato. La maturità anche sotto questo punto di vista
fa mutare opinioni gusti e pareri che non voglio definire “saggezza” ma, piuttosto,
frutto di un accumulo di esperienze che costituiscono poi il sale
dell’esistenza stessa, e che ci possono far vedere le cose da angolazioni
diverse che in passato.
Del resto, come diceva Seneca, “Per ogni arte o mestiere
esistono maestri. Per vivere il solo maestro è la vita stessa”. Molti sono gli
aforismi sul viaggio, sui viaggiatori, le teorie pseudo filosofiche sul
viaggiare, la sua valenza culturale, ecologica e umanitaria, per cui, non mi cimenterò
certo in questa materia. La mia esperienza di viaggiatore mi ha permesso di
conoscere moltitudini di viaggiatori il cui unico scopo era quello di vantare
la loro presenza in luoghi remoti o disagiati, per poter esaltare il loro
valore di resistenza e sopportazione a climi o situazioni a volte molto particolari.
Altri col solo intento di poter tappezzare la loro cartina planetaria di
puntine colorate per dimostrare agli amici sin dove si erano spinti. Tra questi
poi, alcuni considerano la parola “turista” come denigratoria da non confondere
con quella ritenuta più colta di “viaggiatore”. Se però li confrontiamo con
quelli che appartengono alle categorie citate, spesso questi, sono molto più
“turisti degli altri. Tale discriminatoria si può applicare solo nel caso in
cui per turismo s’intenda passare una vacanza in un determinato luogo
limitandosi a passeggiare a riposare a praticare alcuni sport o, al massimo,
facendo piccole escursioni. Per il resto: Ibn Batuta, Erodoto, Plinio o
Giovanni da Pian del Carpine, erano dei “turisti viaggiatori-esploratori”, i
quali si spostavano in territori sconosciuti coscienti di dover tornare con le
conoscenze acquisite per illustrarle ai rispettivi popoli d’appartenenza.
Infatti etimologicamente: tour-ismo non significa altro che viaggio,
spostamento nel tempo e nello spazio compiendo “tour” con l’obbiettivo finale
del ritorno.
Ma non è di questo sillogismo che voglio parlare né intendo
tracciare il prototipo del viaggiatore. Quel che è certo è che non sono gli spostamenti
da un luogo all’altro del pianeta, per quanto esotici o lontani, a fare di un
individuo un vero viaggiatore (mia mamma diceva che “anche le valige viaggiano”).
Piuttosto sono i motivi, gli interessi, la curiosità, i sentimenti per cui si
scelgono le destinazioni che esprimono la specificità caratteristica di ciascun
viaggiatore. Non ultimo, la sua capacità di sintesi di ciò che ha catturato con
la vista e le sensazioni emozionali prodottesi in lui a contatto con certe
realtà naturali ed esistenziali delle genti incontrate, quindi la sua capacità d’interpretazione
di luoghi e ambienti, usi e costumi che qualificano il viaggiatore colto e non la
sua presenza fisica vissuta in senso astratto e distaccato. Il semplice
reportage fotografico di luoghi e genti non basta ad estrinsecare i sentimenti e
le emozioni assaporate in certe situazioni. Con la tecnologia attuale si sono venute
a creare condizioni per le quali anche il fotografo più modesto può riprendere
in automatico scene che una volta erano retaggio esclusivo dei grandi
fotografi.
Oggi la differenza tra un vero fotografo e un dilettante è
data solo dalla capacità d’inquadratura dei soggetti come si dice in gergo: “il
taglio”. Questi aspetti sono solo la copertina di ciò che un vero viaggiatore deve
saper cogliere sia in fase di progettazione che durante e dopo il suo viaggio.
Va da sé che i gusti come le discipline artistiche siano e debbano essere
differenti, per cui, ecco che nella scelta della destinazione il futuro
viaggiatore dovrà, in fase di idealizzazione delle mete, scavare nel proprio
intimo quali siano gli interessi reali che lo fanno muovere in questa o in
quella direzione. Dopo questa premessa, ecco il mio pensiero sulla filosofia
che ispira i miei viaggi oggi.
Da ragazzo non perdevo tempo a pensare dove andare, per me
era sufficiente: andare.
Poiché le mie conoscenze erano pressoché nulle, per cui ogni
destinazione, ogni incontro erano per me motivi più che sufficienti a
giustificare i miei spostamenti. Come in tutti i campi della vita è con
l’acquisizione dell’esperienza e lo sviluppo del proprio scibile che si
delineano i gusti, si affinano le proprie inclinazioni e si sviluppa lo spirito.
Proprio per queste ragioni, in un progressivo e continuo mutare e allargamento
delle conoscenze e dei mezzi economici, (in passato certe destinazioni erano
impensabili sia per l’organizzazione che per il costo proibitivo per la mia
borsa) ho potuto maturare la mia attuale filosofia del viaggio. A ciò che sto
per enunciare, hanno contribuito le mie tante collaborazioni con vari Enti del
Turismo che, inviandomi in zone nelle quali il turismo era solo un concetto
astratto, mi hanno dato la possibilità di entrare in contatto con realtà a cui
coi miei mezzi non avrei potuto accedere. La mia ricerca attuale si è
consolidata su due principi fondamentali irrinunciabili: l’approfondimento
sempre più spinto della conoscenza dell’umanità che mi circonda, sia sotto il
profilo antropologico che storico e ambientale e sulla profondità dei concetti
spirituali che legano l’individuo al cosmo che lo circonda. Voglio subito
chiarire che secondo me non esistono viaggi culturali e viaggi effimeri. Ogni
luogo, ogni individuo a qualunque latitudine racchiude in sé interessi
culturali che potranno non essere fondamentali per alcuni, ma che, analizzati
da coloro che sono interessati alla disciplina in oggetto, rappresentano sempre
motivi culturali di primo piano. E’ ovvio che un naturalista, un botanico, uno
zoologo, un entomologo, possano preferire mete diverse da chi ama la natura solo
sotto l’aspetto paesaggistico e ambientale. Chi ama la storia medievale sceglie
destinazioni diverse da chi è amante dell’archeologia. Chi ama le comodità non
si spingerà mai (se non per errore di giudizio) in luoghi inospitali e
solitari. Così come, chi ama scoprire usi e costumi di popoli semi-primitivi,
non andrà a visitare (se non per caso, ossia di passaggio) le grandi metropoli moderne
ultra tecnologiche ma, anzi, cercherà realtà il più possibile genuine legate ad
usanze ancestrali diverse dalla sua vita quotidiana e del suo habitat. Ecco che,
dopo lunga maturazione durata decenni, si è cristallizzata la mia “filosofia di
viaggio”.
Di fatto, la parola greca geographia significa
sostanzialmente “il mondo e tutto ciò che esso contiene”.
I miei itinerari (pur non disdegnando all’occasione mete eterogenee)
si sviluppano attorno alle popolazioni più disparate del globo. La mia
conclusione è che, non solo vado a visitare i luoghi dove esse si trovano, ma
cerco di far coincidere la mia visita, con avvenimenti o feste particolari
tipiche di quelle società. Spesso si sente dire che molti di questi avvenimenti
vengono organizzati proprio a scopo turistico e, in molti casi, è proprio così.
Ma come in ogni medaglia c’è il suo rovescio. Un giorno durante una delle mie conferenze,
ebbi modo di conversare a questo proposito, con l’antropologo Marco Ajme che mi
aprì gli occhi su questo argomento, confidandomi una realtà che a molti sfugge.
Alcune cerimonie e certe esibizioni “folkloristiche” si possono ancora ammirare
proprio perché, gli indigeni che non avrebbero più i mezzi economici o
interessi animistici per eseguirle, traggono vantaggio dal fatto che i
“turisti” pagano per assistere a queste antiche esibizioni tradizionali che,
viceversa, andrebbero perdute. Così è per gli “indiani d’America” per i Dogon
del Mali o per il Nadam dei mongoli. “Questo è forse uno dei pochi casi in cui
il turismo ha fatto del bene incoraggiando quelle popolazioni a conservare le
loro culture”. Così concludeva Marco Ajme e, devo dire, che questa sua
affermazione mi trova completamente d’accordo. Un altro obbiettivo
irrinunciabile delle mie mete, sono i mercati. Sì perché se i monumenti sono
importanti come testimonianze del passato, il mercato costituisce il punto
d’incontro delle masse umane, per cui è sempre un luogo di aggregazione
estremamente importante. Spesso s’incontrano etnie che vivono in piccoli
villaggi sperduti nella selva o sulle montagne, come in Orissa o nelle isole
della Sonda o nella Transbaijkalia. Gente che non ha mai contatti col resto
delle altre comunità se non nei giorni di mercato che, spesso, ha luogo a
decine e decine di chilometri dal loro contesto abitativo. La mia ricerca da
qualche anno, e per il futuro, è quindi indirizzata verso questo tipo di
viaggio. Una ricerca antropica in senso lato, che va dalle usanze sciamanico
religiose agli usi e costumi di popolazioni varie senza la pretesa di essere
uno “scout”, poiché, nel secondo millennio,
c’è ben poco da scoprire! Soprattutto, senza mai fare confronti di subalternità
tra le diverse culture, ma avendo il massimo rispetto e cercando di assimilare
le ragioni originarie di tali culture autoctone. Umiltà e non pregiudizi! Semmai
apprezzando ciò che ci accomuna e non disprezzando il diverso solo per la sua
natura “diversa”. Al di là della scoperta però, ci sono cose che non si possono
trasmettere come le emozioni e, tutte
quelle sensazioni, che si provano in presenza di simili incontri o in occasione
di certi avvenimenti. Sentimenti questi che, per il fatto stesso di essere assolutamente
personali, non si possono raccontare né con parole né per immagini. Devono
essere vissute. Anche in questo caso, però, è ovvio che l’intensità e
l’ampiezza emotiva sono legate alla specificità dell’individuo, non possono
essere generalizzate. Questa considerazione, non deve fungere da deterrente ma,
anzi, deve costituire ulteriore motivo di compiacimento nell’apprendere che ogni
essere umano è uguale e diverso da tutti gli altri. Per questo è meraviglioso
viaggiare! Per conoscere sempre più e sempre meglio il mondo in cui viviamo.
L’unico vero rammarico è che una vita non è sufficiente, ce ne vorrebbero due o
forse più.
La mia conclusione è che, pur nel più completo rispetto dei
gusti e delle aspirazioni personali, il mio futuro di viaggiatore, sino a
quando mi sarà vitalmente possibile, sarà indirizzato verso queste mete, alla
ricerca del (per me) vero sale della vita, e cioè le emozioni che generano
sentimenti e aprono il nostro animo verso l’infinito e il soprannaturale
cosmico dell’esistenza umana. Se ci fossero tanti viaggiatori che
condividessero questo modo di pensare, forse ci sarebbero meno conflitti e
tutti vivremmo più pacificamente.
ELOGIO DELLA POLITICA
Il sentimento
dominante oggi fra gli italiani è un rabbioso disprezzo per la politica e per i
politici, considerati tutti dei ladri, dei corrotti, dei profittatori dediti
solo a fare i propri interessi. Non che svariati esempi ed episodi emersi
nell’ultimo ventennio non abbiano contribuito e favorito il diffondersi di
questi sentimenti, al propagarsi della cosiddetta antipolitica, ma da qui a demonizzare
politica, partiti e istituzioni ce ne corre.
In
un vecchio numero della rivista «Il Segnale» (28/1991) scrissi che una delle
primarie tensioni superiori sviluppatesi nell’uomo è quella «politica».
Specificai anche che tale tensione si esplica «partecipando alla ricerca, alla
costituzione o alla conservazione del migliore stato (o sistema) possibile, e
che è caratterizzata da una spinta ad agire in modo consociativo all’interno
della società». Che la politica è insomma «la nostra natura costitutiva, il
materiale umano di cui siamo fatti, la polis
in interiore homine», come ottimamente aveva sintetizzato Mario Tronti su
«Il Manifesto» del 30.5.91.
Ma
perché tale tensione sia libera di svolgersi e di operare cambiamenti, e non
sia al contrario soffocata sul nascere generando una società di uomini
dimezzati come quella odierna, è necessario che siano garantite le seguenti
condizioni: 1) che all’interno della società rimangano aperti e liberi da
repressioni di ogni tipo spazi politici adeguati, all’interno dei quali,
individui spontaneamente consociatisi abbiano la possibilità di concepire ed
elaborare progetti culturali e politici anche
alternativi e dissenzienti, di proporli e sostenerli; 2) che
l’affermazione-realizzazione o la bocciatura di questi progetti dipenda solo dalla loro intrinseca qualità e dal
consenso che riescono ad ottenere; 3) che il potere reale – politico,
amministrativo, giudiziario ed economico – non si eserciti esclusivamente nel
chiuso dei palazzi e delle logge, ma sia il più possibile
decentrato, trasparente e partecipato.
Quando
queste condizioni sono presenti, il numero di coloro che «testardamente
insistono a coltivare la tensione e la passione del “cambiare il mondo”»
(Tronti, ib.) tende ad aumentare, i progetti di cambiamento non calano
necessariamente dall’alto ma possono essere concepiti ed elaborati anche da
individui spontaneamente consociatisi: chi con-divide un progetto di
cambiamento ha la vivificante consapevolezza di partecipare alla sua stessa
elaborazione, e di far parte di un movimento.
Pare
impossibile, ma tutto ciò è stato in gran parte vero in Italia fino a una
quarantina di anni fa, o per lo meno così mi è parso.
Nello
scorso millennio, del resto, le condizioni di reale ed effettiva
democrazia sopra descritte, quelle cioè
in cui il popolo è stato soggetto
in-mediato di iniziativa politica e fonte di diritto e di potere, sono state
più volte presenti in Italia, anche se tutte (Età comunale a parte) per pochi
anni e poi sconfitte.
Per
comodità del lettore, ricordo questi periodi di reale ed effettiva democrazia:
l’Età comunale innanzitutto per novità importanza e durata, la Rivolta degli
Scalzi e la Repubblica di Napoli del 1647, il triennio 1796-98 in Lombardia, il
Quarantotto (Repubblica romana, Milano, Brescia, Venezia, Napoli e Palermo), la
Resistenza fino al 1947 e il Sessantotto.
Se
ripercorriamo la storia delle arti e la biografia (perché no?) degli artisti,
puntando la lente sugli incroci di queste con gli eventi sopra ricordati,
possiamo osservare due fenomeni alquanto sorprendenti e normalmente poco
illuminati dagli storici del settore: soltanto in concomitanza con taluni degli
eventi storici citati – quelli ovviamente che ebbero una sufficiente durata e
una relativa anche se limitata
affermazione – a) si è verificata una partecipazione
diretta, attiva e spontanea degli artisti e dei letterati alla vita civile e
politica del Paese; b) è fiorita una produzione artistica e letteraria
liberamente ispirata e sostanziata anche
da mozioni civili o comunque laiche.
Nei
restanti e preponderanti periodi, artisti e letterati rimangono cortigiani – in
corti feudali, signorili e pontificie – o fornitori professionisti (a volte
altissimi) di un mercato da altri gestito; e le loro opere, più o meno,
rispecchiano i desiderata della committenza del momento (unica libertà
consentita: la sperimentazione tecnico-formale).
E
in questi stessi periodi, per l’appunto, si affermano concezioni esoteriche,
sapienziali o metafisiche dell’arte (l’«arte-religione» di C. Ambroise ad es.)
che tendono a separare,
clericalizzandoli, l’arte e gli artisti dalla società civile.
Questi
rilievi non sottintendono alcun raffronto qualitativo, nessuna pregiudiziale
estetica tra le produzioni letterarie e artistiche nei due climi, ognuno dei quali vanta ovviamente indiscutibili capolavori.
Il
discorso è un altro e riguarda la dignità
dell’uomo – del citoyen –, e qui non
ho esitazioni a fare confronti: non, ancora, qualitativi, ma necessariamente e
finalmente fra contenuti.
Ebbene,
da questo punto di vista, non ho dubbi nel sostenere la superiorità della
letteratura e dell’arte due-trecentesche (anche minori) su quelle
rinascimentali; di quelle post-resistenziali e impegnate su quelle o novecentesche; di quelle sessantottesche e
partecipative su quelle neo o post-avanguardistiche o minimaliste.
La
superiorità che affermo – e permettetemi di ribadirlo – è testimoniata dalle
opere, in cui la materia civile può essere più o meno presente, quanto dal
fatto che solo ed esclusivamente in tali periodi storici gli artisti scendono
in campo, cittadini fra i cittadini, con volontà consociativa e partecipativa
per fare politica. E sarà pure un
caso, ma è appunto in questi frangenti che, sociologicamente parlando, ai
letterati e agli artisti viene riconosciuto spontaneamente e universalmente uno
status e un ruolo di tutto rispetto, oggi del tutto perduti. E’ naturale,
quando lavorano tra, e per la gente!
Certo,
nei periodi storici caratterizzati dal coinvolgimento e dalla militanza
politica, specialmente se di breve durata, demagogia e populismo sono sempre in
agguato, e spesso la ribalta viene occupata da autori e opere minori; ma non mi sembra questo un buon
motivo per buttare, come si suol dire, assieme all’acqua sporca pure il
bambino.
Oggi
l’ideologia dominante, quella dei grandi trust sovranazionali
industrial-commercial-finanziari, accampando il fallimento economico de Paesi
del «socialismo reale», ha buon gioco nel proclamare trionfalmente la morte
delle ideologie, in ciò molto coadiuvata da una folta schiera di maitre à penser che per ragioni di
sopravvivenza non possono rischiare la cancellazione dai libri-paga.
Contraddizione
a parte (un’ideologia che proclama la morte delle ideologie), la situazione
sociopolitica che si è venuta a creare in Italia con la fine della Guerra fredda
e in seguito a questa strategia è davvero preoccupante: il vecchio Partito
Comunista che, bene o male, difendeva i lavoratori contro lo sfruttamento più
sfacciato, è defunto, sostituito da un partito apparentemente di sinistra ma in
realtà costruito soprattutto per il potere; i sindacati sono trattati come
anticaglie e accusati di conservatorismo e di sterile ostruzionismo; i
lavoratori (d’ogni livello, non più uomini ma strumenti) sempre più usati per il profitto e gettati quando
il profitto cala. Tutto ciò ha dato e dà ampio spazio politico a personaggi
geneticamente estranei alla democrazia, a capipopolo truccati da rivoluzionari
ecc., capaci di condurre, quatti quatti a svolte autoritarie o clericali.
Poiché
nessuno di coloro cui sta a cuore la giustizia sociale e la democrazia («Beati
coloro che hanno fame e sete di giustizia», P.G. Bellocchio) si augura un Paese
in cui l’opposizione di sinistra sia cancellata o resa muta, un Paese in cui i
lavoratori meno protetti (precari), i disoccupati, i giovani, le donne siano
ridotti a oggetti passivi di politiche altrui, ci sembra necessario e urgente
che a sinistra (e non mi riferisco alle nomenclature di partito) ci si ritorni
a occupare di politica, non fosse altro che per non perdere la residua speranza
civile che ci resta.
Nell’attuale
clima non è proponibile ovviamente un neo-movimentismo immediato. Siamo
convinti che, in questa fase, sia necessario anteporre la cultura politica alla
politica pratica, «ricucendo la politica strappata con il filo della teoria»
(Tronti, ib.).
VITTORIO SEDINI
Vittorio Sedini |
IL SEGNO
Sono stato recentemente ad un convegno di poesia e ho fatto una fatica terribile. Mi secca ammetterlo, ma devo dire che ho capito poco, pochissimo. Poi, mentre mi chiedevo perché, mi è venuto in mente "Zazie dans le Metro" di Queneau: ad un certo punto Zazie racconta una cosa ad un tipo, che non capisce e lei esclama: "Ma devo farti un disegno?!"
Ecco il punto. Il segno significa. Racconta, definisce,
spiega, rivela.
Un mio vecchio maestro diceva "Il segno è ciò che, una
volta conosciuto, ci fa conoscere un'altra cosa".
Anche le parole sono segni e sono composte di segni che noi
conosciamo. Ma quella sera questi segni, queste parole, conosciute, si
mettevano insieme a dire qualcosa, un dove, un quando, un mondo dal quale mi
sentivo escluso quasi che i poeti l'avessero fatto apposta:
"Aha! Tu non c'eri !"
Non c'ero, non ho visto… E allora ecco i critici che
sminuzzano analizzano spiegano, mi fanno “vedere” perché loro c'erano (questo
però è un po' imbarazzante specialmente se si tratta di poesie d'amore).
Insomma, alla fine me ne sono andato nuotando in un mare di perplessità.
A questo punto si potrebbe dire che anche nell'arte
figurativa contemporanea succede così.
Anzi a volte non ne riconosciamo nemmeno il segno, figurarsi
il significato.
Ma, quanto meno è conosciuto il segno, tanto più è grande la
sorpresa,
V. Sedini "Omaggio a Majakovsij" |
e se il significato è nascosto (potrebbe anche non esserci)
possiamo contemplare l'armonia, la forma, il colore. Possiamo addirittura
accontentarci delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni e dire (cosa non
politicamente corretta) mi piace, non mi piace.
Allora forse il mio problema nei riguardi della poesia sta
forse proprio qui: nel fatto che quei segni io li adopero tutti i giorni e
tutto il giorno per comperare il giornale o le zucchine, per pregare o
bestemmiare o fare una dichiarazione d'amore.
E li conosco troppo
bene quei segni, e vado in crisi quando il poeta me li adopera per dire altro.
Attenzione allora: andiamo a vedere una mostra. Magari in
due sale c'è un sacco di poesia, ma per fortuna, se non capiamo, gli artisti
qui presenti "ci fanno un disegno".
CARLO CIPPARRONE
Carlo Cipparrone |
Sul palcoscenico della Storia
Tra macerie e lamiere contorte,
i fantasmi dei giudici morti ammazzati,
eroi involontari - dopo decenni -
chiedono ancora conto
ai potenti di allora - oggi vecchi,
(o scomparsi e peggio rimpiazzati) -
dei loro corpi dilaniati dalle bombe,
delle menzogne sepolte sotto le ragion di stato.
Si respira un’aria shakespeariana:
fantasmi che ritornano
sul palcoscenico della Storia
tra buffoni e falsi predicatori
di un sistema politico corrotto
che scivola nel fango.
FELICE C. BESOSTRI
Felice Carlo Besostri |
Dibattersi invece di
dibattere
L’approvazione da parte del Senato del
complesso di emendamenti alla Costituzione vigente, in particolare ai titoli
I-Parlamento e –V Le Regioni, le Province, i Comuni della Parte Seconda
potrebbe passare alla storia, come un esempio di dedizione dei Senatori al
supremo interesse della Nazione, come del resto sarebbe loro dovere
costituzionale ex art.67 V Cost., invece che alla loro sorte personale. Infatti
hanno deciso di auto sopprimersi, senza sopprimere la Camera di cui fanno parte.
Sappiamo, che non è così: senza un intervento pesante del Governo e un
atteggiamento collaborativo del Presidente del Senato all’urgenza posta dal
Presidente del Consiglio dei Ministri l’approvazione definitiva sarebbe slittata
all’autunno ed il testo finale, nelle votazioni con scrutinio segreto avrebbe
potuto differire. Se il testo approvato dal senato dovese corrispondere al
testo finale della riforma costituzionale, sarebbe preoccupante in quanto ci
sono veri e propri svarioni, che come quello introdotto dall’art. 117, che “Spetta
alle Regioni la potestà legislativa in materia di rappresentanza in Parlamento
delle minoranze linguistiche ”
TIZIANO ROSSI
Tiziano Rossi |
Figurine
Guardate! Seduto su quello
sgabello, c’è il grande poeta Ludovico Ariosto, che pare stia scrivendo
qualcosa. No, al momento non scrive, ha in mano dei pezzettini di carta su cui
sono disegnati, con bei colori, dei cavalieri e delle dame, mostri e ladroni,
maghi e maghe, re e contadini, regine e fanciulle, e c’è perfino la Luna; poi
lui sparpaglia sul tavolo quelle figurine (quante sono!), le sposta qua e là
come fossero pezzi degli scacchi, si gratta la testa e sorride; ecco, adesso le
butta addirittura per aria per vedere dove vadano a finire, le ripiglia, le
risistema e sorride ancora: mah! Che strana maniera di combinare una storia,
cosa ne verrà fuori?
MARIELLA DE SANTIS
Tra il mare
e la terra
Un tuo colpo
di tosse risponde al mio
Modo strano
di dirsi: ci siamo.
Quell’aria
che ci manca, quella strettoia del respiro
Sono codice
privato, alfabeto di navigatori votati al largo
Dove occhio
non raggiunge il disegno della bracciata
Guidata
a fendere traversa la corrente.
***
Between sea and land
A cough that answers mine
Is a strange
way of saying: here we are.
The air we
lack, that tightening of the breath
Is a private
code, the alphabet of deep-sea sailors
Where the eye
cannot catch the line of the swimmer’s stroke
Made to cut
across the current.
(Versione inglese tradotta da Anthony
Robbins)
DONATELLA BISUTTI
Donatella Bisutti |
Una volta lessi questa
curiosa osservazione di uno straniero a proposito del nostro Paese: solo gli
italiani, diceva, morivano invocando la mamma. Ne fui sorpresa anch’io, perché
non ci avevo mai pensato. In effetti non ho mai sentito che in una situazione
di pericolo un francese gridasse maman
o ma mère o un inglese mum
o mother e del resto, almeno nelle poche lingue che
conosco, non esiste neppure un’esclamazione equivalente al nostro “mamma mia!” (lasciamo perdere il
“mammasantissima”). Anche se l’intenso desiderio e al contempo l’orrore di poter
rientrare nell’utero materno non appartiene solo a noi italiani: si tratta di un fenomeno
universale, e potrei citare quello stupendo testo teatrale di Ibsen, Spettri, in cui una madre ferocemente possessiva, benché nordica, accoglie fra le braccia un figlio rannicchiato
nudo contro di lei come un neonato, in una demenza cui lei ha fortemente
contribuito. Ma è vero che nell’ambito di un fenomeno sia pure universale, che
appartiene profondamente alla natura
dell’uomo e ne spiega anche molte tragedie irrisolte, la mamma italiana occupa
un posto tutto particolare, un posto, se
vogliamo, d’onore: essa rappresenta, della Madre mediterranea, la versione
all’apparenza meno temibile, più casalinga, mite e familiare, un’icona della
tenerezza. Però bisogna fare attenzione: dietro quella apparente innocuità l’adorata mamma ha pesanti responsabilità, che tutti noi
scontiamo. Qualcuno potrà stupirsi che il titolo di questo articolo metta in qualche
modo su uno stesso piano, sia pure per antitesi, la Mamma e lo Stato, ritenendo
che si tratti di un accostamento improponibile per totale estraneità dei due
termini. Una, figura del tutto privata, l’altro, astrazione che riunisce un’enorme quantità di individui
, di strutture, di poteri. Eppure la figura della mamma è anch’essa qualcosa di
immenso, e ha in sé tanta minacciosa energia da poter ergersi ad Antistato, con
incalcolabili conseguenze. La mamma è infatti
anch’essa un’istituzione, la prima e la più forte di tutte le
istituzioni: è lei a forgiare gli uomini che faranno lo Stato. Li mette al
mondo, li alleva, dà loro un imprinting che nessuno più potrà togliere. La
mamma è l’Antistato non in modo casuale: lo è in modo strutturale. Se gli
italiani non hanno una vera nozione dello Stato è proprio perché la mamma si
mette da sempre al suo posto confondendo loro per sempre le idee. Sembra una
battuta un po’ paradossale, e comunque va a colpire un tabù che nessuno si
sente di infrangere. La retorica che circonda la figura della mamma è
probabilmente la più radicata, la più inestirpabile: andarvi contro è più
dissacrante di una bestemmia. Certo nemmeno io voglio negare quanto di buono, di
santo, di meraviglioso ci può essere nella figura della mamma, ma solo incitare
a guardare, al di là della retorica, una certa nuda realtà. Allora si può
scoprire che la mamma nostrana imprime al
figlio, da subito, tutte quelle connotazioni che oggi rischiano di fare,
dell’essere italiano, una condizione perdente. Naturalmente non parlo qui delle
eccezioni, non troppo numerose del resto, se Cornelia fu tanto celebrata, parlo
di una media, che è però poi quella che dà il tono generale. Non esagererò quindi
dicendo che se si vuole capire la situazione dell’Italia in questo oscuro e
dilaniato periodo della sua storia, non bastano le disamine politiche, bisogna
prendere coscienza di questo Antistato oscuramente in agguato. Cambiare le
leggi, va bene, cambiare i governi, va bene: ma cambiare le mamme? eppure è proprio
da lì che bisognerebbe cominciare, se si volesse risolvere il problema alle
radici. Estirpare l’Antistato per costruire finalmente lo Stato. La mamma
italiana è la vera, grande, prima antagonista dello Stato. Lo è a tal punto che
alla fine anche lo Stato si dà per vinto: il nostro Stato è anche lui uno stato
che avrebbe bisogno della mamma. E’ uno Stato in cui nessuno è responsabile
di niente. Infatti nessuno normalmente si dimette anche se è un colpevole
conclamato.
Il modo in cui la
mamma italiana costruisce l’Antistato, un modo occulto, che passa inosservato
sotto apparenze tranquille e anzi del tutto rassicuranti, ha in qualche misura
del prodigioso. Forte del non mettersi mai in mostra, ma anzi del restare
nell’ombra della casa, della famiglia, in perpetua condizione di servizio, di
dedizione e di sacrificio, essa lavora intanto assiduamente e pervicacemente a erodere
le fondamenta dello Stato come i castori fanno con i tronchi degli alberi. Lo Stato
infatti è l’avversario da battere, quello che una mamma individua da subito,
dal primo giorno in cui suo figlio apre gli occhi alla vita. Di questo figlio
lo Stato è per definizione il Nemico. Da questo Stato bisogna proteggerlo a
tutti i costi. E perché? Perché lo Stato vorrebbe tendenzialmente sottrarre il
figlio alla mamma. Figlio e Stato rappresentano per la mamma un’ antinomia
feroce. Almeno da noi in Italia. E non solo perché lo Stato da sempre ha
chiesto alle mamme di dargli i figli per mandarli a morire in guerra. Non
occorre tanto. Ma perché lo Stato vorrebbe, dovrebbe togliere i figli alle mamme
per farne dei cittadini. Cioè degli individui capaci di assumersi delle
responsabilità. Ma chi è capace di assumersi delle responsabilità è un
individuo autonomo. E che cosa resta da fare alla mamma se il figlio diventa
autonomo? Dove va a finire la sua funzione, quella cui ha sacrificato tutto? Un
figlio autonomo, che non ha più bisogno della mamma, azzera la mamma. La uccide
simbolicamente nel suo cuore e nel cuore della società. Così almeno pensa la
mamma e così essa fila in silenzio la sua tela per avviluppare il figlio vita
natural durante in una non-autonomia. Se il figlio non diventa un cittadino
autonomo, resterà sempre il suo bambino.
Anche a settant’anni. La mamma italiana mette in atto con il figlio lo stesso
programma che cerca di mettere in atto da sempre con il suo partner maschile: l’induzione
di una dipendenza. Questo è il suo sogno in quanto donna: tenerlo stretto con il sesso, con la tenerezza, con i calzini
rammendati, con il cibo, con tutto questo e , se non basta, con le lamentele,
con i sensi di colpa, con i ricatti: lì, inchiodato, una proprietà da difendere
a tutti i costi, possibilmente per sempre. Di solito, è vero, questo non le riesce
più di quel tanto. L’uomo svicola, si sottrae, tradisce. Anche se alla fine
resta, torna. Ed è per questo che la donna è perennemente insoddisfatta, perennemente
si lamenta. Ma di nascosto dal marito. Che insiste nel pensare che invece lei è
felice. Anche questo fa parte del gioco. Lei deve sacrificarsi al punto da
farsi credere felice anche se non lo è. Ma con il figlio maschio questo gioco
riesce decisamente meglio. Lui non ha avuto il tempo di approntare le difese. E’
stato preso in contropiede da subito. E allora, una conquista così preziosa la mamma
dovrebbe lasciarla allo Stato, così? La strategia seguita dalla mamma per
conservarsi il figlio sarà dunque la più semplice: dargli sempre ragione contro
lo Stato. Tenerlo lontano e separato dalla Stato. Intendendo qui per Stato anche
una qualunque forma di società organizzata, di collettività al di fuori dalla
cerchia della famiglia. Cioè tutto ciò che costituisce gli altri. A cominciare dai compagni di gioco. L’educazione asociale
comincia ai giardinetti quando il bambino picchia un amichetto sulla testa e di
conseguenza ne riceve un calcio. Verrà abituato a correre strillando dalla
madre reclamando giustizia. E la madre questa giustizia la farà subito lei non
lasciando il figlio a sbrigarsela da solo e a imparare dai suoi errori, ma
subito difendendolo indipendentemente dai suoi torti e perciò prendendosela a male parole con
l’altro bambino e con la madre
dell’altro bambino. Così il figlio introietterà che può permettersi qualsiasi
cosa, e sarà sempre difeso e perdonato, mentre quelli che si mettono contro di
lui o esigono qualcosa da lui hanno sempre torto. Poi si arriva alla scuola –
separazione traumatica voluta dallo Stato, il quale pretende questa cosa orrenda
e disumana, che la mamma cioè non possa sedersi nel banco accanto al figlio ma
se ne resti a casa e glielo ceda interamente per qualche ora al giorno. Esemplare
sarà allora il comportamento della mamma-tipo nei confronti della scuola -
questa prima manifestazione concreta dello Stato nella vita del figlio. La
mamma la scuola l’assedierà dall’esterno, vi entrerà con ogni pretesto appena
possibile per controllare che i professori non osino rimproverare il figlio,
tanto meno punirlo! la mamma sarà di nuovo lì per difenderlo furiosamente, per
giustificarlo, per assolverlo, come continuerà a fare anche in seguito incitando
sempre il figlio ad agire per sé senza tenere conto degli obiettivi diritti di
una società che dovrebbe essere civile. Questo fatto che la madre non dà mai
torto al figlio neanche se ha torto marcio, contribuisce in modo determinante a fare del figlio qualcuno che non riconosce
alcuna autorità. Nemmeno quella della mamma del resto. Perché poi queste mamme
a loro volta - per una comprensibile nemesi -non sono quasi mai obbedite dai loro
figli, che hanno per loro spesso pochissimo rispetto. La loro strategia si
ritorce contro di loro. Ecco che così però si delinea subito il cittadino di
domani: qualcuno di viziato, imbelle,
irresponsabile, e tendenzialmente sopraffattore e vigliacco. Anche molto
maleducato. Sono maleducati i nostri deputati e senatori, figuriamoci! Sono
rimasti anche a sessanta, settant’anni gli stessi di quando litigavano ai
giardinetti. E noi ce li teniamo così. Che si saltano addosso, si sputano
in faccia, si dicono parolacce: infatti
chi gli ha insegnato il senso del
rispetto dell’altro? la necessità di far prevalere l’istituzione sull’individuo?
Chi? non è mica colpa loro se hanno avuto a suo tempo tanta mamma. Ho conosciuto alcuni inglesi middle class, persone che di per sé conterebbero poco, ma che si portano addosso come un’invisibile
corazza tutta la dignità che viene loro da un implicito patto con lo Stato: lo Stato
dà loro uno status (mi si passi il
gioco di parole), e questo finisce per dare alla loro mediocrità perfino una
certa grandezza, a patto che essi siano dei veri leali responsabili cittadini. E loro lo sono.
Le mamme italiane
allevano figli tendenzialmente vigliacchi- a suo tempo così bene e così fedelmente
interpretati dal genio di Sordi- asociali, e quindi imbroglioni, tendenzialmente
disonesti, tendenzialmente mafiosi:
esattamente quello che è l’Italia alla fin fine. Perché un Paese, uno Stato è
la somma dei suoi cittadini come un fiume è la somma di tutte le sue gocce
d’acqua. E’ inutile che ce la prendiamo con i nostri politici, prendiamocela
piuttosto con noi stessi. Non c’è da stupirsi se contiamo poco nel mondo,
nonostante tante nostre belle qualità. E se stiamo scendendo una china rischiosa.
Uno Stato rappresentato da troppe persone rimaste allo stadio di bambini che si
esprimono a parolacce, furfantelli e immaturi. Insomma sarebbe bene di
smetterla con le mamme tradizionali che
inseguono i figli per mettergli la maglietta anche quando fa caldo, e che poi
li rimproverano se corrono troppo e sudano, che li rialzano quando cadono, e che
si lasciano trattare alla fine loro stesse come pezze da piedi da arroganti e
aggressivi adolescenti. Si facessero corsi per aspiranti mamme e si desse il
permesso di fare figli solo a quelle che
passano gli esami. Essere mamma non può limitarsi a un semplice evento
biologico in cui dare libero corso alla propria dissennata e frustrante possessività,
alla propria penosa rivalsa contro un’atavica mancanza di autostima. Ricordiamoci
che l’Italia è anche fra i Paesi occidentali quello che in cui le donne hanno avuto
finora meno spazio nella politica, ma è in compenso quello che ha inventato le
veline. Essere mamma significa anche svolgere un determinante ruolo sociale, porre le fondamenta di una collettività
degna di questo nome, quella che noi
ahimé non siamo. E chiediamoci anche perché la nostra politica, con i Mussolini,
i Craxi, i Berlusconi, esprime così spesso una figura paterna dominante con
caratteristiche per molti aspetti simili. Esaminiamo con obiettività gli
elementi che la connotano e domandiamoci se non c’è anche qualcosa di
infantile in questo sogno tutto
italiano.
ALESSANDRA PAGANARDI
Alessadra a Lisbona con Ferdinando Pessoa |
IL CIGNO RIBELLE
Pare che il succo
di carota aiuti un cantante a dare il meglio di sé prima di un debutto o di una
prova importante; anche l’anice o il mirtillo, dice qualcun altro.
Quest’incertezza plurale è pienamente spiegabile: il bello della natura sta
proprio nella sua imperfezione.
Li ho accontentati tutti, mi sono chiusa nella camera
perfettamente insonorizzata che mamma e papà predisposero sin da quando ero
poco più che bambina. Sorseggio un generoso centrifugato di carota e mirtillo,
che avrà sicuramente come primo effetto una diuresi ripetuta e protratta. Non
disturberò nessuno, perché il mio bagno ha l’ingresso riservato alla stanza;
una piccola toeletta privata con doccia, mezza vasca e bidè a conchiglia, a
misura esatta di ragazza. E sciolgo lentamente in bocca caramelle all’anice
senza zucchero. Non è facilissimo trovarle in giro.
Sono sola in casa, del resto. Mio padre è in giro per una
delle sue conferenze benefiche e la mamma è dalla sarta a prepararsi per il
grande evento, il mio. Le prove generali sono terminate due ore fa, tempo di
fare un salto a casa e “darci una rinfrescata”: ho davanti a me un altro paio
d’ore prima di tornare a teatro. Credo ci andrò prima. Devo fare le cose per
bene. Ho detto ai miei genitori che preferisco non vederli, “perché mi sento
troppo emozionata”, ed è perfettamente comprensibile. Entreranno all’ultimo
momento: non c’incontreremo per nulla.
Non è semplice
essere l’unica figlia di un grande soprano e l’unica nipote diretta di un
celebre tenore. Per mia madre, che porta lo stesso cognome del nonno, dev’
essere stato ancor più difficile: io almeno, non per volontà ma per
consuetudine, ho rotto il filo delle genealogie nominalmente evidenti. A
scuola, soprattutto i primi anni, nessuno avrebbe potuto collegare il mio
cognome alla “stirpe canora” dei Russo, che del resto è un nome assai comune;
più tardi, poi, sempre meno persone riconoscevano in mia madre l’artista di
vent’anni prima. Aveva interrotto la
carriera poco prima dei quarant’anni, quando nacqui io; ma già da tempo aveva
parecchio rallentato la sua attività. Credo avesse qualche problema a concepire
figli, anche se non me l’ha mai esplicitamente detto. Non penso che rinunciare alla musica sia stata
una scelta indotta dalla volontà di mio padre; l’ha deciso lei, ne sono certa.
Verso le scuole medie qualche compagna curiosa, vedendomi
così impegnata nello studio del canto da non avere quasi tempo per altro che
non fosse la scuola e lo sport, mi poneva qualche domanda meravigliata; ma soltanto
alle superiori si seppe che ero figlia di Maddalena Russo. Abito in provincia,
ma ho studiato in un collegio internazionale alle porte della città: una di
quelle efficientissime cittadelle dell’educazione che ti accolgono a due anni e
ti accompagnano fino all’esame di maturità, imbevuta di tutte le lingue europee
possibili da apprendere intanto che, oltre al resto, sei impegnata a crescere.
All’andata e al ritorno da scuola, finché non ho preso la patente, mi ha sempre
accompagnato mia madre in auto, così come alle lezioni di canto, alle
audizioni, agli allenamenti sportivi e ai vari provini: nessuno dei miei
compagni era mio vicino di casa e non avevamo più molte occasioni d’incontrarci
dopo le ore del mattino.
Non mi sono mai chiesta che reazione abbia suscitato nei
miei compagni la notizia del mio pedigree artistico. Qualcuno mi avrà
invidiato, immaginando il benessere e l’attenzione da cui potevo essere stata
circondata; qualcun altro mi avrà compatito, dato che ogni medaglia ha il suo
rovescio. Ma forse entrambi i sentimenti sono fuori luogo: nessuno, in realtà,
può mai davvero capire la vita degli altri.
Avevano ragione a
invidiarmi, in ogni caso. Non tanto per il benessere materiale, di cui gli
altri studenti di quella scuola godevano quanto me; forse neppure per la musica
di cui ero circondata, né per il raro privilegio di aver visto per la prima
volta l’Aida in teatro a tre anni, o di aver potuto cantare con la giusta
impostazione quasi prima di essere in grado di parlare. No, credo che invidiassero
soprattutto qualcosa che, in attesa dello scatto epocale fra un millennio e
l’altro, sembrava quanto di più desiderabile per noi, adolescenti di allora: la
regia intelligente del tempo, il finalismo impeccabile della vita, neppure un
minuto speso a vuoto. Nessuna dispersione, nessuna inefficienza: ogni momento
mirato ad un nobile obiettivo, cioè a svolgere un’attività meravigliosa che
nessun altro avrebbe potuto offrirti con tanto amore e competenza, se non chi
l’aveva esercitata per metà di una vita ai massimi livelli. La formazione
ideale.
A scuola
certamente non eccellevo, ma non avevo neppure particolari problemi. Sono stata
inserita in un ambiente internazionale già dalla scuola materna, perché le
lingue straniere erano ritenute fondamentali per una futura carriera lirica. Il
tedesco, il tedesco soprattutto, ripeteva sempre mia madre.
Ricordo uno dei primi Natali dell’età scolare: potevo avere
sette anni e prendevo lezioni da una maestra di canto molto dolce, con una
grande esperienza in bambini e voci bianche. La tavola era lunghissima e mi è
rimasta impressa l’invadenza di tutto quel rosso: la tovaglia, le palle di
vetro sull’albero, le coccarde sulle bottiglie e sui regali, come a ricordare
ossessivamente quello che già ben sappiamo, che ogni nascita comincia con il
sangue. Mi sono sempre chiesta che cosa c’entri mai questo colore con una
stagione fredda e grigia come l’inverno e non so darmi che questa spiegazione;
anche se non la trovo molto ragionevole, soprattutto nel bel mezzo di una festa
piena di regali.
Quel Natale, insomma, sapevo che al panettone mi sarebbe
stato chiesto di cantare Stille Nacht, ovviamente in tedesco. Già allora
non amavo molto le tonalità alte, ma a inibirmi davvero erano quei suoni per me
innaturali, che sembravano farsi ancor più duri proprio quando la voce doveva
estendersi. Era come se le mie corde vocali dovessero trasformarsi in un nastro
adesivo da strappare velocemente. In sol maggiore, naturalmente, perché quella
era la tonalità più adatta per una voce bianca. Mi feci coraggio e cantai,
appoggiandomi a quel rassicurante incipit, Stille nacht, heilige nacht,
come alla mano di mia madre. Credo di essere diventata dello stesso colore
della tovaglia e delle coccarde, mentre con diligenza da sarto miope fiondavo
fili interminabili in crune sempre più sottili: dall’Alles schläft, einsam
wacht, ancora afferrabile chiudendo l’occhio sinistro, al quasi
imprendibile Schlaf in himmlischer Ruh, con il refe che sfuggiva
dall’ago come il primo centimetro mancato al salto in lungo; sforzo da
replicarsi puntualmente in tutte le strofe successive, con Gesù nominato in
ogni possibile sacro attributo, fino a quel consolante Aller Welt Schonung
verhieß, preannuncio della regale ultima epifania strofica, nonché fine
dello spettacolo. Oltre all’applauso di routine ricordo un patchwork di
commenti tesi a rassicurare mia madre, dall’entusiastico/ingenuo «però, è
intonata, già una bella fortuna!» al più tecnico «ha un bellissimo “primo”,
complimenti Maddalena!» seguito da un augurale «la voce, si sa, cambia fino ai
vent’anni!».
Mia madre, che è sempre stata ottimista, sorrideva,
soddisfatta della mia intonazione e dei miei armonici. Ma che l’estensione non
fosse da soprano, tantomeno da soprano lirico, lo si vide senza possibilità d’
appello attorno ai sedici anni. Evidentemente le mie corde vocali si erano
allungate in proporzione diretta con la mia statura, si erano piacevolmente
irrobustite per solidarietà con i tratti marcati, un po’alla Michael Jackson,
del mio viso. «Ha una bellissima presenza scenica» si consolava mia madre al
telefono con le persone che di me avevano un ricordo ancora impubere. Forse
voleva dire che, pur non avendo il suo talento, avevo pur sempre anch’io
qualche freccia al mio arco. Il sogno di aver allevato con tanto impegno
pedagogico una wagneriana Walchiria sfumava nella sostanza, ma ritornava,
attenuato, a sedurre nella forma di una ragazza alta e ossuta, interessante a
suo modo, certo non il tipo da passare inosservata. Tutti i provini fatti dopo
i vari corsi, tuttavia, non andavano mai abbastanza bene perché venissi scelta
per una parte di qualche rilievo. Evidentemente la presenza scenica non
bastava; oppure io stessa cominciavo a stancarmi di tutta quella tensione e
preferivo studiare per gli esami, imparare il portoghese a cui mi ero molto
appassionata, uscire con il mio ragazzo e rimandare all’infinito il famoso
debutto importante, che cominciava a non essere più tale per me.
Dopo aver
iniziato l’università abbandonai completamente l’ipotesi di una carriera lirica
e mi applicai con maggior decisione alla musica leggera. Mia madre si attivò
moltissimo per aiutarmi a frequentare le scuole giuste per me. Mi aiutò a
capire che la voce, purtroppo o per fortuna, rappresentava una parte assai
piccola del mio “talento teatrale”: ero una ragazza sportiva con un gran bel
fisico, dopo tutto, amavo la danza e non riuscivo mai a stare ferma. Non avevo
la concentrazione necessaria per un cantante lirico e neppure per un’
interprete vocale. Inoltre avevo un’estensione da contralto naturale, robusta e
pastosa. Forse il musical era il mondo perfetto per me.
Frequentai un’accademia di perfezionamento fra le più
esclusive, diretta da un grande cantante. Mi divertivo moltissimo e per tre
anni non pensai più ad alcun debutto sulle scene. Mi stavo laureando alla
facoltà di Mediazioni Linguistiche con una tesi sull’importanza della musica
nella cultura brasiliana. Con tutto quello che avevo fatto, che mi era stato
offerto e proposto, dopo tutti gli stimoli che avevo ricevuto, quella era la
prima strada che sentivo davvero mia. Pensare di poter lavorare un giorno con
quei giovani, per i quali la musica e la danza non sono spettacolo ma carne
viva, era come avere la certezza di non aver sprecato ventidue anni in una
recita inutile. Feci uno stage di quattro mesi laggiù e quando ritornai sentivo
di avere finalmente in me un progetto vero. Per molto tempo, nonostante tutta
la buona volontà e gli sforzi profusi a mio favore, mi ero sentita il
prolungamento di una corda vocale di mia madre, prima che una persona; e forse
di intenzioni ne avevo viste nascere e morire fin troppe, in me e attorno a me.
I ragazzi brasiliani con cui avevo lavorato, invece, non sapevano neppure che
cosa fosse un progetto, perché nessuno aveva mai contato su di loro. Era già
molto poter essere iscritti all’anagrafe, avere un nome, un riparo e qualcosa
da mangiare per il giorno successivo. Il loro progetto era molto semplice:
vivere.
La mia tesi ha ottenuto la lode e ho vinto una borsa di
studio per frequentare i due anni di perfezionamento a Rio de Janeiro,
lavorando al progetto di una scuola-lavoro per i ninos de rua. Contemporaneamente,
quasi per gioco, ho fatto un provino per lavorare nel musical The Rocky
Horror Picture Show, che la nostra giunta di provincia ha finalmente deciso
di mettere in scena dopo numerose richieste a furor di popolo e altrettanti
moralistici tentennamenti. Sono stata immediatamente scelta per la parte di
Magenta, l’inquietante bruna dalla voce cavernosa e piena di ambiguità.
«Valentina, ma
sei impazzita?». In slip e canotta nera Matteo sembrava ancor più costernato,
quasi fosse vestito a lutto. Sabato scorso, quando gli ho rivelato le mie
intenzioni dopo aver passato il pomeriggio da lui, faceva forse più caldo di
oggi. Sorseggiavo il the freddo e mi sentivo un po’ ridicola ad averglielo
detto. «E’ il momento che aspetti da anni e vuoi buttarlo via così?».
Matteo è stato il mio primo fidanzato e ancora resistiamo,
forse per affetto, forse per pigrizia e mancanza oggettiva di tempo. Proprio perché
ci conosciamo da anni la sua domanda mi ha sconcertato, ma ho provato a
rispondere con molta calma: «E’ il momento che gli altri aspettano da me, non
io: lo sai bene.». E avrei potuto aggiungere che, oltre a non essere mai stata
una scelta mia, questo debutto era ormai un ripiego anche per gli altri.
«Sì, ma sei proprio sicura che questa sia una scelta
saggia? Potrebbe essere semplicemente reattiva. Potresti persino passare dei
guai! Pensaci.»
Ci pensai e decisi che la mia decisione non era più reattiva
di qualunque altra, a meno che non si voglia attuare l’impossibile decisione di
ripartire ogni istante daccapo, come se non avessimo una storia. Serena, in
ogni caso, non c’entrava nulla con la mia storia. Era la mia migliore amica e
aveva per natura la stessa passione che avrei dovuto avere io per destino, il
canto. Era figlia di due impiegati di banca e non aveva certamente ricevuto la
mia stessa educazione artistica: dopo una brillante maturità scientifica
studiava con profitto medicina e soltanto a diciott’anni, a un passo
dall’iscrizione a una facoltà lunga e impegnativa, si era concessa il lusso di
frequentare una scuola di canto a indirizzo amatoriale, dove si era distinta
per talento, estensione vocale e originalità del timbro. Non si era neppure
presentata alle selezioni per questo né per altri musical, ma io non avevo
alcun dubbio che quella parte fosse sua.
Era la realtà, semplicemente. Gliel’avevo detto in questi
esatti termini, ma sulle prime lei non aveva capito che cosa intendessi: aveva pensato
piuttosto a un consiglio per il futuro, a un rimprovero per non aver tentato i
provini, forse a un mio atto di vanagloria mascherata. Non immaginava affatto
che stessi invece proponendole di debuttare al posto mio: ho dovuto dirglielo
esplicitamente. Era troppo stupita per essere felice, ma del resto il suo
carattere è sempre stato così, controllato e calmo pur nella sincerità.
Il mio piano era semplice: dove non le fossero andati bene i
miei costumi, avremmo provveduto a comperarne di adatti alla sua taglia.
Fortunatamente erano pochissimi, a parte le guepière e gli articoli di
biancheria più aderenti. Mi avrebbe raggiunto in camerino poco prima dello
spettacolo con una grande borsa piena del necessario, con il pretesto di
portarmi dei fiori. Si sarebbe vestita con una specie di palandrana di cotone,
compatibilmente con le temperature estive, e un turbante per coprire i capelli;
io sarei uscita con i suoi abiti, velocemente e senza dare nell’occhio, mentre
lei si chiudeva per qualche minuto in bagno. Sarei salita subito in macchina e
l’avrei avvertita con un messaggio sul telefonino, quando fossi stata ormai
fuori tiro. Il mio personaggio, del resto, non compare immediatamente alla
prima scena e questo facilita enormemente le cose. Si accorgeranno dello
scambio di persona solo a spettacolo iniziato, quando fare marcia indietro o
protestare è ormai impossibile.
Superata la sorpresa iniziale Serena, com’era nel suo stile,
non si scompose e mi disse che aveva bisogno di riflettere ventiquattr’ore. Il
giorno dopo mi chiamò e mi disse: «querida, meglio andare in città a
cercare la biancheria, sennò ci beccano subito!»
Trascorremmo un pomeriggio magico, divertendoci come
ragazzine. Forse non mi ero mai divertita tanto in vita mia e neppure lei,
credo. Io avevo cantato troppo e lei, forse, fin troppo studiato. Entrambe con
impegno e profitto, certo, ma con una gioia rimasta a metà. Alla veneranda età
di ventitre anni, dopo tutto, non ero mai stata in un grande magazzino
metropolitano a provare biancheria sexy con la mia migliore amica, in vista di
una parte teatrale che tutti ritenevano mia, ma che era in realtà sua!
Comperammo anche la palandrana nera di cotone e il turbante, che nessuna di noi
due possedeva, e in quella grottesca situazione fuori posto sentimmo di non
essere in fondo mai state al nostro posto e di poterlo confessare per la prima
volta a noi stesse senza disagio, anzi, persino con ironia.
Lo spettacolo
inizia alle nove. Bisogna che mi affretti. Sono salita in macchina in preda a
un’euforia leggera e la vista del nostro teatro, baroccamente kitch con quelle
sue arie da piccola Scala di provincia, mi ha fatto particolarmente sorridere.
Non vedo l’ora di vedere come andrà a finire, ma chi mai può
dirlo: c’è sempre un dopo. Per Serena sarà certamente un’esperienza importante,
qualunque cosa voglia farne. Vorrei poi che mia madre smettesse finalmente di
gorgheggiare attraverso la mia ugola e ricominciasse a utilizzare la propria
voce, per cantare e per vivere. Vorrei anche che mio padre, dopo le ore
trascorse fra studio legale e cause in tribunale, non continuasse a organizzare
eventi e cene benefiche che forse non lo entusiasmano, al solo scopo non
turbare l’armonia prestabilita della nostra dimora. In ogni caso io andrò a
Rio, almeno per questi due anni; Matteo finirà i suoi studi in Italia e poi
farà ciò che desidera, ne abbiamo già parlato. L’edificio in cui insegnerò a
questi ragazzi, alcuni dei quali sono quasi adulti, esiste già: manchiamo
soltanto noi per farlo partire. E’ curioso, ma è la prima volta che, pur avendo
chiaro ciò che voglio fare, dico a me stessa con un’apparente contraddizione:
«e poi si vedrà». Forse perché, anche quando il maestro è stato bravissimo a
dirigere l’orchestra, c’è sempre una nota incompiuta che t’insegue fuori dal
teatro come un libro non concluso, una lettera inaspettata, un sogno che non
ricorderai. Quella nota, quella melodia vagabonda senza spartito non ti
abbandona tanto facilmente e ti dice, se vuoi ascoltarla, che lo spettacolo non
è mai finito.
GIO FERRI
Gio Ferri |
Una lettera che è
anche una puntuale riflessione critica
del poeta Gio Ferri, direttore
della rivista “Testuale”,
che da oltre 30 anni anima
il dibattito sulla poesia e i suoi statuti
non solo linguistici,
com’è evidente dai richiami che ne fa in questo
scritto. Anche da
parte nostra, gli auguri di lunga vita a “Testuale”.
A Angelo Gaccione “ODISSEA”
Lesa sul Lago Maggiore, 28
agosto 2014
Caro Angelo,
allora, fra cartaceo e web
sono scaduti i 10 anni di “ODISSEA”,
e i 30 di “TESTUALE, critica della poesia
contemporanea”: congratulazioni e auguri reciproci!! Malgrado i problemi
economici dobbiamo insistere e certamente
insisteremo!
Se vai (come sarai già
andato) sul sito www.testualecritica.it potrai
renderti conto di quante (piacevoli)
fatiche di lettura-critica sono state proposte agli appassionati di poesia (che
non mancano, come vorrebbero certi interessati pessimisti). Ciò a partire dalla
prestigiosa scrittura di Giuliano Gramigna, la cui scomparsa per me, per Gilberto
Finzi, e per altri amici, ha lasciato, malgrado la nostra buona volontà di fare comunque, un vuoto incolmabile.
Sebbene l’eredità culturale e poetica dell’amico e maestro ci abbia dato anche
la forza di dedicarci a quella domanda che (come diceva Anceschi) non ha
risposta: “Cos’è la poesia?”. E se non ha risposta perché tanta fatica? Perché
ciò che vale profondamente - estremo paradosso - è una vita, labile,
irragionevole, caduca, anch’essa appunto senza risposta. Non c’è nulla, a mio
avviso, di più fascinoso di questi misteri che fanno vibrare il corpo, che
danno senso (non-senso) ai moti
creativi della mente. Più o meno per questa strada siamo sempre andati: forse è
il rifiuto del nulla - di quel nulla della prassi utilitaristica -, non certo di
quel Nulla totalizzante dal quale
nasce il senso-non-senso
dell’universo e di quella dismisura semantica dalla ricchezza segnica e di
parola, e di gesto gratuito, che chiamiamo Poesia.
Odissea è, assai
pregevolmente, un’altra cosa. E credo che chi legge Testuale non dovrebbe assolutamente trascurare la ricchezza dell’
approccio di Odissea alla realtà
tangibile (non sempre primigenia e inindividuabile) nella quale giorno per
giorno viviamo; per essa ci agitiamo, per essa ci esponiamo di persona o con la
scrittura di una voce a volte festosa, spesso esasperata, dalle ingiustizie e
dalle menzogne. Odissea scende sempre
in piazza per esprimersi chiaramente e per combattere la pigrizia interessata
di molta gente, e soprattutto del Potere di qualsiasi natura. Non che Odissea assuma questa battagliera disposizione
solamente in chiave politica o politico-sociale: non trascura certamente le
arti, la poesia, la letteratura, ma al di là delle domande sulle origini, per
lo più, cerca nella testualità
prammatica le risposte che (anche qui) non sono così facili da
individuarsi. Troppe menzogne e troppi interessi (non ultimi quelli degli
editori…) minano sovente anche in questi casi la volontà, la speranza di un poiéin che aiuti l’individuo, gli
individui, a cogliere per quanto possibile la verità. Un fare senza utilitaristici preconcetti.
Tuttavia sfogliando Odissea si incontrano sovente occasioni
critiche, poetiche e artistiche, che vanno al di là della facile segnalazione
recensiva. Solo per fare qualche esempio: ho riletto alcuni pregevolissimi
saggi su Proust, su Sanesi… e sul Surrealismo (straordinario l’apporto storico
e creativo di Arturo Schwarz). Leggo
alcune poesie o poemetti che conciliano in una quasi sempre raffinata
scrittura, i turbamenti del nostro tempo, e insieme i piaceri della Parola. O del segno artistico e
musicale.
È la pretesa di cogliere il non-senso, il vuoto, l’onirismo,
l’inconscio, il… Silenzio dal quale
si manifesta l’epifania della Parola,
che caratterizza, forse (ma non è sempre così), la ricerca critica di Testuale rispetto alle prese di
posizione concrete, vitalistiche, di Odissea.
Ovviamente i collaboratori di Testuale
non cercano assolutamente di operare al di fuori del loro tempo, dei problemi
generali: al di là delle strette analisi testuali non rinunciato affatto a far
sentire, nelle sedi più quotidiane e prammatiche, se necessario scendendo anche in piazza, nei diversi
modi d’occasione, la loro opposizione. Per uno scrittore comunque, anche se non
chiaramente politicizzato, non è difficile la presa di posizione rivoltosa, per esempio in convegni
diversi, anche quando siano dedicati a specifiche discipline di ricerca.
Ma c’è, fondamentalmente, per
Testuale, una particolare concezione
della presa di posizione rivoltosa. La
scrittura che sia indirizzata essenzialmente alla ricerca della propria
ragione, e delle ragioni della comunicazione (meglio della comunione fra autori e lettori, fra gli uomini), specialmente per
quanto attiene la poesia, pretende di cambiare (?) i modi d’essere, partendo
dalle rivoluzioni dei segni e della parola. Delle voci altre dalle quali nasca un diverso modo d’essere
comunitariamente. Non è una novità, ovviamente, venendo dalle avanguardie storiche alle neoavanguardie: Testuale apprezza e rivaluta, dove sia possibile, i tentativi del
‘900, tuttavia si pone il problema (chiamiamolo pure scientifico) di riprendere quelle analisi al di là di vane
retoriche, di giochi verbali… E le nuove
scienze, le neuroscienze e la psicoanalisi
– secondo la visione (discutibile?) del sottoscritto e la lezione di Gramigna, propongono
in proposito strumenti inediti preziosi: [cfr. “La ragione poetica. Scrittura e nuove scienze”, 1994 Mursia, Milano
– e “Vita
Storia Poesia Nichilismo” Testuale
47-48, 2009, II Sem.]
Queste idee giustificano
quella differenza che ho proposto in merito all’attività pubblicistica di Odissea e Testuale? Odissea mi pare
si rivolga soprattutto ad una visione totalizzante della realtà prammatica. Di
cui certamente anche la poesia fa parte, tuttavia in un contesto generalizzante
che affronta tutti i modi e i nodi del vivere, in qualsiasi condizione vitale e
pratica, e ancora, quando è necessario, sociale e politica. E storica. Testuale guarda piuttosto, l’ho già
notato, specificamente alle vicende linguistiche, rivolte in particolare alla Poesia, e alla parola poetica in
generale.
Qualcuno potrebbe chiedersi,
in merito a quel lavoro analitico di Testuale:
ma il linguaggio stesso non è l’espressione, il racconto della Storia? Il
linguaggio in generale e in particolare quello poetico? Possiamo cogliere qualche pietra di paragone
guardando al passato (che è anche un presente innegabile). Alle origini della
nostra vicenda linguistica. Dante, con la Commedia,
nell’Inferno e nel Purgatorio, abbraccia poeticamente le mille vicende
prammatiche della storia del suo tempo: quindi (come ho osservato per imprese
quali la tua Odissea) non s’adopra esclusivamente
a misure letterarie. Va facilmente notato tuttavia che l’azione rivoluzionaria
del linguaggio poetico fa parte del suo straordinario progetto: la scrittura,
considerando il latino destinato alla
decadenza, e il volgare in ascesa,
svolge una profonda innovazione, rivoluzionaria appunto, nei confronti di ogni
rapporto umano fattuale e linguistico. Dante con la Poesia fa la rivoluzione.
In lui quindi la Poesia è rivoluzione.
Attraverso il Canto poetico cambia il
mondo. Ed è tanto nuova in assoluto la sua presenza linguistica che fa nascere,
a fronte della stanca classicità, uno strumento di comunicazione che ancor oggi
segna la nostra lingua nazionale. Non solo: l’ibridizzazione sopra notata (tre
linguaggi in uno) comporta una varietà di risonanze che ancor oggi rendono disciplinarmente
discutibile la loro comprensione. Possiamo dire di una avanguardia per la Commedia?
In senso moderno? Il risultato linguistico, poetico nel senso che oggi, come ho
osato sostenere, rompe gli schemi e modifica le visioni è quindi quello di una difficile lettura che annuncia tra verso
e verso, tra lemma e lemma, una nuova visione della Parola, e dei suoi segni originari. L’ibridizzazione, forse, si
rinnova nel Paradiso là dove la
visione celeste – quindi squisitamente mentale – si libera della sostanza della
Storia. E delle sue discutibili
esigenze prammatiche.
Sarà Petrarca che condurrà il
linguaggio alla liberazione più ardita, rendendolo essenziale, fuor da ogni
pragmatismo, per cogliere l’essenza della Parola Poetica, vorrei dire – se la
definizione non si prestasse ad equivoci – assoluta.
Fuor da ogni preoccupazione puramente comunicativa.
In Odissea momenti, che potremmo definire storico-totalizzanti (anche
là dove si pubblicano stati soggettivamente poetici), danno, a mio avviso, una
precisa collocazione della rivista nell’ambito della realtà storico-prammatica
che quotidianamente viviamo (con qualche difficoltà!).
Non so se tu possa essere
d’accordo: comunque se tu volessi, e ne sentissi la necessità, si potrebbe in
merito a tutti gli accenni di cui sopra (il discorso ovviamente è assai più
complesso), avviare un dibattito. Oggi, quando ancora rinasce la diatriba fra
la convinzione di una Parola Poetica
che condanni diverse difficoltà di lettura, e voglia insistere su una Poesia (o musica, o arte) di facile
approccio. Ma quale facile approccio si può mai prevedere per una situazione
che viene dal profondo, da una sorta di quarta dimensione, da un universo altro?
Un affettuoso saluto.
Gio Ferri
BARBARA GABOTTO
Barbara Gabotto |
Saetta
canzone – musica di
Giacomo Guidetti
Non eri neanche nata che subito un tabù
divenne il tempo speso a meditarci su,
un bel taglio cesareo e non pensarci più,
“A sceglier quando nascere non sarai certo tu!”
Ma sperasti nei tuoi primi dì
non sarebbe durata così.
Ancora non parlavi e già con gran rigor
t’imposero d’un botto i ritmi del lavor.
Passando dal tepore di culla e i sogni d’or
al traffico da trauma, lo smog ed il rumor,
ti chiedesti nei tuoi primi dì
se sarebbe durata così.
“Un nido riscaldato non si trasformerà
in uno sforna-automi per chi poi li userà.
Se sarò a tutto campo, lo sento, ci sarà
chi le mie belle doti un giorno apprezzerà”.
Già sognavi un futuro così,
finché un giorno la scuola finì.
Però questo non basta: “Chi ti rafforzerà
saranno stage e master, e tutti da pagar.
Gratis non vale niente il credito che hai,
non sono dei parcheggi, lavoro troverai.”
E di questo convinta anche tu
ti buttasti nei corsi di più.
Ti chiamano Saetta e tu ne sai il perché:
perché fai tutto in fretta, più celere non c’è.
Gatto con gli stivali della fiaba che fu,
pronta per ogni caso, in ogni ruolo tu.
E di lì fu la storia che ti segue ancor’ora.
“Affilati le mani, acchiappa ciò che puoi,
che importa se il domani non è come lo vuoi,
pensa solo ai contratti, la vita viene poi,
anche se poi non viene, te la facciamo noi!”
Rincorrendo progetti così
si smarrirono tutti i tuoi dì,
e delusa che mai arrivi un sì
la tua testa un bel giorno svanì.
GIACOMO GUIDETTI
Giacomo Guidetti |
Homo zappiens
Seduta
davanti a me, in metropolitana, c’è una successione di persone, per lo più di
giovane età e di sesso femminile, con la testa bassa, assorte, incantate, con
le mani ravvicinate e impegnate, come se stessero svolgendo un rito religioso. Ma
non reggono un messale (o una bibbia, un corano...) né armeggiano con un
rosario, eppure quell’arnese che picchiettano con le dita con tutti i metodi
possibili li cattura in un modo paragonabile a un incantesimo mistico.
Scendo
dal treno, e con me alcune di queste persone senza sollevare il capo né
staccare gli occhi dall’aggeggio. Una ragazza mi investe, si scusa ma non mi
degna di uno sguardo, non può assolutamente essere distratta da altro, ciò che
le compare sullo schermino richiede un’inderogabile priorità, come un codice
rosso. Poco più avanti mi scontro con un giovane che non si scusa, si irrita, e
giustamente a suo parere: sono io che devo stare attento, non avendo la vista
impegnata in altra, importantissima occupazione.
All’uscita
devo attraversare la strada, il semaforo è diventato rosso per me, ma un’auto
che avrebbe il via libera non si muove. Qualcuno le strombazza dietro, la
ragazza alla guida solleva finalmente la testa e si accorge di avere il verde,
riparte, tiene il volante con la mano sinistra e guarda la strada con un solo
occhio, l’altro impegnato a controllare ciò che sta scrivendo con la mano
destra. Nel traffico cittadino si procede lentamente, ma cose analoghe le ho
viste sulle autostrade a velocità sostenute.
Incuriosito
dal fenomeno, ho cominciato a sbirciare negli smartphone che di volta in volta ho
incontrato, per strada, sul metrò, in treno, nelle sale di attesa, per capire
cosa mai può essere tanto attraente da richiedere un tale livello di dedizione. Qualche volta, non spesso, sono normali
informazioni, altre volte si tratta semplicemente di giochetti con palline
colorate, un po’ stupidi ma niente di più; prevalentemente gli utenti chattano
sui social network (il più visitato è senza dubbio Facebook), si inviano
messaggi per raccontare le proprie vicissitudini o per spettegolare, osservano
compiaciuti fotografie di loro stessi o della propria cerchia di amici e
parenti, e magari in contemporanea ascoltano qualche canzone con gli auricolari.
Sia
ben chiaro, io non demonizzo affatto né questo né alcun altro strumento tecnologico,
e uno smartphone ce l’ho e lo uso anch’io, dipende solo dal come e dal perché
lo si adopera, nel senso che la sua validità è massima solo quando riusciamo a servircene
restandone ben separati, esterni ai suoi meccanismi. Quando invece diventa un
prolungamento, una protesi del proprio cervello, come di fatto è per i famosi sempre connessi (il 55% dei giovani
sotto i trent’anni) e per la massima parte degli utilizzatori di social network
(il 90% degli stessi), il pensiero
prende la forma della gabbia in cui è costretto.
Un
amico diceva che il display è lo stagno di Narciso, ed ha lo stesso effetto
funesto. Lo schermo dello smartphone è indubbiamente uno specchio virtuale,
dove si può continuare ad osservare se stessi e ciò che ruota intorno a se
stessi, distraendosi dall’osservazione del resto del mondo che non ci riguarda
direttamente e immediatamente. Ma è anche illusorio: lo smartphone (come del
resto il computer) è una cimice che spia i nostri comportamenti, per meglio
condizionarci. E’ insomma uno specchio semitrasparente.
Una
recente pubblicità televisiva prometteva un’estate
sempre connessi, mi è immediatamente venuto da pensare: “sai che palle,
almeno in vacanza bisognerebbe fare qualcosa di diverso dal solito”, ma
evidentemente ciò non vale per le dipendenze, perché anche questa lo è, come le
droghe o il gioco d’azzardo, con gli stessi meccanismi neuronali. La questione
quindi ancor più che culturale interessa la fisiologia, sono coinvolti sia il
sistema percettivo che quello emozionale, e specifiche aree del cervello, già
predisposte alla riflessione analitica, vanno sempre più specializzandosi per fornire
risposte immediate, in un certo senso tornando molto indietro nel tempo, ad uno
stato primordiale dove la risposta istantanea è essenziale per la
sopravvivenza.
In
America i sempre connessi vengono
dagli studiosi definiti come appartenenti a una nuova specie cognitiva, Homo zappiens, in cui gli apprendimenti
avvengono per quanti di informazione piuttosto
che per flussi continui. Da noi si usa chiamarli biomediatici o cyborg
(ossia sintesi di uomo e macchina, avendo quasi incorporato gli strumenti di
comunicazione). Utilizzano la rete per connettersi prevalentemente coi propri
simili, cercano conferme alle proprie opinioni scarsamente motivate, si esprimono
sinteticamente ed emotivamente, con frasi tanto contratte da somigliare a
slogan più che ad opinioni ragionate, ed esibiscono il proprio io fino al parossismo.
I
confronti avvengono per lo più all’interno dei social network, sistemi chiusi,
sigillati, per interagire coi quali si può solamente aderirvi, dove si giudica
con puerili e ultraschematici “mi piace/non mi piace”. E poiché non si può
essere asociali, è la gente stessa che ti costringe a inserirti, prima o poi e
inevitabilmente, in questi circuiti-trappole. Se non sei iscritto verrai
tagliato fuori.
Il
fenomeno mi ricorda il Mito della Caverna
di Platone, dove i prigionieri vedono soltanto in una direzione ombre bidimensionali
e si convincono che queste siano le persone reali. Tutto ciò che esiste per
loro non è intorno, ma sul fondo della caverna, e il peggio nasce se vengono portati
fuori, non riconoscendo il mondo reale e la luce del sole. Per essi la realtà è
tutta lì, tanto che su quest’assunto qualcuno ci ha addirittura costruito un
partito politico, sostenendo che questo sistema di relazioni è il più
democratico possibile.
Certo
anche questo è sintomo di una radicale trasformazione culturale, addirittura antropologica come l’ha definita
qualcuno. E’ la direzione stessa della conoscenza che si sta trasformando,
verso un uso immediatamente utilitaristico e di settore, dove contano le
specifiche competenze, per scopi pratici e immediati, mentre si affievolisce
soprattutto la funzione formativa, e la curiosità è deviata su argomenti
futili, frequentemente riguardanti solo una ristretta cerchia individuale. Tutta la cultura giovanile si sta forgiando
in tal senso, dove la velocità è valore supremo, nella ricezione e nella
risposta, che non può essere che dettata più dall’emotività del momento che da
un calibrato ragionamento. A questo genere di cultura fanno da contraltare
abissali ignoranze, come quella pressoché totale della geografia, il che
nell’era globalizzata diventa uno strambo paradosso, o della storia,
soprattutto nella successione temporale degli eventi, con errori di secoli se
non di millenni (e verrebbe anche da chiedersi come mai si è così ridotta la capacità
di memoria da dimenticare quasi subito ciò che si è imparato a scuola).
D’altronde quando il mondo è tutto lì, in uno schermo, non c’è più differenza
fra qui e là, fra prima e dopo, e nemmeno quindi fra causa ed effetto o
continuo e discontinuo.
L’interpretazione
degli sviluppi è certamente problematica perché riguarda un sistema assai
complesso, caotico, di quelli difficili da prevedere anche a medio termine,
come nella meteorologia.
Per
chi poi come me è di una generazione lontana, anzi proprio di un’altra era, è
ancora più complicato affrontare questi fenomeni (che a dire il vero anche dai
più giovani vengono affrontati assai male). Possiamo tentare di effettuare
delle analisi, ma non di trovare delle risposte, è la nostra forma-mentis che
ce lo impedisce.
LEANDRO FOSSI
La veglia dei cari estinti*
Mio fratello mi ha telefonato che la nostra vecchia casa,
disabitata da circa tre anni da quando è morta nostra madre, verrà demolita.
Nell’areaverrà costruito un condominio di sei appartamenti.
Non andarla a vedere per l’ultima volta prima che venisse
abbattuta, mi sembrava di mancare di rispetto alla memoria dei miei genitori. Poiché
abito e lavoro a duecento chilometri di distanza, decido di partire nel tardo
pomeriggio dopo l’orario d’ufficio. Quando arrivo e scendo dalla macchina ci si
vede ancora e si sentono gracidare le rane. Lì vicino hanno costruito un
laghetto per la pesca sportiva. Ho intenzione di fermarmi non più di mezz’ora,
il tempo per entrare, dare un’occhiate alle stanze e scovare qualche oggetto
grazioso da prendere per ricordo, che non sia troppo ingombrante, se no mia
moglie mi impedisce di portarlo in casa. Sono costretto a forzare la chiave per
aprire la porta, con il rischio di spezzarla. Varcata la soglia, mi investe una
zaffata di chiuso e di muffa. Quante volte ho detto a mio fratello di venire ad
aprire le finestre per cambiare l’aria! Io non potevo, abitavo troppo lontano.
Mi precipito a spalancare la porta finestra della cucina
per far uscire il cattivo odore; sul tavolo vedo un paio di occhiali rotti, nel
ripiano del mobile della televisione una scatola di latta per biscotti con
dentro l’occorrente per cucire. Ho la sensazione che la casa sia ancora abitata
e un irrazionale senso di paura mi pervade. Mi guardo attorno e mi aspetto di
vedere da un momento all’altro qualcuno davanti. Questa sensazione, anziché
diminuire, si accresce notando che nei mobiletti pensili lungo la parete: ci
sono piatti, bicchieri e posate pronti per essere usati, pacchi di pasta
incominciati, una scatola di pomodori pelati… Nell’ultimo mobiletto sopra il
lavello scorgo tra i tegami la grande pentola con lo scolapasta incorporato. Veniva
utilizzata la domenica per le tagliatelle fatte a mano. Mi torna vivida
l’immagine di mia madre davanti ai fornelli che solleva lo scolapasta in mezzo
al vapore che esce dalla pentola. Noi - io, mio padre e mio fratello-, già
seduti a tavola, la guardavamo in silenzio con gli occhi spalancati come se
compisse una magia. Lei si girava e ci sorrideva. Ma subito una visione
sgradevole mi distoglie da questi ricordi gradevoli. Dentro il lavello scopro i
resti dello scheletro di un uccello. Penso che abbia fatto una fine orrenda e
sia morto di sete. Dalla grandezza potrebbe essere stato un merlo o un rondone
oppure uno storno, che, entrato, non è più riuscito a trovare una via di fuga.
Sono ancora visibili il piccolo cranio bruno, la cassa toracica e la fragile
intelaiatura delle ali, simile a una foglia secca.
Raccolgo con raccapriccio quei pochi resti servendomi di
un foglio di giornale e li getto nella pattumiera fuori della porta. Poi salgo
al piano di sopra per andare in bagno a lavarmi le mani sperando che l’acqua
corrente funzioni ancora. Apro il rubinetto del lavandino; per un po’ borbotta,
poi vedo sgorgare a fiotti un liquido ferruginoso di un rosso scuro, denso e
brillante. Sgrano gli occhi per lo spavento, poi mi metto a ridere: non è
sangue, è solo ruggine che si è depositata sulla tubatura. Intanto le rane
hanno smesso di gracidare, si è fatto buio e la notte si preannuncia livida,
senza luna né stelle. Oramai è tardi, non posso tornare indietro. Per la miopia
faccio molta fatica a guidare di notte, specie in autostrada. Scendo di nuovo
di sotto per continuare la visita nel salotto accanto alla cucina. Ricordo che
restava quasi sempre chiuso; io e mio fratello non potevamo quasi mai entrarci
per non metterlo in disordine. Veniva usato per il pranzo di Pasqua e di Natale
e le rare volte che avevamo un ospite di riguardo.
“Oggi si mangia in salotto”, diceva mia madre con voce
allegra. Noi, non solo ci lavavamo le mani, ma ci presentavamo a tavola più
ordinati del solito.
Le stoviglie e le posate buone venivano tenute nel
mobiletto basso insieme alle tovaglie di lino e ai tovaglioli. Pensavo di
trovare il servizio da caffè di porcellana rosa pallido con il fondo bianco,
ricevuto dai miei come dono di nozze.
Ricordavo ancora l’urlo di mia madre quando mio padre
inavvertitamente aveva fatto cadere una tazzina. Le erano venute le lacrime
agli occhi mentre si piegava sulle ginocchia per raccogliere i pezzi sperando
di poterli riattaccare. A me e a mio fratello ci veniva da sorridere perché ci
aveva sempre proibito di toccarlo…Oltre al servizio da caffè, pensavo di
trovare qualche altro oggetto che mi avrebbe fatto piacere portare via: ad
esempio il macinino del pepe a manovella ereditato dai nonni, la zuccheriera
con il bordo argentato, il contenitore del formaggio grattugiato da mettere in
tavola… Aperti gli sportelli, constato con rammarico che prima di me ci deve
essere arrivato qualcun’altro, forse mio fratello, perché ci sono rimaste solo
poche cose scadenti. Scopro tuttavia, inaspettatamente, sotto dei tovaglioli
consunti, delle agende. Provo un tuffo al cuore e, sento un brivido di
commozione nel riconoscere la calligrafia di mia madre. Lei si vantava di avere
una calligrafia chiara ed elegante, non a “zampe di gallina”, come mio padre. Le
agende, una decina -sicuramente un dono di mio fratello che
lavorava in banca- riportano l’elenco delle spese sostenute quotidianamente.
Alcune pagine sono rimaste in bianco, mi sento penosamente imbarazzato: in
nessuna pagina compare la voce di una spesa fatta per andare al cinema, a
teatro, a un concerto o per qualsiasi altro svago. Quando ci telefonavamo le
chiedevo se aveva bisogno di denaro. Cosa vuoi, si schermiva, sono anziana, la
pensione è più che sufficiente. Anche le spese che aveva registrato erano
talmente modeste da accrescere il mio senso di vergogna.
Continuo a sfogliare le agende anche quando salgo le
scale per andare al primo piano dove ci sono le stanze; a metà gradinata
rischio di cadere non guardando dove metto i piedi.
La camera dei miei appare come l’ha lasciata mia madre:
il letto matrimoniale è rifatto con una coperta pesante; era d’inverno quando
mia madre è stata portata all’ospedale, dove è deceduta. Apro le persiane a
fatica perché i rami del nespolo del Giappone che si trova nel giardino davanti
alla casa sono talmente cresciuti da arrivare all’altezza della finestra.
D’estate attirava molti uccelli che venivano a beccare i
suoi frutti gialli.
Sotto il cuscino, nella parte dove si coricava lei, c’è
ancora la sua camicia da notte azzurra. I mobili dell’arredamento erano il suo
orgoglio: diceva che erano stati costruiti da un bravo artigiano con legno
pregiato, addirittura di noce. Si vantava soprattutto del grande armadio con i
bordi intarsiati e la specchiera in mezzo, davanti alla quale da ragazzo mi
esibivo a fare boccacce e ad improvvisare comizi.
I mobili, secondo l’esperto incaricato da mio fratello,
sono risultati invece fabbricati con dei pannelli di truciolato con sopra una
sottile pellicola di legno di noce.
Sul ripiano del comò vedo eretto un altarino con le
fotografie dei parenti defunti. Le fotografie sono state ingrandite e
incorniciate. C’è quella di mio padre, quella dei nonni materni e paterni,
quella di uno zio morto in guerra: è in divisa con le fasce intorno alle gambe,
quella di una ragazza giovane dal viso molto bello che non ho mai conosciuto.
Apro il primo cassetto per cercare una foto di mia madre; da dentro si leva un
sottile profumo di cipria e quello, meno gradevole, di una sostanza oleosa. In
una scatola, circondata da tante cianfrusaglie: una candela, una spazzola per
abiti, un pettine privo di un dente, tante forcine per capelli, trovo molte
fotografie. In quelle più recenti mia madre porta sulle spalle uno scialle di
lana fiorato, lungo e senza frange che le avevo regalato per il suo
settantesimo compleanno. Lo scialle è ancora dentro l’armadio, appeso sopra il
tailleur grigio scuro che indossava il giorno del mio matrimonio.
Trovo una foto molto vecchia che ritrae tutta la
famiglia. Mio fratello doveva avere pochi mesi; porta una cuffietta bianca ed è
seduto sulle ginocchia della mamma, io sto in piedi di fianco a lei e le arrivo
all’altezza della spalla. Mio padre è in piedi dietro di noi, ha il collo magro
e già allora si notava che era di salute cagionevole. Un’altra foto mi fa
sorridere e mi mette tenerezza. Immortala il giorno della mia cresima: mi
ritrae inginocchiato su un inginocchiatoio di legno con un libricino fra le
mani giunte e un fiocco di raso color crema legato al braccio. Non ho
un’espressione allegra: ho la faccia imbronciata e le orecchie a sventola,
dovevo essere uno di quei bambini che non ispirano simpatia. Guardo l’orologio
e mi accorgo che si è fatto tardi. Non vedo altra soluzione che coricarmi nel
letto rifatto. L’indomani devo essere in ufficio non più tardi delle dieci:
entro il mese ci saranno le promozioni; sono tre anni che attendo la nomina a
dirigente. Per essere lucido, devo assolutamente dormire almeno un paio d’ore. Mi
tolgo le scarpe, i pantaloni e la giacca e mi infilo sotto le coperte,
coricandomi nella parte di mio padre per non venire a contatto con la camicia
da notte della mamma.
Le lenzuola sono fredde e umide, ci sarebbe voluto per
riscaldarle il “prete” con dentro lo scaldino caldo che adoperavano i miei
nonni… Rabbrividendo mi giro sul fianco destro stringendo le braccia sul petto;
di solito è la posizione che mi aiuta a prendere sonno. Mentre stavo
sprofondando nel dolce torpore del dormiveglia, sento qualcosa che si muove
sulla coperta, forse un topo. La casa è stata abbandonata per tanto tempo, non
è improbabile che qualcuno abbia trovato comodo sistemarsi qua dentro. Spalanco
gli occhi e mi metto in allerta. Nel buio fitto sento arrivare dei lamenti,
delle voci piene di tristezza come un canto funebre bisbigliato a bocca chiusa.
Sono convinto che provenga dai defunti delle fotografie e anche se è buio vedo
che mi stanno fissando con le facce aggrottate. Che cosa vi ho fatto? chiedo
ingenuamente. Perché non mi lasciate dormire?
I lamenti continuano e si confondono con quelli del vento
che soffia fra i rami del nespolo. Balzo dal letto e vado a riporre tutte le
fotografie incorniciate nel primo cassetto del comò. Così smetterete di
smaniare e di tenermi gli occhi addosso! Torno di nuovo sotto le coperte e mi
corico sull’altro fianco. Trascorso un po’ di tempo, vedo mia madre e i parenti
defunti, delle fotografie, mettersi in silenzio intorno al mio letto. La loro
presenza non mi spaventa. I loro volti sono sereni e tranquilli, mi fanno
capire che la morte non è così tremenda come si pensa e che non è vero che i
morti non possono comunicare con i vivi.
“Dove state, che cosa fate tutto il giorno?”, gli
domando. Le mie parole interrompono la loro immobilità. Sorridono e mi guardano
con dolcezza.
“Dove vuoi che stiamo!” risponde qualcuno, forse mio
nonno materno cui ero molto affezionato. Era tra tutti i parenti quello più
prodigo di regali.
“Sono per caso morto anch’io? Perché mi trovo in mezzo a
voi?”, chiedo con ansia.
“Tu sei ancora tra i vivi, non preoccuparti!”, risponde
mia madre.
“Presto le ruspe distruggeranno ogni cosa. Tutto quello
che c’è qua dentro verrà disperso. Ho il cuore a pezzi”.
“Non disperarti, è una legge di natura”, dice ancora mia
madre. Gli altri la ascoltano attentamente.
“Sì, però non è giusto. Ho dei rimorsi, un sacco di
rimorsi, come se io e mio fratello vi volessimo cacciare… Ho timore che anche
in passato non mi sia comportato bene”.
“Cosa stai dicendo?”, protesta mia madre.
“Vorrei tornare indietro e ricominciare da capo. Mi
sembra di non aver combinato niente di buono…”
“Tutti lo vorremmo”, ride mio nonno. “Purtroppo non è
possibile”. Ora sono sicuro che era stato lui a parlare. Anche la nonna, che le
sta accanto, si mette a ridere.
“Se non ti fanno dirigente non affliggerti, non è
importante. Sono altre le cose più
importanti”, interviene mio padre. Parla con fatica come negli ultimi anni
prima di morire.
“Che cosa lo è?”, chiedo.
“Se ti rimorde la coscienza dovresti capirlo da solo”.
Non ho tempo per ribattere e porre altre domande. Dalle
persiane un raggio di sole attraversa la
coperta del letto e le persone che mi stavano intorno si disperdono come
nebbia.
La stanza è sommersa di luce, sento il cinguettio degli
uccelli e mi sembra di sentire in lontananza lo sferragliare delle ruspe. Tra
breve arriveranno a compiere il loro lavoro di distruzione, a mordere e a
scavare e ridurre la casa a un cumulo di macerie.
(*Leandro Fossi è scomparso a Milano nell’agosto del
2013. Questo racconto è inedito e postumo, Leandro lo aveva scritto nel
Dicembre 2008)
UN FIUME CHE PASSA SOTTO CASA
Acqua e cemento: una lotta ìmpari
È stato Gabriele*
che mi ha incontrato l’altro giorno sulla spiaggia, mi ha spiegato l’iniziativa
per i dieci anni di “Odissea”, e mi ha detto: “Dovresti scrivere anche tu
qualcosa per l’occasione. Che ne so: qualcosa sulla carta, o qualunque cosa ti
stia veramente a cuore in questo momento…”.
Certo,
potrei rifugiarmi sul professionale, e denunciare quanto sia sbagliato, demagogico
e miope giustificare come scelta ecologica l’uso di Internet e dei mezzi
elettronici al posto della carta. Usiamo pure altri argomenti, ma per favore
non quello ecologico! Potrei scriverne per pagine e pagine col sostegno delle
associazioni di categoria. Ma invece no, questa volta preferisco la seconda
opzione del professore, preferisco parlare di qualcosa che mi sta
particolarmente nel cuore, in questo momento. Scriverò dunque di come ci si
deve comportare quando si scopre di avere un fiume che passa sotto casa. Premetto
che stiamo ristrutturando casa. Avevamo detto all’impresa: “Secondo noi che ci
abitiamo c’è molta umidità”.
“Non c’è problema” ci hanno risposto, “con i
mezzi attuali risolviamo ogni questione di umidità!”.
A
luglio dell’anno scorso, il primo passo è stato l’arrivo di un Geologo, con la
G maiuscola e un invidiabile armamentario di sonde e perforatori. Ci ha fatto
mezza giornata di fori in giardino.
“Non
c’è problema” ci ha rassicurato, “la falda acquifera passa 6 metri sotto la
superficie del suolo. La casa è secca”. Noi ci siamo sentiti subito meglio:
secondo le misure della scienza, non era la casa ad essere umida, eravamo noi a
sentire bagnato. Eravamo dunque noi quelli sbagliati, e abbiamo seriamente
considerato di sottoporci ad un trattamento di analisi presso uno specialista.
Poi abbiamo lasciato perdere: avevamo già abbastanza spese.
Tronfi
comunque di questi risultati, passa il tempo, noi ce ne andiamo temporaneamente
in un’altra abitazione, e l’impresa comincia la ristrutturazione. A marzo, dopo
un periodo di brutto tempo e piogge, arriviamo al clou dei lavori: il nuovo bow-window
in giardino. In ossequio alle nuove paterne norme antisismiche, lo si deve
sostenere in una gabbia di pilastri in cemento armato, larghi 30 cm, e
penetranti almeno 8 metri nel terreno. “Non c’è problema” ci garantisce
l’impresa. Ed è qui, al terzo “non c’è problema”, che comincio ad avere paura:
se uno cerca la sfiga, prima o poi la trova. E difatti, ecco la scena alla
Ridolini: arriva la perforatrice, i tecnici specializzati abbattono il maglio
per cominciare la perforazione delle fondamenta … e come la punta della
trivella buca il suolo parte un gran getto di fango e acqua che inonda gli
uomini e schizza fino in cima al secondo piano. Alla faccia del terreno secco!
Segue
immediatamente la riunione di emergenza: specialisti e associati risondano,
rimisurano, e chiariscono: sotto casa passa una falda acquifera, un torrente,
che è sì a 6 metri di profondità in periodo di siccità, ma che si riempie e
sale fino al livello del suolo non appena piove. Comunque “Non c’è problema” ci
consolano, “risolveremo senz’altro la cosa”. Aiuto! – penso io.
Come
ci si deve comportare quando si scopre che un fiume passa sotto casa? Beh, la
prima cosa, quando lo si scopre, è un inevitabile, insostituibile attacco di
panico. Con i sintomi tipici: insonnia, urla nel buio, pianto solitario negli autobus.
Poi si razionalizza, ed è interessante scoprire la molteplicità delle opinioni
per risolvere un caso come questo. Molti sono pronti a dare consigli. Anche
gratis. Il migliore è stato un amico, dice di intendersene molto, ha avuto un
caso simile. Mi spiega per filo e per segno: tre ore fitte di schemi e
disegnini. Mi ha quasi convinto. E poi conclude: “Sai però, dopo tutto questo
lavoro ho la stessa umidità di prima!”
“Non
c’è problema” penso io.
La
questione è di quelle fondamentali. O vinciamo noi o vince l’umidità. Mors tua
vita mea. L’umidità è un nemico bruttissimo. È tenace, subdolo, e anche
permaloso. Se lo combatti, devi usare tutte le armi che hai a disposizione.
Senza pietà. Teniamo un rapido consiglio di famiglia e ci accorgiamo che oramai
siamo in ballo: non ci resta che ballare. Ci prepariamo alla lotta.
Impariamo
subito una cosa: l’acqua non si elimina. La si devia. L’unica notizia che trovo
di acqua forse veramente asciugata è quella contenuta nella pubblicità di un
deumidificatore (“Ti g’ha secà el canal” – ve la ricordate ?). Ma è una
pubblicità, e tendo a non crederci.
Tra
l’altro, l’impresa ristrutturatrice smette di dirci che non c’è problema, e
risale di molti punti nella scala della mia fiducia. Adesso ci assiste molto e
ci consiglia.
Decidiamo
di creare una trincea tutt’intorno alla casa e dei solchi sul fondo della
stessa. Dovremmo così intercettare la falda in arrivo e convogliarla verso la
fogna senza che stazioni sotto casa. E questa è la parte facile da capire. Poi
però si tratta di non succhiare nel pavimento e nei muri verticali l’umidità
che comunque resta. E qui il lavoro si fa arte.
Io
non sono un esperto di opere civili, neanche un dilettante o un apprendista: al
massimo sono un aspirante, e non mi è facile capire i termini tecnici specifici
di chi ci espone le sue soluzioni. Da come mi sembra di capire, in linea di
massima, ci propongono malte e cementi speciali, da mettere per terra o sulle
pareti, che fanno evaporare un po’ di più lì, o sono un po’ più impermeabili
là.
Ci
presentano anche gli “igloo” (degli sgabelli che distanziano il pavimento dal
suolo, e permettono il passaggio di aria e impianti al loro interno): noi ci
innamoriamo del termine esotico (mi ricorda tanto l’amata Finlandia), e
decidiamo di metterne senza risparmio.
Vengono
anche con pifferi e fischietti (sempre dal Veneto: sono grandi specialisti da
quelle parti), e ci propongono di fare delle flebo ai muri con sostanze più o
meno farmaceutiche: dicono che per gli affreschi del Canal Grande hanno fatto
miracoli.
Molte
idee, molte proposte. Un po’ perché non sappiamo gran che decidere, un po’
perché siamo determinati ad usare la più grande potenza di fuoco disponibile
contro il nemico, alla fine concludiamo di adottare il massimo delle soluzioni che
ci paiono intelligenti: trincee e solchi, malte e cementi speciali, igloo e
flebo.
Ora
molto si è fatto. I lavori proseguono, e se Dio vuole rientreremo a casa nel
prossimo inverno. Volete però sapere come va a finire la storia del fiume sotto
casa? Francamente non lo so ancora, e
bisognerà aspettare di tornarci ad abitare per potere veramente dire se avremo
vinto l’umidità. Ve lo racconterò a suo tempo in un nuovo scritto, se vorrete.
Non c’è problema.
Sì,
questa storia è per ora senza conclusione, ma ci ho tenuto a raccontarla lo
stesso perché, caro lettore, sinceramente, è quella che mi sta veramente nel
cuore in questo momento.
*Si
tratta del nostro collaboratore, Gabriele Scaramuzza, docente universitario e
filosofo.
*Luigi
Tasso è un ingegnere elettronico nato a Genova, che fin dal 1974 è vissuto nel
mondo della carta, in particolare occupandosi dell’automazione della sua
produzione.
MICHELA BEATRICE FERRI
Michela Beatrice Ferri |
Breve
viaggio alla riscoperta di Berkeley,
nel
cinquantesimo anniversario del Free
Speech Movement
Nella tarda
mattinata di venerdì 28 marzo 2014 attraversavo per la prima volta in vita mia
il Sather Gate, progettato dall’architetto John Galen Howard e realizzato da
Giovanni “John” Minghetti nel 1910. Passeggiavo nel campus della University of
California a Berkeley. Era una giornata di sole, e il sole in California rende
ancor più “californiani” i luoghi, soprattutto quei luoghi che hanno fatto la
Storia. Passeggiando, discutevo con mio marito – ingegnere informatico, che si
trova a suo agio nella patria dei computer
scientists – di che cosa accadde cinquant’anni fa in questo ateneo fondato
dal sacerdote congregazionalista Henry Durant.
Non è detto che tutti i fondatori di ciò
che assume toni “grandiosi” siano mossi da consapevolezza. Nel caso specifico
della creazione dell’ateneo di Berkeley, senza alcun dubbio padre Henry era del
tutto inconsapevole di quale importanza avrebbe assunto questo luogo, che
divenne uno dei centri universitari tra i più prestigiosi al mondo. La
University of California nacque il 23 marzo 1868: “Fiat lux” è il motto che viene scelto per questa nuova istituzione,
la prima università di questo Stato americano.
Fu l’avvocato Frederick Billings, di San
Francisco, a suggerire di dedicare il luogo a George Berkeley, teologo e
filosofo nato a Kilkenny, in Irlanda, nel 1685 e morto a Oxford nel 1753. Prima di morire George Berkeley aveva fatto pubblicare
i suoi “Verses on the Prospect of
Planting Arts and Learning in America”, che contengono i celebri: «Westward the course of empire takes its way;
/ the first four Acts already past, / a fifth shall close the Drama with the
day; / Time's noblest offspring is the last». Frederick
Billings pensò che altre parole non avrebbero potuto essere più appropriate per
celebrare ciò che i fondatori delle colonie americane crearono superando le
rovine della vecchia Europa (“Il corso dell’Impero è volto ad Occidente”).
Penso, però, a una “ripresa” più che a
un “superamento”. Cammino verso la Sather Tower, completata nel 1914 e chiamata
anche “The Campanile”: il soprannome le è stato dato per la visibile
somiglianza al campanile di San Marco a Venezia. Ancora una volta l’architetto
John Galen Howard non poté fare a meno di riprendere uno stile europeo!
Berkeley accolse l’italiano Emilio Segrè
e il polacco Alfred Tarski, e molti docenti emigrati dal continente europeo.
Purtroppo non ha il merito di avere assegnato il primo Ph.D. in Computer Science: ad ottenerlo fu -e
immagino il lettore sorpreso, mentre legge- suor Mary Kenneth Keller presso la
University of Wisconsin-Madison, nel maggio del 1965, con una dissertazione
intitolata: “Inductive Inference on Computer Generated
Patterns”.
Nel settembre dell’anno precedente a
Berkeley accadde ben altro: il 1964 avrebbe segnato la nascita del Free Speech Movement. A guidare questo
movimento di protesta furono alcuni studenti, tra cui Mario Savio, Michael
Rossman, Brian Turner, Bettina Aptheker, Steve Weissman, Art Goldberg, Jackie
Goldberg.
Dopo anni di tensioni interne al campus,
il 14 settembre 1964 il colonnello Katherine Towle, in quegli anni Assistant Dean of Students, annunciò
l’applicazione rigorosa dei regolamenti dell’ateneo, che vietavano l’utilizzo
delle strutture universitarie per accogliere gruppi politici o per sostenere
candidati, l’utilizzo di altoparlanti esterni e l’affissione di cartelli per
messaggi politici. Il sistema universitario sembrava volere smorzare la fiamma
del crescente desiderio degli studenti di Berkeley di fare entrare la politica
nel campus. Alle spalle di questo evento vi è la nascita della cosiddetta New Left, vi è la crisi di Cuba, vi è
l’assassinio di John Kennedy, vi è la guerra in Vietnam. Andare al fondo di
questa vicenda per comprendere “chi” e “che cosa” veramente spinsero da una
parte e dall’altra, è un’impresa ardua. Più ardua delle motivazioni che stanno
alla base della creazione di una università.
Il Free Speech Movement può essere
visto, cinquant’anni dopo, come l’esplosione di una serie di tensioni: il
crescente abuso dell’area del campus per scopi politici ed una presa di posizione
da parte dell’università -che in passato non aveva dato peso all’applicazione
delle norme che avrebbero potuto regolare alcuni eccessi- per regolare la
situazione, si scontrarono. Il movimento studentesco
americano nasce il 1 ottobre 1964: quel giorno sulla Sproul Plaza del campus,
Jack Weinberg venne arrestato mentre distribuiva volantini politici. Un gruppo
di studenti guidati da Mario Savio bloccarono per trentadue ore l'auto della
polizia su cui sarebbe dovuto salire Weinberg. Alcuni collezionisti si sono
chiesti che fine abbia fatto quell’automobile.
ANITA GUARINO SANESI
Confesso che mi accingo a pubblicare questa nota (ma forse dovrei definirla per quello che è: una delicata, generosa lettera di affetto) invaso da un forte senso di pudore. Tanto più preziosa, questa lettera, perché vergata da una donna non incline alle facili smancerie; eticamente rigorosa, intransigente quando necessario, a volte spigolosa, ma vera. Non credo oggi ce ne siano molte di donne con una personalità come quella di Anita Guarino Sanesi, in questa Milano sempre più distratta, compromessa e superficiale. Il poeta, artista, critico e traduttore Roberto Sanesi, che l’ha avuta come compagna fino alla fine della vita, lo considero fortunato. La caparbietà con cui Anita sta difendendone il grande valore di artista, è davvero ammirevole. Dal riordino e catalogazione delle carte, dei libri, delle opere visuali fino al Meridiano uscito da Mondadori, al recente bellissimo zibaldone dal titolo “Di te, di me, dell’albero” in cui Anita non vi profonde solo il suo affetto di moglie e di donna, ma ci restituisce una panoramica straordinaria di una temperie culturale ed intellettuale, dentro cui si muovono personaggi, idee, scritture, che hanno fatto la storia creativa di un sostanzioso segmento temporale dell’Italia e dell’Europa. (Angelo Gaccione)
***
ANITA PER ANGELO
Come oggi la memoria ci avvolge. Ci richiama a pensare, a ripensare,
a riflettere su ciò che abbiamo fatto e, nel gelo della diffusa indifferenza, a
ciò che non abbiamo fatto. Per me, 13 anni fa, scivolata in un vuoto
incolmabile, l'incontro con "Odissea" e il suo promotore, la
voce del foglio nutrita di inusitata fierezza, gridata per rivendicare la dignità dell'uomo in una
società corrotta e imbecille, ha significato "Si può, si deve. Andiamo
avanti". Certo, la protesta più o meno arrabbiata degli indignati, spesso
fortemente intrecciata a interessi ideologici o visceralmente personali, c'è sempre
stata ma in questa operazione c'è qualcosa
di diverso: c'è il segno della "differenza".
Copertina del libro di Anita |
Una
differenza, soprattutto disegnata dalla totale libertà di ragionare in proprio,
di dire con coraggio, di diffondere idee totalmente emancipate dal giogo del
padrone. Portano il segno della differenza l'estrosa conduzione editoriale, economicamente
indipendente, la presenza spontanea, generosa, silenziosa dei collaboratori.
Operazione
difficile, umanamente straordinaria -fatica amicizia umiltà-. La voce veniva
portata nelle case, di porta in porta, di persona, a piedi: a noi, gli abbonati
di “Odissea”, svegliati, inchiodati ad ascoltare.
Roberto Sanesi |
Ancora
giovane, uomo gentile, estroverso, entusiasta della vita, entusiasta dell’amicizia,
sorridente, rispettoso, acutamente capace di carpire le qualità del prossimo,
travolgente nella parola sino allo spasimo delle sue povere corde vocali e
delle nostre provate membrane auditive, suggeritore di iniziative, di proposte,
di progetti e di rischi…
Visuale autografo di Sanesi |
Creativo,
sensibile, incazzato.
Come
sottrarsi all’onda travolgente della persuasione che sa effondere un simile
personaggio? Come non rispondere alle proposte che il suo intuito sostiene
possibili? Alla forza della intenzionalità di muoversi verso un orizzonte,
forse non conquistabile, ma possibile, da avvicinare, da interpretare, da
capire, da analizzare.
Utile o
inutile? Ho sempre pensato che ciò che conta è che Angelo ha occupato uno
spazio di denuncia. Si scopre che qualcosa si può sempre fare reclutando
(contro noia, fatica, paura) le capacità tenute archiviate nel proprio io. In
questo Angelo ha la qualità di dare fiducia e speranza. È una qualità difficile
da trovare. È presente solo in alcuni rari docenti. In questo caso in un
docente imprenditore. Imprenditore “culturale”.
Altra rarità.
ALICE CAPPAGLI
DALLA PARTE DEL VIOLONCELLO
Più la cultura
musicale in Italia viene trascurata, più i fondi riservati ai teatri di
tradizione sono tagliati, più le categorie che hanno dedicato alla musica la
propria vita sono praticamente abbandonate a se stesse e relegate nel recinto
di “pubblica amministrazione”, più le Fondazioni sono alla mercé degli eventi e
svendute sul mercato come inutili souvenir di un bel tempo che fu, e più la
gente che si incontra per la strada è curiosa di conoscere i segreti del saper
fare musica.
E’ un paradosso questo che almeno io che di musica vivo,
constato praticamente ogni giorno e nelle più diverse situazioni. Succede un
po’ come quando ai bambini è preclusa un’ala della casa in cui qualcuno vive da
solo, e misteriosamente. Addirittura ci sono delle volte in cui, in vacanza, o
in viaggio, o in un negozio in cui compro un vestito nero da concerto, cerco di
evitare scrupolosamente l’argomento “lavoro” per essere sicura di poter
centrare quando la tranquillità o quando lo scopo. Certo riconosco che sia
ingeneroso da parte mia avere questo atteggiamento, e difatti è molto raro che
mi sottragga a domande o considerazioni, però man mano che il tempo passa
constato che questa curiosità sta
assumendo un connotato di fenomeno sociale. Ed è in aumento. Spesso mi fa
dilatare i tempi di una commissione fino all’inverosimile, oppure quando sono
in vacanza e qualcuno “sa”, vengo stanata da avventori occasionali corredati
spesso da amici condotti appositamente per strapparmi qualche squarcio di vita
musicale. Magari la domanda che vuole farmi uno non è la stessa che vorrebbe
farmi un altro... La cosa poi si raddoppia dal momento che anche mio marito fa
lo stesso mestiere, e quindi suona il violoncello alla Scala come me. Meglio! Se le campane
aumentano aumenteranno anche i punti di vista...e quindi non ci potremo mai
sottrarre: quello che dico io potrebbe essere un aspetto complementare di quello che dice lui, per
esempio.
Questo fenomeno la dice lunga sia sulla sete conoscitiva
di tanta gente, sia sull’insufficienza colpevole di chi amministra o crede di
amministrare cultura e formazione. Non è mia intenzione fare una critica che
implica competenze che non mi riguardano, ma è assolutamente certo che chi non
ha avuto un contatto vero (neanche a scuola) con la musica, ne conserverà un’
idea o di mostro mitologico, o di mistero fitto. Quindi incontrare qualcuno che
addirittura non potrebbe pagarsi una cena se non avesse dimestichezza con un
mostro mitologico, diventa un’attrattiva.
Detto questo, la cosa più insolita che viene chiesta
riguarda il perché suono proprio il violoncello e non il perché suono. Diciamo
che in genere viene dato per scontato che il desiderio di suonare sia una cosa
comunemente concepibile, ma il violoncello risulterebbe essere un oggetto
insolito. Siccome la domanda è abbastanza frequente ma imbarazzante, ho provato
a rivolgerla anche ai miei colleghi (molti dei quali anche ottimi solisti)
confidando nella loro solidale collaborazione. Le risposte sono state spesso spiazzanti:
“al conservatorio l’unico posto era di clarinetto e allora ho fatto quello,”
oppure “l’unico strumento della scuola a disposizione era un contrabbasso”, o
ancora “era piena la classe di
pianoforte e allora mi hanno preso a violino”, addirittura “volevo suonare
qualcosa a fiato e mi hanno spedito a fagotto perché c’erano pochi allievi”
etc.
Quindi la risposta “volevo assolutamente suonare la
viola” o qualcosa del genere, l’ho sentita poche volte, anzi pochissime.
Difatti ci sono non pochi musicisti professionisti che sanno suonare più di uno
strumento proprio perché hanno faticato a ritenere sufficiente un solo mezzo
espressivo.
Il problema quindi è proprio questo: esprimere. Si suona
per avere un tramite fra se e il mondo. Diciamo che il famoso “oggetto
transizionale” che il celebre psicoanalista Winnicott descriveva come un mezzo
che consente al bambino di conservare la propria sicurezza soggettiva ma di
instaurare un contatto col mondo, è per il musicista lo strumento musicale.
Forse sembra un discorso semplicistico o addirittura ridicolo, ma non è affatto
così: una persona creativa che vuole
comunque trasmettere il proprio messaggio con qualcosa di concreto, ha un
numero finito di vie per portare a segno l’impresa. A meno che non sia
completamente avulso dalla realtà o abbia qualche aspetto patologico.
Quindi le vie sono date da linguaggi che possano essere
comprensibili agli altri ma anche accessibili al sé. Tolte le parole, le
immagini, e perché no anche i profumi, resta il suono e con quello la
possibilità di manipolarlo come fosse un’argilla a cui dare una forma plastica.
In questo senso il musicista esecutore e interprete ha
mano libera nello scegliere la voce con cui dare corpo al proprio suono inteso
come interiorità. E una volta preso uno strumento, ecco che sarà quello a
prestarsi come tramite estremamente duttile, adatto a gettare il ponte fra
l’esigenza di esprimere qualcosa di intimamente personale e l’ oggettività
strutturata e comprensibile che potrà essere colta da terzi.
La cosa singolare è però proprio questa: l’esigenza di
“cantare” l’interiorità travalica quella di scelta di uno strumento. Quando si
ha la certezza di avere qualcosa da dire, lo si dirà comunque, e spesso oltre
ad un’ inclinazione naturale che può condurre più verso uno strumento ad arco
che ad uno strumento a fiato etc, giocano un ruolo anche il destino o le
circostanze esterne. A volte però è anche accaduto il contrario: un futuro
musicista si è ritrovato fra le mani uno strumento e si è improvvisamente
accorto di essere capace di suonarlo, di avere avuto la fortuna di scoprire che
quello era il suo mezzo espressivo più adeguato.
Ovviamente non è possibile diventare musicisti per caso,
una base naturale ci deve essere per forza, l’orecchio è indispensabile e anche
il senso ritmico, ma poi la determinazione dello strumento non è quasi mai una
scelta solenne. La scelta solenne
piuttosto sarà nei confronti della musica stessa, un po’ come il cavaliere di
un re sarà un ottimo cavaliere se saprà addestrare e curare a meraviglia il
proprio cavallo. In ogni caso la fedeltà sarà giurata al re e non al cavallo.
Resta però il fatto che dopo, una volta che quello sia
diventato il mio strumento, allora sarà il più adatto a riempire lo “spazio
transizionale”, per essere il corpo del pensiero musicale che trova la sua
realizzazione. Se io ho deciso che il violoncello sarà il mio strumento (e non
ad esempio il pianoforte che pure ho studiato), allora troverò il modo di farlo
parlare al posto mio di ciò che a voce non saprei mai dire. E nel caso in cui
divenisse il mezzo che mi consente di vivere, farò in modo di averne cura e di
mantenere la confidenza necessaria affinché mi possa ubbidire in ogni
circostanza. Ubbidire almeno nella maggior parte dei casi, anche se non si
tratta proprio di ubbidienza ma piuttosto di collaborazione.
E’ bene però sottolineare anche un altro fatto: il legame
fra strumento e musicista non è del tutto pacifico perché, al di là del fatto
che si tratta di un oggetto che congiunge la soggettività con l’oggettività, è
anche vero che è comunque un oggetto con una sua complessa fisicità e che
rimanda pari pari a me stessa quello che io sono. In altre parole funge anche
da specchio, e a volte anche da specchio di qualcosa che non è indagato.
Risente dell’umidità, del secco, del calore e del freddo,
cambia in base alle latitudini, necessita di accessori che possono essere
sostituiti (come il ponticello, le corde), anch’esso esprime a volte delle sue
necessità di messa a punto di cui si occupa il liutaio, e infine può più o meno
collaborare con la volontà di chi suona (io o chi lo sa suonare). Tutto questo
instaura un rapporto dinamico che ha conseguenze su chi suona. Io mi diverto a
pensare che pure il violoncello abbia una sua volontà e che alle volte sia
arrabbiato con me, oppure indulgente o addirittura entusiasta. So che non è
così, ovviamente, ma che molto semplicemente il violoncello mi rimanda in
termini musicali il mio modo di essere in determinati momenti della vita,
perché alla fine lo strumento sono io. Neppure gli escamotage tecnici, o la
professionalità, o la ripetitività del lavoro hanno un influsso su questa
capacità di “ritorno” che lo strumento ha su chi suona perché il suono tradisce
la vita dell’inconscio e ne rivela la
natura in ogni caso. Certo ci vuole buon orecchio e un’attenzione particolare
alla coerenza di un’esecuzione per carpire questo rivolo sotterraneo, però esso
ha la capacità di rivelarsi così come un piccolo corso d’acqua pur senza
emergere inumidisce la terra.
Un’ultima osservazione riguarda la scelta dello strumento
nella sua individualità e non più nel suo genere. Se io ho scelto il
violoncello perché adatto alla mia vita espressiva e secondo me esaustivo,
successivamente ne dovrò eleggere uno in particolare.
Direi che questo è l’aspetto davvero più difficile: non
solo è questione di liuteria (ossia della fattura tecnica, del legno, della
venatura, della proporzione, del prestigio storico di chi ha costruito il
violoncello in questione, del valore di mercato), ma anche di vero e proprio
feeling dato dalla personalità di quello strumento.
In genere si tratta di una scelta fatta all’interno di un
certo percorso professionale. Una volta che si è padroni del suonare in tutte
le sue possibilità tecniche e una volta che si è scoperto su cosa puntare per
facilitarsi il compito di esprimere al meglio la propria capacità strumentale
ed espressiva, solo allora sarà indispensabile fare la scelta. Tale scelta non
è un patto di sangue ovviamente perché il mercato è piuttosto vivace, come pure
l’offerta della liuteria contemporanea, però è indispensabile per svolgere
adeguatamente la professione. Nel mio caso ho fatto la scelta principale
(perché già avevo un buon violoncello) alla vigilia dei concorsi nelle
orchestre, e li vinsi anche perché ben supportata da uno strumento ottocentesco
particolarmente generoso nelle tessiture su cui puntavo io per convogliare
l’espressione. Però adesso probabilmente farei un’altra scelta, potendo, e
vista la tendenza generale che va ad un innalzamento dei decibel e una
predilezione al virtuosismo, dovrei puntare su uno strumento molto più nervoso,
reattivo, e facile da suonare dal punto di vista della forza fisica. Non credo
che andrò di nuovo a caccia di violoncelli, piuttosto cercherò di “truccare”
per quanto possibile il mio in modo da
sfruttare con meno fatica le sue capacità che in ogni caso non sono comuni.
Gli interventi di liuteria sono sempre una croce per gli
strumentisti ad arco: ci vogliono pazienza, dedizione, molto tempo,
concentrazione e infine parecchi soldi. I liutai sono una categoria elitaria e
variegata, non tutti sono dotati di capacità diagnostica infallibile e non
tutti sono in grado di intervenire con le dovute cautele. Non c’è differenza
fra un medico e un liutaio: entrambi devono “auscultare” con buon orecchio,
devono valutare l’insieme del loro “paziente”, devono scegliere la via migliore
per curare, devono essere onesti sulle previsioni dei risultati, devono far
tesoro dei riscontri e devono accettare le lamentazioni.
Come al solito, con il materiale vivo ci vuole
sensibilità e non si può mai pretendere che a determinati protocolli seguano
poi determinati risultati “necessariamente”. Nè un musicista né un violoncello
(violino o viola etc) sono equazioni su cui si possa scientificamente intervenire.
Detto questo concluderei riallacciandomi al discorso dal
quale sono partita: l’amore per la musica, la conoscenza dell’universo in cui
si si muove la vita musicale, gli aspetti tecnici basilari, la scelta del tipo
di repertorio su cui lavorare, le prospettive di lavoro in Italia e all’estero,
la varietà della produzione storica nel campo classico, la distinzione fra
categorie di strumenti e generi, dovrebbero essere cose pacificamente
conoscibili e ragionevolmente illustrabili in ogni ambito didattico. Non solo
nei conservatori. Utopistico?
Ma non siamo in Europa?
Sarebbe bello che la gente che incontro per caso e che mi
chiede cosa faccio non si stupisse poi così tanto del fatto che esistano gli
strumenti ad arco, che esistano professionisti, che il mondo musicale possa
avere una vita sua e che tale vita sia anche intensa, spesso faticosissima,
degna di rispetto da parte di chi ci governa
e non solo pittoresca o
incomprensibile... una volta mi hanno chiesto:
«Che lavoro fai?»
«Suono il violoncello»
«E ti pagano pure?»
Gilberto Isella |
La mossa del rinoceronte
Mattina, risveglio
caffeinico e tapparella rialzata. L’ora in cui tolgo la sordina agli umori e al sentire,
ed ecco quel rovello che ogni giorno mi strapazza, puntuale come uno spot
televisivo. Riguarda un mio antenato, che
da tempi remotissimi mi starebbe tramando alle spalle. Visione persecutoria, icona
che subito si spezza e contraddice, e dopo avere per alcuni istanti urticato
l’immaginazione precipita nel vuoto. Avrà legami con qualche ricordo reale, seppur
alterato? Sembra piuttosto l’indizio strisciante di una cosa senza contorni,
percezione allucinata di un’assenza, decorato oblio. Che posso fare? Solo
questo: sforzarmi di ripulire e distendere la pelle della mente, esporla di
nuovo intatta e farla brillare sotto il parabrezza. Ridar luce alla mia faccia ideale,
sempre più infoschita, neutralizzare quella sorta di nonno impostore. La memoria è artificio – mi dico - e quell’avo soltanto figura
carnevalesca appiccicata al volto del tempo non redento.
Mi porto dietro, per l’appuntamento
serale, tutto questo parco di ebetudine. La psiche arrossisce. Valentina è
venuta in quel ristorante sul fiume per propormi di far sesso, chiavi-in-mano, vestita
di nero come le avevo chiesto. Me lo fa capire con una sfumatura dell’occhio, con
calcolata enfasi nell’occupare la sedia.
“Ti vedo distratto stasera, non so, forse non
è serata giusta.”
Ammetto, agitando goffamente una mano, di
essere in preda a distrazione calamitosa. Ne verrò a capo, penso senza convincermene.
Per ripicca lei comincia a distrarsi con l’ i-pad. In tralice intravedo movimenti
di icone e faccette. Anche spezzoni di un gioco che mi aveva già riempito di
paturnie: Antropex. Come si comporta un pytecanthropus erectus posto davanti a
una lavastoviglie? Varianti: nel salone degli specchi a Versailles, oppure nell’alcova
di Enrico VIII con Anna Boleyn o altre decapitande o impiccande. (Oh, gli
antenati!). Decisamente, stasera, una linda macchinetta mi batte in erotologia.
Quasi
per dovere ordiniamo e consumiamo un pasto. Mi guardo in giro. Ci sono
individui da target. Civettanti usignoli, due tedeschini in dolce affanno, per
loro è sempre tempo di dessert: cannoli siculi, tiramisu o sushi zuccherini, fa
lo stesso. Da qualche parte soffischia un ventilatore, o è solo qualche sboffo
di fuori. La curva rumorifica del sole che va a dormire.
“Non
che io abbia l’hobby del divertimento a ogni costo, ma mi ruga la tua faccia
funebre, da nonno imbalsamato. Se non ti
interesso sto con l’i-pad. Eh, quante cose! Tranquillo, conservo le foto che
cercavi, quelle senza faccia, quelle con soli fianchi…”
Nella
videata, riconosco alcune inquadrature con Valentina, mi pare risalgano a qualche
anno addietro, a una notte di delirio trascorsa, se ben rammento, nella città
di Salta in Argentina. Incuneati nella stanzetta di un’anonima GuestHouse, lei
che vegliava sulla mia improvvisa vampata di febbre. Quaranta gradi esplosi
d’un colpo, per misterioso cortocircuito tellurico nel mio foro interiore. Infuso
di coca, bollente. L’unico farmaco, allora. Con una sorta di aura magnetica,
stemperata nei vapori del samovar. E per sopraggiunta gli aromi di un presunto paese
ritrovato. E poi il sogno. L’identificazione con l’antenato che era venuto a
morire in quella terra per reincarnarsi in un caudillo cattivo, e infine
redimersi. Un gioco a rimpiattino con l’avo, scostante e ameno, il gioco
dell’eterno ritorno. L’eterno ritorno dei sogni pericolosi, dei malware.
Immagini,
ancora: tre bermude di diversi colori, gialla, bianca, nera. Le belle curve
convergenti alle natiche, la sensazione di aver fotografato bandiere. Estasiante
triangolo delle Bermude.
Che Valentina incarni l’eros sub specie
electronica? Che sia lei stessa un algoritmo di natura sconosciuta?
Ci eravamo separati per qualche anno, ciascuno a bollire nel suo
piccolo ergocosmo. Io in un oscuro ufficio consolare della città andina, lei presso
la luganese Horn & Rhino Invest: sospette
transazioni con massicci organismi smaterializzati e in scala ridotta. Qualche
rara e-mail, ne ho conservata appena una. È
stato bello incontrarti al ballo di Sant’Elmo. Il tango, una pasiòn. Poi quella
balorda passeggiata nel quartiere di Lugano. Si chiama proprio come la nostra
città. E che notte!… Ciao, ci sentiamo. Tutto qui. Ma il fatto, così ricco
di dettagli, è veramente accaduto? Rammento vagamente di aver lavorato per
qualche tempo in Argentina – tra un capitolo e l’altro del mio peregrinare - ma non nel corpo diplomatico. Crivellato ricordo,
gola mentale contesa da alpinisti nemici.
Mi ritiro nella toilette per
sforzarmi di succhiare qualcosa dalla memoria. Missione andina, che tipo di
missione? Le toilettes servono a risvegliare le idee, a partorire i capolavori
dell’anima. Geberit, nome arabizzante.
Sciacquoni insonori, osservare la glabra
faccia sbarbata nello specchio. Ambiente di smalto. Azzimatura eccessiva, come
prima di venire qui. Ombretta, sei una magica pompa! Adocchiare la plastica nel cestino. Cercasi
appartamento tre locali e garage, con la coda dell’occhio. Mi è stato sempre
difficile abitare in un luogo della carta geografica, dico carta a fiorditerra.
Ero stato spedito lì, forse, a curare gli interessi di qualcuno. L’importante,
esser partito. “Lei è troppo sognatore, non farà mai carriera diplomatica”. Chi
aveva pronunciato quella frase? Era stata solo una rêverie, l’effetto collaterale di una sindrome turistica? Ma le figure di Salta o della capitale non balzano
fuori dalla tazza, nemmeno dallo specchio su cui è incollato il volto di una
Marylin warholiana. Animazione favolosa, da happy
birthday, giunge dalla sala da pranzo Sui vent’anni, loro. Carburazione del
ventre pre-discoteca. Ombelichi-occhietti, treccine tirabaci, hausgemacht. Poi c’è quello che ha fatto
cadere il walkmen, tonfo riflesso e ampli. E se lei mi chiedesse dettagli,
qualche particolare geografico, il luogo di una cena, di un ballo… che le potrò
mai raccontare?
Mi aveva curato come si curano i
bambini. Con maternalistica pazienza. Coca e aspirina. Avevamo voluto risalire
le Ande in pick-up, visitare il deserto di sale fino ai confini col Cile, a
quattromilacinquecento metri. Fondale raso, marrone che s’avvia al bianco
attraverso un purgatorio di sfumature, sparse capanne, disseminati pastori col
mantello di alpaca variopinto e pressoché immobili, qualche isolata vigogna, un
condor anche. Lentissimo, il nostro passare. Poi, in aereo, fino a Buenos Aires, piccolo
albergo nei pressi di Boca, ancora coi postumi della febbre. Visto il monumento
a Gardel, frequentata una scuola di tango. Fatto all’amore ore ore. Poi, pochi
giorni dopo, con un pretesto mi ero dileguato ato ato. Per quale ale ale missione?
Non so, c’è un buco, un terribile buco uco uco.
“Se tardavi ancora me
ne andavo”.
“Ci prendiamo un dolce?”
“Vada
per la panna cotta”.
“Bah.”
“Meglio
panna o canna cotta?” dice ridacchiando, per togliermi d’imbarazzo.
“Vale,
ti vorrei parlare di una cosa.
“È
una scusa per non far sesso?”
“No, ti assicuro, è una cosa… che riguarda la
mia memoria. È vero che ci siamo conosciuti all’estero, in Argentina?”
Camminiamo lungo il
fiume, luna piatta e molliccia nel cielo, lieve brezza. Suo sguardo che dà sul
malmostoso, per un tratto di strada. Fra poco saremo in periferia, poi nel suo
letto, se lo vorrà ancora. Pastosissima camera d’aria e di fumi. Scommetto che
sta macerando la domanda che le ho rivolto al ristorante, non oso riformularla.
Passiamo l’androne, saliamo le scale. Primo piano. Con un sorriso mi invita a
entrare. Ripone l’i-pad su un tabouret, nell’atrio. Si toglie le scarpe, e mi
invita a fare altrettanto. Le forme di qualche poster sballano sotto luci
fioche. Accuratamente ridotta l’irradiazione luminosa, in modo da ottenere
visibilità felpata, non invasiva. Lei entra nell’ampio salone, mentre io
indugio davanti alle immagini sotto vetro. Foto paesaggistiche e opere
contemporanee, in un climax previsto d’inquietudine: Klee, Max Ernst, Basquiat.
Riflessi oscillanti.
La seguo, cammino al
rallentatore come catturato da un ritmo imposto. È la prima volta che si fa
quella cosa nel suo nuovo appartamento. Sotto i miei piedi un tatami
giapponese, di discreta fattura. Ora dovrei avvicinarmi a un divano. Sensazione
di costeggiare un cerchio che mi fibrilla intorno. Si avvicina lambente,
arretra come fa la risacca. Mi lascio trasportare, liquorosamente, da quel
cerchio mobile, le braccia sono alghe. Stento a capacitarmi. Qualcosa
d’imponderabile sovrasta la mia attenzione, la donna pare lì ad attendermi, a
due passi, ma il divano tace. La chiamo, passa un po’ di tempo prima che mi
risponda.
“Ma cosa fai lì in piedi? Vieni qui, dolce
imbranato amore”.
Poi uno scatto di riso, con rifrazioni
metalliche. Mi disoriento. Come dovessi
seguire una pista aliena anziché distendermi vicino a lei. La snella lampada a
stelo e fronzoli sembra muoversi, spostarsi verso un angolo incognito del
locale. O debordare, immusarsi fuori, lampada cercatrice. Come una creatura
liberty feticciosa, ramipendula. Muovo qualche passo, sempre dietro la traccia
visuale di Valentina o così credo. Incontro una parete, che subito scompare
quasi assorbita da quella sagoma, per ricomparire poi, ma dove? La stuoia
giapponese non è più lì, cammino sul parquet di legno. Una porta davanti a me
si apre.
Continuo, l’aria è sul punto di
rarefarsi oltremisura. Imbocco un lungo corridoio, ali battono con un fruscio
discreto ma progressivamente insostenibile. Lamiera ondulata, immateriale,
vibrazione che mi porta oltre, la mia massa di scarsa gravità spinta da occulti
sguardi. Scorgo un profilo di creste, sento il gorgoglìo del mare. Rumore che
s’organizza puntiforme, diventa ticchettìo, da macchina per scrivere. Non mi trovo in cima
a un monte, nemmeno supino su spiaggia. Il ticchettare insiste, formando
arabeschi di suoni e immagini. Vedo un uccello rapace nel mentre chiude le ali
e si posa, sorta di vecchia Adler nera,
ferrigna (prodigio tecnologico della Germania d’anteguerra), su una scrivania
che allunga la sua prospettiva come dentro un tubo ottico. C’è qualcuno in
giacca e cravatta dietro quella macchina: vecchio signore con lieve escrescenza
cornea sotto la fronte, postura da antico burocrate. Al mio cospetto continua indifferente
la sua attività. Processo meccanico, bulimìa
di scrittura, galleria di vibrazioni
sonore che si scava. Angelo notturno, in simbiosi con il congegno di ferro. Mi
avvicino per leggere, ma sotto l’eco del battere nessun foglio, solo entità
nerastra composta di moltiplicantisi trattini, sospesa sugli oggetti. Deborda,
si allunga nella direzione dove sto andando. Ed ecco un litorale, simile a
quello, spoglio, che delimita il deserto argentino. E pare si sporga su un
oceano, mentre è soltanto una cortina di nubi biancastre, sbarramento liquido
di materia andina. Il profumo della donna non mi lascia, la tenace erezione nel
buio è la mia guida, con il tic tac del vecchio scrivano per colonna sonora. Sento
un bruciore agli occhi, mi trovo all’improvviso in un bagno. La vasca rigurgita
d’acqua, un corpo femminile vi è immerso, la testa reclina sui seni, non
riconosco gli occhi di lei. Riconosco solo le pietre luminose di una vetta sul
punto di venir mozzata. La circonda una distesa d’acqua irredenta, pregna di
trucioli glaucoazzurri, riflessi ottici da pensiero esorbitante.
E
in quella testa che reclina non leggo né spazio né tempo.
Valentina elude ogni domanda.
Proprio non vuol dirmi dove ci siamo visti per la prima volta. Tiene tutto
nascosto in quei maledetti apparecchi, protetti da password, l’unica
soddisfazione che mi concede è di
mostrarmi foto del suo corpo stropicciato. Mai però che in esse si scorga
l’ambiente, un paesaggio qualsiasi che funzioni da indizio, che mi ragguagli su
un luogo preciso. Temo di non averle scattate io. Ma perché mi tiene all’oscuro
di tutto? Forse perché l’anima sua è troppo simile alla mia, senonché la nostra
complicità le sfugge. O forse…, non so altro.
C’è sempre del vapore argenteo attorno ai suoi
seni, a quei fianchi che mi fanno tremare le vene. Nuvole, dissolvenze, nebbie
slumate in biancore, come certe vedute da studio del tardo ottocento. Passano
davanti ai miei occhi gli slip, le patte dei jeans, l’incavatura dolce del
fondoschiena, quello stupendo bovindo di seno, l’éclair di una sottoveste, si
disegnano mandala cangianti, appaiono sorrisi larvali, appena accennati.
Esistono solo quei paesaggi corporei decontestualizzati, il lago delle nudità,
le riviere delle vesti. Straordinaria metafora dell’adesione totale e
incondizionata alla cosa, tempo reale di spazio in un microuniverso. E se non
avesse storia quel corpo, avvolto nella notifica securizzante di un nome, Valentina?
O se venisse da un mondo superno, che
non conosce il divenire? A che vale? Sento che ogni continuità si è rotta,
l’occhio clinico e cinico dell’antenato svolazza come un condor impazzito, riversa
ordure sui cartigli innocenti della memoria. È l’orrida rete di fosfeni, ghirlande astratte e spezzate che s’intromette
in ogni immagine. È il mio ridicolo occhio mentre s’interna nelle vertebre, e
vi si squaglia quasi per codardia. Un flash tossicchiante.
Ora
si è addormentata, sento il suo respiro grosso, il braccio allentato. Mi
piacerebbe sfregiarlo col temperino, tutto finirebbe nel sangue. Troppo vicina,
troppo lontana. Ricoperta unicamente di se stessa, forse già barricata in un
sogno. Come l’immensa Terra madre, che non ha senso interrogare.
Gilberto Isella |
Nota: Il testo pubblicato è un frammento del
racconto lungo La mossa del rinoceronte, attualmente in preparazione.
GILBERTO FINZI
"Odissea" ringrazia commossa Gilberto Finzi
per avere aderito a questa festa della scrittura,
e per le parole di stima e affetto che ci riserva
nel testo che qui pubblichiamo.Stima e affetto
che gli ricambiamo come amico e come uomo
di cultura.
che gli ricambiamo come amico e come uomo
di cultura.
Il poeta Gilberto Finzi (Foto: Dino Ignani) |
Lettera-poesia all'amico Gaccione
Caro
Amico, ecco i pochi versi
di
un poeta vecchio e senza voce.
So
la tua premura, e ti ringrazio
per
le cose che ancora riesci
a
dire nell’infelice mondo che ci circonda.
Sappi
che sono con te, pronto
e
libero con la mia gola logora:
“Odissea”
rispecchia una storia
che
mi riguarda, e sento
di
doverti parole sincere
dove
la poesia è un lusso
che
non posso più permettermi,
solo
come un astro
che
non dà più luce.
Ma
mi hai mosso
a
scriverti e a ricordarti, e questo
è
un fatto che mi riporta
a
climi antichi, a Ulisse che ritorna
e
i Proci trafigge, sperando
che
tutto ritorni vero, e lui
giovane,
e i versi un canto
di
vittoria.
Per
sempre, tuo
Gilberto Finzi
TIZIANA
CANFORI
Tiziana Canfori |
Storia di mani e di
tastiere
Prima di entrare lo guardi, fra le sedie vuote
in mezzo al palco, mentre sullo sfondo il pubblico ormai ha trovato il suo
posto in sala e aspetta: il pianoforte è lì in scena, paziente, con il suo
solito abito nero lucido e il sorriso scintillante della tastiera, che attrae e
inquieta. Gli altri, se altri ci sono a condividere il concerto, hanno già il
loro strumento in mano, lo sistemano, lo coccolano, gli fanno cantare dei
piccoli suoni confidenziali, appena percettibili all’orecchio teso, per
controllare l’accordatura. I cantanti, se ci sono, guardano nel vuoto,
respirano e mormorano piccoli vocalizzi a bocca chiusa, di riscaldamento. Tu
no, tu sei solo, tu sei il pianista: il tuo strumento è là, meravigliosamente
attraente e lontano. Tu guardi le tue dieci dita, al massimo, scalpitanti e
silenziose, mentre aspetti l’incontro. Quando sarai seduto davanti a lui, alla
fine dell’applauso di benvenuto, sai che dovrai conquistarlo da capo, per te e
per chi ti ascolta.
Di questo vorrei raccontare, del mondo visto
dalla tastiera di un pianoforte.
Gli strumenti a tastiera sono apparentemente
quelli più disponibili, pronti a suonare persino sotto le dita degli inesperti,
ma in realtà il rapporto con loro è estremamente complesso. Potrei parlare a
lungo del clavicembalo, mia grande passione, o dell’organo, ma il discorso
prenderebbe sfumature ancora diverse: rimaniamo sul semplice, in una
prospettiva che è più facilmente condivisibile.
Quello col pianoforte è un rapporto che può
svilupparsi in infiniti modi, dalla vertigine del récital solistico -tu e lui soli davanti a centinaia di persone che
colgono ogni sfumatura del vostro pericoloso rapporto- alle emozioni condivise
con altri musicisti in momenti di concerto, di lettura, di gioco. I modi per
essere “pianista” sono tanti, pur rimanendo solo in ambito “classico”.
Si respira comunque quasi sempre un sapore di
centralità, tipico del ruolo del pianoforte: una centralità concertante, che
mantiene funzioni di coordinamento, che sostiene e disegna le linee di forza e
di sfondo. Si usa la tastiera come la plancia di una torre di controllo.
E macchina è, il pianoforte, un congegno
perfezionato al massimo, veloce e preciso, una meccanica pesante che sta fra le
dita e il suono che nasce, dopo mille piccoli passaggi di leve e martelli, ad
almeno mezzo metro dalle orecchie di chi suona. Il pianoforte non si può tenere
in braccio e coccolare come un violino o un clarinetto, stretto fra le mani;
bisogna amarlo a distanza e per interposta meccanica... Per questo è strumento
da affrontare attraverso mille suggestioni, utilizzando al massimo
l'immaginazione e moltiplicando la fantasia. Pesante come una fresatrice
industriale e gonfio di ghisa, in realtà è uno strumento che richiede un alto
livello di astrazione: se lo si suona solo per il risultato meccanico è
possibile eseguire passaggi difficilissimi senza sbagliare una nota (ed è già
opera degna di meraviglia), ma non si supera la realtà del suo essere macchina.
Con la fantasia e molta volontà di ricerca lo si può far respirare e cantare,
nel rispetto del suo legno più che delle sue parti metalliche. Ma bisogna
amarlo, come Bella ama la Bestia.
Poche situazioni danno felicità come il canto
di un pianoforte, eventualmente intrecciato alle voci di altri strumenti,
quando si sente che dalle dita esce un legato pieno di tensione, come un arco
teso.
Gli strumenti che teniamo nelle mani,
normalmente richiedono un doppio meccanismo: una fonte che produce energia
(l’arco, il fiato, il mantice della fisarmonica...) e una “macchina di
precisione” che articola il suono (la mano sinistra negli archi, le dita sullo
strumento a fiato, le mani sulle tastiere della fisarmonica)... Nelle tastiere
manca apparentemente la fonte di energia: dove sta la carica che produce il
suono e lo sostiene?
Non nella forza delle dita: malgrado il
virtuosismo delle mani sia assai raffinato, se suonassimo una macchina con
un’altra macchina il risultato sarebbe orribile. Ecco ciò che mi affascina
delle tastiere, a tal punto che non ho mai provato a suonare archi o fiati,
malgrado l’interesse e svariate collaborazioni con ogni genere di strumento
“altro”. A me piace questo lato oscuro, raffinato, faticoso, dell’inventarsi
storie per scovare il suono dello strumento. L’energia è per me il fiato, che
riempie il pianista quanto il flautista o il trombettista: un fiato che non
serve solo per attaccare insieme agli altri, ma diventa peso e tensione da
distribuire elasticamente su tutta la frase musicale. L’arte di suonare il
pianoforte è quella di creare archi morbidi da geometrie dure, di trasformare
l’approccio lineare della percussione in linee gonfie che nascono e muoiono
come le articolazioni di un arco di violoncello o il fiato di un cantante. Si
lavora di suggestioni, che dalla testa passano al corpo e lo trasformano in
energia da trasmettere alla tastiera: strutture architettoniche, linee curve,
sensazioni tattili talmente raffinate che ogni porzione di dito ha la sua
storia da raccontare. Sensazioni rubate agli occhi, anche, come le forme e i
colori.
Ecco quindi la magia più sublime:
accompagnare la voce umana. In questo rapporto si trovano in relazione il
massimo della fisicità (la voce che nasce da un corpo e dalle sue masse
muscolari, potenza della “rotondità") e il massimo della “macchina”.
Sembrano due identità inavvicinabili, a prima vista. Invece sono il culmine
della sfida, e il fiume di pagine bellissime dedicate a questa formazione
testimonia quanto la sfida sia terreno interessante e fruttuoso. Il pianoforte
deve riuscire a parlare il linguaggio della voce, assecondarlo, sostenerlo, a
volte anche suggerirlo, e soprattutto deve compiere il piccolo miracolo di
accompagnare la parola, l’elemento espressivo che distingue ulteriormente i
cantanti da qualsiasi altro strumento.
Accompagnare la parola vuol dire sviluppare
un'acuta sensibilità per il senso di un linguaggio che arricchisce il suono: la
costruzione del periodo, la punteggiatura, la scelta delle parole. I suoni del
cantante nascono nella potenza delle vocali, ma molto anche nelle sfumature
delle consonanti che in mille modi le collegano. Se il pianoforte è capace di
penetrare tutto questo dando alla voce il sostegno giusto dal punto di vista
musicale e anche dal punto di vista del testo, il viaggio interiore che si fa
insieme al cantante è qualcosa di magico e intenso come un rapporto d’amore (in
questo caso a tre, naturalmente, perché insieme ai due esecutori anche il
pianoforte deve dire la sua, esprimendo tutta l’anima del suo legno).
La tastiera però depriva l’esecutore di due
gioie importanti: poter intervenire sull’intonazione del suono e poterlo
modificare una volta emesso. L’accordatura è atto decisivo, ma precedente il
momento di suonare: crea una grande intimità, come sanno i cembalisti che
normalmente accordano personalmente lo strumento, ed è una scelta importante da
operare in vista dell’esecuzione, ma è separata dall’atto di suonare. Lavorando
con gli altri però l’orecchio deve affinarsi molto e torna a dare sottili
gioie. Al contrario, se capita di accompagnare qualche allievo dei primi corsi,
per esempio un violino, con difficoltà d’intonazione, si vive la straniante
esperienza di non capire più dove si mettono le dita: la posizione scelta sulla
tastiera è quella giusta, rispetto allo spartito, ma il risultato che si
ascolta va da tutt’altra parte... tanto che viene voglia di guardarsi le mani
per capire dove sono.
L'altra gioia "mancata", quella di
poter modificare il suono, è una nuova sfida alla logica: appena il tasto viene
abbassato, il suono nasce dalla percussione del martello sulla corda e la sua
dinamica non può più essere arricchita da un vibrato o da un crescendo, può
solo diminuire naturalmente. Espressivamente è un handicap non trascurabile!...
Eppure la complessità della scrittura e soprattutto la magia del
"tocco", cioè la capacità progettuale e la volontà dell'esecutore di
far vivere il suo suono, riescono a compiere il miracolo: il suono nasce vivo.
Quando capita di sentire diversi pianisti sullo stesso pianoforte, per esempio in
un concorso, si ha facilmente l'impressione che ad ogni esecuzione cambi lo
strumento.
Questa stessa capacità di ascoltare le
vibrazioni dello strumento e di cercare in esso ogni sfumatura rende possibile
suonare continuamente pianoforti diversi con un'adattabilità molto elastica. La
soluzione progettata a casa non sarà mai assoluta, ma andrà velocemente
calibrata sullo strumento su cui si fa lezione, poi su quello del saggio, del
concerto, del concorso... Cambieranno di sicuro molte volte il peso dei tasti,
la sensazione tattile, la brillantezza e la profondità del suono, la potenza,
la qualità timbrica della tavola armonica. Tutto sarà ogni volta ingrediente di
una nuova ricetta, paesaggio di un viaggio nuovo.
Così come ogni strumento ha la sua voce, la
sua meccanica, la sua difficoltà, la sua bellezza, ha anche il suo modo di
stare in silenzio. Normalmente dorme in un astuccio, spesso riposa smontato e
asciugato fra pelli e velluti di protezione, nel buio e lontano da sguardi
indiscreti. Il pianoforte resta lì, in mezzo alla stanza e alla nostra vita,
senza vergogna. Ascolta i nostri discorsi e respira i profumi della nostra
cucina, paziente e ingombrante ma pronto a rispondere, come un grosso mobile
che ha tanta voglia di cantare.
***
Tiziana
Canfori, pianista e clavicembalista,
ha compiuto gli studi in Italia e Germania. È laureata in Lettere e associa
all'attività musicale interessi letterari e teatrali.
È docente di
Accompagnamento Pianistico presso il Conservatorio Niccolò Paganini di Genova e
nell'ambito dei Corsi Accademici si occupa particolarmente del repertorio
liederistico e della collaborazione con i cantanti.
Con il giornalista Giorgio
De Martino ha fondato, nel 2001, “Il Cantiere Musicale”, rivista del
Conservatorio Paganini, collaborando per dieci anni con scritti e iniziative.
Suoi articoli sono apparsi su “Amadeus” e “Materiali di Estetica”. Nel 2005 ha
pubblicato il volume Benedetto Marcello, un “dilettante di contrappunto”
nella Venezia del Settecento presso l'editore San Marco dei Giustiniani di
Genova.
VALERIO FANTINEL
Valerio Fantinel |
Il 4° Episodio: Polifemo e gli stranieri, che pubblichiamo, fa parte di un evento
multimediale di reading poetico in sei episodi, con la tecnica degli antichi
rapsodi, che avrebbe dovuto aver luogo (nell’agosto 2014), con il titolo “ULISSE
IN SARDEGNA”, nel Comune di Gonnesa, nel Sulcis iglesiente, per la
valorizzazione culturale e archeologica del grande nuraghe di Seruci, chiamato dagli
abitanti la “Reggia”… Venuto meno il sostegno del Comune, per mancanza di
fondi, l’evento è sfumato. La traduzione, alquanto fedele allo spirito e alla
lettera dell’Odissea di Omero, è di
Valerio Fantinel, che l’ha adattata, didascalizzata e ne è il drammaturg. Il 4° Episodio, la storia del gigante
Polifemo, ha come sottotesto la xenia
dell’antica Grecia, che ha molte consonanze con il tema odierno
dell’accoglienza dei migranti. L’operazione, nel suo complesso, è stata
condotta, tenendo d’occhio da una parte l’ambiente arcaico della Sardegna (i
suoi monumenti nuragici e l’etnomusica) e dall’altra i momenti di modernità dell’isola
(tradizioni, maschere sociali e rielaborazioni musicali).
Studiosi, come il prof. Massimo Pittau, glottologo e
linguista insigne, danno per probabile la presenza di Ulisse, come viaggiatore,
nell’antica Sardegna nuragica; comunque si può dare quasi per certa, questa
presenza, almeno come metafora di personaggi di riferimento simili, stante i
traffici mercantili nell’epoca di Micene (probabile ambiente originario di
molti rapsodi greci del mito ulissiade) con l’isola sarda, identificata dal
prof. Pittau come l’Isola dei Feaci.
In quanto all’impossibilità dell’evento, nella provincia
ex-carbonifera., è un altro esempio di come molte ricchezze paesaggistiche e
culturali, di questo nostro paese, siano lasciate deperire e svuotarsi di
significato, per mancanza di un onesta intelligenza operativa da parte delle
Stato.
Pubblichiamo questo scorcio del testo omerico per non
lasciar cadere completamente nell’oblio un piccolo tentativo di riverbero
culturale su una provincia, il Sulcis, oggi totalmente disastrata e abbandonata
al degrado sociale ed economico…
V.F.
POLIFEMO E GLI STRANIERI
[Il ciclope è recitato attraverso una
maschera (monocola) mammuthonica, da un attore con voce dura, stentorea, a
tratti cavernosa, barbarica, in cui si percepisce che la sorte di Ulisse e dei
suoi compagni è già segnata.
[In contemporanea sullo schermo gigante
appare un barcone di migranti che sta affondando nel mar Mediterraneo, mentre
Ulisse racconta l’assassinio dei suoi compagni compiuto da Polifemo, figlio di
Poseidone, dio del mare.]
Narratore1 (come una didascalia)
Ulisse seleziona alcuni dei suoi più forti compagni e si avvia verso la
grotta dove dimora il potente e monocolo figlio di Poseidone, Polifemo,
portando con sé un capace otre di vino nero, dolcissimo. Entrati nella grotta,
subito i compagni di Ulisse, spinti da un atavico istinto predatorio,
vorrebbero razziare il formaggio e la bianca ricotta, ma Ulisse li trattiene,
perché la sua intenzione è di conoscere l’abitante, studiarne i costumi e il
comportamento... Ed ecco che entra Polifemo e rovescia sul terreno con gran
fracasso un’enorme fascina... Vede il gruppo degli estranei:
Polifemo
“Stranieri, chi siete? da dove siete giunti per le vie del mare?
Siete trafficanti o andate in giro alla ventura
sui mari, come pirati che scorrazzano, mettendo in gioco la vita
e causando danni alle genti straniere?”
Ulisse
“Siamo Achei di ritorno da Troia! sballottati
da molti venti sul vasto mare abissale,
ansiosi di tornare a casa, altre rotte e altre tappe
abbiamo percorso. Così ha deciso per noi Zeus.
Siamo orgogliosi di essere gente dell’Atride Agamennone
la cui fama oggi è grandiosa sotto il cielo
per aver distrutto una grande città e annientato tanti popoli.
Ai tuoi ginocchi noi ci prostriamo, semmai ci ospitassi
e ci offrissi un qualche dono, come è norma tra gli ospiti.
Ti supplichiamo, o potente, onora gli dei.
Zeus, vendicatore dei supplici e degli stranieri,
è un dio accogliente, che protegge i sacri ospiti.”
Polifemo
“Straniero, o sei scemo o vieni
da molto lontano
per invitarmi a temere e a onorare gli dèi.
I Ciclopi se ne fregano di Zeus fulminante
e degli dèi beati; noi siamo molto più forti.
Per schivare la collera di Zeus non risparmierei
né te né i tuoi compagni, se non me lo comanda il cuore.
Ma dimmi, al tuo arrivo, dove hai ormeggiato la veloce nave,
se lontano o nelle vicinanze, perché mi preme saperlo.”
Ulisse
“Così disse per provarmi; ma non m’ingannò, ci mancherebbe...
E di nuovo gli dissi con parole dolose:
– La nave me l’ha fracassata lo Scuotiterra Poseidone,
scagliandola contro gli scogli, ai confini del vostro paese,
per mezzo di un vento che veniva dal largo.
Io però assieme ai miei compagni ho evitato la precipite morte.–
Ma lui, cuore feroce, non mi rispose,
e d’un un balzò allungò sui compagni le mani,
e agguantati due li sbatté a terra come cuccioli:
sprizzò sul terreno il cervello, bagnandolo tutto.
Li squartò brano a brano, preparandosi la cena.
Mangiava come un leone cresciuto sui monti, senza nulla lasciare,
interiora, carni e ossa compreso il midollo.
Noi, piangendo, alzammo le mani a Zeus,
davanti a questo orrendo crimine, totalmente impotenti.
Quando il Ciclope s’ebbe riempito la gran ventraia,
mangiando carne umane e bevendo puro latte,
si distese nell’antro, in mezzo alle sue greggi.
Allora io pensai nel cuore mio magnanimo
di accostarlo e, tratta la spada aguzza da lungo la coscia,
infilargliela nel petto là dove il diaframma racchiude il fegato,
ma un altro pensiero mi
attraversò la mente.
Anche noi avremmo incontrata lì la precipite morte,
perché con le mani non avremmo potuto spostare
l’enorme masso posto da lui sull’alto ingresso.
E così, sospirando, attendemmo la chiara Aurora...
allora egli riaccese il fuoco e munse le grasse pecore,
con grande perizia, e spinse sotto ognuna un agnellino da latte.
Dopo aver finito, con rapidi gesti, il suo lavoro,
afferrò altri due miei compagni per colazione.
A pasto concluso, menò fuori le grasse pecore dall’antro,
dopo aver rimosso l’enorme masso…
e con alti fischi (come fanno i pastori con le greggi)
il Ciclope spinse su per i monti i pingui animali:
io invece pensieri neri stavo
almanaccando,
se mai potessi vendicarmi di lui, col favore della dea Atena.
E così, in cuor mio, questo mi parve il piano migliore:
teneva il Ciclope accanto al recinto un grande tronco
d’ulivo, verde: l’aveva tagliato per portarselo dietro,
appena fosse stagionato. Era simile a un grande
albero di nera nave, fornita di venti scalmi,
ampia, da carico, usa a varcare il vasto abisso,
tanto era lungo, a guardarlo, quanto era grosso.
Mi avvicinai e ne tagliai per due braccia
e lo passai ai compagni, ordinando di sgrossarlo
ed essi lo fecero liscio. E io ne affilai la punta…
poi lo presi e lo temprai alla vampa del fuoco.
E lo nascosi ben bene, coprendolo sotto il letame,
che in alto e copioso mucchio giaceva nell’antro,
agli altri ordinai di decidere tirando a sorte
chi assieme a me avrebbe ardito reggere il palo
e schiantarlo nell’occhio, quando l’avesse raggiunto il dolce sonno.
Uscirono sorteggiati i quattro, che io stesso
avrei scelto, e io con loro facevo il quinto.
La sera rientrò, guidando le greggi dalla bella lana.
Spinse nella capace spelonca i grassi animali,
tutti, non lasciando nessuno fuori dell’alto recinto;
era guardingo, sembrava sospettare qualcosa…
Poi afferrò il masso e bloccò l’entrata.
Seduto, prese a mungere le pecore e le capre belanti,
tutto secondo costume, dopo di ciò, agguantati
altri due uomini si preparava la cena.
Allora io, standogli accanto, gli dissi,
avendo fra le mani una ciotola
di nero vino:
– Toh, Ciclope, bevi ’sto vino, dopo mangiata la carne umana
affinché tu conosca che razza di bevanda la nostra nave
trasportava. Te l’ho recato in offerta, se mai impietosito
mi mandassi a casa; ma sei furioso oltre ogni limite.
Malcreato, quale altro uomo oserà venire
in futuro da te? Ti comporti da pazzo scatenato.–
Così gli dissi e lui prese il vino e lo tracannò.
Ne fu deliziato...”
Polifemo
“Dammene ancora e dimmi intanto che nome hai,
subito, così ti do il dono ospitale che ti farà piacere.
Di certo la nostra terra feconda di biade dona ai Ciclopi
vino da ottimi grappoli e la pioggia di Zeus lo favorisce,
ma questo è un vero distillato di ambrosia e di nettare.”
Ulisse (continuando
il racconto)
“... e io di nuovo gli porsi il vino nero,
e lo feci tre volte e per tre volte lo tracannò, l’idiota.
Ma quando il vino gli raggiunse i precordi,
allora gli rivolsi queste parole di miele:
– Ciclope, vuoi sapere il mio famoso nome e io te lo dirò:
e tu mi darai il dono ospitale, come promesso.
Nessuno è il mio nome. Nessuno mi chiamano
mia madre, mio padre e tutti gli altri compagni...–”
Ciclope
“E io ti mangerò, signor Nessuno, ultimo dei tuoi compagni:
eccoti il mio dono ospitale!”
Ulisse (continuando
il racconto)
“E arrovesciandosi cadde supino e giacque.
Gorgogliava dalla bocca fiotti di vino
e pezzi di carne umana; strafatto dal nettare, ruttava.
Allora io spinsi sotto la gran cenere il palo
finché si arroventò. Intanto incoraggiavo tutti i compagni,
perché, spaventati, non abbandonassero l’impresa.
E non appena il palo d’ulivo fu ben arroventato,
io lo trassi dal fuoco. Intorno a me stavano i compagni.
L’indomito coraggio fu certo un dio a ispirarcelo.
I compagni, afferrato il palo d’ulivo, ben aguzzo,
lo schiantarono dentro l’occhio, e io, sulla punta dei piedi,
lo giravo e rigiravo, come quando si buca un legno di nave
con un trapano, che altri da sotto ruotano con una correggia,
tenuta da ambo i lati, e lo fan girare senza posa,
così giravamo nell’occhio il palo incandescente,
e intorno alla punta il sangue scorreva.
Le palpebre e le sopracciglia crepitavano nella vampa,
bruciando il bulbo: e sfrigolavano le radici dell’occhio.
Come quando un fabbro immerge una grande scure
o ascia nella gelida acqua con acuto stridìo
per indurirla, – perché è così che si tempra il ferro –
così sfrigolava il suo occhio intorno al palo d’ulivo.
Lanciò un terribile urlo, ne rimbombarono le caverne attorno.
Terrorizzati fuggimmo. Lui si strappò il palo
dall’occhio, tutto lordato di molto sangue.
Lo scagliò con le mani lontano da sé, furioso.
Poi si mise a chiamare a gran voce i Ciclopi, che le spelonche
lì attorno abitavano, sulle cime battute dai venti,
i quali, udito il grido, accorrevano chi qua, chi là,
e fermi davanti all’antro chiedevano chi lo molestasse...”
Ciclopi (alternandosi
in coro)
a) “Ehei, Polifemo, che cosa ti tormenta per gridare così
nella notte balsamica e ci tieni svegli?
b) Forse un mortale ti ruba le pecore contro
la tua volontà?
c) O vuole ucciderti con l’inganno o con la
forza?”
Polifemo (dolorante
e con ira)
“Amici, Nessuno mi uccide con l’inganno, non colla forza.”
Ciclopi (alternandosi
e schernendolo)
a) “Se nessuno ti mette in pericolo la vita e
sei solo…
b) “non puoi certo evitare che il potente Zeus
ti stia facendo andare fuori di testa…
c) “e allora prega tuo padre Poseidone.”
Ulisse
(continuando il suo racconto)
“Così dissero allontanandosi, e intanto il
mio cuore rideva,
per averlo ingannato con l’astuta trovata del
nome.
Il Ciclope gemendo per il dolore e
brancolando
e tastando con le mani, tolse dall’ingresso
il pietrone,
sedette davanti all’entrata, a braccia
aperte,
se mai scoprisse tra le pecore qualcuno in
uscita;
sperava che io fossi tanto sempliciotto
d’animo.
Intanto io studiavo il modo migliore per
uscirne,
per trovare scampo alla morte assieme ai
compagni
e mi
prospettavo tutti gli inganni e le astuzie possibili,
per salvare la vita: grande era il pericolo
che ci sovrastava.
Alla fine questo parve, in cuor mio, il piano
migliore:
c’erano grossi montoni, pingui e villosi,
belli, grandi con una lana color violetto.
Li unii in silenzio con vimini ritorti,
a tre per tre; e quello di mezzo portava sotto un uomo,
mentre gli altri due seguivano ai lati, coprendo il compagno.
Tre montoni portavano un uomo; io invece –
ce n’era uno più imponente di tutti gli altri –
me lo avvicinai e mi sistemai sotto il lanoso ventre,
tutto ripiegato, e con le mani mi afferrai al manto lanoso,
rimanendo appeso, in tensione ma con cuore fermo.
E così, sospirando, attendemmo la chiara alba.
Quando mattutina apparve Aurora dalle dita di rosa
allora egli spinse al pascolo la gregge dei maschi;
e nei recinti fu tutto un belar di femmine non munte:
le loro poppe erano piene da scoppiare. Il padrone,
tormentato da lancinanti dolori, andava tastando le groppe
di tutte le bestie, ferme e diritte. E non sapeva, il malaccorto,
che gli uomini erano appesi sotto i loro lanosi ventri.
Per ultimo uscì dall’imboccatura il montone del gregge,
gravato dalla lana e da me coi miei folti pensieri.
Il forte Polifemo palpandolo sul dorso disse:
Polifemo (con voce dolente)
“Ah, mio più grosso montone, perché mi esci dalla grotta
per ultimo? prima non sei mai uscito dopo le pecore,
ma avanti a tutte correvi a brucare le tenere erbe dei prati,
a grandi salti, per primo raggiungevi i corsi d’acqua,
per primo desideravi rientrare nelle stalle
la sera; e ora sei l’ultimo. Forse piangi
l’occhio del tuo padrone? Lo accecò un vigliacco,
coi suoi vili compagni, dopo avermi vinta la mente col vino.
Nessuno, non credo potrà ancora a lungo sfuggire alla morte:
ah, se anche tu come me potessi pensare e parlarmi
per dirmi dove si è nascosto per scampare alla mia ira.
Gli sbatterei la testa per tutta la grotta
e col suo cervello innaffierei la terra, e il mio cuore
avrebbe sollievo, dal dolore inflittomi da questa nullità di Nessuno.”
Ulisse (continuando
il racconto)
“Così disse e spinse fuori dall’antro il montone.
Giunto poco lontano dalla spelonca e dal recinto
per primo mi staccai dall’animale e slegai i compagni.
Spingemmo in fretta le grasse greggi dalle lunghe zampe,
volgendoci di continuo, finché non arrivammo alla nave.
Come ci videro i cari compagni esplosero di gioia,
poiché eravamo sfuggiti alla morte, e alcuni piansero.
Ma io non permisi il pianto, con un cenno degli occhi lo vietai,
e comandai di gettare le molte greggi dal bel manto
dentro la nave e di navigare sull’abisso salato.
Veloci si imbarcarono e presero posto agli scalmi:
e ritmicamente battevano il mare canuto coi remi.
Ma appena distammo quanto bastava per farci udire,
allora io gridai parole di scherno al Ciclope.
– Ciclope, non erano i compagni di un uomo vile
quelli che hai mangiato nell’antro con la tua forza bestiale.
E il male doveva ricadere proprio su di te,
disgraziato, che nella tua dimora hai fatto strage
degli ospiti stranieri: per questo Zeus ti ha punito.–
Dissi così e lui, ancora più furioso,
sradicò la cima di un gran monte e la scagliò giù...
cadde oltre la nave... il mare si sollevò
e il riflusso dell’onda sospinse la nave contro la costa.
Io allora afferrai una lunga pertica e diedi una spinta laterale;
ordinai ai compagni, incitandoli,
con cenni del capo, d’incurvarsi sui remi
per toglierci dal pericolo. A testa bassa, si misero a remare.
Quando fu raddoppiata la distanza, allora urlai
verso il Ciclope, sebbene intorno a me i compagni,
cercassero di trattenermi con dolci parole:
I compagni (alternandosi
e in coro)
a) “Infelice, perché vuoi irritare ancora di più quel selvaggio?
che ora si è messo a tirar massi nel mare,
sospingendoci la nave verso terra,
così da mettere in pericolo le nostre vite,
b) “... sarebbe capace di sfracellarci le teste
e i legni della nave, colpendoci
con un aguzzo pietrone: quello ha un tiro lungo.”
Ulisse
“... Ma il mio cuore magnanimo
non ascoltava e presi a gridargli beffardo:
– Ehei, Ciclope, se qualche uomo mortale
ti chiede chi ti ha accecato così sconciamente
digli che a conciarti così fu Ulisse,
figlio di Laerte, che ha dimora in Itaca.–”
Polifemo
“Ahimè, così si compie un’antichissima profezia.
Un prode e illustre indovino,Telemo Eurimìde,
mi presagì che tutte queste cose si sarebbero avverate...
e che sarei stato privato della vista, per mano di Ulisse.
Ma io m’aspettavo l’arrivo di un pezzo d’uomo,
gigantesco e ben attrezzato, dotato di invincibile forza:
ed ecco un nanerottolo, un debole, una vera nullità
mi ha tolto l’unico occhio, dopo avermi tramortito col vino.
Orsù, Ulisse, vieni che ti offro il dono ospitale
e pregherò il glorioso Scuotiterra che ti sia propizio nel ritorno:
sono suo figlio, almeno lui dice di essere mio padre.
Se lo vuole, lui mi guarirà, esclusivamente lui e…
nessun altro , che sia un dio beato o un uomo mortale.”
Ulisse
“Se avessi potuto cavarti il cuore e toglierti la vita
e accompagnarti io stesso nelle case dell’Ade,
il tuo occhio non l’avrebbe guarito neanche tuo padre Poseidone.”
Polifemo
“Ascolta, o azzurro Poseidone, che la terra circondi:
se sono tuo figlio e tu dici di essere mio padre,
fai che a casa non giunga Ulisse, il distruttore di città...
Ma se è destino che riveda i suoi cari e ritorni
nel suo bel palazzo e nella terra dei padri,
allora che ci arrivi tardi e malamente, dopo aver perduti
tutti i compagni, su una nave straniera e a casa trovi solo sciagure.”
Mauro Della Porta raffo |
Woody Allen, Denholm Elliott e io
‘The best cup of tea in the world’
“Correva il
1977. Credo fossimo quasi in autunno. Ibiza, al porto, lungo la banchina
principale.
Uno dei primi locali. Nella memoria, una mezza bettola salmastra
i cui consunti tavolini all’aperto, le cui logore insegne parevano collocarsi,
in quel loro oramai scolorito e consumato blu tendente al biancastro, molto più
a sud, in altri mari, che so? nella Sonda piuttosto che in Polinesia.
L’insegna, retaggio di lontani e migliori momenti e
alquanto ridicola al dunque, recava un impegnativo ‘The best cup of tea in the world’.
Era lì che, invariabilmente, verso sera, ci si trovava. Un
gruppo eterogeneo, una dozzina di persone in qualche modo diventate amiche per
consuetudine, intenzionate ad attendere colà, bevendo e, se del caso,
chiacchierando, l’ora di cena. Una specie di lingua franca, la nostra. Spagnolo,
italiano, francese, inglese, mescolati. Segni d’intesa, qualche grugnito da
parte dei più silenziosi. Pescatori, turisti fuori stagione e quegli inglesi in
bermuda che ai tempi trovavi dovunque. Tutti maschi e tutti o quasi, salvo gli
isolani, in attesa di possibili comunicazioni. Parentali, amicali o lavorative
che potessero essere. Pochi essendo infatti i telefoni sull’isola, era il
numero del ‘The best…’ che quanti
volevano parlarci dovevano comporre dalle cinque di sera circa fin verso le
nove.
Fu alle otto
precise di un giorno come tutti gli altri che il barista chiese a voce alta:
“Elliott? C’è qualcuno che si chiami Elliott?”
e, vedendo il mio vicino di destra alzarsi, aggiunse
indicando l’apparecchio: “Al telefono”.
Un tipo con una faccia conosciuta, di taglia media,
tendente al grassottello, che avevo inquadrato sempre in compagnia di un
giovinetto alquanto effeminato. Ma non è forse vero che se frequenti per
qualche giorno una persona ti capita di pensare di averla già vista altrove?
Non distante l’apparecchio, captai qualcosa di strano. Un po’ di chiacchiere indistinte ed
ecco che Elliott comincia a declamare: “Hickory,
dickory, dock/The mouse ran up the clock/The clock struck one/ And down he
runs/ Hickory, dickory, dock”.
Per quanto digiuno d’inglese, mi sembrò avesse usato un
accento particolare, quasi volesse far vedere che poteva mutare toni e
atmosfere. Un paio di minuti ancora di conversazione di nuovo indistinta ed
eccolo al tavolo. Curioso, per mezzo di un americano che bene o male qualche
parola d’italiano sapeva, gli domandai ragione, se riteneva di darmela, di
quella tiritera recitata tanto stranamente.
“Era Woody Allen”, rispose, “Mi chiedeva se ero capace di
imitare il gergo newyorchese.
Per un film che deve cominciare, gli serve uno come me ma
che parli come quelli della Grande Mela. Non mi pare di averlo convinto”.
Ecco il viso conosciuto: era Denholm Elliott, l’avevo
visto almeno in ‘Alfie’.
Feci finta di nulla e della storia mi ero quasi
dimenticato quando, nel 1987, mille anni dopo il felice periodo ibizano, vedo
il buon Denholm protagonista di ‘Settembre’.
Woody non se ne era scordato.
Vedi, c’è stato un istante, un solo istante nel quale sono
stato a un passo da Allen. Sarebbe bastato chiedere il numero all’attore
inglese, ma non avevo niente da dirgli. Oggi che mi piacerebbe fargli leggere i
miei racconti, nessun aggancio.
Quanto ad Elliott, è morto di Aids ad Ibiza nel 1992. Quella
vita, quell’isola l’hanno incastrato”.
SILVANA BORUTTI
Silvana Borutti |
L’antropologia culturale e
il sapere dei forti
Propongo qui alcune riflessioni e
domande sulla relazione che il sapere antropologico, che ha portato alla nostra
attenzione diverse “forme di vita”, intrattiene con il rapporto di potere che è
l’Occidente.
1. Questioni
epistemologiche
Se
assumiamo un punto di vista epistemologico, se consideriamo cioè l’antropologia
culturale come forma di sapere che è una relazione conoscitiva all’altro (alle
altre culture), dobbiamo riconoscere che l’antropologia ha nella sua origine la
compresenza di almeno due spinte opposte: da una parte, una pulsione epistemica
di dominio, che si realizza nell’oggettivazione dell’altro; dall’altra, un
relativismo spontaneo, che ha come effetto positivo una prospettiva epistemologica
capace di interiorizzare il senso
dell’alterità.
1.1. L’oggettivazione
dell’altro
In Etno-grafia.
L’oralità, o lo spazio dell’altro: Léry,[1] Michel
de Certeau ci mostra in modo icastico come anche l’etno-antropologia, in quanto
forma di sapere che si è dato il compito di conoscere altre culture e altri
soggetti, abbia praticato inconsapevolmente, fin dalla sua fondazione, una vera
e propria volontà di sapere e di oggettivazione. L’antropologia ha nella sua
origine una pulsione epistemica di dominio, che oggettiva l’altro. Commentando
l’allegoria erotica-guerriera di Jan van der
Straet, Certeau mostra che questa pulsione di dominio si realizza
attraverso il potere oggettivante della scrittura.
Jan van der
Straet, Vespucci scopre l’America, (disegno per il
volume di Jean-Théodore de Bry, Americae decima pars, 1619)
Con questa allegoria
erotico-guerriera, Certeau ci spiega che il mito di fondazione
dell’antropologia è il mito di una cultura che esercita sull’altro un gesto
violento di oggettivazione attraverso la scrittura. L’antropologia è il sapere
che l’Occidente moderno conquistatore riporta al ritorno dal suo viaggio presso
l’Altro. Nel disegno, Amerigo Vespucci, corazzato e crociato, con i vascelli
che riporteranno tesori in Occidente, sta in piedi di fronte alla donna indiana
chiamata “America”. Amerigo, il protoantropologo, è armato delle «armi europee
del senso»; America è rappresentata ai suoi piedi, come una donna distesa, un
corpo nudo ed erotizzato, in uno spazio di vegetazioni e animali esotici.
America è l’alterità: è un soggetto confinato nella forma orale della
comunicazione, immerso in un tempo estraneo alla storia progressiva
dell’Occidente, e legato a una dimensione corporea inconscia,
inconsapevole cioè dei propri significati. L’Occidente traccia la propria
storia sul corpo dell’altro. Nel suo lavoro di scrittura, l’antropologia
traduce la parola orale e insensata dell’altro; Certeau mostra il legame
dell’antropologia con gli altri saperi che, come la storiografia, pongono a
distanza l’altro per comprenderlo attraverso la scrittura. Nella testualità
antropologica si mostra così il legame tra scrittura come luogo di sapere e di
potere, e l’Occidente: la scrittura appropria all’Occidente, e al suo presente,
ciò che è stato proiettato, con una “grande divisione”, nella distanza spaziale
(la geografia del dentro/fuori come allontanamento immaginario dell’altro), e
nella distanza temporale (la primitività come costruzione politica del tempo
dell’altro).
Ma è possibile tener separata la volontà di sapere
occidentale dal rapporto di potere che è l’Occidente?
L’Occidente
soffre di oblio dell'origine, cioè di oblio del proprio carattere storico, e
quindi della differenza in rapporto ad altre forme di civiltà. La
razionalità scientifica è di per sé monologica. Per chi vive in essa, la
forma di vita scientifico-razionale, dominata dai modi tecnologici del rapporto
col mondo e dai modi logico-calcolistici del pensiero, appare come una
necessità e un assoluto: sembra di poter pensare solo in essa.
L’etno-antropologia ha in fondo ripetuto questa rimozione, e ha praticato
inconsapevolmente una vera e propria volontà di sapere, che è diventata
un’oggettivazione dell’altro. Ma va osservato che, da una parte, il dibattito
epistemologico nell’antropologia contemporanea, che è molto vivo (pensiamo ad
esempio alla discussione tra la prospettiva oggettivistica del positivismo e la
prospettiva interpretativa; pensiamo al pensiero post-coloniale, o agli studi
sul meticciato culturale e sull’interculturalità), ci dice che
l’etno-antropologia riflette ormai sulla propria volontà di oggettivazione e si
pone il problema di conservare la dimensione della differenza. Dall’altra
parte, il confronto e l’incontro tra il sentimento occidentale, molto più
labile e incerto, dell’appartenenza e dell’identità (l’Occidente dei non
luoghi) e forti esperienze di appartenenza comunitaria hanno trasformato il
viaggio dell’antropologo da pura volontà di sapere in confessione e détour alla ricerca di sé.
Rilevante è che l’antropologia abbia
incominciato a riflettere sulla propria volontà di oggettivazione, riconoscendo
il pericolo connesso alla classificazione dell’altro, che crea etnicità
separate. Negli ultimi due decenni, l’antropologia ha sottoposto a critica i
concetti di identità e di etnicità. Si comincia infatti a vedere
il pericolo del pensiero classificatorio che può portare a classificazioni
arbitrarie di gruppi diversi, pericolo insito anche nelle forme di
multiculturalismo contemporaneo. Si cominciano così a vedere le responsabilità
della ragione antropologica, e a comprendere che il modello classificatorio
dell’etnologia e il processo di “invenzione dell’identità” possono aver avuto
l’effetto di rafforzare le politiche degli amministratori coloniali, piegandosi
a fini di vantaggi economici e a fini politici. Si è capito che attribuire
etnicità aumenta la distanza:[2]
perché, ad esempio, per i conflitti africani si parla sempre di “guerre tribali
in Africa”? Si comincia a capire che l’antropologia può contribuire a creare
categorie politiche; e che anche l’eccesso di relativismo del multiculturalismo
può dar luogo al mantenimento forzato delle differenze. Jean-Loup Amselle e
Édouard Glissant,[3] in contributi che meritano
grande attenzione, insegnano che occorre assottigliare le barriere, e aprirsi a
maggior permeabilità. Amselle ci insegna che il meticciato è originario, non
sopravviene alla purezza: anzi, è una categoria che serve proprio contro l’idea
di purezza. Non si tratta solo di proteggere il diverso e le diversità, ma di
far sparire le barriere e lasciare che le mescolanze sociali avvengano: le
società e le culture si costituiscono in un processo inevitabile di
creolizzazione. Un processo, non una struttura: Glissant si richiama alla
nozione di “arcipelago”, che significa indefinitezza come matrice comune; e ci
ricorda il diritto all’opacità – per cui comprendere l’altro non significa
capirsi completamente, ma poter convivere, alimentandosi di quanto l’opacità
dell’altro lascia filtrare.
In ultima
analisi, è vero che l’orizzonte della conoscenza è profondamente cambiato, a
partire dalla crescita dell’autoconsapevolezza epistemologica delle scienze
umane. Si è capito che la cultura non è “qualche cosa” di cui parliamo, ma è
il luogo a partire da cui parliamo, e siamo parlati e alterati dagli altri.
Purtroppo se ne vedono però poco gli effetti politici.
1.2. Il
relativismo spontaneo dell’antropologia
Il
relativismo è un problema epistemologico connaturato per definizione al sapere
antropologico. Francesco Remotti apre la voce Relativismo culturale dell’Enciclopedia
delle Scienze Sociali Treccani[4]
ricordando che Erodoto è stato in fondo il primo antropologo, ed il primo
sostenitore di una posizione che si può definire relativista. Nel III Libro
delle Storie Erodoto racconta un esperimento antropologico fatto da
Dario, re dei Persiani. Il re chiede ai Greci e agli Indiani Callati a quale
prezzo siano disposti a rinunciare ai propri costumi funerari: gli uni bruciano
i cadaveri, gli altri li divorano. Riceve in entrambi i casi una risposta
indignata: ad ognuno appare repellente il comportamento dell’altro. Erodoto
conclude “La consuetudine [nomos] è regina di tutte le cose”.[5]
L’aneddoto è esemplare di più aspetti del problema del relativismo: da una
parte, relativista è l’antropologo, cioè colui che riflette sulla pluralità
delle culture; dall’altra parte, ogni cultura in sé tende ad essere
etnocentrica, cioè ad affermare l’autenticità, se non la superiorità, della
propria umanità, e a chiudersi nella propria identità. È noto che in molte
culture arcaiche il nome del popolo coincide con il concetto di umanità:
l’antropologo Clifford Geertz riferisce che per i Giavanesi “Essere umani è
essere giavanesi”.[6] A
questo proposito si fanno di solito esempi etnografici, ma sappiamo che
l’etnocentrismo come forma di difesa della propria identità riguarda anche noi
occidentali. Di fatto le ricerche etnografiche, che si sono imposte come forma
di conoscenza nel mondo moderno almeno a partire dal Settecento, mostrano che
ogni forma culturale, che modella i comportamenti sensati dei popoli, ha un
significato unico, particolare, interno al contesto, un significato, diremmo
con Windelband, “idiografico”; questo fa sì che il relativismo culturale appaia
intimamente legato allo statuto scientifico dell’antropologia:
Ora, il
problema da affrontare risiede, a mio parere, nel fatto che sia il relativismo
degli antropologi, sia l’etnocentrismo delle culture finiscono per negare che
tra le culture ci sia un dia-logos, uno spazio percorribile, un attraversamento
possibile. Vorrei fare invece un’analisi del concetto di relativismo che porti,
di contro, a una riconsiderazione dell’antropologia come dialogo di alterità.
Cosa
significa di fatto relativismo? Significa assumere esplicitamente che il
rapporto con l’altro è uno spazio di comunicazione e scambio, che comporta
tuttavia un’opacità (Glissant), un residuo intraducibile, perché l’altro
non è il nostro alter ego simmetrico e trasparente. C’è un limite nella messa
in discorso dell’altro, un limite che va assunto e rispettato.[7]
La conoscenza antropologica lavora proprio in questo spazio informe e
intraducibile. Ad esempio, non possiamo comprendere le rappresentazioni
Fataleka dell’universo e dell’origine del mondo se non attraverso nozioni
costitutive del nostro immaginario spaziale e della nostra ontologia (come le
nozioni di “limite” e di “storia”), e attraverso nozioni con cui rappresentiamo
la genesi della nostra cultura (come il tema greco dell’apeiron), ma che non arriviamo a rendere trasparenti neppure “per
noi”;[8] non
possiamo comprendere lo hau maori se non attraverso nozioni come
“prezzo”, “dono”, “profitto”, “pagamento”, e attraverso opposizioni come utilità/gratuità,
scambio/dono, intorno a cui si giocano i nostri stessi conflitti culturali, e che
si trovano nel cuore dell’articolazione tra economico, giuridico e politico
nella nostra forma di vita.[9] Ma
proprio questi scarti e questi vuoti costituiscono lo spazio (e il tempo) in
cui la conoscenza lavora: l’intraducibile, il limite non è semplicemente
limite conoscitivo in rapporto ad un ideale di conoscenza trasparente; è, al
contrario, il limite ontologico che definisce i bordi della nostra esperienza
dell’altro, un’esperienza che diventa possibile contrastivamente, a partire da noi stessi, e che contribuisce nello
stesso tempo alla nostra autocomprensione.
Io credo che si possa parlare di dialogo di alterità, ma nel
senso puntuale, non universale, dell’apertura all’incontro e alla negoziazione,
e quindi nel senso della traduzione e del compromesso. In quanto contrastivo e
asimmetrico, il rapporto con l’alterità è costitutivo di “noi” stessi. Remotti
ci ricorda che le società, anche quelle tradizionali, non sono entità chiuse,
ma processi in cui è coinvolta l’alterità (pensiamo alla pratica dell’esogamia
nelle società arcaiche; o al processo complesso di assimilazione della cultura
greca con cui i Romani mettono in atto un processo di fondazione della propria
cultura): egli parla di un lavoro di rimodellazione continua del “noi”, tra
assimilazione e differenziazione.[10] In
questo senso, il sapere antropologico deve sentirsi impegnato non tanto in una
tipologia delle differenze, quanto nell’analisi dei problemi esemplari della
“traduzione”, del passaggio, della “trasformazione” nell’attraversamento interculturale.
Ha dunque
delle buone ragioni una forma di relativismo che sostenga che la teoria in
antropologia non deve tendere alla legislazione universale, ma piuttosto a un
compromesso traduttivo che abbia interiorizzato il senso dell’alterità.
2. Il
relativismo culturale degli antropologi può contrastare in qualche modo il
pensiero dei forti?
Claude
Lévi-Strauss risponderebbe che lo può, in quanto sapere umanista che educa le
coscienze: l’etnologia può difenderci dal pensiero dei forti, perché è sostanzialmente
umanista. In che senso sia un umanesimo Lévi-Strauss lo spiega con tre pagine folgoranti del 1956 su I tre
umanismi.[11] Lo
strutturalista (e, si diceva allora, anti-umanista) Lévi-Strauss parla dell’umanesimo
dell’etnologia. «L’etnologia [la conoscenza dei popoli lontani] non è né
una scienza a parte, né una scienza nuova: è la forma più antica e più generale
di ciò che designiamo col nome di umanismo». Cosa intende Lévi-Strauss per
etnologia? Cosa c’è di umanistico nell’etnologia? Lo capiamo subito: umanistico
non è l’oggetto, cioè gli altri popoli, o una nozione generale di uomo, ma il
modo di guardare all’alterità. E che idea di umanesimo è quella che
Lévi-Strauss riconosce esemplarmente nello stile di conoscenza etnologica? Egli
scrive: «Quando gli uomini delle fine del Medio Evo e del Rinascimento hanno
riscoperto l’antichità greco-romana, e quando i Gesuiti hanno fatto del greco e
del latino la base della formazione intellettuale, non è stata forse questa una
prima forma di etnologia?» Etnologia, perché «Si riconosceva infatti che
nessuna civiltà può pensare se stessa se non dispone di qualche altra che possa
servire da termine di paragone».
Il tema
etico del senso dell’alterità è in primo piano: Lévi-Strauss scrive che
l’etnologia è pratica della relazione al diverso, e quindi conquista del senso dell’alterità e della comparazione, contro
un’interpretazione unitaria e progressiva della storia e della metafisica. In
quanto conquista del significato conoscitivo della comparazione, l’etnologia è umanesimo,
anzi, la forma più antica e generale dell’umanesimo, inteso come capacità di mettere
in prospettiva la propria cultura e confrontarsi con gli altri e con le
altre culture (intese come insiemi differenzianti ed espressivi, come scrive
James Clifford). Aggiunge Lévi-Strauss: così imparare latino e greco è aprirsi
al metodo intellettuale dell’etnografia, che è lo spaesamento, lo
sguardo da lontano.
Rispetto agli umanisti rinascimentali, che si
rivolgono a un pubblico di élite, quando nasce l’etnologia in senso proprio,
quando ci si volge cioè alle popolazioni arcaiche, senza scrittura e senza
monumenti, l’umanesimo si potenzia, diventa democratico e universale. Nello
stesso tempo deve dotarsi di «nuovi strumenti di investigazione» e di nuovi
modi di conoscenza che attingono alle scienze umane come linguistica o
economia, o alle scienze naturali, come antropologia fisica, tecnologia, e nuovi modi di approccio all’oggetto, come
l’osservazione partecipante e la ricerca sul campo.
Queste pagine di Lévi-Strauss ci fanno capire, che,
contro il paradigma identitario, l’etnografia ci può fornire una via
“comparatista” all’alterità. Che tipo di comparativismo? Da una parte, non il
comparativismo che pure è riconoscibile nello strutturalismo di Lévi-Strauss, cioè la ricerca di strutture logiche e costanti
comuni a tutte le culture, vere e proprie regole inconsce (ad esempio la
regola inconscia della relazione e dell’alleanza tra gruppi sociali) che
sottostanno a ogni struttura sociale e
che si manifestano in diverse forme di concettualizzazione umana. Non il comparativismo strutturalista,
dunque, ma neppure, dall’altra parte, il comparativismo positivista, cioè la ricerca di
universali culturali attraverso generalizzazioni, perseguite dall’evoluzionismo
e dal metodo comparativo positivista,[12]
secondo una sequenza conoscitiva lineare, che va dall’osservazione e
registrazione dei dati istituzionali e simbolici di una società (livello della
documentazione etnografica), alla comparazione con aspetti simili di altre società,
e infine alla formulazione di leggi generali concernenti la società e la
cultura (generalizzazione in una teoria antropologica).
Un paradigma umanista oggi non ha bisogno di
universali strutturali o evolutivi, ma semmai, come suggeriscono le tre pagine
di Lévi-Strauss, di cogliere le differenze non in modo classificatorio, ma con
uno sguardo contrastivo. Ha bisogno cioè di uno sguardo che colga similarità e
differenze: sguardo ben presente anche in molti scritti di Lévi-Strauss, e in
particolare nel Lévi-Strauss che legge nelle Confessioni di Rousseau la fondazione
delle scienze dell’uomo,[13]
in un saggio in cui mostra come lo studio e la comprensione dell’altro
etnografico (o dell’altro storico) richiedano la radicale presa di distanza da
noi stessi. Lo sguardo etnografico
sull’alterità consente la comprensione delle differenze e insieme
l’autocomprensione.
L’umanesimo ha bisogno di una metodologia della
comparazione che risulti da uno sguardo contrastivo, contro il pregiudizio
del simile.[14] Il pregiudizio e la ricerca precipitosa del simile e dell’universale
impediscono di comprendere il procedere differenziale, e non associativo, della
procedura comparativa.[15]
Ciò che è comparabile, non lo si ricava attraverso l’associazione dei
dati, secondo le procedure empiriche positiviste; non lo si deduce neppure da
una pretesa legge o da un archetipo (come si fa ad esempio quando si assume il
preteso significato originario di un mito antico, e lo si va a cercare nelle
riscritture). Comparare è lavorare sulle differenze, con uno sguardo sinottico,
che pone i dati o i testi in compresenza. Si parte quindi da un’operazione di
differenziazione (individuare delle differenze), per costruire poi un asse di
comparazione e dei criteri di confronto sulla base di tratti comuni (si tratta
di «costruire i comparabili», scrive Detienne). Il tema del criterio è
fondamentale: comparare infatti non è semplicemente vedere (osservare), ma
piuttosto vedere come, vedere secondo una regola schematizzante. Come
dice Wittgenstein, vedere come non è vedere delle proprietà negli
oggetti, ma vedere le connessioni, vedere ciò che li connette sensatamente.
Un esempio
del problema di come pensare la comparazione facendone un vero e proprio
attraversamento culturale possono essere i tentativi che sono stati fatti,
ad esempio da Kwasi Wiredu, di costruire una nozione di “filosofia africana”
decolonizzata, che non rimandi cioè a differenze concettuali già gerarchizzate
– come è successo di fatto con l’”etnofilosofia”.[16]
Di fatto l’etnofilosofia, ricercando le ontologie dei popoli africani, ha
finito per ricondurre la specificità della filosofia africana non tanto a una
elaborazione concettuale specifica, e quindi simile e diversa rispetto a quella
occidentale, quanto a una serie di pratiche e di visioni del mondo, a
quell’universo di significati e di comportamenti simbolici che la filosofia
occidentale tende a definire come mitici e prescientifici. L’etnofilosofia è
stata al centro di un dibattito post-coloniale tanto più significativo, in
quanto animato da pensatori africani, da Gyekye a Hountondji, a Oruka, a
Eboussi-Boulaga. Questo dibattito ha mostrato che l’etnofilosofia ha finito per
riproporre in ultima analisi una legittimazione dall’esterno della filosofia
africana: si pensi all’esemplarità del concetto di Senghor di “négritude”,
concetto che esprime una passione identitaria e insieme un processo di auto-comprensione
che si realizza sotto lo sguardo dell’altro. C’è evidentemente un legame
non ben dominato di dipendenza dai paradigmi del pensiero occidentale e una
contraddizione tra, da una parte, la ricerca di una cultura originaria, e,
dall’altra, la sua espressione in termini occidentali, senza una vera e propria
costruzione di un criterio di comparazione.
Interessante
è invece come alcuni topoi del pensiero occidentale, come le dicotomie tra
filosofia e cultura, tra tradizione e modernità, tra oralità e scrittura, tra
lingue indigene e lingue dominanti della comunicazione, tra nord e sud, siano
ripensati in Wiredu e in altri autori africani non come un insieme di
opposizioni, ma come traduzioni e attraversamenti di frontiere mobili: si
rivelano così dei concetti relazionali, che mostrano la specificità dei
contesti e la loro differenza non gerarchica – una differenza non
cristallizzata e non gerarchizzata, nel senso dinamico proposto da Jean-Loup
Amselle. La filosofia come un’esperienza di traversata culturale, tra la
razionalità occidentale e l’eredità tradizionale africana.
Capiamo
meglio, alla luce di questa concezione della conoscenza umanistica come
conoscenza delle differenze, l’affermazione Walter Benjamin, ripresa da Edward
Said,[17]
per cui ogni documento di civiltà e cultura è anche un documento di barbarie:
Tutto il patrimonio culturale che [un osservatore
distaccato] abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non
può pensare senza orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica
dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei
loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso
tempo, documento di barbarie.[18]
O anche il passo in cui Said dice: ciò che rende
interessanti culture e civiltà non è «la loro essenza o purezza, ma le loro
mescolanze e diversità».[19] Sono
queste, a mio parere, indicazioni metodologiche umanistiche.
Suggeriscono che le società, anche quelle tradizionali, non sono entità chiuse,
ma processi in cui è coinvolta l’alterità, in un lavoro di
rimodellazione continua del “noi”, tra assimilazione e differenziazione.
L’auspicio è che questa consapevolezza epistemologica, che è una conquista
dell’antropologia, produca anche effetti politici.
[1] M. de Certeau, Etno-grafia.
L’oralità, o lo spazio dell’altro: Léry,
in La
scrittura della storia, 1975, trad. it. di A. Jeronimidis, Il Pensiero
Scientifico, Roma 1976, pp. 219-257. Cfr. S. Borutti, U. Fabietti, Introduzione a
M. de Certeau, La scrittura dell’altro, Raffaello Cortina, Milano 2005.
[2] Sulla critica della ragione
etnica, sono ormai classici i libri di Ugo Fabietti (L’identità etnica.
Storia di un concetto equivoco, Carocci, Roma 20132) e di
Francesco Remotti (L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010).
[3] J.-L. Amselle, Logiche
meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, 1990, trad. it. di
M. Aime, Bollati Boringhieri, Torino 1999; É. Glissant, Poetica del diverso,
1996, trad. it. di F. Neri, Meltemi, Roma 1998.
[4] F. Remotti, Relativismo
culturale, in Istituto della Enciclopedia Italiana, Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, vol. VII, 1997, pp.
325-332.
[5] Erodoto, Storie,
trad. it. di A. Izzo D’Accinni, BUR, Milano 1998, L. III, 38, 3-4.
[6] C. Geertz, Interpretazione
di culture, 1973, trad. it. di E. Bona, Il Mulino, Bologna, 1987, p.
97.
[7] Attenzione:
“intraducibile” non significa qui banalmente lo scacco nel passaggio da un codice
linguistico a un altro, cioè l’impossibilità di restituire un termine o un
messaggio equivalente in un’altra lingua; significa piuttosto che un rapporto ontologico asimmetrico è la
base della produzione della conoscenza antropologica, e che questo rapporto
ontologico fa in modo che la conoscenza sia segnata dal presupposto del non
rappresentabile in quanto limite della messa in discorso dell’altro.
[8] Cfr. R. Guidieri, La route des morts, Seuil, Paris, 1980, 1.2. e 1.3.
[9] Così
lo spazio indeterminato Fataleka diventa concepibile comparando e modificando
nello stesso tempo la nostra e la loro concezione di “limite” e di
“illimitato”; così l’indecisione di Mauss, che nel suo famoso saggio presenta
il dono come un ibrido tra scambio e reciprocità, tra prestazione gratuita e
scambio utilitario, può gettar luce sull’oblio occidentale del dono come
dismisura, e come “generazione”, apertura di un debito e di una temporalità
senza ritorno. Cfr. M. Kilani, Que de hau! Le débat autour de l’Essai
sur le don et la construction e l’objet en anthropologie, in J.-M. Adam,
M.-J. Borel, C. Calame, M. Kilani, Le
discours anthropologique, Klincksieck, Paris, 1990, pp. 135-167; R.
Guidieri, Voci da Babele. Saggi di critica dell’antropologia,
trad. it. di S. De Matteis, Guida, Napoli, 1990, pp. 21 sgg.
[10] Cfr.
F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio
dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, 20092.
[11] C. Lévi-Strauss, I tre
umanismi, trad. it. in Antropologia strutturale 2, Il Saggiatore, Milano
1978, pp. 311-314.
[12] In una sequenza conoscitiva
lineare, che va dall’osservazione e registrazione dei dati, alla descrizione di
una società nei suoi aspetti istituzionali e simbolici (livello della
documentazione etnografica), alla comparazione con aspetti simili di altre
società, e infine alla formulazione di leggi generali concernenti la società e
la cultura (livello della generalizzazione in una teoria antropologica).
[13] Jean-Jacques Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo, 1962, trad. it. di P.
Caruso in Razza e storia e altri studi di
antropologia, Einaudi, Torino, 1967, pp. 83-96.
[14] Come abbiamo letto in Lévi-Strauss, «
nessuna civiltà può pensare se stessa se non dispone di qualche altra che possa
servire da termine di paragone». Cfr Borutti, Heidmann, cap. 7
[15] «Costruire i comparabili»,
precisa Marcel Detienne, significa oltrepassare il «cerchio ristretto
dell’immediatamente “comparabile”», andare al di là
dell’«orizzonte ristretto all’opinione dominante» (M. Detienne, Comparer l’incomparable,
Seuil, Paris
2001, p. 10).
[16] Cfr. D. Mozzato, Filosofia
(africana) in progress. Studio su Kwasi Wiredu, Mimesis, Milano 2013.
[17] E. Said, Umanesimo e
critica democratica, trad. it. Il Saggiatore, 2004, p. 53.
[18] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, trad. it. a cura di R. Solmi in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 19952,
p. 79.
ANTONIO LUBRANO
Antonio Lubrano |
Lirica in crisi: come sciupiamo un patrimonio
nazionale
"Non ci
resta che chiudere". Questa sconsolata battuta del Sovrintendente del
Teatro dell'Opera di Roma, Carlo Fuortes, comparve su tutti i giornali nel
luglio scorso. Be', potrebbe essere il titolo dell'intero capitolo riguardante
l'attuale stato del settore lirico in Italia. E i numeri come al solito dicono
più di qualunque discorso. Ecco qua: le 14
fondazioni lirico-sinfoniche italiane contano seimila dipendenti, dai
ballerini agli orchestrali, dai coristi ai fonici, ai tecnici in generale.
Organici fissi, i cui costi assorbono più del 70% delle entrate. Oltre la metà dell'intero Fondo unico per lo
spettacolo(il Fus) serve a coprire i costi di gestione. Nel 2013 non furono
sufficienti 183 milioni di euro. E si calcola che in dieci anni i teatri lirici
abbiano perso 250 milioni di euro e accumulato debiti per 328 milioni! Cifre
pazzesche.
Un'idea più concreta ce la fornisce il sipario. Sì,
proprio quel telo pesante, solitamente rosso, che quando si alza segna l'inizio
di ogni magìa teatrale. All'Opera di Roma -giusto per stare sul tempio lirico
attualmente più discusso- si alza 163 volte all'anno mentre a Londra 360. I contributi pubblici nella Capitale
toccano i 40 milioni di euro, nella capitale inglese 30 milioni di euro, badate
bene per il doppio delle alzate.
A Roma il piano di risanamento della Fondazione è
praticamente saltato, sicché secondo la legge Bray l'ente non potrebbe avere
altro destino che la liquidazione. Naturalmente si tentano salvataggi. "Il
primo caso in Italia", ha scritto un giornale. Sì, se non consideriamo il
precedente del San Carlo di Napoli che alla fine dell'Ottocento fu costretto a
chiudere per debiti (e poi come sappiamo risorto faticosamente dalle ceneri
finanziarie). Del resto lo stesso San Carlo è di nuovo in crisi e non si
capisce bene quale potrà essere la sua sorte.
L'immediata conseguenza è che le fondazioni non sono più
in grado economicamente di produrre nuovi spettacoli. A complicare le cose ci si
mettono poi anche gli scioperi indetti da questo o da quel sindacato, che fanno
saltare le prime o le repliche. Esempio ultimo La Bohème di Puccini a Caracalla, per tre volte (luglio 14).
Immaginatevi la delusione dei turisti stranieri attratti dalla suggestione del
monumento e dal mito musicale italiano. Il colmo, nel caso di Caracalla, è dato
dal fatto che a mandare a carte quarantotto lo spettacolo sono stati due
sindacati di minoranza (appena il 30% del personale), e uno dei due è
-nientemeno- la Cgil.
Del resto, a dare una sfumatura di ridicolo al quadro ci
si mettono talora certe pretese dei sindacati. Anche qui valgano pochi esempi.
Se All'Arena di Verona va in scena l'Aida
ed è previsto l'impiego di spade finte, chi le brandisce ha diritto alla "indennità
armi". Sempre all'Arena c'è l'indennità lingue per le rappresentazioni in
lingua straniera. Alla Scala una prima di Romeo
e Giulietta con la coreografia di Sasha Waltz è saltata perché i ballerini
volevano un supplemento paga del 10% per la pendenza del palcoscenico:
pare che provocasse l'infiammazione
delle caviglie. E il coro a sua volta dovendo in certi passaggi inclinare la
testa chiedeva l'indennità piegamenti!
Negli anni Novanta, se ricordo bene, un orchestrale molto
sindacalizzato provocò la fine della collaborazione del maestro Riccardo Muti
con il S. Carlo. Durante una prova un flautista mostrò con insistenza il suo
orologio al direttore. “Che cosa c'è?” - chiese Muti poggiando la bacchetta
sullo spartito. “Maestro, a quest'ora abbiamo diritto a un pausa, per
contratto!”
Potete immaginare la reazione del maestro. Il quale
sembra propenso ad abbandonare anche l'Opera di Roma, dov'era approdato dopo
l'esperienza scaligera.
E' triste dover constatare che a far scivolare verso
l'abisso la lirica italiana contribuiscano anche episodi del genere. E torna
puntualmente in mente il felliniano "Prova
d'orchestra", un film che possiamo considerare come il presagio della
crisi.
A onor del vero alcune fondazioni liriche sembrano voler
seguire l'esempio dei 28 teatri di
tradizione italiani, per la gran parte al Nord e una decina al centro-sud:
puntano sulle coproduzioni, riducendo così i costi. Tre fondazioni, il Massimo
di Palermo, il San Carlo di Napoli e il Petruzzelli di Bari collaborano fra
loro per l'allestimento di nuovi spettacoli. Quindi vale il vecchio detto: dove
si vuole si può.
Antonio Lubrano |
Nel panorama nazionale fa eccezione il Teatro alla Scala
che riceve finanziamenti da privati. E coloro che propongono rimedi per la
crisi consigliano infatti due vie: riduzione degli esuberi negli organici e
quindi esternalizzazione (orribile parola, ma si dice così adesso) delle
orchestre e dei corpi di ballo; e sgravi fiscali per le aziende che
sponsorizzano le iniziative culturali; quindi in primis la lirica, patrimonio
nazionale da oltre 400 anni. Voglio ricordare, per chi non lo sapesse, che la
prima opera lirica, Euridice, favola
drammatica di Ottavio Rinuccini, messa in musica prima da Jacopo Peri e poi da
Giulio Caccini, è del 1600. Di certo più famosa è l'Orfeo di Monteverdi, un prologo e cinque atti, su libretto di
Alessandro Striggio, andata in scena al Palazzo Ducale di Mantova nel 1607. Sia
l'una che l'altra celebrano la storia d'amore della ninfa Euridice e del
cantore Orfeo che incantava con la sua lira gli animali e le anime trapassate.
Al momento la sensazione è che lo stiamo buttando alle
ortiche questo patrimonio così squisitamente italiano. Mentre altrove, in tutta
l'Asia per esempio, sono nati o sono in costruzione ben 200 teatri d'opera!
(8 agosto 2014)
PINO
CORBO
Autodafé
Atto di
fede, proclamazione della propria sedicente innocenza o della compiaciuta condizione
ereticale: intervenire sulla mia poesia (o più pomposamente sulla mia poetica) mi
crea quell’imbarazzo dell’accusato che deve difendersi, del reo che deve in
qualche modo giustificarsi.
Basterebbe più semplicemente
dichiararsi colpevole, o meglio corresponsabile, nell’ammissione di una certa
incapacità ad essere normale, cioè normatizzato
rappresentante della collettività sociale, lusingato dalla
conseguente renitenza agli obblighi precostituiti, al consapevole conformismo.
Colpevole di che cosa?
Corresponsabile di chi? Colpevole (finalmente libero di esprimere un fastidioso
senso di colpa o di inferiorità) di non essere produttivo, anzi in qualche modo
di essere uno spreco per l’economia nazionale (forse planetaria), colpevole di
occupare spazi nascosti, interspazi, senza avere il coraggio di comiziare, di trascinare masse; in
definitiva reo di diserzione, opacità pensosa, disfattismo etico, “distimìe”
energetiche, opportunista giocoliere di sintagmi stucchevoli, di stati d’animo
sospesi, astratti come i pensieri che li nutrono.
Corresponsabile (ora
diranno i più che si tratta di un puro escamotage)
di tutti coloro che rappresento e che si
possono chiamare (data la situazione tribunalesca) complici; non dico che essi
si riconoscano in toto in me, perché,
malgrado l’omogeneizzazione di massa, ognuno virtualmente è irripetibile ed
insostituibile, ma almeno i miei compagni di strada condividono con me il senso
estremo delle cose, la coscienza dell’insondabile e del sublime effimero;
ripeto, non parlo per tutti loro, tanto, pure se colpevole appaio, il mondo
fortunatamente continuerà a ruotare senza minimamente variare per la colpevolezza
mia e di chi sa quanti altri correi, costretti
anch’essi da un atto di fede pubblico a un manifesto atto di accusa.
Marilena Vita |
LA
BELLEZZA E LA QUIETE NELLA FOTOGRAFIA
I maestri Zen
usano il termine satori per descrivere
un lampo di intuizione, un momento di assenza di mente e di presenza totale.
E un attimo di illuminazione, di bellezza che per essere colta ha bisogno
di una nostra totale presenza. Il satori è il momento più alto nella pratica del Buddismo
Zen, momento in cui l'intera esperienza personale è proiettata in un unico
istante, e porta ad un annullarsi cosciente e momentaneo del soggetto, che non deriva da una rinuncia del mondo esterno ma dalla partecipazione ad esso
tramite l'atto puro.
Al di là della bellezza della
forma esteriore il corpo in fotografia ha qualcosa di ineffabile, un’essenza profonda,
interiore e sacra.
Se poi quell’attimo bloccato diventa autoscatto ecco che il corpo
assume in quel preciso momento la consapevolezza dell’esserci.
Lo scatto in questo genere di fotografia è una libertà, che attraverso
l’auto-osservazione ci permette di entrare in profondità nel corpo.
Quando e dove vi è ”bellezza” questa essenza interiore traspare in
qualche modo anche all’esterno.
Questa si percepisce appunto attraverso la contemplazione del proprio
corpo che crea un ponte tra il soggetto che si ritrae e l’opera/immagine, che
scaturisce una quiete interiore.
The sun on the city (2012) |
Una visione a circuito chiuso che quasi in forma narrativa ci riporta
ad una condizione che ci appartiene che
abbiamo smarrito nel mondo della forma.
«visibile e mobile il mio
corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del mondo
e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le
cose in cerchio attorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo
prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena
definizione e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo». (L’occhio e lo spirito, di Maurice Merleau-Ponty).
Il corpo, autoritratto in fotografia a volte gioca con la propria
ombra, si assimila agli intonaci di muri fatiscenti, compare da porte, si fonde
con la natura, la luce gli dona quasi un senso di apparizione. Anche il fondersi
con gli ambienti che le appartengono, non rappresenta la volontà di nascondersi
ma al contrario quella di mostrare il proprio io e di parlare di sé attraverso
le immagini. Gli ambienti dove il corpo si innesta assumono il valore simbolico di giardino
sacro suggerendo l’invisibile attraverso il visibile. La fotografia in questo
caso ci mostra il non manifestato per mezzo della forma, con l’ausilio del
silenzio e della contemplazione. Un’esternazione di uno spazio interiore ed esteriore che ha il potere
di persistere in una dimensione senza
tempo (data dall’opera) in un equilibrio sempre
precario tra vita e la morte.
MAURIZIO MESCHIA
Maurizio Meschia |
DISORIENTAMENTI
Nessuna notizia.
In ascolto soltanto del suono
di un verso in esilio
Si forma, si sforma.
Nell’eterno ritorna
ciò che non era
Celeste promessa
scritta nel vento,
quale udito hai mai offeso?
Incompiuta e amata
una scrittura si dipana
perché la lingua madre
sia una lingua ignota
Nel disorientamento
puoi vedere il movimento
che impagina infinito stupore
Triste il lascito del sapere,
tragico quello del suo opposto.
Non resta che un volo incauto
su un acuto trascendente
Lettere mai scritte
per un destinatario inesistente
che tutto conosce del mittente
Non ha direzione
la grigia cometa
pulsante di vita smarrita
Suona una partitura ma
solo da un errore di battitura
sboccia inattesa meraviglia
Tutte le ali battono
per l’angelo perduto,
quasi un estremo applauso
a lenire la vergogna
A sin. Maurizio Meschia, a des. Angelo Gaccione |
ALEX ZANOTELLI
NON LASCIAMO SOLI I PALESTINESI
La solitudine del
popolo palestinese è la vergogna del mondo. Una immensa sofferenza che dura da 70 anni, sfociata
adesso in un urlo di disperazione per
questa assurda e impari guerra tra Israele e Palestina. E come risposta c’è
solo silenzio, indifferenza, sia da parte dell’Unione Europea, sempre più
assente, sia da parte dell’Italia, sempre più legata ad Israele, sia da parte
della chiesa italiana, sempre più silente.
E’ un grido di dolore che mi tocca profondamente come
credente nel Dio della vita, come missionario inviato a costruire un mondo
‘altro’ da quello che abbiamo.
In questo tragico momento faccio mio il grido lanciato dai leaders
delle chiese cristiane in Palestina, in un documento del 2009, Kairòs Palestina, che è stato volutamente
boicottato e oscurato: "Noi ….gridiamo dal cuore della sofferenza che stiamo
vivendo nella nostra terra, sotto occupazione israeliana, con un grido di speranza in assenza di
ogni speranza….” Un grido di sofferenza che riassumono così :”Il Muro di
separazione eretto in territorio palestinese… ha reso le nostre città e i
nostri villaggi come prigioni, separandoli gli uni dagli altri; Gaza, specialmente,
continua a vivere in condizioni inumane, sotto assedio permanente…Gli
insediamenti israeliani devastano la nostra terra in nome di Dio o in nome
della forza, controllando le nostre risorse naturali, specialmente l’acqua e le
risorse agricole…”
Partendo da questa
violenza sistemica, i pastori delle chiese dichiarano : "L’occupazione
israeliana della terra palestinese è un peccato contro Dio e contro l’umanità
poiché depriva i palestinesi dei fondamentali diritti umani". I leaders delle
chiese invitano quindi i palestinesi alla resistenza come nelle prima intifada: "Affermiamo
che la nostra scelta come cristiani di fronte all’occupazione israeliana è di resistere.
La resistenza è un diritto e un dovere per il cristiano. Ma è una resistenza
che ha l’amore come logica. E’ quindi una resistenza creativa, poiché
deve trovare strade umane che impegnino l’umanità del nemico. Dobbiamo
combattere il male, ma Gesù ci ha insegnato che non possiamo combattere il male
con il male. Possiamo resistere attraverso la disobbedienza civile."
E’ la via seguita nella lotta contro il regime dell’apartheid in Sudafrica da uomini come il Premio Nobel per la pace Desmond Tutu, che giorni fa ha affermato: "Israeliti e Palestinesi devono uscire dalla logica dell’odio e della guerra. Israele non otterrà mai una vera sicurezza per mezzo dell’oppressione dei Palestinesi. E la Palestina non otterrà mai una pacifica autodeterminazione per mezzo della violenza dei razzi. Nessun conflito è irrimediabile. Nessun dissidio è così assoluto da non poter mai essere riconciliato.”
E’ la via seguita nella lotta contro il regime dell’apartheid in Sudafrica da uomini come il Premio Nobel per la pace Desmond Tutu, che giorni fa ha affermato: "Israeliti e Palestinesi devono uscire dalla logica dell’odio e della guerra. Israele non otterrà mai una vera sicurezza per mezzo dell’oppressione dei Palestinesi. E la Palestina non otterrà mai una pacifica autodeterminazione per mezzo della violenza dei razzi. Nessun conflito è irrimediabile. Nessun dissidio è così assoluto da non poter mai essere riconciliato.”
Per questo i leaders delle chiese in Palestina offrono come primo
strumento di resistenza il boicottaggio.
“Individui, aziende e stati si impegnino nel disinvestimento e nel boicottaggio
di ciò che viene prodotto dall’occupazione.”
E’ da chiedere altresì l’embargo militare contro Israele come proposto dai Premi Nobel
in un recente appello. Nel periodo 2008-2019, gli USA forniranno ad Israele
aiuti militari per 30 milardi di dollari. Altrettanto sta facendo la UE, che
ha inoltre concesso alle imprese militari e alle università israeliane
centinaia di milioni di euro per la ricerca militare. Israele è uno dei
principali produttori e/o esportatori mondiali di droni militarizzati.
L’Italia è nella UE il primo esportatore di armi verso
Israele. Nel 2012 abbiamo esportato armi a quel paese per un valore di 470
milioni di euro. Il 9 luglio, mentre era in atto il bombardamento di Gaza,
l’Italia ha consegnato a Israele i primi due veivoli Alenia-Aermacchi M 346.
Questo in barba alla legge 185 che vieta la vendita di armi a paesi in guerra.
L’Italia deve rifiutarsi di consegnare gli altri 28 esemplari.
padre Alex Zanotelli |
Chiediamo inoltre la revoca del Trattato militare segreto
Italia-Israele, conosciuto
come "Accordo generale di cooperazione militare e della difesa".
Riteniamo altrettanto importante il Boicottaggio delle
Banche, che pagano per questo
commercio di armi (Campagna Banche armate), ritirando i nostri soldi dalle
banche ‘armate’.
Infine proponiamo una grande manifestazione nazionale
che includa tutti (Chiese, sindacati, movimenti), per far sentire di nuovo la
voce di un popolo che ha il coraggio di dire NO a un mondo in guerra,
a un Sistema che ha bisogno delle armi e della guerra per continuare a
permettere a pochi di avere quasi tutto.
“Speranza è fede in azione contro l’Impero- scrive il
pastore luterano palestinese Mitri Raheb, nel suo potente libro Faith in the
face of Empire. Speranza è quello
che noi oggi facciamo. Solo quello che noi oggi facciamo come popolo della fede
e come cittadini impegnati, può cambiare il corso della storia e mettere le
fondamenta per un futuro alternativo. Questa è la tradizione profetica che è
venuta dalla Palestina , una tradizione che dobbiamo tenere viva.”
[Napoli, 28/7/ 2014]
RENATO SEREGNI
Renato Seregni |
DIO
un... Eppure
Affermazionismi
“Dopo tutto,
che cosa è Dio?
Un fanciullo
eterno che gioca a un
gioco eterno in
un giardino eterno”.
Sri Aurobindo
(filosofo e mistico
indiano1872-1950)
Speranza:
balistica di Dio.
Dio ci ha dato talenti diversi. La
pubblicità ci vuole simili.
Padre
nostro che sei.
Localizzare
la Divinità
ci esclude dalla Divinità.
Risurrezione:
l’ottimismo del settimo giorno.
Fiera
delle vanità: Fede e Ragione, incontro scontro.
Ingresso
libero.
Croce:
lacrime da bere per stretta dieta spirituale.
Dio,
un pensiero che brucia.
Dammi
preghiere bonsai per sciogliere inquietudini.
Cerco
verità con la fierezza del pianto. Placato, srotolo
il
cielo dell’anima.
Cercare
Dio è piacere enigmistico.
Dio è come la nebbia, quando c’è
non si vede.
Io, filosofico sputo di Dio.
Al Dio dell’ironia offro la mia
incoscienza cosciente
della Sua.
L’universo: lo stile di Dio.
Domenicani e Gesuiti uniti. Dio,
dove stai?
Giuda: il politico di Gesù.
Spastico emotivo m’affido a Dio
che accorda i ricordi.
Il mio Dio bambino prima crea, poi
colora.
È da uno spiraglio che Dio invade.
Dio è un pensiero che vive.
Se
spegni la speranza Dio si rabbuia.
Dio
ha buon tempo perché sa aspettare.
Vorrei Dio come amante discreta.
Sono
una negazione, capovolto sono la negazione
di
una negazione, trapezista di Dio.
Colui che cerca l’ordine
spirituale culmina nella
contemplazione di Dio. Alle volte.
La
verità gioca alle mille porte.
Se il gesto è metafisico, sono
Dio.
Gli
uccelli del cielo e i fiori dei campi sono
gli
spot di Dio.
Se
pensa a me, Dio incrocia le dita.
Cogliere
Dio nel rumore dei capelli.
Dio
pescatore nell’ambiguità del vivere.
Relativismo
etico: fratelli di un Dio sconosciuto.
Non
ho interlocutori, solo Dio mi ascolta.
L'inconscio
collettivo attende un Dio che acquieta.
Padre
nostro che sei.
Verticalizzo con Dio.
Innamorarsi avvicina a Dio.
Dio
è vivo, solo che non vuole essere coinvolto.
Croce e amore. Da Dio!
LUIGI CAROLI
Col cartello Luigi Caroli (a si. A. Gaccione) |
Scenari
I giusti non si aspettino giustizia,
premi ad onesti? Giammai ci fu dovizia.
Chi sempre mediocre fu finì per vincere
chi mai disobbedì non
può che fingere!
Sappiano i liberi pensatori,
i dotti ingegni, artisti e scrittori
e gli assetati di accordi col nemico.
Di loro agli altri non importa un fico.
Lame affilate son per gli assassini
ed è illusion servan a mozzar panini.
(Milano, 15 aprile 2014.
Testo ispirato al dramma teatrale di Angelo Gaccione
La porta del sangue
e a lui dedicata)
ROBERTO MARELLI
NOSTALGIA
Mi sto recando in una
Emittente Televisiva privata per raccontare le mie Storie di Lombardia.
Ho appena parcheggiato la
macchina, quando vengo fermato da una persona anziana che mi chiede se posso
cambiargli un euro perché deve
entrare in un COSO pubblico e può farlo solo con una moneta da 10 centesimi. Dai
tremolii delle gambe e dai movimenti che fa, il bisogno deve essere urgente;
nel timore che da lì a poco
se la farà
addosso, cerco di aiutarlo. Frugo nelle tasche, ma monete non ne ho... che
fare? Gente da lì ne
passa poca e chi passa ha fretta... Chiedo ai tassisti del vicino posteggio...
niente da fare: la moneta serve a loro... anche per le necessità impellenti!
Mi viene in mente che nel
posacenere della macchina tengo sempre degli spiccioli per il parcheggio
automatico; vado a prendere 10 centesimi che consegno all'uomo, il quale mi
ringrazia, corre a metterle nell'apposita fessura ed entra al suono di una
musichetta -ideata forse, per predisporre meglio alla minzione-. Quando la
porta si chiude alle sue spalle, incuriosito mi avvicino e leggo le istruzioni;
le modalità d'uso
sono scritte in quattro lingue: italiano, francese, inglese e tedesco - se
arrivasse un giapponese, anche con la monetina, rischierebbe di farsela
addosso! -La moneta giusta è quella da 10 centesimi , ma anche le altre vanno
bene, solo che la macchina non dà il resto. Altra avvertenza: i bambini inferiori agli
anni dieci devono essere accompagnati (e qui possono nascere degli equivoci ed
essere accusati di pedofilia); non bisogna fermarsi più di TOT minuti, dopodiché le porte si aprono e si
rischia di essere investiti da un getto d'acqua e detersivo. Un disc play,
difficile da leggere tanto è piccolo e veloce, detta le istruzioni: salvietta
umidificata e carta igienica sono all'interno a disposizione del fruitore; una
volta dentro prima di uscire bisogna premere un pedale e tirare la maniglia,
nel caso in cui si rimanga bloccati bisogna avvertire telefonicamente la ditta
installatrice (E se uno non ha il cellulare?), infine luce verde se è libero, luce rossa se è occupato. Altro non ho letto
ma mi basta. Vere cattedrali nel deserto, i COSI sono semi nascosti in alcune
piazze e viali della città, pochi
li sanno riconoscere.
Risultato: la gente rimpiange
quelli vecchi, che presero il nome dall'Imperatore romano Tito Flavio
Vespasiano, che per primo li installò a Roma; poiché era in deficit per 40.000 milioni di sesterzi, nella
sua azione di risanamento delle finanze, mise una tassa su di loro e l'orina
veniva raccolta per ricavarne ammoniaca!
Caro vespasiano, fonte
d'ispirazione di tanti poeti, memorabile la lirica del perugino Sandro Penna
che, come scrive Luigi De Bellis: trasfigura ogni cosa anche la più squallida.
"Nel fresco orinatoio alla
stazione
sono disceso dalla collina ardente.
Sulla mia pelle polvere e sudore
m'inebriano. Negli occhi ancora
canta
il sole. Anima e corpo ora
abbandono
fra la lucida bianca
porcellana...
Il cielo è vuoto, ma negli occhi
neri
di quel fanciullo pregherò il mio dio.
Ma il mio dio se ne va in
bicicletta
o bagna il muro con
disinvoltura...".
Giosafatte Rotondi, bravissimo
cantore lombardo, ha dedicato al vespasiano una delle sue rime più geniali, continuate poi, con
una variazione sul tema, dal suo amico e nostro massimo lirico del novecento,
Delio Tessa!
A conclusione di queste
riflessioni voglio riproporvele; le prime strofe sono del Rotondi che chiamò la poesia Nostalgia,
poi, in perfetta sintonia continua il
Tessa che chiamò la sua
I pissatoj vecc de Milan.
"Pissatòj di temp andaa,
alla bonna, in sul canton,
nient pretés e invernisaa
cont ona man de godron;
senza lussi e senza gioeugh
de idraulica, ma a loeugh!
Quatter pass - e el viandant
l'era franch - de sodisfass!
Ma... lalella incoeu! a spand
acqua in straa, per no pissass
in la patta, - pover omm –
toeu su el tramm e cor al
Domm!
Pissatoj d'on temp!
adess,
soeuja mi, tuscoss se
accentra;
fin l'orina, el gius, i cess;
tutt a l'orden, vun che
l'entra,
vun ch'el pissa, vun ch'el
sort...
pissatoj di noster mort!......
Pissatoj del dì d'incoeu!
cent volt mej qui d'ona
volta!...
cont i so teccett de tolla
e coi so dò bravi alett
part e part e intorna al boeuc
poeu...cristofen! che laghett!
Pisciatoi dei tempi andati, /alla
buona, un po' appartati, /niente pretese e verniciati /con una mano di catrame;
/senza lussi e senza artifici /di sorta, ma all'uòpo!/
Quattro passi - e il viandante /era sicuro di soddisfarsi! /Ma... oggi
accipicchia! a spandere / acqua in strada, per non bagnarsi /la patta - |
poveràccio - /prendi il tram e corri in Duomo!/ Pisciatoi di un tempo! adesso, / che ne so, tutto si accentra; / perfino l'orina, il liquame, i cessi; / tutto ordinato, uno che entra, / uno che orina, uno che esce.../pisciatoi dei tempi andati!.../ |
Pisciatoi del giorno d'oggi! /
cento volte meglio quelli di una volta!.../ con i suoi tettucci di latta / e
con le sue due brave alette / da una
parte e dall'altra e attorno al buco / poi... cristofen! che laghetto!
GABRIELE SCARAMUZZA
Gabriele Scaramuzza |
NUOVE SU KAFKA
Né nel ’13 né nel ’14
ricorre alcun anniversario kafkiano, eppure quest’ultimo scorcio di tempo ha
visto quanto meno la ripubblicazione di un romanzo di Kafka, e di alcuni saggi
su Kafka.
1. La cosa che per prima dà
nell’occhio è naturalmente l’uscita, presso Mimesis (Milano, 2014), di una
nuova traduzione di Il Castello
(condotta sull’edizione critica del romanzo a cura di Malcolm Pasley, uscita da
Fischer nel 1981) a cura di Barbara di Noi, cui si deve il saggio introduttivo
(“Congetture su K. Landstreicher e Landvermesser: l’ambiguità dell’evidenza”);
a Franco Rella si deve la postfazione (“Kafka. Raccontare l’esilio”).
La
riproposta del Castello offre lo
spunto per ripensare qualche tratto di questo romanzo, e per confermare
convinzioni già formatesi. Mi permetto solo qualche riflessione, le prime che
la rilettura mi offre.
Il
tema di fondo, come è risaputo, è l’estraneità di K., il ritrovarsi in un mondo
ostile, il sentirsi in esso “di troppo”. Nel secondo capitolo del romanzo
leggiamo (nella traduzione di A. Rho): “K. sapeva che non lo minacciavano
costrizioni, di questo non aveva paura, soprattutto nel caso presente; temeva
invece la potenza d’un ambiente scoraggiante, l’abitudine alle delusioni, la violenza
degli influssi imponderabili che avrebbe subito ad ogni momento, ma contro
questo pericolo doveva arrischiare la lotta”. K. vive “la condizione
esistenziale dell’uomo cui il proprio destino non appartiene” - scrive Remo
Cantoni nella sua prefazione alla prima traduzione in italiano del romanzo,
tuttora da tenere ben presente, di Anita Rho (Milano, Mondadori, 1948). Ma al
tempo stesso K. è animato dalla costante attesa, dal profondo desiderio anzi,
di venir accolto, di essere accettato nel mondo in cui approda.
Come
sempre in Kafka, anche questa storia non ha una trama che cresce su se stessa,
si chiarisce, si compie; qualcosa in essa, piuttosto, sembra chiaro all’inizio
e si presenta con tutti i crismi della plausibilità, ma di fatto si disfa e si
perde. Come il canto di Giuseppina, come le leggi che motivano l’arresto di
Josef K., come il messaggio dell’imperatore. Così la lettera che K. riceve
tramite Barnaba, e che pare dapprima fugare ogni sospetto, è sottoposta nel
corso del romanzo a esegesi, precisazioni, messe a punto, che rendono precaria,
e di fatto annullano, la conferma della chiamata come agrimensore, che aveva
spinto K. ad approdare al villaggio raccolto attorno al castello. Qualcosa è atteso, disperatamente perseguito,
con determinazione, e tuttavia sfugge. Il riconoscimento resta solo sperato, la
condizione di straniero resterà tale.
Non
sappiamo come vada a finire la vicenda: il romanzo resta incompiuto. La
testimonianza di Max Brod non gli toglie, anzi ne conferma, l’enigmaticità:
Kafka stesso gli avrebbe confidato che nel finale del romanzo K., ormai morente
(come il contadino della parabola della legge), vede giungere dal Castello la
decisione, “che non dà a K. diritto di cittadinanza nel villaggio, ma, per
riguardo a certe circostanze accessorie, gli concede tuttavia di vivere e di
lavorarci” (Nota di Brod posta alla
fine dell’edizione mondadoriana del Castello).
L’incompiutezza non è tanto un caso infelice,
una carenza; in certo modo appartiene alla sostanza stessa del romanzo – come
Remo Cantoni ha sottolineato nella prefazione cui già s’è fatto cenno.
2. Già il titolo Kafka è stato con me tutta la vita (Bologna,
Il Mulino, 2014), di Antonio Cassese, prestigioso giurista da poco scomparso, è
quanto mai sintomatico: segnala la profonda complicità dell’autore con Kafka. “Kafka
- scrive - è grande perché ha saputo esprimere la sua irrequietudine disperata
in termini così universali, che ognuno di noi, leggendolo, vede nei suoi racconti
il riflesso delle proprie incertezze e fragilità”. Perché “esprime per
immagini” quel “senso profondo di inquietudine per l’incomprensibilità del
mondo”, che ci è comune.
Trova
consenzienti ovviamente il riconoscimento esplicito della grandezza di Kafka,
messa in discussione da pochi - tra cui in particolare, come ci ricorda lo
stesso Cassese, Edmund Wilson (Saggi
letterari 1920-1950, Milano, Garzanti, 1967, pp. 273 e 279).
Ci
sono poi motivi enucleati con grande finezza, quale quello della finestra: nel Processo è ad es. presente in momenti
chiave quali l’inizio e la fine, col senso di sospensione, di inquietante
stranezza, di misteriosità, che reca in sé.
Assai
rilevante, e per nulla scontato (non è affatto presente, a quanto mi consta,
nel panorama delle letture kafkiane), è il problema che Cassese vede come
centrale in Kafka: il desiderio di esser di aiuto agli altri, la necessità di
difendere gli altri, la ribellione all’ingiustizia. E, insieme, il vivere come
colpa la propria impotenza, il non potersi opporre agli ostacoli immani che gli
si parano davanti; il non potersi emancipare neppure attraverso lo scrivere. Questo
tema, esemplificato da Cassese in modo magistrale nella sua esegesi di Il fuochista, è veramente “uno dei nodi
essenziali dell’esistenza” di Kafka. È ricorrente in lui la disperante
convinzione che “la redenzione, la fine del sentimento di colpa, la liberazione
da tutte le lacerazioni e da tutti i conflitti, non potranno mai realizzarsi”.
Sono
problemi che Cassese dovette sentire profondamente nella propria vita, animata
da una profonda volontà di venire incontro agli altri, dal desiderio, sempre
frustrato, di contrastare gli orrori della storia. Cassese fu attivo in vari
organismi per la denuncia dei crimini della ex Jugoslavia, del Darfur, del
Libano; prestò la sua opera nel Comitato del Consiglio d’Europa per la
prevenzione della tortura, si impegnò nella Commissione dei diritti umani
all’Onu. Insieme tuttavia la sua esistenza fu scossa dagli insuperabili
ostacoli a realizzare i propri intenti e, con essi, se stesso. A suo parere
trova eco in Kafka l’atroce delusione di non poter compiere la propria
missione, l’angoscia di fronte a una violenza, a una sopraffazione che
imperterrite mai cessano la propria opera.
Un’ultima
cosa è da rilevare: il dubbio di Cassese, radicale, che sbagliato fosse porsi
quel problema, “che mi ha assillato così a lungo. Ma forse non esiste una
risposta” - come afferma. Considero tipicamente kafkiano (almeno
nell’interpretazione che alcuni ne danno) un simile dubbio: che sbagliato sia porsi
domande, insistere a voler chiarimenti di qualcosa che è semplicemente da
vivere nella sua enigmaticità.
3. Il libro di gran lunga
più impegnato sul fronte delle specifiche ricerche kafkiane è tuttavia quello di Simonetta Sanna: Franz Kafka (Roma, Istituto Italiano di
Studi Germanici, 2013).
Dell’autrice
ricorderei la formazione soprattutto berlinese e dunque di respiro assai più
ampio di quello sardo in cui vive e opera (insegna all’Università di Sassari).
Ha scritto comunque due libri sulla “questione sarda” e in Sardegna si è impegnata
anche politicamente. Questo l’ha resa avvertita dei meccanismi del potere, e le
è stato utile anche per affrontare adeguatamente in particolare, ad es., il
dramma di Büchner, Dantons Tod. Da
ultimo ha collaborato con artisti tedeschi ed è stata coinvolta in progetti di
ricerca europea sul tema della violenza e del male; mi ha scritto che si
occuperà delle donne naziste attive nella letteratura dal secondo dopoguerra a
oggi - e spero di poter leggere i risultati di queste sue ultime ricerche. Di
scritti e film sul nazismo, la shoah e l’antisemitismo sono infatti un assiduo
(ancorché dilettante) frequentatore, complice non solo Kafka, ma anche
l’interesse, che dovrebbe essere di tutti, per il problema della violenza della
storia, e per il peculiare intreccio di alta cultura e barbarie nella storia
della Germania, che Georg Steiner ha posto al centro dei suoi scritti.
Il
testo di Sanna è ricco, informato, convincente; “attento e prudente proprio là
dove con Kafka bisogna esserlo” (adotto qui a mio uso parole sue). La scrittura non è arida ma accattivante, fluida anche laddove si fa
densa. Non
si perde in ampie discussioni critiche, ma insegue una propria via con
determinazione ed equilibrio. La lettura del libro prende, e
invoglia a parlarne, a farne
oggetto di spontanee considerazioni. Questo vale tanto più nel mio
caso, dato che in parte avalla tesi che ho sostenuto nel coevo Kafka a Milano. La città, la testimonianza,
la legge (Milano, Mimesis, 2013).
Mi
ha trovato del tutto d’accordo il suo avvicinarsi all’opera di Kafka attraverso
la vita, l’intrecciare arte e vita nella ricostruzione del
mondo kafkiano.
Senza mai tuttavia perdere la consapevolezza dell’alterità dell’opera rispetto
alle rimanenti dimensioni del vivere. Il non abbandonare
la vita a una sorta di mero preliminare, a un limbo da tener in disparte, quasi
contasse solo una scrittura “autonoma” e valida a prescindere, lo condivido. Senza
contare che di ciò che chiamiamo vita anche lo scrivere è pur parte, e non
secondaria.
Le pagine sulla vita sono già di per sé molto
dense; così lo sono le pagine sul ruolo delle donne nell’esistenza di Kafka. Sul tema Simonetta
Sanna ha detto le cose per me più vere; non ho mai letto nulla che mi
convincesse di più. E non condivido proprio quello che altri hanno scritto,
relegando questi eventi in una privatezza che ne sminuisce il senso e il
valore. A proposito dei fidanzamenti di Kafka, dei suoi rapporti con la
sessualità, un interesse biografico non comporta alcuna “deformazione
soggettiva”, dato che simili eventi hanno una “portata conoscitiva”, volta a
esperienze non solo soggettive.
Oltre al tema delle donne, mi hanno poi colpito
nella seconda parte il tema della “soglia” (già il titolo, di cui il termine fa
parte, è benissimo scelto) e quello del possibile; oltre ad alcune osservazioni
puntuali da cui ho imparato non poco. Felice è anche quanto una volta mi
ha scritto, e che trova in me una conferma, circa “l'essere
uno con se stessi, premessa per aprirsi agli altri e alla loro complessità”.
In modo particolare è da rilevare il modo
equilibrato, e senz’altro da tener presente, con cui è stato affrontato il
problema dell’ebraismo in Kafka. Sul mio interesse per questo tema hanno
senz’altro agito, oltre a Kafka, anche le mie frequentazioni del tema della
Shoah, e alcuni studi che ho letto da ultimo, tra cui in particolare, di Elie
Wiesel, Celebrazione hassidica. Aggiungo che mi ha fatto piacere che Sanna non
abbia dato un rilievo esclusivo alle ricerche di Baioni, di cui è da apprezzare
il grande lavoro, ma di cui anche non sono da accettare, a mio avviso, tutte le
opinioni, e neppure le tesi di fondo. L’ebraismo è ovviamente importante per Kafka,
ma non è tutto; più condivisibile è qui la posizione di Remo Cantoni, ebreo per
parte di padre (la madre era berlinese ma non ebrea; anche per questo conosceva
perfettamente la lingua e la cultura tedesca), per cui l’incidenza
dell’ebraismo in Kafka non deve lasciare in ombra il suo profondo senso anche
per chi ebreo non sia. Kafka era soprattutto scrittore, nella sua complessa
personalità l’ebraismo, è innegabile, c’entra non poco; ma non è tutto. È solo
un piano, per nulla trascurabile com’è ovvio, della sua personale torre di
Babele.
Non
a caso tornano di continuo nelle pagine di Sanna il termine Eigentümlichkeit
e simili, accanto al termine riconoscimento. Eigentümlichkeit, mi
ha spiegato, consiste in “eigen più tre suffissi, come se si trattasse
della massima sostantivizzazione possibile di ciò che è proprio, peculiare,
caratteristico, distintivo di quell'individuo; ma proprio perché le
differenze sono minime tanto più contraddistinguono proprio il singolo”.
Quanto
a “riconoscimento”, tra le cose che mi hanno catturato maggiormente sta
proprio l’aver messo al centro, e poi sviluppato ampiamente, il tema del
riconoscimento. È un tema centrale per me, lo sento anche personalmente come
attuale.
Concludo
ricordando: ho chiesto a Simonetta Sanna la sua opinione circa i due termini
con cui si apre e si chiude Il Processo:
la calunnia e la vergogna. Per quanto restia a scender nel mondo estremamente
complesso delle interpretazioni, e dunque cauta e portata a relativizzare le
proprie tesi, mi ha offerto ipotesi utili; anche se, mi scrive, “soltanto come
individuo, non come studioso” (ciascun lettore, aggiunge, ha diritto ad avere
una propria, purché non arbitraria, idea su cui riflettere). “Tutto - sostiene
- calunnia Kafka, proprio perché nel caso della famiglia, della religione,
dell’ebraismo, della burocrazia ecc. intende individuare una sua propria
‘legge’, una sua visione, un suo atteggiamento rispetto a ogni norma e a questo
vuole incoraggiare anche gli altri/il lettore”.
Quanto
alla vergogna: “per questa volta – non come negli ultimi racconti ‘berlinesi’,
in cui l’identità del narratore è quella dell’arte, dell’artista – non riesce a
imporre in alcun modo una sua legge (che qualcuno ci sia riuscito si narra
soltanto nelle leggende, ossia vi era riuscita – sul piano della storia – una
figura mitica come Napoleone, su cui non a caso K. sempre torna: essere
riuscito a partire per Berlino è impresa napoleonica!). Di conseguenza rimane
la colpa della diversità e la vergogna”.
Dà
non poco da pensare anche questo, e anche di questo c’è da essere grati a
Simonetta Sanna.
GIOVANNI BIANCHI
Giovanni Bianchi |
Il politico e il tempo
Perde, chi scruta,
L’irrevocabil presente.
Clemente Rebora, Frammenti Lirici
La crescita
Il tempo va guadagnando importanza Rispetto allo spazio. Implicati
nell'operazione Einstein e papa Bergoglio. Le ripercussioni della crescita del
tempo vanno via via manifestandosi anche nell'arena politica e massimamente
nella fase marinettiana della Repubblica Italiana che stiamo attraversando. Un
fattore da non mitizzare ideologicamente (come di fatto avviene) e da
analizzare nelle ragioni della crescita. Intorno al tempo s'era già esercitata
la meditazione di don Giuseppe Dossetti e quindi mette conto ritornare ancora
una volta nella miniera appenninica del profeta di Monte Sole. Confesso subito
la mia inadeguatezza ad affrontare un tema che ha nello svolgimento l'aggettivo
"kairologico", impronunciabile a Sesto San Giovanni.
Confesso anche la difficoltà a
confrontarmi con su un tema così arduo con Giuseppe Dosetti, il grande rimosso
della politica e della Chiesa italiana, in una fase nella quale l'aggettivo
“dossettiano” suona sulla stampa e nel politichese corrente quasi un insulto.
Non potendo tuttavia sottrarmi al compito e all'insistenza degli amici mi
accingo a trattare le parti del discorso avvertendo che temi interni al tema, o
conseguenti, possono risultare politica e
profezia o anche politica e memoria.
Passato e futuro, nel pensiero
anarchico di Herzen. Responsabilità
("coscienza vigile" in
Dossetti) nella stagione globalmente determinata da circostanze che nulla hanno
a che vedere con il troppo ripetuto mantra gramsciano che contrappone al
pessimismo della ragione l'ottimismo della volontà. Kairòs descrive comunque in teologia la forma qualitativa del
tempo, e cioè il tempo designato nello scopo di
Dio, in contrapposizione al tempo come sequenza.
È possibile un tempo politico
lontano dai vantaggi che sono “seduttori”
non solo per la Chiesa? Una politica nemica delle convenienze e aliena dai
narcisismi del sondaggismo volgare, eppure obbligatoriamente astuta come
serpente?
Decisione e decisionismo
Anzitutto, questa politica non ha
tempo, perché non può perdere il tempo della decisione. Il suo imperativo
categorico e la sua costrizione stanno esattamente lì. La sua verità è a tempo,
un tempo più rapido delle scadenze segnate sui barattoli dei commestibili.
Eppure - questo il paradosso - l'essere completamente nel tempo (che è sequenza
di attimi fuggenti e determinati da sopra e da fuori) le impedisce di pensare
il tempo, ossia di avere tempo per sé, per riflettere cioè sulla propria
responsabilità e sul destino. Val la pena ricordare una volta ancora che Aldo
Moro, notoriamente assai meno radicale di Dossetti, aveva l'abitudine di
ripetere che il "pensare politica e
già per il novanta percento fare politica".
La mancanza di tempo asserve la
politica al pilota automatico della finanza, al casinò borsistico, e la
condanna a quella "grettezza" che il presidente Obama stigmatizza nel
primo discorso di insediamento a Washington. La rende smemorata rispetto alla
propria storia, alla carta vincente del New Deal, che discende dalla decisione
tutta politica di Roosevelt. Come ha puntualmente osservato Alberto Berrini,
l'attuale crisi economica nasce infatti da una cattiva distribuzione del
reddito.
Nel 1999 Paul Krugman - al quale
adesso, grazie alla crisi, hanno dato il Nobel - scrisse un libro dal titolo Il ritorno della grande depressione. È
possibile un altro ‘29?. Nel ‘99, quando il testo è uscito, non l’ha letto
nessuno. In quel testo Krugman osservava che il mondo si stava avviando verso
una situazione di grave crisi, perché mai come in quel momento vi era un gap,
cioè una distanza enorme tra ciò che si produceva (l'offerta) e ciò che si
riusciva ad acquistare (la domanda). Nessun fulmine a ciel sereno dunque nel
“settembre nero” di Wall Street. Si trattava di acquisire la documentazione
pertinente, pur tenendo conto del fatto che la crisi, iniziata come
finanziaria, va man mano rivelandosi a tappe forzate come un imbuto di diverse
crisi: economica, sociale, politica, culturale e infine etica. Non basta perciò
una sola chiave inglese per venirne a capo.
La risorsa
Il tempo è tuttavia risorsa
indispensabile per il politico. Parlamento non a caso significa parlare.
L'ostruzionismo parlamentare è stiramento e perdita organizzata di tempo. Il
decisionismo insofferenza delle
procedure democratiche. Così l'esplosione delle tecniche azzera il
discernimento… Non ci è concesso dalla Provvidenza di essere umanamente saggi
in tempo reale. La crisi finanziaria aveva del resto richiamato nel lessico del
ministro Tremonti come in quello del cardinal Tettamanzi la metafora pertinente
della peste.
L'Arcivescovo di Milano - che
forse ha frequentato con più attenzione le pagine di Manzoni - invita a
guardare alla crisi con l'avventatezza fiduciosa di Renzo Tramaglino, che nel
momento di massima incertezza, quando, al di là dell'Adda, non ha più nulla se
non due soldi, decide di disfarsene a favore dei poveri e, come alleggerito,
ricomincia veramente da zero. Siamo al capitolo XVII de I Promessi Sposi: "Tutt’e tre tesero la mano verso colui che
usciva con passo franco, e con l'aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva
dir di più una preghiera? "La c'è la Provvidenza!" disse Renzo; e,
cacciata subito la mano in tasca, la votò di quei pochi soldi: li mise nella
mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada [...]. Certo,
dall'essersi così spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di
confidenza per l'avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte
tanti."
In tali frangenti l'unica
saggezza consentita risiede nella scommessa di puntare sulla "divina
economia", appunto: "La c'è la Provvidenza!". Non si tratta,
neppure stavolta, di ottimismo della volontà; più semplicemente di quella fede che
Unamuno attribuiva al carbonaio. Senza calcolo e senza progetto. Semplicemente
dovuta dal credente, anche in un Paese che qualche decennio fa Norberto Bobbio
definì di "diversamente credenti".
Le querce
Neppure la Chiesa, per Dossetti,
può e doveva sottrarsi al rischio, ancorché alto, nei decenni fra le due
guerre, "in cui sarebbe stato possibile e doveroso rendere la sua
testimonianza". È questo il senso sintetico e profondo del paragrafo
tredicesimo della introduzione a Le
querce di Monte Sole, saggio densissimo di teologia della storia. L'acribia
dossettiana indica la fase, quella che nel linguaggio odierno verrebbe definita
una "finestra di opportunità". Essa è individuata nel "momento
di trapasso da Pio XI al suo successore, nei mesi che vanno dal febbraio
all'autunno 1939".
La distinzione
"diplomatica" della Chiesa di allora può alludere alle condiscendenza
attuali che ancora una volta si trovano a differenziare tra "i massimi
dirigenti e gli estremisti neopagani, all’uopo riciclatisi in "atei
devoti": tra Bossi e Borghezio e tra Berlusconi e Bondi o la Gelmini.
"Il 1° settembre 1939 -
sentenzia Dossetti - il gioco era fatto". E infatti "lo stesso
episcopato tedesco non avrebbe avuto di fatto più altra guida se non quella del
suo presidente, in presenza di un Nunzio a Berlino assolutamente e
manifestamente inadeguato al suo ruolo e le cui relazioni erano più fatte per
disorientare che per valutare con realismo quello che stava accadendo."
La conseguenza, ad un tempo
tragica e macroscopica, fu che "la funzione di testimonianza, che è propria
del concetto stesso del Magistero supremo, restò, su questo punto nodale,
incompiuta".
Viene alla mente - e il rischio è
di risultare leggermente salottieri nella citazione - un altro celebre episodio interno alla vicenda del
cattolicesimo di Germania.
Georg Simmel viene considerato
uno dei più grandi pensatori del Novecento tedesco, e non soltanto. Autore tra
l’altro di due libri dai titoli precorritori ed evocativi: Filosofia del denaro e La
metropoli e la vita dello spirito.
Massimo Cacciari vi ha dedicato un saggio notevole. Simmel era anche
esponente di spicco dell’establishment intellettuale cattolico del suo Paese e
intimo alla curia della diocesi di Berlino. Ebbe la ventura un giorno, anzi,
una notte, di essere scoperto intimo della segretaria in un alberghetto di
periferia. Il grande intellettuale ammise francamente la colpa, e poi dirottò
dialetticamente l’argomentazione sul piano professionale. Disse: “Tocca al
filosofo indicare la strada, non percorrerla.” Perfino simpatico.
Scissione comunque non consentita
non soltanto a chi esercita le funzioni del Magistero supremo, ma neppure al
singolo credente. E Dossetti può puntualmente chiosare che "resta
indubbiamente un caso significativo di mancanza di vigilanza lucida e
preveniente contro il "male sistematico": definizione quest'ultima -"male
sistematico"- che, oltre a richiamare la dizione wojtyliana di
"strutture di peccato", appare come l'altro simmetrico rispetto al
concetto di bene comune. Per questo la conclusione non può che risultare
perentoria: "Piuttosto che tacere tutti, occorre che qualcuno si assuma
l'iniziativa".
Responsabilità verso la storia
Viene così chiamata
inesorabilmente in campo la responsabilità verso la storia. Responsabilità alla
quale la politica non può evidentemente sottrarsi, tantomeno la “grande
politica”, che, secondo Mario Tronti, è destinata a muoversi contro la storia. Tanto più che non sono
mancate, nel medesimo frangente, posizioni ben altrimenti determinate ed
esplicite.
Sto pensando a Dietrich Bonhoeffer,
impiccato per aver preso parte alla attività cospirativa del "gruppo"
dell'ammiraglio Canaris, implicato nell'attentato di von Stauffenberg ad
Hitler, fallito il 20 luglio 1944. Il pastore della Chiesa confessante in lotta
contro l'accomodamento tra la Chiesa evangelica tedesca e il regime nazista,
che, rientrato dagli Stati Uniti d'America dove stava occupandosi di
ecumenismo, decise di misurarsi fino in fondo con i problemi della
responsabilità politica del cristiano, compreso quello dell'uccisione del
tiranno.
Non a caso il teologo che aveva
giudicato necessario fermare il pazzo che guida a velocità folle un’auto per le
vie della capitale Berlino mettendo sotto i passanti, era il medesimo che
pensava: "Per ogni buona predicazione c'è bisogno di un certo carico di
eresia". E cioè la predicazione deve abbandonare l'equilibrio dottrinale,
divenire unilaterale, prendere parte, correre il rischio di superare i confini
di ciò che viene permesso. E c’è nella sua morte quasi una figura della sua
ricerca teologica: l’uomo adulto che muore insieme all’uomo di preghiera, la Bibbia e il volume di
Goethe trovati sul tavolino della cella.
Grande pensatore, grandissimo
teologo, ma anche profeta e testimone. Per questo fu fatto oggetto tra i
militanti cattolici degli anni sessanta e settanta in Italia di una lettura
"di massa", che ebbe l'esito di sottrarli con l'esempio della
coerenza alle tentazioni diffuse di una scelta violenta.
Davvero appare invece scadente
teologia automobilistica quella sorta di esorcismo che attraversa talune
assemblee di cristiani dove si ripete, quasi a cantare di notte per farsi
coraggio, che "il credente ha una marcia in più".
Bonhoeffer non fornisce
ovviamente soluzioni, ma strumenti. Ripete, quasi a spaventare i benpensanti,
che il suo intento è farsi uomo, non santo. Nessuna rincorsa dunque agli
stereotipi di una impensabile canonizzazione, e del resto il Dio del quale si
parla è un Dio che chiede semplicemente discernimento, coinvolgimento,
responsabilità e decisione, senza tralasciare alcuna delle istanze trascendenti
che accompagnano l'esistenza umana di quanti si professano non-credenti.
E infatti, se è vero, come
scrive, che se il capo "permette al seguace che questi faccia di lui il
suo idolo allora la figura del capo si trasforma in quella di corruttore...
", è altrettanto vero che vale per Bonhoeffer l'affermazione che troviamo
nelle prime pagine di Fuga dalla libertà
di Eric Fromm: troppo comodo sarebbe concentrare colpa e responsabilità
soltanto su Hitler per la Germania e Mussolini per l'Italia, senza tenere conto
che alla loro smodata voglia di potere corrispondeva una altrettanto smodata
voglia di asservimento nei rispettivi popoli. I conti con la libertà del resto
si confrontano con unico vincolo: obbedienza a Dio e compassione per il
prossimo. Non come faccio ad essere a posto, ma come posso essere utile.
Resistenza come liberazione
Chi sa resistere? Solo chi sa
liberarsi dalle ideologie. Senza fuggire la colpa e l’idea di colpa. Bonhoeffer
ha piena coscienza di aver partecipato alla congiura per l'assassinio del
Führer, e questa è posizione compiutamente luterana che comporta il
riconoscersi in colpa; tuttavia più colpevole sarebbe stato non fare nulla.
Posizione che ritroveremo poi nella teologa Dorothee Solle.
Non è rintracciabile in lui per
così dire l'equilibrio con il quale San Tommaso pensa il tirannicidio, osservando che chi si appresta ad uccidere il
tiranno deve anche farsi carico di una attenta valutazione circa le condizioni posteriori al
tirannicidio: che il conto e le conseguenze non risultino cioè peggiori.
L'imperativo è di cercare il bene nella città nella quale si vive. Per questo
l'assunzione di responsabilità è il principio dell'azione. Il Vangelo di Matteo
è del resto inequivocabile: "Non chiunque mi dice Signore, Signore..."(Mt 7,21).
Anzi,l'approccio bonhoefferiano è
semplicemente disarmante: Dio sta con gli uomini, e se la religione si svuota
di umanità, Dio sta con gli uomini e tralascia la religione. L'interpretazione
non-religiosa significa perciò in Bonhoeffer che Dio vuole essere creduto in
Gesù Cristo Crocifisso, senza alcuna utilità. La vera trascendenza sta qui. Si
intende allora quale sia la via: "L'origine dell'azione non è il pensiero
ma la disponibilità alla responsabilità. Per voi pensare e agire entreranno in
un nuovo rapporto. Voi penserete solo ciò di cui dovrete assumervi la
responsabilità agendo. Per noi il pensiero era molte volte il lusso dello
spettatore, per voi sarà completamente al servizio del fare."
Finché ci sia tempo
Ma veniamo alla presente
situazione, dove pure nuove calamità, di diverso segno, non fanno difetto,
sempre riproponendo l’incipit dossettiano: Finché
ci sia tempo... Non male sistematico, ma scandaloso quello che ha
attraversato la Chiesa con i suoi sacerdoti accusati di pedofilia. Anche qui
"resta indubbiamente un caso significativo di mancanza di vigilanza
lucida". E anche in questa occasione "piuttosto che tacere tutti,
occorre che qualcuno si assuma l'iniziativa". Iniziative del resto non
sono mancate, quale ad esempio il grande raduno in piazza San Pietro intorno a
papa Benedetto XVI la domenica di Pentecoste del 23 maggio, organizzato dalle
associazioni cattoliche, quasi a replicare piazze oceaniche di geddiana
restaurazione raccolte intorno al motto: "Bianco Padre che da Roma ci sei
meta, luce e guida"... E’ la giusta risposta per una Chiesa cattolica che
- scrive "il Regno Attualità"
del 15 maggio 2010 - "si trova di fronte a una delle crisi più profonde
della sua storia"?
I fatti anche in questo caso
hanno la testa dura, come i non pochi nemici. Ci sono anche e soprattutto al di
là della Manica e più ancora al di là dell'Atlantico una morale e un'etica che
hanno radici profonde che non possono essere né ignorate né sottovalutate.
Nessuno scriverebbe in Italia un romanzo come La lettera scarlatta.
Osserva sempre "il Regno": "Il fatto che il
muro di silenzio sia stato abbattuto dai media e, negli Usa, dalla lobby degli avvocati -che hanno portato
alla bancarotta alcune diocesi-, ha determinato una dinamica istituzionalizzata
e contrappositiva del confronto pubblico e inizialmente un'errata reazione
difensiva dell'istituzione ecclesiastica". Il fatto poi che i media si
pensino e vengano percepiti come una istituzione della verità, ha ulteriormente
sospinto i vertici ecclesiastici all’arrocco. Proprio per questo si è fatto
evidente che se da un lato "la crisi ha anche reso più umile la
Chiesa", dall'altro "lo scandalo grave non tocca solo il manifestarsi
di un crimine così odioso all'interno della Chiesa, bensì riguarda anche il
fatto che la Chiesa in diversi dei suoi pastori si è comportata al riguardo
come una casta."
La prima reazione cioè è stata
quella di proteggere dallo scandalo l'istituzione ecclesiastica e non di
preoccuparsi dello scandalo per le vittime. E il punto non è se sia necessario
difendere l'onore e la credibilità della Chiesa in quanto istituzione: "Il
punto è che le vittime sono Chiesa".
Non a caso la rivista
pertinentemente insiste: "Di chi è Dio? Di chi è Dio che la Chiesa (non
solo istituzione, ma popolo di Dio) annuncia? Dio è delle vittime. Dio è nelle
vittime. Là egli si è fatto sentire". E non è davvero impensabile che una
reazione di verità in questo senso fosse e sia possibile.
Non sarebbero mancate nel popolo
di Dio, al di qua e al di là dell'oceano, "madri-coraggio", madri
delle vittime disponibili a testimoniare che una diversa via sarebbe stata ed è
percorribile. Dio dunque è nelle vittime non soltanto nella tragedia
dell'Olocausto, ma anche nella banalità odiosa del male quotidiano. (E ho
preferito soffermarmi sulla stagione precedente a papa Francesco per indicare
le radici e le ragioni di un percorso che ha opportunamente ricevuto
un'accelerazione.)
Ma quale tempo?
Finché ci sia tempo... Ma quale tempo? Crisi è sicuramente il tempo
della politica, ma ancor più della profezia e del suo analogo laico, l'utopia.
Ed è tale il bisogno diffuso che essa produce -un risucchio- che, se la
profezia pare assente, la gente si butta dietro ai falsi profeti. Anzi, tale è il
bisogno che ad essere preferiti sono generalmente i falsi profeti, perché più
rassicuranti, più prossimi a un desiderio angosciante e psicologicamente
impaziente.
Quale differenza allora tra krònos e kairòs? Come consideriamo il
nostro tempo sociale? È un tempo per fare, per accumulare, per riempire - in
sostanza una cronologia che diventa tentazione -, oppure è, Dossetti alla
mente, "un'occasione", direi ancora di più, un’occasione politica, un
frattempo nel quale noi, con le nostre azioni e decisioni, ci avviciniamo a
Dio? Viviamo i rapporti sociali per costruire, oppure per
"utilizzare", "consumare", nel senso pieno del termine,
cioè logorare, far invecchiare, far marcire?
La stagione del mercatismo
(Tremonti) è quella che cerca ossessivamente la via più breve tra il
supermercato e il cassonetto della spazzatura... C'è dunque, provando a rifare
il verso al Qoèlet, un tempo per consumare? Anche dentro la crisi globale
l'Apocalisse ripete: "Ecco, sto alla porta e busso" (Ap 3,20). Anche
se non sarebbe trovata da buontemponi piazzare nottetempo sopra l'edificio di
un grande supermercato la parodia del motto che contrassegnava l'ingresso al
Lager: Konsum Macht Frei.
Il pensare politica assume
un’urgenza che non può demotivarne l’esigenza di un’architettura prima fondante
e poi complessa. Zagrebelsky in Imparare
democrazia lamenta la circostanza che la democrazia sia intesa come la
religione dei buoni cittadini e si sia trasformata in un concetto idolatrico
onnicomprensivo: "E’ il regime in cui il popolo ama essere adulato,
piuttosto che educato."
Nessun tirocinio e nessuna
pedagogia. Nessun curriculum. Parrebbe che nelle odierne democrazie si nasca
"imparati", come si dice alla plebea. E invece una democrazia per non
esaurirsi non deve dimenticare di non essere un guadagno fatto una volta per
tutte. L'esempio e lo studio restano necessari. Non basta vivere all'interno di
una democrazia per diventare democratici, altrimenti le assemblee di condominio
si presenterebbero come il nuovo infallibile areopago.
Il tempo dell’apprendere, lo
studio, è esattamente ciò di cui questa
politica fa totalmente difetto, lasciata com’è nelle mani di rabdomanti
mediatici e “annusatori” di posizionamento e di consensi, il più delle volte
“spensierati” per ragioni di tempo e di “necessità”.
Ha scritto con amara diagnosi
Claudio Magris: “Quanto più rilevante è il suo ruolo, tanto più il politico, in
un sistema democratico, è costretto a rappresentare e a sottrarre ore e ore al
lavoro per dedicarle alla rappresentazione; a inaugurare scuole, ricevere
imprenditori, sindacalisti, orfani di guerra, obiettori di coscienza,
associazioni di volontariato, pacifisti, reduci, incontri che, ancorché
sinceramente sentiti, non affrontano e non risolvono nulla. L’enfasi mediatica
e la spettacolarizzazione televisiva hanno esasperato all’ennesima potenza
questa tendenza alla dispersione e alla irrealtà insita nella democrazia, costringendo
sempre più i politici -specialmente quelli più importanti, da cui dipende la
sorte del Paese e che dunque più dovrebbero agire concretamente- a parlare e
parlare, assorbendo sempre più il loro tempo (la loro vitalità, la loro
energia, il loro essere) in una logorrea che sommerge tutto come un fiume in
piena, in un’alluvione di parole. Basti pensare al tempo febbrilmente sprecato
o alle energie sterilmente dilapidate, soprattutto ma non solo durante le
campagne elettorali, nelle trasmissioni televisive di confronto e scontro di
opinioni, che in questi anni si sono moltiplicate e costituiscono spesso un gradevole
intrattenimento per gli spettatori, come un serial poliziesco o una saga
familiare senza fine, ma uno spreco per chi vi partecipa”.
Divismo e leadership
Talk show e impegno appaiono così
in antitesi, come i poli di una calamita che si respingono. Nella politica dell’immagine la politica ha
la fonte della sua esasperante superficialità. Divismo e leadership si
sovrappongono, al punto che il divo può essere contrabbandato per leader,
contrariamente ai canoni che Francesco Alberoni seppe escogitare qualche
decennio fa in L’élite senza potere.
A patirne è anzitutto la
politica, con il tendenziale azzeramento del pensiero politico. E infatti non
esistono più i gramsciani “intellettuali
organici” perché non esistono intellettuali politici o politici intellettuali.
Solo lamentazione?
Basti riflettere alla scarsa
elasticità della variabile tempo, suggerisce Magris, tanto più rigida se
confrontata con le questioni e le emergenze che la stagione politica sforna con
continuità impressionate. Annota ancora Magris: “Il tempo, nonostante la sua
elasticità e relatività psichica rivendicate soprattutto dalla letteratura ma
attestate pure dalla scienza, ha alcune inesorabili misure e limiti uguali per
tutti. […] Il confronto, anche cinico e
brutale, con le cose richiede energia e tempo, il quale tende invece a venire
assorbito in altre faccende”.
Si è già evocata, più sopra,
accanto alla rigidità della variabile tempo, l’effetto della incontenibile
diffusività dell’immagine. Essa se da un lato spettacolarizza la vita,
dall’altro cancella la normalità, e quella politica e quella del quotidiano.
Nell’ambiente metropolitano anche il Percennius
quidam è sospinto a dar spettacolo di sé, uti singulus o in branco. Quanta della violenza delle bande
giovanili è indotta dal trend della spettacolarizzazione?
Oltre il tempo cronologico
Qual è ancora il rapporto tra
tempo cronologico, politica e profezia? Dove s’annida il kairòs?
Qui è necessario anzitutto
sgomberare il campo. Distinguere cioè la profezia dalla profezia al tramonto,
che si torce in apocalittica.
Operazione che avviene
all'interno del sentire del pensiero religioso, ma anche di quello laico.
Interpreto così lo struggente rimpianto che cogliamo negli ultimi saggi di
Mario Tronti, il vero ed estremo depositario del pensiero operaista, quando
scrive: "Se usiamo il linguaggio della teologia politica - checché se ne
dica, il più pregnante nel dire la verità sul secolo passato - possiamo
affermare che l'operaismo, mentre si esprimeva, prima metà degli anni Sessanta, aveva un segno escatologico: non si proponeva
certo di concludere al meglio la storia della salvezza, ma, più modestamente,
puntava a dare alle lotte operaie uno sbocco politico."
Per Tronti "le moderne
fabbriche dismesse, come gli antichi monasteri decaduti, sono luoghi di storia
della cultura umana, cultura appunto come civiltà, depositata nelle città del
passato, incompatibile dunque con la barbarie del presente."
Pare a Mario Tronti che gli
operai abbiano agito "nella crisi dell'età moderna come i monaci nella
crisi dell'età antica: conservatori della civiltà, contestatori del mondo.
Hanno salvato i manoscritti di tutte le lotte passate delle classi subalterne e
hanno affermato che erano "nella" società ma non "della"
società." Per questo "la sconfitta operaia è stata una tragedia per
la civiltà umana." La storia si stempera in una suggestiva metafora
sottratta a Gogol: "La vita, in questo caso la storia, mi ha sempre
mostrato il volto del mastro di posta, che scuote la testa e ti dice: non ci
sono cavalli. Si poteva percorrere a piedi la via al socialismo, nell'età,
adveniente, del turbo-capitalismo?"
Conclude Tronti: "Portare nella classe operaia dall'esterno la
coscienza della politica moderna e così inventarsi le istituzioni operaie di
una rivoluzione realizzata. Potevano riuscirci solo i comunisti del Novecento.
Se non ci sono riusciti loro, l'impresa non poteva riuscire. E forse non
riuscirà più." Dissolto il soggetto storico che ne era il legittimo
portatore, la visione operaista si trova costretta ad assumere l'alto tono
elegiaco dell'apocalittica, che, anche qui, significa esaurimento, e quindi
altro dalla profezia che, quotidianamente in tensione, è in grado di
confrontarsi con la politica e il suo volo alto.
Sergio Quinzio
Lo stesso struggimento troviamo nelle pagine “irregolari” di Sergio
Quinzio. Ci imbattiamo per così dire nello stupore e nel risentimento per il
venir meno dell’onnipotenza di Dio: “Per noi comunque, e certo non soltanto da
oggi, il divino non può più essere l’orizzonte, ma tutt’al più il Problema”. Il
Signore della storia e della vita può compitare sulle orme di Cicerone il suo De senectute e malinconicamente cedere
il passo alle generazioni successive…
Insiste Quinzio, con l’esacerbata delusione dell’apocalittica: “Le
promesse procrastinate per millenni sono dunque, di per sé, delle promesse non
mantenute, delle promesse fallite. Resterebbero tali anche se dovessero
compiersi in questo istante, manterrebbero comunque al loro interno, anche se
ne venisse cancellata la consapevolezza, un abisso di delusione, di
stanchezza. Il Messia, come ha detto
Kafka, sarebbe arrivato “solo un giorno dopo il proprio arrivo”, quando
l’attesa si è consumata. Dopo interminabili doglie, secondo il testo ebraico di
Isaia, “abbiamo partorito vento” (26, 18). Questa è certamente una sconfitta
dei credenti, una sconfitta della fede, ma è anzitutto una sconfitta di Dio,
che lungo tutte le pagine della Bibbia si rivela come colui che dà la vita,
come colui che salva. Il fallimento della salvezza è il fallimento stesso di
Dio”.
Non so quanto la debolezza di un Dio del quale l’onnipotenza era
attributo costitutivo incida sul senso di questa politica e sul peso dei poteri
che la governano. Non so quanto faccia da risucchio per il lungo elenco di virtù
che Norberto Bobbio assegna alla sfera della normalità quotidiana: infatti “vi
sono virtù, come l’umiltà, la modestia, la moderazione, la verecondia, la
pudicizia, la castità, la continenza, la sobrietà, la temperanza, la decenza,
l’innocenza, l’ingenuità, la semplicità, e fra queste la mansuetudine, la
dolcezza e la mitezza, che sono proprie dell’uomo privato, dell’insignificante,
dell’inappariscente, di colui che nella gerarchia sociale sta in basso, non
detiene potere su nessuno, talora neppure su se stesso, di colui di cui nessuno
si accorge, e non lascia alcuna traccia negli archivi in cui debbono essere
conservate solo le memorie dei personaggi e dei fatti memorabili”.
Chi meglio e più diffusamente corrisponde alla perdita dell’onnipotenza
di Dio? Il politico mite o l’arrogante? Resta comunque attuale l’osservazione
di Quinzio circa il difetto culturale delle sinistre, riformiste o radicali:
“Anche se può fare la sua bella figura quando si confronta con il
conservatorismo, manca oggi al progressismo una adeguata teologia”. Lacuna da
non sottovalutare dal momento che i buchi teorici in politica sono destinati a
pesare più nella prassi che sulla pagina. E comunque mi metto tra quanti non
pensano il credente come un apocalittico, bensì un perseverante.
Non si deve tacere
Sempre nel tredicesimo paragrafo
della introduzione a Le querce di Monte
Sole, Dossetti afferma la necessità
che "piuttosto che tacere tutti, occorre che qualcuno si assuma
l'iniziativa -non velleità di protagonismo, ma con cuore umile e mosso solo da parrhesia evangelica- di professare
pubblicamente la legge evangelica dell'amore e del rispetto dovuto ad ogni
uomo." Proprio perché la storia è insieme il campo di Dio e il campo di
Satana, è necessario che la politica, quanto meno la grande politica, sappia
muoversi contro la storia. La pretesa
della grande politica è infatti quella di dare forma alla storia, così come lo
Stato moderno ha inteso dare forma alla società.
Ma la politica contro la storia è
l'attitudine del profeta, che non si sottrae al proprio carisma. Per questo
bisogna che qualcuno assuma l’iniziativa. Per questo don Giuseppe riflette
sulla catastrofe nella storia e sulla criticità concomitante della Chiesa. Si
colloca dalla parte delle vittime, che l'abisso della Shoà e la strage di Monte Sole aprono davanti non soltanto al
pensiero, ma non si colloca all'interno della categoria dello sconfittismo: è
spietatamente critico, non apocalittico.
Sa bene che la Chiesa non sa
prendere congedo dalla cristianità e dall’Occidente e che sempre la Chiesa ha
fatto pace con la modernità quando essa è giunta al suo esito finale. Un conto
però è rivendicare la presenza e il segno ineludibile della catastrofe, e un
conto fare del catastrofismo. Lui stesso, nella sua breve ma contrastatissima vicenda politica, risulta più volte uno
sconfitto, come nelle elezioni amministrative che lo vedono nel 1956 opposto al
comunista Giuseppe Dozza come candidato sindaco di Bologna. Ma non mancò di
usare la circostanza di quella campagna elettorale per elaborare -coadiuvato da
un gruppo di giovani e finissimi intellettuali- un programma poi adottato dalla
stessa maggioranza felsinea e in seguito dalle amministrazioni di molti Comuni
italiani, e di celebrare per la prima volta nel nostro Paese elezioni primarie.
Uno sconfitto che non fa
professione di sconfittismo. Anzi, nel celebre discorso all'Archiginnasio
rivendicherà non a caso che più di una volta le sconfitte da lui riportate furono
anche “mezze vittorie”... Non l'attivismo illusorio che comporta il rischio,
più volte additato, del semipelagianesimo, ma l’attitudine di stare nella
storia contro la storia. Anche quando i tempi si presentano come "il
baccanale dell'esteriore", come ebbe a dire in memoria di Giuseppe Lazzati
a Milano nel maggio del 1994.
In questa occasione anzi Dossetti
non parla di catastrofe ma di notte e si volge alla sentinella biblica per
porre la domanda su quanto resti della notte. E ben sappiamo che il compito
della sentinella – per definizione - è di dare l'allarme, piuttosto che
risposte.
È mia convinzione che quindi
Dossetti elabori la catastrofe come un teologumeno,
ma non varchi il confine della profezia al tramonto che si concede
all'apocalittica.
La più alta testimonianza in
questo senso mi pare di leggere nel suo ritorno, al modo del monaco San Saba,
nell'arena della politica per difendere la Carta Costituzionale del 1948 contro
uno sgorbio di riforma. E, grazie soprattutto alla sua lucidità e al suo
vigore, la vittoria referendaria del 2006 risulta il più consistente risultato
degli italiani e dell'opposizione contro il berlusconismo dilagante. Come a
dire che non soltanto la politica, ma anche la storia può sbagliare...
La profezia non può essere
ridotta a politica, ma senza profezia la politica riduce inevitabilmente se
stessa e si condanna alla sconfitta. Sono temi evidentemente sui quali sarà
necessario ritornare, costringendo le carte dossettiane ad uscire dal
nascondimento e a cantare il loro inno che non è invariabilmente un epicedio.
Nella secolarizzazione
Quale kairòs, infine, in questa fase della secolarizzazione che, lungi
dal presentarci una sorta di Francia universale dei Lumi, ci appare come un
pieno di idoli cui si accompagna un ritorno massiccio delle religioni, delle
loro pratiche e delle etiche?
Davvero l'analisi di un tempo
kairologico impone di fare i conti con il rapporto possibile tra tempo della
politica e tempo dalla profezia. Anzitutto
senza dare per scontato che vi sia incomponibilità e separazione. I profeti,
soprattutto i grandi profeti, ma anche i trentasei zaddiqim occulti che secondo la tradizione ebraica sostengono il
mondo a loro insaputa (“Ogni essere che sostiene è occulto”, scrive Martin
Buber), non si collocano sul versante dell'ottimismo della volontà, ma
piuttosto su quello che chiamerei l'ottimismo della ragione. Per questo il
pensiero filosofico contemporaneo pare difficilmente applicabile alla Bibbia.
Le parole dei profeti risultano
sovente cupe, mai pessimiste. I profeti si giocano dentro il secolo, nel krònos che si consuma. Perché il profeta
accetta e interpreta la contingenza del secolo. Uomo politico per eccellenza
dunque, perché lo stesso rapporto con Dio si gioca nella polis, nel senso che
prima viene il popolo e poi vengono i profeti. Israele è semplice etnia
all’inizio e diventa popolo con la base costituzionale dei Dieci Comandamenti e
poi di tutto il Pentateuco.
La profezia non vi preesiste. Il
profeta nasce quando Israele si costituisce come popolo e cessa di essere
soltanto etnia. Un'etnia che neppure riesce a difendere il proprio sangue in
terra d'Egitto, condannata a sopprimere i figli maschi. Un'etnia che per
costituirsi in popolo ha bisogno di una terra, perché la terra è di Dio, e non
del faraone.
Il profeta è uno che custodisce l'alleanza. Il diritto e la giustizia
stanno infatti in un patto di fedeltà: l'alleanza.
In nome di essa Dio scende e si prende cura del popolo, di quegli ebrei che
vivevano dispersi nelle suburre -dice Rosanna
Virgili- delle metropoli egiziane. In questo rapporto la sapienza umana
rivela che da sola è poca cosa, ma anche la sapienza divina, da sola, è poca
cosa. La vera sapienza (Gb 28) è al confine e all'incrocio tra le due sapienze.
Qui profezia e politica sono
coppia sponsale, e la politica può davvero incominciare illuminata da ciò che
ad essa non si riduce. In tal senso la profezia è anche un'istanza critica. Il
popolo invece non critica e non fa autocritica: queste sono riservate al
profeta. Si corre dietro alle mode e alle bustarelle. Ci si affida al
giovanilismo... "Io metterò come loro capi ragazzi,/monelli li
domineranno"(Is 3,4).
La stessa disincantata
osservazione che troviamo nell’Aristotele del libro primo dell'Etica Nicomachea: "Per questo il giovane non è adatto ad
ascoltare l'insegnamento della politica,
dato che è inesperto delle azioni di cui si compone la nostra
vita." Il politico infatti ha bisogno di saggezza, perché ha bisogno della memoria. I rabbini dicono
che il futuro viene da dietro, anche se per leggerlo non è necessario voltarsi
indietro.
È così che siamo confrontati con
la saggezza della Dei Verbum: "Le
parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell'uomo"(DV 13,11).
Il problema centrale
Qual è dunque il problema
centrale in questo frattempo?
Il problema -pare a me- non è
l'assenza di profeti. Il problema è che non li sappiamo riconoscere. Così come
gli statunitensi, sull'orlo della crisi, continuavano ad affidarsi ai
monetaristi della Scuola di Chicago piuttosto che prendere sul serio Krugman o
magari Lindon LaRouche, che invece suonavano campane a martello per i rischi
dell'età dell'oro delle Borse-Casinò, dei derivati, dei subprime, del vivere comunque a credito…
La profezia non è infatti sulla
bocca di chi si mette in positura di sciamano e ne alimenta la fama. Il
problema è trovare un punto di vista che consenta il discernimento. La parola è
strumento di comunicazione tra il profeta e il popolo. Perché la parola
custodisce la verità prima e più del pane (Dt 8,1). Il problema cioè non è chiedersi
se ci siano ancora profeti: essi sono disseminati agli angoli della storia. Il
problema è acquisire la capacità del riconoscimento. Perché il popolo -come si
è già osservato- si fa prendere dal panico e gioca al ribasso e va dietro ai
falsi profeti proprio perché, nella sua angoscia, avverte l'esigenza di
profezia e si adatta ad ottenerla a basso prezzo.
E i falsi profeti pullulano
proprio perché c'è sete di profezia. I falsi profeti di corte, quelli che oggi
s'annidano nell'universo mediatico.
Perché il problema è la mistificazione e la sua critica; dicono:
"Bene, bene!" ma bene non va"(Ger 6,14).
Il profeta, il vero profeta è
qualcuno che non dipende da nessuno, non sta su nessun libro paga, né a destra
né a sinistra né al centro. Il profeta non attacca il culto puro, ma i riti di
coloro che ci mangiano. Di quelli che si cibano interessatamente del corpo
delle vittime.
Il profeta è infatti un luogo di
passaggio. Non ha l'esclusiva di Dio e neanche Dio ha l'esclusiva del profeta.
Non ci sono confini da rispettare. E il profeta è tale quando, come Mosè, è in
grado di far cambiare idea al suo Dio (Es 32,11-14). "Il signore se ne pentì: "Neanche
questo avverrà", disse il Signore"(Am
7,6).
Profezia come responsabilità
Tutti possono profetizzare,
perché la profezia è una responsabilità, un compito che obbliga a scalfire la
crosta, avvertendo i dolori dalla storia. Davvero troppo rinunciataria mi
appare la nostra attitudine a inseguire e indagare segni, a trovare punti di
riferimento, a scoprire il sale della profezia in luoghi non deputati.
Come stiamo? Non troppo bene, ma
non così male come generalmente pensiamo…
Non è vero che manchino i punti
di riferimento; mi ostino piuttosto a pensare che non li sappiamo riconoscere.
Direbbe don Giuseppe Dossetti: immersi in Dio e immersi nella storia. Senza
neppure il timore di confrontarci con il tema tutto interno, addirittura
“classico” dentro la modernità, della paura,
certamente non concentrabile soltanto nella pressione del fenomeno immigratorio.
Se ha ragione -come penso abbia
ragione- Massimo Toschi, a dire che atei sono i cristiani, questa osservazione disloca
non il problema della profezia, non il bisogno del rapporto tra profezia
politica, ma il luogo dove ascoltare e da chi ascoltarla.
Penso da tempo che senza la
presenza dei cosiddetti "vati" sarebbe risultato impossibile il
nostro Risorgimento Nazionale. Una sorta di umanizzazione della profezia e una
sua laicizzazione. Mazzini (canzonato come Teopompo
per la sua ridondante religiosità laica da Marx), Massimo d'Azeglio, Gioberti,
Foscolo, Leopardi, l'Alfieri, Giuseppe Verdi... Detto altrimenti e ricondotta
la questione all’oggi: per cogliere semi di profezia il luogo più acconcio è la
“Cattedra dei non credenti”
martiniana. Una iniziativa da valutare ben oltre la formula e il successo
milanese.
In Italia, dove il dossettiano
"male sistematico" è certamente rintracciabile nell'abnorme storica
diffusione dell'economia criminale, troviamo Roberto Saviano che dalle pagine
di un grande quotidiano invita il capo dei capi della camorra in carcere,
soprannominato Sandokan, al pentimento.
Gomorra nella nostra storia nazionale non conta meno di Le mie prigioni di Silvio Pellico. Don
Puglisi abbattuto dalla mafia. Don Gigi Ciotti e Libera. E poi la grande battaglia popolare apertasi sull'acqua in
quanto bene pubblico, con le posizioni di riferimento di un Riccardo Petrella e
di Alex Zanotelli, sempre sulla breccia, anche lui non sempre vincente, da
Korogocho a Napoli...
Il tempo dell'ascolto
Per questo la democrazia è
chiamata ad acquisire, nell'epoca della sua crisi e dei troppi post, il tempo
kairologico dell'ascolto. Per questo "gestire" la politica è un
abuso. Si tratta di "ascoltare" quel che accade. Anche se nell'ascolto
c'è sempre una sensazione di perdita. Eppure si tratta di ascoltare il tempo:
lì incontrerai etica e kairòs, perché non c’è kairòs senza krònos.
C'è piuttosto sempre
discontinuità, quasi un’eccedenza, che obbliga a raccogliere la
"stranezza", meglio, dossettianamente, l'occasione in quanto
"fortuità" e "gratuità".
Il "cigno
nero" di Nassim Nicholas Taleb, che "in primo luogo, è un evento
isolato, che non rientra nel campo delle normali aspettative, poiché niente nel
passato può indicare in modo plausibile la sua possibilità. In secondo luogo,
ha un impatto enorme."
A sua volta si pone come elemento
dentro il crollo o la transizione, come pertugio e porta aperta al kairòs. E
proprio quando tutto sembra adattarsi ad un minzolinismo onnivoro, è allora che
più si avverte il bisogno di discontinuità.
La società e la politica rivivono
se c'è una fenditura, se si riapre una finestra di opportunità, concretamente e
sorprendentemente. Per questo Max Weber individuava la vera vocazione politica
là dove c'è l'ostinazione di tentare ogni volta l'impossibile come condizione
per realizzare quel poco che già oggi è possibile… Più che gestire, si tratta,
ancora una volta, di ascoltare.
Saprà questa democrazia
recuperare il carisma, per molti versi inedito, dell'ascolto?
[Sesto San Giovanni
Luglio 2014]
FRANCESCA ROMANA DI BIAGIO
Francesca Romana Di Biagio |
QUANDO I LIBRI ERANO DI CARTA
Come
si stava più di venti anni fa senza cellulari e Internet? Ci saremmo posti
questa domanda migliaia di volte, sempre con la stessa risposta: si viveva
meglio di oggi, ma non torneremmo mai indietro. Ebbene, può sorprendere sapere
che la nostra civiltà- stressantemente connessa e severamente punitiva nei
confronti di chi non mastica tecnologia- serba ancora degli angoli dove il
tempo sembra essersi fermato. E dove è possibile assaporare i piaceri di un
passato in cui il web era pura immaginazione futuristica e le relazioni umane
erano fatte di parole, gesti e pensieri scritti sulla carta.
Io
quest’angolo l’ho scoperto nel cuore della città dove vivo: Milano. Me l’hanno
fatto conoscere delle amiche, con le quali spesso si conversa di letteratura e
ci si scambiano dei consigli sui libri. Un giorno mi hanno detto: “Perché non
vai nella biblioteca del tuo quartiere e se ti piace sottoscrivi la tessera?”.
La biblioteca, già. E’ dai tempi del
liceo che non ne sentivo più parlare; mi ero quasi dimenticata dell’esistenza
di questo luogo. Forse credevo, addirittura, che fosse stato fagocitato dalla
modernità, un po’ come è accaduto alle piccole botteghe, sconfitte dalla
potenza dei supermercati. Invece questa sorta di baluardo dei secoli trascorsi esiste
ancora e ritrovarlo è stato incredibilmente bello.
Per
un’amante della lettura come me si è trattato di una rivelazione: puoi prendere
in prestito tutti i libri che vuoi e ordinare anche quelli che sono disponibili
nelle altre biblioteche della tua città. Devi consegnarli entro un mese, ma puoi
anche richiedere una prolungamento dei tempi. Stessa cosa per i dvd (qui però
il tempo di consegna è di una settimana tassativa). Negli ultimi quattro anni
mi sono così letta tanti volumi, dai classici ai contemporanei- perché la
biblioteca della mia città acquista quasi subito le novità- e guardata molti
film che avrei sempre voluto vedere. Sarò all’antica, ma io preferisco la carta
ai tablet e il tradizionale dischetto, da inserire nel lettore (a proposito, ne
vendono ancora?), al tanto di moda download cinematografico da Internet. Gli
amici più all’avanguardia in fatto di tecnologie mi prendono in giro per questa
mia abitudine, ma cosa ci posso fare? La biblioteca per me è un toccasana, un
posto magico dallo stile retrò dove mi rifugio quando mi sento un po’ giù, o ho
semplicemente voglia di evasione.
Evasione
esatto, è questo il termine più appropriato per descrivere un luogo
completamente fuori dal mondo, dove sono banditi i cellulari ed è proibito fare
e ricevere chiamate. Dove la cortesia è la regola. Dove si possono sfogliare
giornali e riviste, cartacei naturalmente. Dove tanti stranieri e anziani che
non possiedono telefonini di ultima generazione possono navigare in Internet. La
biblioteca è anche l’ambiente in cui si organizzano conferenze, presentazioni,
dibattiti letterari e rappresentazioni teatrali ed è difficile sentirsi soli
tra le sue mura, come spesso invece accade nelle grandi città, anche quando si
è in mezzo alla folla.
In
una società dove tutti corrono, calpestandosi a vicenda, mi stupisce apprendere
l’esistenza di un’oasi del genere. E mi auguro che il tanto amato- da me in
primis che come tanti altri ne sono dipendente- progresso tecnologico non
distrugga mai il libro di carta. Significherebbe annientare l’ultimo spiraglio
di umanità che il pianeta è riuscito a preservare dalle fauci dell’indifferenza
regnante.
EMILIO RENZI
Emilio Renzi |
“Il Nanni Filippini, senti”
Tutti
lo chiamavano Nanni, ma qualcuno anche Nani: o così si trova scritto da qualche
parte. Ovviamente Enrico Filippini è il nome con cui appare nei repertori di
filosofia contemporanea e della contemporanea letteratura tedesca come
traduttore, anzi per alcuni anni come un nome principe: ché tradusse Husserl e Benjamin
e Dürrenmatt e Grass eccetera. Scrisse anche alcuni saggi sulla fenomenologia
ma quando Enzo Paci, il professore da cui alla Statale di Milano dopo la laurea
a Berlino si era fatto attrarre, gli disse che lo avrebbe aiutato nella
carriera universitaria gli rispose di no, non gli piaceva la vita accademica.
Enrico Filippini "Nanni" |
Gli
piaceva invece la vita delle case editrici e dell’amicizia a ore tarde e degli
amori a ore ancora più tarde. Gli piaceva il pizzicore del tabacco delle
sigarette francesi, quelle forti, Gauloises papier
mais. E un baby, come si diceva allora a indicare del whisky in un
bicchiere piccolo, per dar fuoco alle micce di una dialogata di libri e di idee,
di informazioni e di congetture e di sarcasmi, di scambi insomma assolutamente
non a somma zero. Ascoltava molto e restituiva sempre di più. Come diavolo gli
riuscisse poi durante gli scampoli delle mattine e sostanzialmente nei pomeriggi
a tradurre pagine e pagine del più arduo contenuto filosofico del Novecento e
dello sperimentalismo letterario del secondo dopoguerra, e nel frattempo tenere
i rapporti con molte persone ognuna delle quali era una individualità dai
tratti molto marcati, è un mistero che a distanza di anni non sono ancora
riuscito a spiegarmi. Allora scrivere voleva dire picchiare sui tasti di una
macchina per scrivere e poi correggere a mano e poi ricominciare: i muscoli
della schiena erano impegnati quanto il cervello, facevano male, letteralmente.
Io ero più giovane e soprattutto incomparabilmente più ingenuo e forse il
segreto era dormire poco o ricaricarsi con la propria stessa carica di
curiosità o non concepire nessun traguardo nemmeno come una tappa di un’unica
gara ma come altrettante segrete assoluzioni da un’inquietudine che gli aveva
fatto abbandonare ragazzo l’interno della scabra valle ticinese in cui era
nato, i massi a fianco del torrente, il lindore delle case che noi ogni volta
ripetiamo, ah sì è la Svizzera. Non lo so, forse.
So solo
e un certo numero di lettori sa bene che l’ultima scrittura di Nanni è un
racconto che si intitola “L’ultimo viaggio” ed è un racconto straordinario. Feltrinelli
lo ha ripubblicato assieme ai suoi lavori “sperimentali” di vent’anni prima, leader
del Gruppo 63. Quando intellettuali e professorini si riunirono a Palermo per
cercare di cambiare lo stile di scrittura e quindi la letteratura italiana sul
modello del Gruppo 47 che si era formata in Germania dopo la fine della guerra,
si capisce bene come Nanni fosse della partita. Quelli del Gruppo 47 lui li
aveva letti per davvero. Fece degli interventi, tentò una pièce teatrale e
scrisse dei racconti. Adesso dunque possiamo leggerli di seguito a “L’ultimo
viaggio”. E già l’ordine dice qualcosa: non seguite la cronologia, seguite il
valore. Quelli sono scritti di testa; se non sforzati, volonterosi. Forse sono
ingiusto ma non corrispondono più ai nostri gusti, sono reperti per gli
studiosi. Invece “L’ultimo viaggio” è scritto con la pancia. E con l’intelligenza,
va da sé. Non bisogna sfuggire dalla percezione immediata che lo sta scrivendo
un uomo che viaggia con la morte dentro di sé. Letteralmente. Viaggia a
ritroso: porta la donna amata a conoscere “il suo paese”. Dalle città del
cantone risalgono per le rive dei laghi e poi su per le valli sino alle case
del villaggio natio e alle tombe dei genitori. Lei ci viene descritta bella e
colta, con un libro in pancia (e in testa, naturalmente), insieme innamorata e
fuggitiva. Lui è innamorato ma ogni tanto un altro pensiero se lo porta. Il
racconta affida lo strazio a una scrittura appena mossa, periodi brevi,
riferimenti precisi, persino del realismo. Corretto da rimandi a un “lontano”,
un “fuori scena” che è quello che ogni lettore ha subito capito, simpateticamente.
Nanni
alla fine fece la sua scelta, entrò a “Repubblica”, praticamente alla
fondazione del quotidiano nel 1976, redazione cultura. Si segnalò subito per le
interviste e ne fece oltre cinquecento, l’editore Castelvecchi ha cominciato a
ripubblicarne una parte. In un certo senso del termine, sono anch’esse pièces teatrali. Perché gli intervistati
non rispondono come se avessero uno schema delle domande sotto gli occhi e
l’intervistatore sembra che non si sia preparato, le domande non sono state messe
giù a tavolino. Naturalmente non è così: Nanni sapeva bene di che cosa stesse
parlando e con chi, si capisce che era uno che i libri li aveva letti sino a
squadernarli. Sia pure con una voracità che in parte è marchio del mestiere di
giornalista in parte era uno dei suoi modi di vivere senza conteggio del tempo,
senza computo dell’avere e del dare. Nel letterato sentivi la persona
che aveva studiato filosofia ma non se faceva sopraffare e nell'intellettuale che
aveva abbracciato il giornalismo colto sentivi la persona che guardava oltre la
filosofia strettamente intesa.
Vi sono
interviste che a leggerle oggi ossia trent’anni dopo potrebbero essere
ripubblicate tal quali tanto Nanni è folletto serio e il pensiero dell’illustre
intervistato è colto nella sua corporeità, nei suoi tic. Umberto Eco ha scritto
che “gli articoli di Filippini sono una bellissima prova di alto giornalismo,
ma certamente fuori delle regole”. Ha scritto anche che il contratto fatto
apposta per lui gli permetteva di scegliersi le persone che gli interessavano,
non quelle che il caposervizio giudicava doversi fare. Credo che Eco si sbagli,
nelle redazioni esiste pur sempre una dialettica realistica. Ma non importa, Eco
coglie invece un altro punto quando aggiunge che il suo “non-giornalismo non
era un modello”. Certo oggi nei giornali non mancano bravi intervistatori ma
sono, appunto, “professionali”; e dubito che nelle dispense delle scuole di
giornalismo figuri il Filippini Nanni.
Memorabile
il “Gabo” (Garcia Marquez), che parla sciolto perché ricorda una gran bella e
allegra e comune bevuta finale all’Arco della Pace. Foucault, “proprio sotto il
ponticello degli occhiali, sul dorso del naso, ha una piccola ferita”. L’abbraccio
pieno con Herberto Padilla, il romanziere cubano, “fatto fuori” (id est, gettato nel carcere duro da
Fidel Castro), è “un po’ ostacolato dall’enorme sigaro” che resta piantato
nella bocca del fumatore. Ma non si creda che Filippini ricorresse solo a
questi mezzucci narrativi. Le domande partono basso e arrivano presto al cuore
del problema. E poi Nanni ha il coraggio, a quei tempi dei primi Ottanta, di
scegliere di affrontare i Grandi Vecchi della Destra: Karl Popper
(direttamente), Carl Schmitt, Jurgis Baltrušajtis, Ernst Jünger (recensioni).
La sua
Svizzera lo ha riscoperto recentemente. Roma e “Repubblica” gli hanno dedicato
due convegni. Milano, che pure fu la sua città d’elezione e dei suoi incontri e
amici primi e più veri, ch’io sappia nulla.
Nota biografica.Enrico
Filippini, nato nel 1932 a Cevio in Vallemaggia nel Canton Ticino e scomparso a
Roma nel 1988, dopo la laurea a Berlino in filosofia si trasferì a Milano alla
fine degli anni Cinquanta e frequentò alla Statale di Milano i corsi di filosofia
teoretica di Enzo Paci. Su suo suggerimento tradusse la Krisis e Ideen di
Husserl, e altri testi filosofici tra cui Biswanger e Benjamin. Nella
romanzistica tradusse Uwe Johnson, Günther Grass, Max Frisch e molti altri. Fu
tra quelli che avviarono la Casa editrice Feltrinelli. Collaborò con la
Bompiani e con il Saggiatore di Alberto Mondadori, fu tra i protagonisti del
Gruppo 63. Pubblicò su “Menabò” di Vittorini e Calvino Dal 1976 alla morte,
inviato speciale del quotidiano “La Repubblica”. “L’ultimo viaggio” e gli
scritti sperimentali sono stati pubblicati da Feltrinelli nel 1991 e ristampati
nel 2013 in una nuova edizione rivista e accresciuta con introduzione e cura di
Alessandro Bosco. Bosco è anche il curatore di “Frammenti di una conversazione
interrotta. Interviste 1976-1987. Vol. I”, per Castelvecchi, Roma. Una prima
cernita di interviste era stata edita da Einaudi nel 1990 sotto il titolo “La
verità del gatto”, a cura di Federico Pietranera, introduzione di Umberto Eco.
Nel 2003 la Casa editrice Nino Aragno di Torino ha pubblicato
“Byron&Shelley”, con prefazione di Paolo Mauri e nota di Sergio Frau: una
mai realizzata sceneggiatura televisiva, cui Filippini aveva atteso tra il 1982
e il 1983. In rete è visibile un documentario della RSI (radiotelevisione
Svizzera Italiana),
http://www4.rsi.ch/trasm/archivio_storie/welcome.cfm?idg=0&ids=1799&idc=36436
(versione
23 luglio 2014)
CLAUDIA
AZZOLA
IL BEL PAESE LÀ DOVE L’
OK SUONA
Pezzo
dopo pezzo procedono i saldi dell’italiano causa diversi ma convergenti
intendimenti.
La
semplificazione del pensiero in atto, il parlato televisivo, asintattico, il
lancio pubblicitario gridato in slogan all’insegna dell’ottimismo d’obbligo,
l’uso acritico e provinciale dell’inglese riempiono il vuoto che non è più colmato dalla
letteratura, ma solo dai romanzi commerciali. La corrente lingua d’uso s’avvita
sulla pigrizia mentale e relazionale dove, dominante e pervasiva, è la rete, sede di tutti gli avvenimenti degni, a portata dei followers; il web è agente corrosivo del
linguaggio, già drogato dal giornalismo facile, dal politically correct, dall’editoria, dagli scrittori in primis, dai
critici ex maestri di pensiero, oggi imbalsamatori dell’italiano, dal parlare
di politici non acculturati e privi di spessore, dai
divulgatori di mestiere.
La
lingua parlata poteva essere povera di contenuti, inconsapevole, rarefatta, ma
sotto c’era una tradizione, c’era la lingua parlata e c’erano la lingua della
ufficialità e la lingua letteraria, e anche c’erano spazi di silenzio. La
letteratura del Novecento si è servita di dialettismi, di voci popolari, e
intanto ha imparato a fare a meno della storia da feuilleton per privilegiare lo stile, per fare della parola e del
testo un’opera d’arte, non il calco della realtà minimale, che si chiude su se
stesso, mentre l’oggetto d’arte letterario apre sul mondo, si innerva di
apporti surreali, esperienziali, del sogno, filtrati dalla memoria, del repechâge di termini antichi per
rinvigorire il presente.
L’io narrante ingombra un po’ meno e lascia
spazio alla memoria selettiva, come nella Recherche,
nel gioco delle parti pirandelliano, nelle parole in libertà, all’obscuritas della
parola che si accende nella psiche.
Nell’epoca
post letteraria, post-novecentista, post-moderna non c’è spazio per la
letteratura di sperimentazione, perché l’immaginario è stato impoverito e la
lingua non filtra esperienza attraverso il crogiuolo alchemico dove il fuoco
arde i materiali e li restituisce, purificati e
vivi, come la salamandra che guizza rafforzata attraverso il fuoco. La lingua letteraria è alchemica nella sua sintassi,
passione, nel divenire, che non cede il passo all’italiano slombato (termine
che rubo a uno scrittore che ancora fa ricerca e fa sintassi). Mettiamo, due-trecento
parole? In sfregio allo sforzo dei parlanti dei secoli e delle terre d’Italia. Il bel paese là dove l’OK suona.
OK
ha sostituito “va bene”, “d’accordo”, ma ultimamente usurpa il “sì”. Monosillabo che non ha più significato e che,
se proprio lo si deve pronunciare, di malavoglia, si tende a rafforzarlo con un
“assolutamente”. Assolutamente sì. Garantisco io, lo dico io, quindi è vero. E
bisogna vedere l’espressione facciale dell’automa pronunciante, facitore di
sottocultura, ignaro della secolare portata individuale e corale di forma, miti
e favole, di creazione dell’ambiente, di arte, di conoscenza. Le periferie
insensate che lacerano i nostri paesaggi, l’abbandono di siti storici e coste
allo sbarco di marziani distruttori sono l’emblema dell’Italia senza lingua e
senza identità, desemantizzata, ecolalica nei suoni rozzi e spezzati, nelle
nuove cadenze di recente conio, che tocca ascoltare se e quando le genti
emergono per un attimo dall’adorazione del totem, cellulare o tablet. Guardano
nel totem anche quando camminano, o quando sono al caffè con l’amico o con
l’innamorato o l’amata.
Le
parole belle cadono in ombra, sostituite con anglismi di conio italiota, anfibi
buoni per tutto, oppure da orridi neologismi. Le belle parole non ritorneranno,
come le coste, le bellezze sfregiate. Caso unico italiano in Europa, le grandi
opere che impegnano capitali, anni di lavori, appalti, arricchimenti illeciti, finiscono
in niente, le famose cattedrali nel deserto non sono consuete nelle nazioni
evolute del vecchio continente.
Parlare
della pubblicità forse porta una nota di leggerezza, in uno scritto come questo
che tende a essere alquanto serioso. La pubblicità è autoritaria in quanto
impositiva del pensiero unico iper-ottimista, assertivo, portatore di visione
omologata, tutto per dare il la al consumo di un dato prodotto: “venite
numerosi…”, che sottintende: se non vieni, non fai parte della maggioranza, non
sei dei nostri, oppure, “…che cosa aspetti per…comperare, ecc.… Ho sentito
anche “sbrigati”. Viene forte la voglia di rispondere: aspetto il treno,
aspetto il ritorno delle rondini, aspetto la fioritura del giardino, aspetto l’amante,
aspetto i ragazzi, aspetto buone notizie.
Luoghi
della complessità e del sogno, da cui l’esprit,
trae humus creativo, inabissandosi nel pensiero immaginale, parlare, atto di
vita, come la semina, il lavoro dell’artigiano, l’erranza: happenstance, questo sì un termine complesso dell’inglese che scava
nell’essere dell’uomo di ricerca radicato -paradossalmente- nel farsi e nel suo
stato, se li lasciamo inaridire è solo per inadeguatezza a farsene carico e a
trasmettere un patrimonio ai prossimi che meritano di vivere in un contesto
meno meschino del presente.
Non dico che non
ci siano eccezioni, che cercano di salvare la diversità, nel paesaggio, nel
modo di vivere, nel cibo, mai come oggi oggetto di culto e continua trattazione.
Di salvare la lingua italiana mi pare che se ne parli poco o niente. Dovrebbe
essere un imperativo degli scrittori, ma negli ultimi decenni si è imposta la lingua
generica, che si identifica col niente di fatto, che non ricerca l’etimo delle
parole, la sua origine nel latino. Risulta
che la ricchezza e la complessità possano interferire con la storia piena di
colpi di scena che il mercato richiede e il lettore brama. Libri da non
tramandare. E poi, lasciati a sé, questi scrittori e questi romanzi, non hanno
niente da dire dopo il primo lancio promozionale e qualche articolo compiacente
di pseudo letterati, animatori da villaggio-vacanze. Alcuni i personaggi sono
sempre in televisione a presentare i loro libri, con il presentatore che
sollecita il pubblico a leggere il prodotto del giornalista-scrittore, o
scrittore-giornalista. È tutto uguale, dalla promozione del prêt-à-porter, prêt-à-manger, alla presentazione del romanzo di turno, tutto ciò
che sembra raggiungibile allungando la mano e il pronto cassa, in un egualitarismo
generico ormai instillato fin dalla più tenera infanzia. Quando mamme e
papà istigano i pargoli a prodigarsi in
multiformi attività, e non nell’unica che forse è affine al vero talento del
pargolo, che vorrebbe sbocciare come le primule sotto l’ultima neve
dell’inverno. Credo che si stia assistendo a un processo
irreversibile, per quanto riguardala la lingua italiana.
Ma
è d’obbligo poggiare l’orecchio a terra, come gli indiani, per captare ogni
suono nuovo, ogni sonorità recuperata, individuando le forze nuove che si
agitano dando segni di novità. Che ricerca la diversità, il piacere, il gusto,
il tempo, il silenzio, lo scambio intellettuale, i riti di passaggio
dell’esistenza, l’eleganza nel parlare e nei gesti sapienziali, il recupero della
pausa metrica, del respiro poetico, nel repechâge di contenuto e stilemi del
passato per rinvigorire il presente, la riammissione della sonorità nel
parlato. Semi di ripresa spuntano, per quanto riguarda la difesa del suolo e
della natura nella consapevolezza dell’importanza dell’ambiente e della storia,
della ricerca dei cibi che mangiamo, ma scarsi sembrano essere i segni di rinascita
della lingua. I semi sono in mano a pochi scrittori, pensatori, filologi,
studiosi e studenti, che li ritengono pronti a sbocciare come le primule sotto
l’ultima neve dell’inverno.
Milano, Luglio 2014
FRANCO ESPOSITO
Franco Esposito |
Il Cristo dei poveri
Come facciamo ad amare fratelli
che hanno sparato al Cristo dei
poveri:
quattro pallottole di lupara sul
costato.
Qualcuno ha la sfrontatezza di
rispondere,
al falso cronista di turno: “In
fondo era
solo un dipinto sul muro!”.
Spero che mani samaritane chiudano
quei buchi. Il Cristo dei poveri,
spero perdoni questi fratelli meschini,
miscredenti, di una Calabria amara
che oggi non spera più nella preghiera.
Le loro false vite, le loro mani di sangue,
i loro falsi capitali anonimi
sono un potere a tempo, distruttivo,
sono la loro tomba eterna.
Il Cristo sul muro, ricordate fratelli,
è una virgola di civiltà,
la Voce, l’esistenza di un popolo.
Franco Esposito |
FRANCESCO PISCITELLO
Francesco Piscitello |
LA DEA
Parvati
è la sposa di Shiva e madre di Ganesh, il dio dalla testa di elefante
veneratissimo in tutto il mondo indù. In India, e anche qui, in Nepal, Ganesh
lo si vede dappertutto, persino sui taxi, come da noi il rosario appeso allo
specchietto retrovisore. Per lo più si tratta di una statuetta di plastica
ricoperta, come i David di Michelangelo delle bancarelle, da quelle pagliuzze
che si tingono di violetto o di rosa secondo che si prospetti pioggia o bel
tempo; talvolta invece si trova immerso nell’acqua contenuta in quei piccoli
globi di vetro che, quando vengono agitati, lasciano cadere scagliette di
materiale bianco che simula una nevicata: la neve, del resto, è di casa, qui,
tra le cime himalayane. Come tutte le divinità indù, anche Parvati si manifesta
in molti modi: una delle sue epifanie è Durga, che incarna l’energia creativa
femminile - Shakti - ed è raffigurata come una donna che cavalca una tigre. La
sua impresa principale è stata sconfiggere il demone Mahishasura che aveva
fondato in terra un regno di terrore.
Parvati-Durga è la divinità protettrice del Nepal. Durante
il regno di Jayaprakasha Malla (1735-1768) una vergine della famiglia Shakya si
disse posseduta da Durga. Il sovrano prese l’affermazione come una sorta di
bestemmia e bandì la fanciulla dal paese: ma sua moglie, la regina, fu presa da
convulsioni che il re interpretò come segno del suo errore. Richiamata la
ragazza, dispose che fosse venerata come Durga.
Da allora, Durga s’incarna in una bambina della famiglia
Shakya: la Kumari. Per essere ritenuto
idoneo ad accogliere lo spirito della dea, il corpo della bambina deve
possedere trentadue segni definiti e riconoscibili. Ma questo non basta. La
piccola deve superare molte prove, tra le quali una destinata a dimostrare il
suo coraggio: dopotutto è chiamata a custodire lo spirito di colei che ha
trionfato su un demone perverso e terrificante. Per questo dovrà dormire una
notte, sola e senza dar segno di paura, in un cortile buio guardata a vista
dalle innumerevoli teste sanguinanti dei bufali offerti in sacrificio.
Una dea non deve lavorare, affaticarsi: per questo la sua
servitù le eviterà ogni possibile attività, mentale o fisica, anche quelle più
banali, persino lo stesso camminare. La Kumari
infatti non cammina, viene portata: i suoi piedi non toccano mai il suolo. E
non può perdere mai una goccia di sangue: svanirebbe la sua divinità e tornerebbe
a essere una persona come tutte, una dei quindici milioni di donne nepalesi. Il
sangue della prima mestruazione è però inevitabile e non appena questa si
verifica inizia la ricerca di una nuova incarnazione di Durga. È come quando,
morto un Papa, inizia il periodo di sede vacante e si convoca il conclave per
sceglierne un altro.
Francesco Piscitello e Angelo Gaccione |
L’ho vista, la dea.
Vive nella Kumari Bahal, o
“Casa della Kumari”, un edificio
quadrato che si affaccia in parte su Basantapur Square e in parte su Durbar
Square, la piazza principale di Kathmandu. Proteggono l’ingresso due enormi
leoni di pietra, alti quanto il portone. Il cortile interno è pieno di fedeli
che portano in omaggio fiori e polvere di cinabro e aspettano che la dea si
affacci o, per essere più precisi, che venga fatta affacciare. Io però non
posso entrare: dal privilegio di vederla è escluso chi non è induista, ma qualche
rupia nepalese mi consente ugualmente l’ingresso. Qui, mescolati ai fedeli, ci
sono molti che la fisionomia, l’abbigliamento e l’ostentazione di una Nikon
appesa al collo, che però non si può adoperare, fa riconoscere come occidentali:
o giapponesi, se hanno anche gli occhi a mandorla. Pochi minuti dopo,
d’improvviso, cala un silenzio profondo, raccolto, rotto soltanto dai commenti
ad alta voce di qualcuno di quelli con la Nikon (ha ragione il mio amico
Viviano Domenici: per viaggiare ci vorrebbe la patente), e tutti gli sguardi si
volgono in alto. Al secondo piano, dietro il vetro di una finestra, compare
diafana la figura della dea. L’evento, che non è obbligatorio (non si può
costringere una divinità a mostrarsi ai fedeli), si è avverato. Però mi coglie
un sospetto: se gli stranieri sono parecchi, anche le rupie versate non devono
essere poche. Vuoi vedere che hanno facilitato, oltre l’ingresso, anche
l’apparizione?
Nell’uscire dalla sacra bahal
per raggiungere i miei poco mistici compagni, che alle dee preferiscono lo
shopping nei negozietti del centro, non posso impedirmi riflessioni che mi
rattristano. Cosa avverrà della povera Kumari,
ex dea che con la sopraggiunta pubertà verrà restituita alla comunità dei
comuni mortali? Privata della sua aura sacrale, del tutto inetta com’è nei
confronti delle più elementari cose materiali, incapace di fare alcunché, priva
di qualsiasi istruzione, di quale dotazione disporrà per vivere nel mondo,
oltre alla pensione statale di seimila rupie mensili? Seimila rupie, nel momento in cui scrivo,
sono un po’ meno del triplo del reddito medio di un nepalese, una bella cifra
che certo farà gola a più d’un pretendente alle nozze: ma sarà qualcuno sedotto
da null’altro che dall’avidità o dal bisogno, che non sono buone credenziali, e
in cambio dovrà accettare il rischio - come vuole un’antica superstizione - di
morire entro sei mesi dalle nozze tossendo sangue.
Un marito, comunque, lo troverà, come lo ha trovato la
maggioranza delle ex Kumari, e con
quella dote anche presto: un marito al quale non avrà nulla da offrire salvo il
corpo e al quale non saprà cosa chiedere salvo quello che possono chiedere i
suoi giovanili estrogeni. Ed è tutto. A fronte di questo, la devastazione
psichica che si può supporre abbia prodotto un’infanzia vissuta nei panni di
una dea, privata delle comuni esperienze infantili, circondata da un rispetto e
da una venerazione che costituiscono la più impenetrabile barriera all’amore,
alla tenerezza, al contatto fisico oltre che sociale e con chissà quante altre
deformità che non so neppure immaginare.
Ma eccomi arrivato in Freak Street. Freak Street, come dice
il nome, è la via dedicata ai freak
che un tempo si davano convegno qui a Kathmandu. Se ne vede ancora qualche raro
esemplare, in là con gli anni e appesantito dalla pinguedine ma che non ha
rinunciato all’abbigliamento variopinto di allora, con le sue brave collane di
perline e semi colorati, i capelli lunghi e ingrigiti - quei pochi che la
calvizie gli ha lasciato - raccolti a coda di cavallo o arrotolati sulla nuca
in un approssimativo chignon.
da sin. Piscitello, in centro Gaccione, a des. Eliio Vetri |
Sarà forse perché non riesco a distogliere il pensiero dalla
bambina che ho appena visto, dal suo malinconico destino di dea pensionata
prossima a ridursi a una povera bambola, a un inutile fantoccio di carne, che
anche l’atmosfera di questa strada mi appare triste, stagnante, il suo
carattere pittoresco un poco artificioso e forzata la sua vivacità. Altrettanto
falsa è l’aria di complicità del ragazzotto che mi si avvicina e sussurra,
fingendo di guardare altrove con fare circospetto, “opium, opium, very good”: mi deve aver scambiato per un vecchio hippy dismesso e senza uniforme, tornato
in pellegrinaggio nei luoghi della sua trasgressiva gioventù.
LUCA
MARCHESINI
Luca Marchesini |
(S)PUNTI INTERROGATIVI
“Proletari di tutti i
Paesi unitevi”: un'eredità cosmopolitica di stampo settecentesco
capace ancora di riassorbire il richiamo romantico alle radici
nazionali, solo facendone ruotare l'asse da verticale a orizzontale;
sostituendo i confini fra gli Stati con confini di classe, la guerra
nazionale con la guerra (lotta) di classe; dove tuttavia il
proletariato viene infine a configurarsi come classe universale,
riassorbendo in sé il ruolo della ragione illuministica.
Probabilmente, nel caso
dell'Illuminismo, o, nel caso di Marx, più che probabilmente, un
errore di calcolo; un nobile errore di calcolo. I romantici
assertori di mitologie nazionalistiche (particolaristiche) potrebbero
anche avere una facile, ignobile ragione.
L'uomo
reazionario e l'uomo fascista non coincidono; nel senso che il
fascista è sempre nel fondo un reazionario (qualunque cosa ciò
voglia dire) ma il reazionario non necessariamente è un fascista.
Anzi, il reazionario puro tutto sommato non lo è, mancandogli, del
fascista, tutto l'armamentario neo-pagano iperattivistico e
fallocratico. Il reazionario puro in genere non ha bisogno di pose
rodomontesche.
Al
contrario, donna reazionaria e donna fascista tendono a coincidere.
Questo perché, mentre l'uomo fascista presenta il proprio volto
reazionario all'interno della famiglia ma all'esterno è chiamato a
mostrare un volto sempre al fondo reazionario ma autoaffermativo e
dunque vagamente trasgressivo, la donna fascista deve essere come il
fascismo la vuole: sottomessa, sposa e madre, perennemente incinta
(secondo uno schema tipicamente reazionario), caratterizzandosi
tuttavia per la disposizione a non accettare tutto ciò in modo
puramente passivo (altrimenti, per paradosso, non potrebbe essere né
fascista né reazionaria, fascisti e reazionari non contemplando la
possibilità, per una donna, di occuparsi di politica, di prendere
posizione, e dunque neppure di essere reazionaria o fascista) ma, al
contrario, rivendicando, con maschile cipiglio guerriero, il proprio
ruolo subordinato di femmina. Un proto-esempio di donna reazionaria
(fascista)? Nel Re Lear: Gonerilla, quando, idealmente
rivolgendosi all'amato, gli dice che a lui è dovuto ciò che il
marito usurpa. Sta parlando del proprio apparato genitale, di cui il
marito sarebbe indegno in quanto mite e riflessivo e dunque
smidollato: vuole essere schiava, ma di qualcuno che secondo i suoi
parametri sia degno di possederla come schiava. Sarà lei, guerriera,
a decidere davanti a chi deporre docilmente le armi.
Niente di troppo.
Ineccepibile. Come tutte le tautologie.
L'umorismo
fine nasce dal disvelamento di ciò che sapevamo e non sapevamo di
sapere, la comicità di bassa lega dal finto disvelamento consistente
nel dire ciò che sapevamo e sapevamo benissimo di sapere e che
ragioni perlopiù di buona creanza impediscono di manifestare troppo
spesso.
L'uomo che
non sa (che cosa, e in base a quali parametri? Ma passiamo oltre) non
è libero quanto quello che sa (ut supra). Dunque istruirlo è
renderlo (più) libero. Mettiamo però che lui non voglia essere
istruito: se lo istruisci a forza, il lui di dopo magari ti
ringrazierà (di averlo reso ora più libero), il lui di
adesso ti accuserà, non senza ragione, di stare conculcando la sua
libertà di non venire istruito.
Per una
critica e un'apologia dello Stato educatore (illuministicamente
paternalista-autoritario).
A questo punto, l'essere
stata, per un certo periodo, la parte meno abbiente della
popolazione, e segnatamente la classe operaia, su posizioni laiche,
internazionaliste, diciamo così progressiste (cosa che a quelli
della mia generazione sembrava un dato ovvio e destinato a durare nel
e oltre il tempo) sempre più appare come una temporanea e vistosa
anomalia (la maggioranza, il cosiddetto, con termine generico e
vagamente truffaldino, popolo, è, da sempre, e in un certo senso per
definizione, gregaria e dunque tendenzialmente reazionaria); frutto,
forse, di un tardo e mediato contagio illuministico.
Altro
che Übermensch:
sarebbe già tanto riuscire a realizzare l'oltrescimmia.
A costo di passare per
oscurantista, dichiaro qui di nutrire qualche perplessità circa i
matrimoni omosessuali. E spiego perché.
Non ho ovviamente nulla
contro l'omosessualità; semmai, contro il matrimonio. Il matrimonio
in quanto tale rappresenta una sorta di contratto di schiavitù (più
bilaterale e bilanciato nelle società moderne, più asimmetrico
nelle società arcaiche), che implica la rinuncia ad alcune libertà
fondamentali dell'individuo e con ciò stride con i fondamenti dello
Stato liberale. Ciò, ovvero una tale eccezione, può essere
giustificato solo sulla base dell'importanza fondamentale che
ricoprono, per ogni società, la riproduzione dei suoi membri e
l'allevamento delle nuove generazioni; il che costringe a porre,
intorno ai luoghi (ideali) deputati a tutto questo, una particolare
barriera protettiva. Uno stato d'eccezione, che esige procedure
eccezionali: tale la ratio.
Ma se tale è la ratio,
perché estendere simili misure emergenziali anche là dove la
mancanza stessa dei presupposti di base (in sostanza, la capacità
riproduttiva) le renderebbe del tutto incongrue? Chi ha detto che, in
mancanza di quei presupposti, i rapporti sessual-affettivi fra gli
individui debbano essere fondamentalmente diadici anziché triadici o
quant'altro? La coppia omosessuale: una sorta di scimmiottatura della
coppia eterosessuale, in assenza delle condizioni che rendono la
seconda una soluzione particolarmente funzionale. Estendere le misure
d'eccezione che la società, anche la società più liberale, è in
un certo senso costretta ad applicare al sesso procreativo,
estenderle anche là dove la situazione non lo esige, mi sembra
paradossalmente il primo passo verso una sorta di
militarizzazione-fascistizzazione generalizzata della società
stessa: come applicare le misure di sicurezza che circondano i centri
nevralgici di un Paese, tipo dighe o centrali elettriche, anche alle
fontanelle.
A parziale rettifica di
quanto sopra. Le considerazioni appena esposte hanno senso in quanto
si riferiscano all'istituzione matrimoniale di tipo tradizionale,
intesa cioè in senso forte. A fronte dell'attuale tendenza a un suo
depotenziamento (con la possibilità di ottenere il divorzio in tempi
non lunghissimi, e la depenalizzazione dei reati di adulterio e
abbandono del tetto coniugale), la consistenza di esse viene in larga
misura meno.
Secondo una certa
visione, riconducibile, forse più che a Marx, a certi suoi epigoni,
il potere politico (e dunque anche il potere militare) deriverebbe
dal potere economico. Ora, è pur vero che una pistola bisogna
essersela comprata (a meno di non essere in grado di fabbricarsela, e
anche in questo caso bisogna essersi comprati know how e
utensili adatti). Ma, in ultima analisi: mettiamo che su un'isola
deserta si trovino due persone, l'una munita di pistola e l'altra di
un prezioso sacco di nocci di cocco. Quale delle due cose passerà a
chi?
I profondi si dividono
fra incanto e disincanto. In mezzo: il non incanto; il mai incanto.
Quante cose può dire
l'ubriaco al non ubriaco. E viceversa.
L'imperativo categorico è
solo un imperativo ipotetico a cui è stato tolto un pezzo.
Minosse si è inventato
il taurino adulterio per esorcizzare l'animale che porta in sé.
(In un certo senso, si è
quindi inventato anche Dedalo.)
Non giudico le persone
dal fatto che recitino o meno una parte (forse solo i morti non
recitano), ma da come recitano. Sopporto gli attori cani
solo a teatro.
La lingua tedesca, specie
nel canto, ha le sonorità di un'acqua di sorgente che rimbalza su
pietre ben levigate.
La congettura di
Goldbach. Possibile traduzione: ogni multiplo di due maggiore
di due è la somma di due numeri con due soli
divisori.
L'odine delle conseguenze
logiche, rispetto a quello delle conseguenze temporali, è
rovesciato.
Il fatto che ciò che in
certi insetti è mimetico rispetto a possibili predatori non umani lo
sia anche rispetto a me fa pensare che la struttura sensibile (in
questo caso perlopiù visiva, ma non solo) di molti viventi sia
suppergiù la stessa (un realista metafisico si spingerebbe oltre).
Ma chissà di quanti viventi non scorgiamo la natura mimetica
semplicemente perché tale essa non è per noi.
Mi viene difficile
immaginare una donna solipsista. Sola (ego) ipsa. Stride.
Il cielo diurno non
esiste, se non come miraggio: un'azzurra rifrazione.
L'Italia (o la Francia,
l'Olanda...) non esiste: un territorio? Un insieme di persone che
parlano la stessa (?) lingua?
Ma, insomma: che cosa
esiste?
Dice un provrerbio
siciliano (traduco): Chi non sa cosa fare pettina il cane.
Applicato alla vista:
fosfeni.
Un'assai italiana
porcheriola è il cosiddetto familismo amorale. Il fatto è che il
familismo amorale è ciò che tiene il posto, in Italia, di
qualcosa che alberga in tutti o quasi gli altri paesi e da cui noi
italiani siamo pressoché immuni: il, chiamiamolo così, nazionalismo
amorale. Right or wrong, my country: la versione anglosassone
del nostro tengo famiglia.
Colti si
diventa. Ma coltivabili si nasce.
Cultura:
ripensamento; non importa di cosa.
In ogni
etica di stampo materialistico si annida una contraddizione. Sia
detto non contro le visioni materialistiche ma contro ogni etica.
Seneca
genera (per così dire) Nerone. Marco Aurelio genera (per così fare)
Commodo.
La pacatezza
della ragione genera mostri?
Nella storia, dei fiumi
la follia fa spesso le scaturigini; la saggezza, gli argini e tutto
il resto. Nella storia e non solo.
Quando in te la ragione
arriva a porsi contro la vita, sei giunto alla fine. Un uomo
di Chiesa potrebbe sottoscrivere. Solo che lui e io non vogliamo dire
la stessa cosa: lui parla in difesa della vita; io, della ragione.
I giovani delle epoche
contraddistinte da grandi attese collettive non fanno in genere che
esasperare in senso consequenzial-guerriero (complice anche il
ribollimento ormonale) l'etica dei padri. Sono dei tradizionalisti
camuffati.
Si possono giudicare le
persone da quello che rispondono quando si chiede a una di loro quale
sia il suo peggior difetto: i più stronzi ne approfittano, fingendo
di confessare un difetto, per millantare un pregio.
A volte uno ha quasi
l'impressione, il tempo, di non averlo saputo trattenere abbastanza.
Un po' come se fosse colpa sua.
In un dizionario di una
qualsiasi lingua, le parole da definire sono poi le stesse con le
quali le si definisce. Il linguaggio, in particolare il linguaggio
verbale, è autoreferenziale: un sistema di specchi che non fanno
altro che rispecchiarsi tra loro (e dunque non rispecchiano nulla).
Non si esce da una tale
tautologica vuotezza se non facendo ricorso alla definizione
ostensiva. L'ostensione, tuttavia, ubbidisce a regole precise (lo
stesso dito puntato implica una tacita convenzione, quella in base
alla quale, prolungando indefinitamente il segmento rappresentato dal
dito, il primo oggetto solido che tale prolungamento incontra è ciò
a cui intendevamo riferirci). Se tali regole pretendessimo di
enunciare verbalmente, o comunque nei termini di un linguaggio
convenzionale, torneremmo alla precedente aporia. Dunque tali regole
non possono essere definite all'interno del sistema di segni che esse
stesse regolano, garantendone la significatività col rapportarlo ad
altro (a un universo di significati a esso anteriore). Deve dunque
trattarsi di regole pre-convenzionali (o legate comunque a una
convenzione più profonda, altre rispetto al sistema di convenzioni
più o meno consapevolmente e volontariamente stipulate fra esseri
umani): tendenzialmente, innate; legate alla struttura stessa del
vivente. La vita comincia (si stacca dall'inorganico), in un certo
senso, là dove comincia il linguaggio.
E, tuttavia: dietro un
linguaggio, sempre un altro linguaggio. E così indietro, sempre più
indietro: dall'organico all'inorganico a...
Il primo vagito
dell'universo: una fluttuazione quantistica, una fluttuazione
linguistica.
Per poter dire che
Achille ha superato (raggiungerla non poteva) la tartaruga, è
necessario che 1) i due abbiano seguito lo stesso percorso, cioè
occupato via via le stesse caselle spaziali: cosa impossibile, in
tempi diversi e con diverse volumetrie; 2) il corpo dell'uno e
dell'altra abbia confini netti, cioè che nel loro caso la natura
faccia i famosi salti; 3) in fase di sorpasso i due corpi si siano
compenetrati; 4) nessuno abbia barato alla partenza, non
mantenendosi, prima del via, in stato di quiete assoluta: cosa
impossibile, il passaggio dalla quiete al moto (e viceversa) essendo
logicamente contraddittorio; 5) eccetera.
L'aporia segnalata da
Zenone potrebbe nascere dall'assolutizzazione metafisica di concetti
mutuati dall'esperienza, come quelli di corpo, contatto, quiete, moto
rettilineo eccetera: concetti apparentemente familiari, che in
condizioni estreme rivelano una costitutiva indeterminatezza.
Rispetto al non vivente,
che cosa caratterizza il vivente? La capacità di riprodursi (non
solo di creare individui simili, ma di ricostituire istante per
istante la propria stessa struttura fisica)? O solo una sorta di
interno finalismo? (Lasciando da parte qualsiasi riferimento
all'ambiguo concetto di coscienza.) In fondo, la stessa cosa:
se il finalismo caratteristico del vivente non si compendiasse nel
fine specifico dell'autoriproduzione, si annullerebbe
automaticamente. Ma, poi, che cosa si deve intendere per finalismo?
Solo una forma particolarmente complessa di causalità, diciamo così,
meccanica (in senso lato). Dunque, ciò che indichiamo come vivente
non è che un sistema complesso che attraverso meccanismi complessi
produce in ogni istante qualcosa di molto simile al se stesso
dell'istante che precede. Ma cosa vuol dire simile? Simile
rispetto a quali parametri; a quale osservatore (il concetto di
somiglianza, a differenza di quello di identità, rimandando a
qualcosa di relativo)? Dunque, traducendo: vivente è ciò che,
istante per istante, morendo, produce qualcosa che qualcuno, un
qualsiasi ipotetico soggetto, percepisce come simile a esso.
Una conseguenza
paradossale di quanto osservato sinora è che il concetto stesso di
vita sembrerebbe assumere così un carattere relativo: se a
produce a*, e a* è simile ad a rispetto ai
parametri di Tizio ma non a quelli di Caio, a potrà essere
considerato insieme vivente e non vivente: vivente rispetto a Tizio,
non vivente rispetto a Caio.
Ma proseguiamo. Due cose
in assoluto non simili non esistono: due cose, cioè, che non
possano essere percepite come simili da alcun soggetto possibile. Da
ciò la conclusione che le vite sono tante quanti gli infiniti
(sempre che non ci troviamo di fronte a un discretum; ma
passiamo oltre) segmenti che fra loro collegano gli infiniti punti
dello spazio e del tempo, fra i quali punti uno o l'altro degli
infiniti soggetti possibili necessariamente individuerebbe una
somiglianza-continuità. Anzi: poiché ciascun soggetto non può non
percepire se stesso in termini di continuità temporale, e dunque
come una successione di istantanee in cui esso appare a se stesso
sempre a se stesso simile, ogni vita giustificherebbe in base
alla sua semplice percezione di sé il proprio carattere vitale:
una sorta di causa sui.
Si potrebbe continuare.
(Corollario. In una
simile prospettiva, organismi viventi in numero almeno
tendenzialmente infinito si intersecherebbero senza reciprocamente
percepirsi come tali e rimanendo sostanzialmente estranei.)
CATALDO RUSSO
Cataldo Russo |
Chi
è il Grande Fratello e chi è Godot?
Chi
è il Grande Fratello o chi è Godot? Sono domande destinate a non avere una
risposta certa. Nel romanzo 1984 di George
Orwell non viene mai chiarito se il Grande Fratello sia una persona reale e
vivente, o semplicemente un simbolo creato dal partito per avere il controllo
di tutto e di tutti. Rimane un mistero, così come un mistero è Godot, l’altro
personaggio emblematico del Novecento, uscito
dalla penna di Samuel Beckett, destinato a restare un’entità indefinibile, di
cui tutti parlano, tutti sentono la presenza, ma nessuno veramente sa chi sia o
come sia fatto, come nella migliore tradizione del teatro dell’assurdo. Quando Winston Smith, il personaggio principale di 1984, chiede esplicitamente a O'Brien, durante la tortura, se il Grande
Fratello esiste, egli gli risponde "Tu non esisti", lasciando
intendere che il suo destino di spione
sarà l’oblio.
Al
di là dell’invenzione e degli espedienti letterari e teatrali, credo che in
qualsiasi realtà, piccola o grande che sia, progressista o conservatrice,
monarchica o repubblicana, esista
sempre un Grande Fratello e un Godot che
tengono la scena.
Il
Grande Fratello è l’attitudine di chi comanda a spiare, più o meno
consapevolmente, supposti nemici o potenziali dissidenti. Di solito i
governanti, qualunque essi siano, si servono di quegli individui che
evidenziano una certa attitudine alla denuncia e alla delazione. Questi ultimi
sono per lo più persone normalissime, apparentemente innocue, che spesso non
esprimono il loro pensiero nelle occasioni pubbliche, ma che amano origliare e
riferire. A volte si tratta di amici o familiari che agiscono, consapevolmente o
non, per ingraziarsi chi esercita il
potere.
La
storia, purtroppo, strabocca di personaggi del genere.
Godot,
al contrario, rappresenta l’attesa di un avvenimento che dà l'apparenza di
essere imminente, quasi a portata di mano, ma che nella realtà non accade mai,
anche perché di solito chi l'attende non fa nulla affinché esso si concretizzi.
Vladimiro
e Estragon, i due personaggi principali del testo di Beckett, stanno aspettando su una desolata strada di
campagna un certo "Signor Godot". Dietro ai due personaggi c’è solo
un albero che regola la concezione temporale attraverso la caduta delle foglie,
che stanno a indicare il passare dei giorni. Godot non appare, si limita a
mandare un ragazzo dai due strampalati vagabondi, il quale dirà loro che Godot
"oggi non verrà ma verrà domani".
Godot
nella metafora della quotidianità potrebbe essere il buon governo che si
annuncia sempre con grande enfasi e non arriva mai, ma potrebbe anche essere l’onestà
che tutti sbandierano e che pochi praticano. Oppure potrebbe rappresentare la
professionalità e la serietà che tutti dicono di apprezzare ma che in pochi riconoscono
e stimano sul serio, preferendo gratificare e arricchire veline, soubrette e
falsi artisti.
Vi
sono due tipi di politici. Quelli che sono convinti di fare sempre il bene del
popolo e di soddisfarne egregiamente sia i bisogni materiali sia le loro
aspirazioni. Costoro vedono nella richiesta più semplice da parte del cittadino
un atto di insulsa ribellione da punire. Per loro il mondo è popolato per lo
più da innumerevoli Bruto, pronti a dare la pugnalata alle spalle
dell’immacolato Cesare. Questa fauna di politici predilige i delatori alla
Wiston Smith, sempre pronti a denunciare il compagno di lavoro o il vicino
della porta accanto. L’arma con la quale hanno maggiore dimestichezza è la
ritorsione, ma non disdegnano l’eliminazione anche fisica del supposto nemico.
Poi
vi sono i politici che creano speranze e illusioni, annunciando, come il
ragazzo di “Aspettando Godot”, un domani radioso con il PIL che navigherà a
gonfie vele, con milioni di nuovi posti di lavoro che nascono come funghi alle
prime piogge autunnali. Costoro sono anche dei maestri del “passa parola”, del
tam-tam perché trovano sempre persone in ogni ambito disposte ad amplificare
quel poco che fanno e a giustificare le “promesse da marinai” o i fallimenti
Insomma
per dirla alla Novalis (pseudonimo di Friedrich von Hardenberg) “ Quando si
vede un gigante si ponga mente anzitutto alla posizione del sole e si badi che
non sia l’ombra di un pigmeo”.
Molti
dei nostri politici oggi sono dei pigmei per statura morale e per capacità professionali.
Sono persone ambiziose quanto modeste, abituate agli inciuci, agli intrallazzi, alle
ruberie, ma che per uno strano capriccio del sole appaiono giganti È avvilente il confronto fra i politici e gli
amministratori di oggi e quelli del passato. Molti politici contemporanei sono
ignoranti. Sanno poco di politica e quasi niente di arte, letteratura,
geografia, storia, filosofia. Si esprimono per lo più con slogan e incappano
facilmente nell’errore, perché usano molto la lingua e poco il cervello. Non si sente più un discorso profondo, ricco,
compiuto, ma solo promesse e intrighi di parole, dietro le quali si nasconde
l’inganno. Ho visionato un video nel quale si vedeva il Presidente del
Consiglio conversare nell’idioma di Shakespeare, una cosa da far rabbrividire
persino un principiante della lingua inglese, tanta era l’improvvisazione e la
pochezza. Eppure non c’è discorso,
dichiarazione, progetto, riforma dove Renzi non usi un termine anglosassone di
cui, dopo quel video, dubito conosca il significato. Ma lui si sa è un
autentico Gianburrasca e lo fa non per farsi capire ma, come nella migliore
tradizione degli azzeccagarbugli, per confondere e stupire.
***
Il maggiolone
Cataldo Russo |
«Questa sì che era una macchina! Che
carrozzeria…! Nulla a che fare con le
macchine di adesso, le cui carrozzerie sembrano
sfogliatelle, lingue di gatto, ostie,
tanto le lamiere sono sottili e fragili. In molti casi non sono fatte nemmeno
di lamiera, ma di plastica. Questa la potevi prendere anche a calci. Ti rompevi
i piedi, ma lei niente» mi dice un tipo sui cinquant’anni, mentre cerca di
addentarla su un parafango per saggiarne la durezza. Accenno un sorriso, mentre
l’altro sputa il dente che si è appena scardinato. Aspetta qualche attimo per
riprendersi, si pulisce la bocca con la
manica della camicia, poi mi chiede, come se fosse a una fiera di bestiame: «Quanti
anni ha la macchina?»
«Quarantuno»
rispondo.
«Quarantuno…Ne
sono passati di anni, eh!»
«Quarantuno,
appunto» rispondo un po’ ironico.
«È
già d’epoca, quindi? »
«Sì,
l’ho iscritta al registro delle macchine d’epoca qualche anno fa». Mi stava
venendo spontaneo dire “Al registro degli indagati”.
«A
posto con i certificati?»
«Sì,
nascita, battesimo, cr…»
«Battesimo!?»
«Mi
scusi, foglio di immatricolazione, tagliandi, revisioni… volevo dire, signore».
«E
il bollo!?»
«Per
adesso è esente dal pagamento di questa tassa»
«Non
lo sapevo. Quindi, vuol dire che le
macchine d’epoca non pagano il bollo?»
«Esatto».
«Quasi
quasi me ne compero una solo per il piacere di non pagare il bollo. Stato
ladrone!»
«Fantastica
l’idea di comperarne una solo per non pagare il bollo allo stato ladrone» gli
rispondo.
«Può
ben dirla. Pensi, ne ho avuta una anch’io tanto tempo fa. Ricordo che ho fatto
su è giù Milano-Catanzaro una decina di volte in due anni». Dal timbro nasale
avevo capito che si trattava di uno del catanzarese.
«E
poi?»
«L’ho
dovuta rottamare. Gli incentivi sull’acquisto di una macchina nuova, sa? Pensi
che me l’hanno valutata 4 milioni delle vecchie lire e aveva il motore
completamente fuso». Sto per fargli notare che il rovescio della generosa valutazione è dovuto
all’aumento del prezzo di listino della macchina nuova, ma mi pento
Si
concede una breve pausa, poi mi dice: «Le voglio raccontare un fatto»
«Prego».
«In
Germania, tanti anni fa, un tedesco, che ogni tanto mi faceva fare qualche
lavoretto nel giardino, mi ha chiesto di demolire un muro».
«Non
ci vedo niente di strano. Suppongo che l’abbia pagato».
«Certo
che mi ha pagato. I tedeschi sono di parola»
«Buon
per lei».
«E
no, deve stare ad ascoltarmi».
«Bene,
sono tutto orecchie?»
«Come
pensa, lei, che abbia demolito il muro?»
«Questo
me lo deve dire lei».
«Con
lo scalpello e la mazzetta…?»
«Suppongo
di sì».
«E
invece si sbaglia. Con il paraurti. Tutto con il paraurti del mio maggiolone, una
vola di muso e una vola di culo, una volta di culo e un’altra di muso, finché il muro non si è sbriciolato ed è
caduto a terra».
«Geniale».
«Può
ben dirlo». Finì, con sommo piacere da parte mia, di dare nocche sul cofano per
confermare la robustezza della lamiera, poi disse: «Le voglio dire un’altra
cosa».
«Un
altro muro?»
«No,
una gara»
«Una
gara?!»
«Sì,
e che gara! Pensi che eravamo in sei».
«Una
mezza dozzina, insomma».
«Cosa
ha detto?»
«Che
eravate in sei».
«Io
ho sentito un’altra cosa, sa!»
«Le
giuro che ho detto sei». Pauso un po’,
poi chiedo: «E in che cosa consisteva questa gara?»
«Ognuno
di noi aveva una macchina differente, di marca intendo».
«Bene».
«Dovevamo
strappare un pezzo della carrozzeria della nostra macchina con i denti. Vinceva
chi…»
«Chi
perdeva più denti?»
«La
smetta di fare lo spiritoso e mi stia ad ascoltare. Vinceva chi, nonostante gli
sforzi non riusciva a strappare nemmeno un centimetro di lamiera»
«Gara
veramente geniale, non c’è che dire!»
«Può
ben dirlo. E vuole sapere chi ha vinto la scommessa, nonostante i 15 denti
caduti?»
«Certo,
muoio dalla voglia di…»
«Il
sottoscritto. Per quanti tentativi avessi fatto non sono riuscito a strappare
un solo pezzetto di carrozzeria, perché questa è una macchina che sembra tale,
ma è un carrarmato». Dopo avermi rivelato questo segreto mi dice: «Se un giorno
volesse venderla, io…»
«La
terrò presente, ma solo quando nella sua bocca non sarà rimasto più un dente.
Sa io sono per la protezione delle carrozzerie».
Cataldo Russo
GIORGIO
COLOMBO
BIO-GRAFIE
Servono le biografie
di un artista, pittore, scrittore, musicista, per capire meglio la sua opera?
Oppure no, non servono perché spostano l’attenzione sugli aspetti bizzarri del
comportamento, sul pettegolezzo, i difetti, le debolezze, le scelte sbagliate,
riscattate, al contrario, con l’impegno esclusivo nella propria vocazione
artistica, unico elemento di prova sulla qualità dell’opera. Attardarsi sulla
biografia sarebbe una dannosa distrazione dal compito critico vero e proprio.
“Ci fu un tempo in cui chi scrive (Sergio
Solmi, anni ’70), usava mettersi in
guardia contro la confusione della vita con l’arte, stimando utile
disciplina critica il distinguere recisamente le due cose…. persuasi che solo
l’opera, e non fuori di essa, possa reperirsi una traccia del mistero
insondabile della vita.”
Solmi
sta scrivendo di un autore, Alfred Jarry (1873-1907), per il quale privato e
pubblico “fecero tutt’uno, dappoiché egli si identificò con la propria
maschera”, il grottesco “Ubu Roi”.
Casomai
è nei suoi personaggi caricati e stravolti che si riconoscono significativi
squarci autobiografici. E’ l’opera che illumina la vita, non viceversa.
Non
intendo certo discutere su Jarry, ma piuttosto riflettere sul termine ambiguo
della “bio-grafia”, “scrivere la vita”, scrivere di una vita, perché se lo scrivere
è un’attività ben riconoscibile, con le sue regole e i suoi principi, una
lingua, molto più complicato è convenire
cosa s’intenda per ‘vita’, un complesso integrato di…., un insieme mobile di…, e i
puntini possono essere riempiti da una serie indefinita di elementi (percezioni, sogni, visioni, emozioni, sentimenti,
respiri, battiti, appetiti ecc. ecc.),
concentrati in un punto, il soggetto e
nell’ambiente nel quale il soggetto interagisce.
Due
attività, scrivere e vivere, disomogenee, ma in qualche modo, sempre congiunte.
Mi
fermo qui, trascurando l’enormità di studi che sono stati fatti su questo
argomento, perché vorrei dire, per cominciare, che ogni opera artistica possiede
una compattezza, un’unità relativa, monca; piuttosto parlerei di varietà nella
sua definizione interna, la sua forma, e
nei suoi rapporti esterni, scuole, modelli, programmi, pubblico. E poi un rapporto
problematico anche con il suo autore, dall’affermazione di Verlaine: “L’art,
mes amis, c’est d’être absolument soi-même”, all’opera pura, il poeta scomparso,
di Mallarmé. Come configurare il ‘se stesso’ dell’uno e la ‘parola’ assoluta
dell’altro? Tutto nell’io- autore o invece tutto nella forma dell’opera?
Naturalmente
invocare la totalità è sempre sbagliato.
Ogni
biografia fornisce degli elementi, delle notizie sull’autore che possono essere
bene o male utilizzate, come qualsiasi elemento stilistico dell’opera. Ma
aggiungerei che, tra gli elementi utili, vorrei sottolineare l’importanza di quelli
che sfuggono ad ogni grammatica, ad ogni discorso piano e conclusivo, ad ogni
già visto, già sentito. C’è sempre una zona d’ombra sfuggente che accompagna
parole, forme, suoni, una tonalità, una spinta o una frenata che pure si mescola
a quelle parole e forme e suoni. Ecco, nelle biografie io cercherei, con
l’aiuto della psicologia, quei toni, quelle spinte, quei nascondimenti, quegli a(e)ffetti che circondano di ‘senso’ il significato, o,
in altri termini, che danno senso al
significato di ogni opera, di ogni discorso.
Lo
sforzo di trasposizione, dall’informe al linguaggio. L’ombra che ci accompagna.
Quindi
nessuna opera ha in sé tutta la sua significazione e nessuna biografia ha in sé
il segreto dell’opera. Il che non vuol dire escludere la illuminazione che
l’una può dare sull’altra. Entrambi le parti forniscono un reciproco aiuto,
chiedono una appropriata collaborazione. E’ nel trasferimento dall’una
(l’esperienza vissuta) all’altra
(l’opera), e viceversa che, a mio parere, occorre esercitarsi.
In tempi, tra Otto e Novecento, nei quali si
andavano confermando mondi contrapposti, solide unità, patrie conclamate e
nemiche, l’artista si trova ancora una volta spiazzato. Prima, alcuni decenni
prima, spiazzato di fronte alla macchina, al prodotto standard, per tutti, il contrario della manualità, dell’opera individuale. Spiazzato e
inutile. Ora, di fronte alla conformità del gruppo, alla sua richiesta
insistente di appartenenza, dentro quei confini sicuri che stabiliscono, con un
taglio netto, le figure del compagno e del nemico. Può l’artista abdicare
all’opera, al gesto di individuazione? Può l’artista indossare felicemente una
divisa? Può essere con e contro con tanta sicurezza?
E’ questo il prezzo per essere ‘moderno’? per
stare dentro la realtà? che vorrebbe dire dentro confini immobili? E’ questo
l’unico modo per appartenere ad una comunità, ad una storia comune?
De Chirico |
Le risposte furono, ovviamente, varie,
relative ai macro e micro-contesti di ciascuno. Prendo il caso dei due fratelli
de Chirico che, pur difendendo strenuamente la propria singolarità, elaborano,
altrettanto strenuamente, le forme dell’appartenenza, non nello stare,
nell’appartenere fisicamente a una terra, ma nella costruzione simbolica della
patria, o ‘matria’, la terra dell’immaginario. I loro spostamenti, insieme alla
madre, dalla Grecia all’’Italia, dall’Italia alla Germania, i loro andirivieni
dall’Italia a Parigi li rendono viandanti inquieti, stranieri sempre. Isolare
l’opera di un fratello dall’altro, Giorgio e Alberto - non per nulla chiamati
“Dioscuri” -, come due strade separate, è un errore, così come ignorare la parte
della madre in questo piccolo gruppo, almeno sino alla morte di lei nel 1937.
Il nucleo parentale e il ‘luogo’ costituiscono non solo un vincolo affettivo
permanente, ma anche un sottofondo che accompagna e accende l’immaginazione dei
due fratelli. Vorrei anche insistere
sulla parte di Alberto, forse penalizzata dagli storici perché divisa in una
molteplice attività di scrittore, di musicista e di pittore. La sua morte nel
1952 chiude il sodalizio.
La pluralità delle scelte insieme alla forte
identità familiare e personale, il legame con l’infanzia mescolata a una
mitologia della grecità e delle origini, contribuisce alla formazione di una
patria simbolica, ben più forte di qualsiasi patria reale. Di qui il desiderio
di una ‘casa’ nella quale trovare quiete,
in conflitto con il senso ricorrente di estraneità, di esilio che accompagna il
vagabondare dei due fratelli. All’ironia beffarda di Alberto si unisce la
reazione sempre indispettita di Giorgio, che appesantirà il suo lamento col
passare degli anni. Una sofferta e necessaria distanza, dalla separazione
originaria (dalla madre, dall’infanzia) al ricongiungimento immaginario, dalla
perdita dell’innocenza alla promessa utopica della felicità: carattere, forse,
non solo del loro lavoro, ma di una parte significativa dell’arte del Novecento.
Lidia Sella |
LETTERA AD ALESSANDRO
a
mio nipote Alessandro, per il suo dodicesimo compleanno
“Panta
rei”, “tutto scorre”…
così si espresse Eraclito -
filosofo greco vissuto a cavallo fra VI e V secolo a.C. - riflettendo sulla
natura effimera e inafferrabile del tempo. Infatti, mio adorato Alessandro, mai
potrai immergerti una seconda volta nello stesso fiume: quell’acqua
non sarebbe più la stessa e nemmeno tu. Poiché
tutto muta, si trasforma. E ci sfugge. È
la legge inesorabile del cosmo. Ogni attimo è
unico, irripetibile, dunque preziosissimo.
Questa dozzina d’anni ha prodotto in te una
prodigiosa metamorfosi: l’aspetto, i modi, lo sguardo,
un mondo interiore via via più ricco di emozioni, sfumature,
contrasti, e i soliti turbamenti di chi si affaccia titubante alla vita. Noi,
che ti precediamo di qualche passo soltanto sul misterioso tapis roulant dell’eternità,
osserviamo affascinati il tuo universo in continua espansione: solo ieri tenero
bimbo, oggi già piccolo uomo.
Se moltiplichi per quattro i tuoi anni, ottieni la mia età
di adesso, quarantotto. E quando ti avvicinerai al traguardo del mezzo
secolo, presumo sarò morta da un pezzo…
oppure avrò la mente ottenebrata dalla
vecchiaia. Se fra tre dozzine d’anni, cioè
nel 2044, noi due potremo viceversa conversare ancora amabilmente,
magari mi confiderai quante difficoltà avrai trovato nel dare un
significato alla tua esistenza…
Al termine di questa vita non ce ne offrono un’altra
in omaggio. Da giovani il tempo pare infinito. E si tende a sprecarlo. Senza
rendersi conto di quanto sia importante - in ogni ambito - imboccare la strada giusta sin dall’inizio.
La dozzina d’anni dai dodici ai ventiquattro sarà
quella che imprimerà al tuo futuro una prima spinta
in una direzione piuttosto che in un’altra. Cerca quindi di
ponderare con cura le tue scelte. Per te saranno anni decisivi: passeranno in
fretta, non torneranno più e, una volta vissuti, non
potrai modificarli. Goditeli, perciò, e divertiti. Ma spendili
bene. Con intelligenza, saggiamente. I bei ricordi sono l’unico
paradiso dal quale nessuno ti potrà cacciare. (Jean Cau)
Accontentati di
quel che hai, puntando a migliorare ciò che sei.
Riconosci e
asseconda le tue inclinazioni più autentiche.
Credi in te e nella
tua volontà,
sii fabbro del tuo destino. (Seneca)
Ascolta la tua
coscienza. Quasi sempre saprà indicarti
che cosa è buono e giusto.
Rammenta che i tuoi
ideali sono come le stelle per gli antichi naviganti. Dante ci ha avvisati: “Fatti non foste per
viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.”
Evita
di cadere nel gorgo del consumismo, non esser schiavo del denaro. Le mete
intellettuali, spirituali o professionali apportano soddisfazioni di gran lunga
superiori. Lo studio e la conoscenza, affinando il tuo spirito critico e la
capacità di
ragionare in modo autonomo, ti renderanno un uomo libero.
Onora
la famiglia e considera che l’esperienza di
chi ti vuol bene potrà illuminare il
tuo cammino. Mettiti nei panni di chi è solo, anziano, malato, infelice, e ti
verrà più
naturale nutrire per lui comprensione e rispetto (in questo caso gli antichi
avrebbero utilizzato il termine “pìetas”.)
“Io
ho quel che ho donato”. Il poeta
Gabriele D’Annunzio
ne era convinto. Un insegnamento valido anche sul fronte dei sentimenti. Un po’ di
prudenza però non guasta. Domandati se chi ti sta di fronte è persona di cui
fidarti. Rifuggi da chi è avido, falso, invidioso, prepotente, presuntuoso.
Guardati dall’ignoranza,
dalla stupidità,
dal vizio.
Sforzati
d’esser
generoso con gli altri. E severo con te stesso. Senza tuttavia esagerare. “In
medio stat virtus”, “La virtù sta nel mezzo”.
(Aristotele)
Non
permettere agli affanni di minare la tua serenità,
condizionando oltremodo i tuoi umori. Attribuisci ai problemi che ti angustiano
il loro giusto peso. Perché prima o poi tutto passa.
Quasi
sempre esiste una soluzione, un rimedio, un diversivo. Di fronte alla tragedia,
invece, risollevati e prosegui il cammino, perché soffrire fa parte della vita.
(Leopardi)
Nei
rapporti interpersonali non aspettarti nulla, almeno non resterai deluso. Se al
contrario qualcosa di positivo arriverà lo stesso, tanto
meglio.
Nell’amicizia,
come in amore, se puoi coltiva affetti sinceri. L’essere
umano è una sorta di universo infinito. Conoscere se stessi è un’impresa.
Ancor più complicato entrare in sintonia coi nostri simili. Se aggiungi
barriere di maschere, finzioni e corazze, il rischio che corri è di costruire
un labirinto. Non tenere celato il tuo pensiero, e le tue emozioni, se vuoi che
gli altri possano capirti.
“Mens
sana in corpore sano”. “Mente sana in corpo sano”. È un’altra massima
latina. Se da un lato eserciti i muscoli con lo sport, dall’altro
addestra il cervello con letture intelligenti. Prenditi cura della tua salute,
fra tutte la fortuna più grande. Però non scordarti
che il nostro organismo e la razionalità di cui siamo
provvisti rappresentano un mezzo, non un fine.
Le
tue passioni e i tuoi interessi rafforzeranno le radici che ti legano alla
vita. Ma soprattutto mira a diventare ciò che sei veramente. Perché un giorno
tu non debba fare i conti coi rimpianti.
Con
impareggiabile arguzia Oscar Wilde ha suggerito che: “Solo i superficiali non giudicano dalle
apparenze.” Eppure spesso l’apparenza inganna. La verità presenta
mille facce. Al punto che talvolta ti capiterà di
concludere che tutto sia vero, come pure che sia vero il contrario di tutto. La
realtà è ingannevole, assai più complessa di quanto non sembri, simile a un gioco
di immagini che si specchiano all’infinito. Ecco
perché solo gli sciocchi non hanno mai dubbi.
Quasi
in ogni campo del sapere, a mano a mano che scendi in profondità,
le certezze svaniscono o si fanno più confuse e sfumate. Quando comunque avrai
forgiato le tue personali convinzioni, allora ti accorgerai che sarà come
possedere utili bussole per muoverti nella selva della vita. Non illuderti d’altronde
che il tuo sistema di valori rimanga immutato. Col suo andamento imprevedibile
e capriccioso, tante volte è la vita stessa - un decennio dopo l’altro
- a stravolgere molte delle nostre idee originarie.
Su
questioni ideologiche, storiche, sociali o lavorative cerca di formarti un
pensiero solido, documentato, obiettivo. Se discuterai con qualcuno, pensa a
lungo prima di parlare, esponi le tue opinioni in modo chiaro, logico,
misurato, senza offendere o ferire il tuo interlocutore. Risulterai più convincente
e, oltretutto, non passerai dalla parte del torto.
Durante
il viaggio, dispiaceri e delusioni purtroppo non mancheranno. Tu non lasciarti
abbattere, tesoro, considerali semplici ostacoli lungo il percorso, prove del
fuoco verso una dimensione di maggior equilibrio e maturità,
stratagemmi escogitati dal destino per indurti a sprigionare il massimo del tuo
potenziale di umanità.
Aggrappati
all’ironia
di cui sei dotato, è un’efficace ancora di salvezza.
I
tuoi sorrisi sono splendidi: radiosi e dolcissimi. Non lesinarli.
Vivi
ogni minuto come fosse l’ultimo. Con
entusiasmo, intensità, leggerezza. E gratitudine.
Marguerite
Yourcenar, letterata belga, ha scritto: “Non perder di vista il grafico di
un’esistenza umana, che non si compone mai, checché se
ne dica, d’una orizzontale e due perpendicolari, ma piuttosto
di tre linee sinuose, prolungate all’infinito,
ravvicinate e divergenti senza posa: che corrispondono a ciò che un uomo ha
creduto di essere, a ciò che ha voluto essere, a ciò che è stato.” Adoro questa
frase, vi è racchiusa l’essenza stessa
della vita. Da adulto forse l’apprezzerai anche
tu…
Crescendo
scoprirai che la gioia è qualcosa che deve partire da te stesso: è un’impronta
che si vuol dare alla propria vita e non è mai disgiunta da un forte sentire, e
quindi soffrire. Non confonderla con le esigenze sentimentali: questa è solo
una componente, e spesso ambigua. E neppure con la spensieratezza o con l’appagamento.
Gioia è saper e poter vibrare di fronte a ogni situazione o sollecitazione
della vita in modo da non fermarsi a piangere su se stessi, aprendosi anzi a
cogliere la bellezza, la poesia, il desiderio, l’indicibile.
Sacro
è l’amore
che provo per te, Alessandro, non solo in quanto sangue, carne e anima di Paolo
-che era tuo padre e mio fratello - ma perché tu sei per me quel figlio che la
sorte mi ha negato.
L’orologio
da tavolo che ti ho regalato non è che un simbolo. Per ricordarti che quando
avrai bisogno di aiuto, e di consigli… io ci sarò, in ogni momento.
CESARE VERGATI
Cesare Vergati |
IL RE DI SPEZIE
La vecchissima
Signora tanto stanca la vita sua lunghissima certo gli anni attuali novantanove
– si racconta ancora ancora si racconta sua turbolenta esistenza tale
irrequieta se girovaga mai paga sapeva eccessi di gusto e maniere – tuttora
appena il chino capo frugava attentissima – lo spettacolo teso un dramma a
teatro il prossimo tragico epilogo la piena allora catarsi la passione –
scrutava davvero tale singolare tenzone il basilico ed il basilisco,
meraviglioso duello l’erba regia ed il reuccio, per cui osservava la erbacea
pianta i raccolti suoi bianchi fiori in spighe e foglie quale aroma il
condimento al mondo mediterraneo dappertutto per cui osservava – il lieve
sorriso indulgente benevolo di colei che viaggia certamente verso il nulla e
niente più turba, il rettile grosso il continente d’America in centro ed a sud
comunque innocuo la strana coda e lunghissima la eccentrica per di più cresta
la forma a corona sul capo e per di più cresta a corona sul dorso – il genere a
mito la salamandra anfibio al corpo allungato – quale tuttavia leggendario
animale il quale il fisso sguardo – il simile il bracco che accanito ostinato
non perde d’occhio la volpe a tana – intende far diventare vizza la erbacea
pianta la forza degli occhi far perdere
turgore e freschezza insomma esser causa d‘appassimento – l’esempio umano la
donna il volto che secca l’inaridimento il bel viso d’un tempo remoto –
determinato vertebrato che striscia sul terreno il rettile giocatore e
birichino che sa il potere la morte e la vita quindi immobile – la posa a
rigore di statua ferma stabile pur ad intemperie sebbene si elevi e vento
freddo tuttora – il rettile che ama e clima caldo forse temperato, lo sguardo
si narra mortale, nel mentre che il basilisco poco si piega a momentanea
raffica di pioggia improvvisa eppur solo a modesta violenza – se il basilico
sorpreso qualche poco trasecola l’increscioso passeggero evento odierno fa
nondimeno grande resistenza fosse il tutto un nulla di fatto – e pervicace mai stacca
il mortifero sguardo dalla debole si dice pianta – re dei condimenti che
combatte la presunzione il reuccio – il grande re contro il piccolo re ancora
per tempo sembra non oltre la metà del giorno – quando abitualmente il sole
assurge ad apologia tutti gli uomini dopo la gela stagione - , se la vecchiarda
il tempo lentamente passando verso andando la presta morte sul luogo presente
effimera dimora, divertita gli allegri occhi – la madre che in sentimento di
tenerezza soverchia illanguidisce il bimbo che sta su due piedi la prima volta
di tutte – fruga ancora ancora rovista inosservata la gentile lotta tra
vegetale ed animale tra re e reuccio e non demorde poiché sa l’epilogo – la
ribalta che mostra la decapitata testa il nobile straziato finora a tortura per
trionfo il monarca spietato implacabile la ragione la corona alle tante
preziose pietre agli splendidi diamanti la bellezza i loro riflessi alla luce
prepotente naturale il giardino ampio vasto della corte ormai vuoto i
cortigiani – e a concetto crede innocente la diatriba tra piccole cose. Finché
esausto – prematuramente – il basilisco ad impulso – l’impeto irresistibile lo
spasimante a possedere l’amante che si lascia desiderare in tutto e per tutto –
famelica sua storia d’un colpo morde un piccolo tratto la vellutata pelle il
basilico, se la belva strappa il terribile morso il fianco esposto il ruminante
mammifero selvatico cervo alle tanti carni a soddisfare la fame il leone ad
esempio – ed avidamente mastica frettolosamente – la furia e l’idea di correre
al prossimo boccone – pare come interminabile masticamento – fosse la cruda
indigesta carne il cinghiale – se davvero l’animale non riesce – il portare a
termine, il triturare lo schiacciare appena il pezzetto il vegetale – fosse
natura di veleno – natura di rabbia – così che la bocca il rettile sempre più
inutilmente biascica a creare immonda bava insulsa abbondante salivazione – lo
sdentato senile uomo che mangia di mala voglia – ed il basilico in dolore –
quando il guerriero si trova il braccio membro staccato su suolo di battaglia
la mano ancora impugna l’arma anodina la qualità la lancia spezzata il
cavernicolo l’orso mostruoso contro – che leggermente – in questo grande sole –
piega il corpo suo come l’intento la difesa e la cura l’arto vituperato e
silente attende il destino nel mentre che il rettile incapace l’alimento il
ridicolo pasto rimette il luogo presente su terreno appena umido – il disgusto
la moglie che rimbrotta il coniuge ubriaco fradicio al vomito su sua sensuale
rossa camicetta estiva il maschio al tentativo risibile dare virile godimento
alla femmina pronta e sola all’amplesso – e piega a sua volta il ventre offeso
lo sguardo finalmente stravolto gli occhi pianti – quale il riflesso loro al
pungente fumo il grande incendio il fuoco invadente e spavaldo la natura del
più forte – mostra e convulsioni mostra e contorsioni il giusto malessere se
veleno se avariato cibo se alimento lungamente alterato e così il basilico
storpio sofferente tuttora testimone la mala sorte il rettile malato, alza il
capo – lo sforzo sovrumano lo zoppo colpito in fronte che giace nella polvere
impotente – guarda fissamente il basilisco gli occhi fermi su quello strano
corpo le due creste, la cresta il capo la cresta il dorso e poi infine gli
occhi dell’animale umiliato il quale la bava tuttavia a bocca schifosa
attualmente come guarisce d’immediato – la insolita cura l’estro l’originale
taumaturgo – guarda il senso pieno del saluto d’alto in basso lo sguardo del
vegetale il quale guarda il senso pieno del saluto dal basso in alto lo sguardo
dell’animale e sembra alla vecchia Signora – che stramazza il breve tempo morta
su suolo terrestre – d’avvertire insomma nel basilico un certo sorriso di
malizia e nel basilisco un certo sorriso di malizia, chissà la forma i
complici.
In primo piano l'attrice Valentina Cortese alle spalle Cesare Vergati e suoi amici |
Canzone del niño triste dell’Amazzonia
Niño scalzo, dal
viso sporco, giochi a schizzare i compagni
con il liquido
puzzolente, viscido, nero, della pozza
che si estende
ogni giorno di più nel campo di mais.
La tua sorellina
è da poco morta per infezione polmonare.
Ecco tua madre,
torna dal podere coltivato a verdure,
in una cesta
porta la crocchia di banane annerite,
il pasto di
stasera, non c’è niente altro.
Non dovresti
mangiare quelle banane bacate, ma hai fame.
Come sarebbero
buone quattro zucchine bollite,
fino a due anni
fa la sera a tavola c’erano tante cose buone.
Sono arrivati i
manager per costruire l’oleodotto.
Il grosso e
lungo tubo corre a vista, velenoso serpente,
cinquecento
chilometri oltre le montagne fino al mare.
Qui nell’Amazzonia
equatoriale disboscata e trivellata,
corrono ora
mille ruscelli di acqua nera aspirata dalla terra.
E pulsa il
motore selvaggio della più grande raffineria:
sbuffi bollenti
in aria e fiamme azzurrine alte trenta
metri.
Tutto ricade su
questa tua regione, niño triste e scheletrito,
pioggia
vendicativa del giacimento d’oro nero violato.
Coalizione di
multinazionali, sfruttamento intensivo.
A te e ai tuoi
amici, vi cola ancora il naso, hanno regalato
un colorato
pallone da football, magliette e due porte a rete.
Quante
divertenti partite potrete fare!
Ministri e
funzionari sono stati uniti dal petrolio.
Soldi e soldi, business,
guardie del corpo, grandi sorrisi.
Comandano i
potenti specialisti ricchi, adiposi, arroganti.
I loro figli
sono a Boston. Vestono pantaloni di cotone bianco.
Studiano?
Sicuramente giocano a baseball, bevono cocacola,
che piace anche
a te ma tua madre non può comprarla.
Le mogli fanno
shopping in via Veneto a Roma
o più spesso
nella Fifth Avenue a New York e vanno
anche a pregare
nella Cattedrale di Saint Patrick.
Oggetto di
scambio una semplice concessione di scavo
ed estrazione
dell’oleosa nera fangosità da depurare.
Per i cittadini
nessuna sicurezza ed espropri senza indennizzi.
Sono morti già
trecento uomini, donne e bambini.
Registrati negli
ospedali mille infetti in cinque anni.
Terreni
bruciati, banani rinsecchiti. Inarrestabile distruzione.
Gli indios hanno
trovato il coraggio di un avvocato.
Organizza una
marcia di protesta dalla foresta alla Capitale.
Il Presidente li
riceve tutti nel salone d’onore,
ha promesso
controlli, sanzioni, redistribuzione degli utili.
Accanto a lui un
supermanager americano dal volto doberman
esprime con le ciglia i sì e i no alle parole dette.
Gli indios sono
tornati delusi sul bordo del grande fiume.
Sanno che molti
di loro moriranno presto.
Rifiutano ormai
ogni contatto con chi viene da lontano.
L’avvocato li
invita a votare per lui nelle prossime elezioni.
Ce la farà a
portare in Parlamento il ricordo dei morti?
Riuscirà a proclamare
davanti all’alto consesso di deputati
che gli indios
non vogliono più ingegneri né altre lingue?
Niño triste
dagli occhi dolci, non vai più alla scuola pubblica.
Quindici
chilometri al giorno a piedi erano troppi.
Con lo stomaco
quasi vuoto non si comprende e spesso si sviene.
Tuo padre, indio
di forza e di mente, ha capito cosa fare:
ha costruito in
laguna una capanna e dà lezioni di cittadinanza.
Siete ora tutti
lì, niños, ascoltate parole antiche di fierezza e onestà.
Nessuno di voi
si sente protetto però dalle guardie con i fucili
che notte e
giorno girano attorno ai villaggi tra gli alberi.
Niño triste che
vedi tua madre sfiorire ogni mattina,
hai giurato
dentro i tuoi occhi di combattere come tuo padre,
e quando
diventerai adulto riparare la foresta defraudata.
Ancora non hai
confidato ad alcuno questo pensiero,
neppure a tua
madre che pesta con poca forza il poco mais.
Ne parlerai nel
giorno giusto con i tuoi amici diventati grandi.
Ora stai
imparando a soffrire. Ora stai imparando a sperare.
*Viaggio
nella foresta Amazzonica ecuadoriana disboscata e inquinata dai pozzi di
petrolio
e dall’oleodotto.
Milano
2009/2014
***
Via della dignità
L’aria impregnata di venenici umori,
provenienti dal disfacimento dei corpi,
sporcata da violatori di norme e doveri,
si sostituisce lenta e gelida
all’allegria
del cielo azzurro e festoso per il
ritorno.
Si respira troppo male l’odore
fuorilegge.
Si sussurra l’impotenza degli eventi.
I cittadini sono esclusi dal comando.
I demiurghi del denaro non lasciano
spazio a menti libere e sguardi limpidi
rivolti all’ orizzonte del bene.
Onesti e sognatori, siete estranei
a terre inaridite da sete di sangue.
Mio mondo dorato, violentato da mostri
che desertificano le coscienze pulite,
quando potrai sottrarti ai soprusi?
Cosa ti serve per rispondere al buio?
Venite tutti ad ascoltare le denunce
che oggi faremo nella piazza della vita,
lasciate la rassegnazione e venite.
Marciate insieme, con la mente e il
cuore,
unitevi e urlate i diritti umiliati.
Alzate quel capo troppo a lungo chinato.
Insieme, insieme si potrà cambiare ogni
cosa
e affrancare la dignità percossa.
Non è più tempo di eroi silenziosi.
Meglio oggi un trambusto di desideri.
Alzatevi tutti, miei fratelli di dolore,
camminate orgogliosi di essere
marginali,
convinti che il male alla fine non
vincerà.
GIUSEPPE DENTI
Giuseppe Denti |
Fuori dai denti
***
L’uomo del ventiduesimo secolo
è sicuramente
della specie “imbecillibus”
che ha fra le tante caratteristiche,
(oltre a quella del facile manipolamento
e della plasmabilità)
assomma anche quella della cretinità.
E la dimostrazione di questa
nuova attribuzione
-non meno grave delle altre-
consiste nell’acquisto di vestiti strappati volontariamente,
di calze da donna appositamente rotte
e tant’altro:
si è fatto tatuare il proprio corpo,
senza minimamente preoccuparsi
delle conseguenze (possibili cancellazioni)
che gli inchiostri e gli attrezzi usati
non disinfettati causano: malattie/morti e depressioni,
con immagini osé,
con frasi d’amore e di odio,
con racconti di vario tipo
illustrati fumettisticamente o realisticamente,
con date di nascita o di ricordi
e segni indecifrabili o illeggibili.
Alcuni per distinguersi,
si sono fatti tatuare anche le parti intime.
E pensare che c’è gente
che involontariamente è stata tatuata dalla natura
e che farebbe di tutto per togliersi i segni
di quell'oppressione.
***
Elogio del pane e
dell’acqua
Si può vivere di solo pane
Si può vivere di solo pane?
potrebbe sembrare
il titolo di una canzone,
invece non lo è!
E non è solo una domanda retorica,
poiché prima a poi
dovremo per forza
accettare l'imposizione,
da una crisi che ci coinvolge sempre più.
Io credo di sì.
Per vivere,
però abbiamo bisogno anche di un altro elemento
che è l’acqua, ma non santa,
anche se in effetti lo è
perché ci permette di vivere,
essendo noi fatti di essa.
Questo connubio
ha consentito e consente
ai carcerati (pane e acqua),
pasto ancora vigente in certe carceri
e ai deportati o prigionieri di tutte le guerre
di sopravvivere.
Il pane è un alimento duttile
che si presta e si è prestato
alla trasmutazione:
dal pezzetto in porzione
e dal duro al molle.
Un uomo lo ha dimostrato
sfamando cinquemila bocche
con cinque pani
e avanzandone anche alcune ceste
per altri affamati.
Quest’uomo oggi ci servirebbe,
visto il numero sempre più crescente dei bisognosi.
Alcuni, non potendolo comperare,
sono costretti a cercarlo
nei cestini dei rifiuti.
Pane nostrum, sii santificato
perché ci concedi la vita.
La realtà del sogno musicale
di Gabriele Scaramuzza
Una stimolante conversazione fra il
musicologo e filosofo Gabriele Scaramuzza
e la violoncellista Alice Cappagli dell’Orchestra
della Scala
In una sala da concerto, o a teatro, il nostro
punto di vista abituale è quello dello spettatore, in atteggiamento più o meno
“contemplativo”. Rarissimamente accade che qualcuno ascolti in modo più attivo,
con una partitura sotto gli occhi ad es.; nel caso di un’opera ci aiutano i
testi sul display. Il nostro atteggiamento è quello dell’ascoltatore davanti a
un lavoro già fatto; che non ha presenti la fatica del suo farsi, e i modi di
essere di chi lo esegue.
Per lo più valgono pregiudizi di stampo
neo-idealistico, che corrispondono alla situazione di chi, appunto, ascolta
soltanto un lavoro nei suoi esiti finali, per poi giudicarli “belli” o “brutti”.
E mette in secondo piano il contesto, le condizioni di lavoro, la preparazione
tecnica e culturale: la vita di un'orchestra in una parola, che ha prodotto
quel risultato. Correlativamente si costruisce un’idea più o meno “angelicata”
degli esecutori, li si identificano nei risultati che hanno raggiunto, e non
nella realtà del loro fare.
È importante invece rendersi conto del
lavoro, se si vuol capire l’insieme della realtà di un’opera d’arte.
Rifacendoci a uno Hegel per nulla “idealistico”: “Il risultato non è tutto ciò
che è effettivamente reale”: la realtà include anche il cammino in cui si
costruisce. Il risultato acquista tanto più evidenza e vita, lo si gode meglio,
se non lo si considera a sé, astratto, con una logica del “prescindere da”, che
è fuorviante non solo in ambito artistico. Hegel ci aiuta a capire la "materialità"
dell’impegno, i suoi rischi, le sue condizioni di possibilità, i suoi ritmi
ecc. - è un problema non da poco.
Da questo punto di vista abbiamo posto
alcune domande a una musicista di professione, Alice Cappagli. Fa parte dell’organico
dell’Orchestra della Scala come violoncellista; si
è laureata in Filosofia (Estetica) presso l’Università degli Studi di Milano e
ha pubblicato vari scritti di argomento filosofico-musicale.
Anche noi, noi
musicisti di professione, siamo stati spettatori e ascoltatori prima di
diventare col tempo parte integrante di un’opera o di un concerto. Quindi
sappiamo benissimo che, da una poltrona di platea o da un loggione, si ha una
tentazione forte di estraniare l’evento musicale da qualunque contesto che
l’abbia preceduto o che lo seguirà. Eppure, pur essendo stati spettatori
interessati al dettaglio e anche per così dire didatticamente indirizzati
all’ascolto critico, abbiamo fatto una grande fatica ad immaginare l’iter che
compie un’opera musicale prima di essere “servita” sul palcoscenico come un
piatto inimitabile.
Non c’è quindi
da stupirsi che per la Filosofia della musica o per l’ Estetica (illustri
Spettatrici) il problema dell’identità di tale opera o della sua esecuzione,
siano state o lo siano ancora, temi di indagine. Tuttavia, tengo a precisare per quanto mi riguarda, che nonostante
mi sia cimentata in tale approfondimento teorico dopo già molti anni di
professione, non mi ha, ahimè, portato ad alcuna soluzione. Pare cioè che la
speculazione e il suonare, lo sporcarsi le mani con la musica, siano due campi
non comunicanti.
Forse, volendo
continuare il paragone gastronomico, pare che il sommelier nulla intuisca della
crescita della vite, del colore degli acini, della giusta potatura, della
vendemmia, della grandine, delle botti etc.
Quindi, se
vogliamo dare ragione a Hegel e inglobare dunque il sudore nel risultato, lo si
farà solo perché Hegel aveva genialmente costruito un sistema onnicomprensivo
al riguardo. Però, se vogliamo dare delle indicazioni prosaiche su ciò che
accade, vedremo che sbriciolare un risultato temporale di questa fatta (quale
appunto è l’opera musicale) equivale a ritrovarci davanti una caterva di ore
piene di piccoli miracoli da perfezionare. E’ così anche se si guarda al
microscopio la perfezione di un’ala di farfalla.
I tipi di preparazione variano a seconda di ciò
che è in gioco; non è la stessa cosa preparare un concerto e un’opera, un
dramma musicale. Ma immagino vi sia un iter iniziale comune a livello musicale,
che riguarda entrambe i casi. Ma poi gli iter si diversificano non di poco.
Alice Cappagli |
Dunque
cercherò di spiegare in termini comprensibili e universali: tanto per
cominciare c’è una differenza enorme tra preparare un concerto e preparare
un’opera.
Il concerto
presenta due aspetti. Primo: si tratta solo dell’orchestra, quindi è
numericamente e tecnicamente controllabile dal direttore in modo estremamente
semplice e diretto. Secondo: è più gratificante, ma anche più impegnativo per
chi suona in quanto si sa che l’attenzione è interamente convogliata sul
discorso musicale. Aspetto poi non irrilevante è anche quello della durata,
perché il concerto al massimo dura un paio d’ore (tranne casi eccezionali).
La gran parte
dei problemi da affrontare è relativa all’ insieme, questo perché un’orchestra
di livello deve essere in grado di presentarsi alle prove già preparata dal
punto di vista individuale. Mi spiego: quella che chiamiamo “lettura” è
semplicemente l’esecuzione collettiva di una parte già visionata da ogni
sezione. E questo non perché violini, viole etc. si ritrovino a studiare
insieme la parte prima della prova, ma perché chi è stato scelto per suonare a
quel determinato livello deve sapere
quello che fa. Sia che non l’abbia studiato sia che l’abbia studiato. Tutti devono
essere in grado di eseguire da subito
la parte che hanno davanti, quindi organizzandosi in modo da non far perdere
tempo a nessuno dei convocati. E’ chiaro anche che in questo meccanismo è
compreso l’errore di stampa, l’equivoco, la distrazione, ma tutti questi
possibili incidenti fanno parte del momento collettivo. Il direttore
d’orchestra deve poter “usare” l’orchestra come fosse il suo strumento musicale
perciò l’orchestra deve essere estremamente duttile e soprattutto affidabile al
limite delle possibilità.
La prova in
genere si articola in due momenti variamente alternati dai direttori: uno di
lettura complessiva di un pezzo da cima fondo (che è il metodo più produttivo
adottato dai più grandi direttori guarda caso), l’altro è il momento “chirurgico”,
ossia quello in cui si ritagliano i punti più critici e si studiano con la
lente di ingrandimento. Con “lente di ingrandimento” intendo la
parcellizzazione estrema del brano fino al mezzo minuto reale di musica. I
problemi possono essere molti: quello ritmico per esempio, quello strettamente
tecnico derivato dalla velocità estrema richiesta (una cosa è suonare molte
piccole note in 4 altra è suonarle in 40 o in 50), un altro problema tecnico è
l’intonazione di insieme perché quando si è in molti va bandito il relativismo
e quindi ci deve essere una struttura sonora di riferimento che faccia da
ancoraggio. Tale lavoro non è semplice e difficilmente l’ascoltatore si può
accorgere del problema. Diciamo che è un tipico problema di cui tutti si possono accorgere se non viene
risolto. Un po’ come succede con l’aria: nessuno si accorge dell’aria finché
non sente che sta mancando l’ossigeno.
Puoi dirci qualcosa sul vostro rapporto coi
direttoti d’orchestra? Ci sono direttori con cui vi trovate bene, altri meno,
immagino. Ci sono proposte dio esecuzione che vi lasciano perplessi, anche se
la vostra professionalità vi impone di rispettarle.
Alice Coppagli in una foto inedita di Oliviero Toscani |
In fine la
prova, risolti i problemi tecnici, ha l’aspetto interpretativo da perfezionare.
Questo, tengo a precisarlo, è importante sia nel caso che sia condivisibile la
volontà del direttore, e sia che non lo sia affatto. L’orchestra come dicevo è
lo strumento, e lo strumento deve essere duttile e non impuntarsi come un mulo
che viene condotto dove non vuole. Detto questo tuttavia, è anche difficile che
il risultato di un’esecuzione fatta controvoglia, sia particolarmente
riuscito. Questo è imputabile più
all’aspetto psicologico che artistico, però se un direttore sa farsi capire, cerca
di comunicare qualcosa di interessante, arricchisce l’orchestra della propria
esperienza, è anche improbabile che chieda delle assurdità interpretative.
Pertanto l’esecuzione verrà.
In realtà chi
suona ha le proprie personali opinioni, e anche parecchie. Certo non le dice,
non le può dire, semplicemente alle volte può farle capire (al direttore) e può
instaurare un rapporto collaborativo che può avere anche un peso decisionale,
ma non sempre. Tuttavia credo che questo faccia parte di ogni lavoro di squadra
tanto è vero che, qualora il direttore sia visibilmente alla deriva, si tende
sempre e comunque a “salvare” l’opera musicale in modo da non creare mai dei
conflitti. Con “salvare” intendo fare di tutto perché l’errore o l’incoerenza
non “arrivi” all’orecchio di chi ascolta, correggere rapidamente, operare un
miracolo temporale fattibile col suono visto che la bacchetta in ogni caso è
silenziosa. Almeno al momento dell’esecuzione con pubblico. Noi musicisti
sintetizziamo così: “se va bene è stato bravo il direttore, se va male è sempre
colpa nostra”. Questo perché, diciamolo, il narcisismo dei direttori
d’orchestra è un fatto assodato e non temo a dichiararlo.
Come vi preparate all'esecuzione di una
sinfonia, di un’opera: superati i problemi tecnici da risolvere, vi soccorrono
anche informazioni storico-culturali sull’opera d’art, sul suo autore? O una
sorta di autoanalisi del vostro rapporto con quel concerto, quell’opera…?
Quanto alla
preparazione “teorica” di quello che suoniamo, è mitologia. A pochi interessa,
(ma farei prima a dire quasi a nessuno) l’antecedente storico e culturale. Ma
la ragione è molto semplice: il linguaggio musicale è autonomo, ha i suoi codici,
trasmette senza concetti, senza parole, senza date, senza postille e senza note
a piè di pagina. E’ un linguaggio che si riferisce ad un artigianato di lusso e
chiede solo una sensibilità musicale e una manualità precisa. Chi ha scritto la
musica sta già parlando di sé con quella. La gran parte dei musicisti d’ orchestra, ha una tale quantità di musica da suonare che
se si dovesse mettere a focalizzare anche l’aspetto storico-culturale ogni
volta che si mette davanti al proprio leggìo, perderebbe tempo. Innanzi tutto
chi ha fatto il conservatorio (tutti, visto che i concorsi richiedono il
titolo) ha necessariamente passato tutti gli esami teorici, ha nozioni
obbligatorie di carattere storico, e quindi sa perfettamente a distinguere
stili e i sottintesi culturali che li caratterizzano. Ma, con l’esperienza, il
tutto avviene in modo automatico e fa parte del “pacchetto” di un musicista di
un certo livello. Altrimenti se ogni aspetto dovesse essere costruito volta per
volta, si avrebbe una fatica all’interno dell’ esecuzione che renderebbe ogni
concerto un puzzle nozionistico e non un vissuto temporale.
Un'opera vi pone certo problemi particolari.
Ad esempio: colpisce noi spettatori che
durante la rappresentazione di un’opera avete una scarsa possibilità, dalla buca,
di vedere il lavoro nel suo insieme. Potete assistere da spettatori a una rappresentazione dalla platea ? E sarebbe importante: credo che un regista si
metta d’accordo col direttore oltre che con lo scenografo, la sartoria, le luci;
e dunque anche l’orchestra deve entrare in consonanza col tutto. Nell’ultima Traviata alla Scala ho avvertito una certa
rispondenza tra le scelte imposte dal regista, il tipo di canto, la
coreografia, le scene e la direzione dell’orchestra
Passiamo
all’opera: l’esecuzione dell’opera è diversa, come dicevo. Innanzi tutto sono
coinvolti altri sensi per cui l’elemento scenico a volte travalica quello
musicale, poi lo spettacolo ha una maggiore complessità di insieme perché ci
sono i cantanti solisti e il coro. Il palcoscenico è profondo e distante dalla
buca d’orchestra, per cui ci sono problemi di lontananza e di “mancanza di contatto”
che possono diventare seri in certe opere; infine qui l’orchestra, oltre ad
essere strumento, deve vigilare.
Il direttore
fa prove diversificate: legge la musica con l’orchestra, poi segue le prove di
sala con i cantanti, poi mette insieme la parte musicale nella cosiddetta
“prova all’italiana” a sipario abbassato senza regia, e infine dirige le prove
di insieme in cui c’è anche la regia.
L’opera è
quindi complessa, macchinosa, lenta, piena di aspetti a volte incompatibili fra
registi ed esigenze musicali, è a
rischio di scollamenti, popolata di figure collaterali quali mimi, comparse,
scenografi, costumisti, maestri collaboratori che si occupano di eventuali
bande interne (si pensi a un Rigoletto,
a un baccanale di Traviata, alla
scena del cimitero di un don Giovanni
etc). E poi, fatto non secondario, l’opera dura molto. A volte, raramente, ci
si imbatte in un Rheingold o in una Elektra che seppure brevi sono
fisicamente estenuanti da eseguire, ma molto più spesso l’opera dura come
minimo sulle tre ore e mezzo. E quindi comporta anche una fatica fisica
prolungata perché suonare stanca, come stanca ogni impegno fisico e di
concentrazione.
L’orchestra,
ho scritto, deve vigilare. Questo perché il direttore non può dedicarsi a lei
durante un’opera. Proprio per le ragioni di cui ho parlato sopra, anzi tende ad
appoggiarsi all’orchestra in quanto è questa che dà il supporto allo sviluppo
scenico. E paradossalmente noi non vediamo nulla però riusciamo a sentire, o
per lo meno a capire che cosa sta succedendo sul palco: se i cantanti vadano
seguiti, se hanno sbagliato, se si stanno prendendo delle libertà che il
direttore non può o non vuole arginare. Così per ogni opera viene fatto in
forma indiretta una sorta di “addestramento”, un tipo di lavoro che consenta
una confidenza pressoché totale con l’insieme auspicato. Quindi si fa un lavoro
come dire da sostegno, che consenta molte possibili vie da percorrere per ogni
evenienza. Poi l’opera di per sé è un evento, un “happening”, per il quale
l’imprevisto è da tempo individuato e possibilmente neutralizzato, però è anche
sempre e costantemente in agguato. Faccio qualche esempio pratico: il solista
che canta ha un vuoto di memoria, salta qualcosa, un altro sbaglia il momento
di entrata o non entra, il coro non sente o non vede il direttore perché si
rompe un monitor che riporta il gesto, il maestro collaboratore interno sbaglia
il ritmo di attacco a dare alla banda interna, etc. Sono tutte possibilità che
diventano tanto più remote quanto più è alta la qualità della produzione. Ma
nessuno è una macchina.
Quanto
all’assistere alla rappresentazione nessuno vieta che ci si possa sedere in
platea a guardare: a patto che non si debba suonare, ovviamente. Siamo pagati
per produrre e non per usufruire. Inoltre in buca non abbiamo la possibilità di
guardare sul palcoscenico perché dobbiamo leggere la parte e guardare il
direttore. Solo a volte, a seconda della disposizione riusciamo a seguire
qualcosa, ma è assolutamente arbitrario e deve essere fatto con criterio. Cioè
quando ci sono le condizioni per farlo (se sulla parte sono segnate pause
d’aspetto, per intenderci).
Nel vostro lavoro incidono infine, e non poco, sul lato “materialistico” in
senso ampio, condizionamenti economici e sociali, problemi di rapporti di lavoro:
sindacali, con la Direzione, con le altre componenti del,la vita del teatro. E
le patologie in agguato, sul piano vuoi fisico vuoi psicologico.
Alice Coppagli (sullo sfondo le Apuane) |
E’ nell’ambito
del lavoro complesso che si verificano le difficoltà di rapporto fra settori.
Come infatti
dicevo, sia nell’opera (che nel balletto), c’è una situazione estremamente
variegata in cui sono presenti le figure citate ma anche tecnici di
palcoscenico, macchinisti, elettricisti, sarte, ballo. Inoltre il teatro è
corredato di un importante apparato amministrativo che non è in contatto
diretto con lo spettacolo e che ne ignora i tecnicismi. Le ricadute pratiche a
volte si vedono nella durata di contratti che per motivi legali e
amministrativi cadono a metà di una produzione non finita. Parlo almeno per
l’orchestra o il coro. Come se il teorico ignorasse che, nel pratico, chi ha
fatto tutte le prove e 5 recite di una determinata opera, avesse perso il
diritto di da fare le ultime due. Diritto decaduto per contratto, e conseguente
disagio per chi deve improvvisamente sostituire senza prove chi ha finito il
contratto. Anacronismi e bizantinismi di matrice ministeriale da cui in Italia
nessuno si salva, neppure Verdi o Wagner.
Dovrei qui
fare un rapporto dettagliato della situazione storica (qui si!) dei teatri, ma
senza dilungarmi dirò solo che con il tempo, mentre orchestra coro e ballo sono
rimasti delle stesse dimensioni, tutto il resto si è ingigantito fino a
rappresentare la parte più cospicua della popolazione del teatro. Il tutto con
ricadute sull’equilibrio sociale delle Fondazioni.
D’altra parte
le esigenze registiche sempre più alte, la necessità di costruire strutture
sempre più originali e laboriose, la richiesta di ampliare il marketing, la
domanda di spettacolarità, l’aumento di produttività voluto dai Ministeri (con
realtà diversissime da teatro a teatro), la competitività a livello
internazionale, hanno trasformato di molto la natura dei cosiddetti “teatri di
tradizione”.
Sintetizzando
comunque vorrei solo citare questo particolare che ritengo significativo, e che
fa “pendant” con la mitologia che ha il fruitore: sono solo tre anni che
l’orchestra della Scala (certamente la stakanovista italiana e la più tutelata)
è entrata nel Documento di Valutazione Rischi della Fondazione. In altre parole
fino a un paio di anni fa i cosiddetti “professori d’orchestra” non risultavano
minimamente dipendenti soggetti a una qualunque forma di rischio professionale.
Come non fossero lì per lavorare ma per divertirsi.
Con una fatica enorme il Ministero, con
l’aiuto della medicina del lavoro, e alla luce di dati europei supportati da
un’ indagine svolta all’interno del teatro,
ha emanato delle linee guida a seguito delle quali si è riconosciuto
che: i decibel oltrepassano la soglia legalmente stabilita di 80 , che ci sono
problemi posturali certificati, patologie pesanti da sovraccarico degli arti
superiori (sui quali ci sono indagini in corso), che c’è un fattore di stress come per gli altri lavori (ma i presupposti fanno
intravedere anche un fattore di rischio maggiore), e che sarà necessario
procedere anche sui problemi respiratori e dell’apparato buccale.
Infine per la
prima volta nel CCNL siglato quest’anno, compare l’esigenza di assicurare con
l’ INAIL le orchestre....diciamo quindi che l’angelica versione del suonatore è
dura a morire. Certo, la prosaicità di questi argomenti è sconfortante, è la
stessa che ci spinge a riconoscere che babbo Natale non esiste… ma prima o poi
bisogna crescere.
IL BICENTENARIO VERDI-WAGNER: UN CONSUNTIVO
di Gabriele Scaramuzza
Fondamentale
resta l’ascolto e, se una lettura è da accompagnare ad esso, è la lettura dei
testi, dei libretti delle opere. È quanto basta per iniziare. Non si deve
soffocar l’ascolto dietro una cortina di pregiudiziali conoscenze, prepararsi
con uno studio di scritti tendenzialmente infiniti. Primo viene l’ascolto,
ripetiamo, il resto verrà poi, sulla sua scia, per chi ne sentirà l’esigenza. La
presenza alle rappresentazioni, con le orecchie e gli occhi, infatti, prende,
dà piacere, qualcosa di per sé dice. Ma insieme è un nucleo di energia che si
irradia in mille modi oltre se stesso; per quanto ci riguarda fa pensare, e
chiede approfondimenti. A questo tornano utili in prima approssimazione anche i
programma di sala, che hanno assunto ormai un notevole spessore culturale, e
invitano essi stessi a letture ulteriori più ampie. Nell’anno del bicentenario
della nascita di Verdi e di Wagner, segnalo alcune ultime pubblicazioni. Per
quanto riguarda Wagner, Quirino Principe ha avviato una collana: “La spada
della dualità”, edita da Jaca Musica, e che avrà per oggetto tutte le opere di
Wagner, anche le meno note e ascoltate, quali Le fate e Le nozze. Il
primo volume è apparso alla fine del 2012 ed è dedicato a Lohengrin, in concomitanza con l’inaugurazione della stagione
scaligera del 2012-13. Contiene il testo wagneriano nell’originale e in una
nuova traduzione, magistrale come sempre sa fare Principe, ricca di sapori che
gettano nuove luci sulle opere e sulla figura del loro autore. Segue Wagner e noi, sempre di Quirino Principe:
pagine ricche di notizie imprescindibili per contestualizzare il dramma, e di
riflessioni assai stimolanti per meglio penetrarlo nel nostro oggi. Giustamente
il problema infatti non è solo di collocare Wagner in una tempo lontano, a noi
estraneo, ma anche di interrogarsi circa il senso che assume per noi, che ai
tempi nostri e nei luoghi in cui viviamo continuiamo ad ascoltarlo. Lo snello
volume è infine corredato da una essenziale Bibliodiscovideografia, assai utile
per orientare il lettore. Non vorrei tacere, al di fuori dell’ambito wagneriano
e verdiano, ma attinente una musica che è ben presente a Wagner e a Verdi,
l’encomiabile riedizione, a cura di Gaia Varon, di un classico della
musicologia: Charles Rosen, Lo stile
classico. Haydn, Mozart, Beethoven, Milano, Adelphi, 2013. Sul versante
verdiano restano tuttora imprescindibili le opere di Gilles De Van, Emilio Sala , Fabrizio Della
Seta, edite tuttavia da tempo. Di quest’anno segnalo intanto il ritratto di
Verdi di Raffaele Mellace, Con moltissima
passione, edito da Carocci. Il titolo è il riadattamento di un’affermazione verdiana,
ma anche denota verso Verdi un’inclinazione che condivido. Ci offre un panorama
completo del mondo verdiano, articolato su vari piani che si succedono e si
intersecano in modo tutt’altro che convenzionale. E ora due parole sulle
rappresentazioni alla Scala. La prima impressione è che si sia trattato molto
meglio Wagner di Verdi. Lohengrin, con
cui si è aperta la stagione 2012-13, diretto da Barenboim, è stato di tutto
rispetto, per interpreti, direzione d’orchestra, regia. Assai discutibile
invece L’Olandese volante; ma
l’eccellenza è stata raggiunta con la rappresentazione della Tetralogia lo scorso anno, data per
intero due settimane successive di giugno, con le distanze tra le opere in uso
a Bayreuth: Das Rheingold, Die Walküre, mercoledì pausa, Siegfried, venerdì pausa, Göttedämmerung. Nel 2007 una splendida
edizione di Tristan und Isolde, con
la regia di Chéreau (mancato purtroppo da poco), la direzione di Barenboim,
interpreti di grande rilievo, ha in certo modo preparato il terreno a questo Ring. In questa occasione è poi
encomiabile il cofanetto contenente due volumi che - oltre ai testi wagneriani,
ai corposi saggi di Michael P. Steinberg e di Erwin Jans, e alle presentazioni
dei collaboratori - contiene anche utili guide ai Leitmotive che percorrono le opere, di cui ha particolare cura
Raffaele Mellace; altri collaboratori sono Bentoglio per i soggetti, Fertonani
per la cronologia della vita e delle opere di Wagner, Sala per le “opere in
breve”; Serpa per le traduzioni. Una misura diversa è stata usata per Verdi, di
cui nessuna opera ha soddisfatto fino in fondo (salvo Oberto conte di San Bonifacio con la regia di Martone). Anche le
direzioni di Barenboim, di Aida, Requiem e Simon Boccanegra gli scorsi anni, non erano manifestamente nelle
corde di questo pur eccellente direttore.
L’edizione
di La Traviata che ha inaugurato la
stagione in corso è parsa a molti insoddisfacente. Riprendo qui adattandolo al
mio contesto quanto mi scrive Nicola Pedone: è apprezzabile “il tentativo di
uscire dalla pesante, per quanto prestigiosa, eredità viscontiana e
zeffirelliana”. Benvengano le letture che (come questa) si pongano il problema
della Traviata “oggi”, del “rapporto
tra il teatro e la vita contemporanea”. Ma c’è modo e modo: ci sono “cose non
risolte e altre decisamente sbagliate”; “prima fra tutte l'intervallo di 40
minuti nel bel mezzo del secondo atto, spezzando un'unità drammaturgica che non
a caso un grande uomo di teatro come Verdi aveva voluto come tale”. Si possono
apprezzare gli spazi chiusi delle scene, dato che Traviata è un’opera di interni - al contrario del Trovatore, per cui lo stesso regista ha scelto, e devo ancora
capire perché, uno salotto immobile e chiuso, sempre lo stesso. Ho trovato la
sua recente regia di La sposa dello zar meno irritante e più gradevole della regia
della Traviata, ma ha spostato
l’azione in una sorta di Truman Show…
La sposa: così viene tradotto il
termine Nevesta, cui meglio di
addirebbe, mi assicurano, “promessa sposa” in italiano; è un’opera davvero bella,
e ben riuscita sul piano musicale, sfortunatamente la danno rarissimamente in
Italia.
Tornando
alla Traviata, la scelta dei colori
programmaticamente (più che nella resa reale) è interessante, qualche momento
nel comportamento dei personaggi è apprezzabile: Germont nei gesti sembra più contenuto
degli altri. Ma non basta.
Diana
Damrau vocalmente è il meglio (persone competenti me lo confermano), ma lascia
perplessi sul piano espressivo; è inconfrontabile per intensità con le
splendide Violette che restano dei modelli, non dico solo la mitica Callas , ma
Montserrat Caballé, Renata Scotto, Raina Kabaivanska, anche Patrizia Ciofi
nell’edizione veneziana che ha inaugurato La Fenice risorta, diretta da Maazel.
E, a proposito, sul piano della direzione d’orchestra sono da ricordare
Toscanini, Serafini, Giulini, Karajan, Kleiber, Solti….
La Violetta incarnata da Damrau non sembra la donna “disperatamente innamorata” che è;
non c’è eco della sua rivendicazione di una dignità, di un “riconoscimento di
sé attraverso l’amore” (ricorro a un’affermazione di Benedetta Craveri). Sembra
più che altro presa nel meccanismo crudele che la società costruisce intorno a
lei, anche ai nostri giorni. “Non sapete”, “Dite alla giovine”, “Così alla
misera”, “Amami Alfredo” ? mancano della tensione espressiva che mi
aspetto; trovo azzeccato solo l’ “Addio del passato”.
Alfredo è
sopra le righe; nel primo quadro del secondo atto il
suo impastare la pizza e tagliare le verdure è forse sintomo del suo disagio, forse
perché il rapporto tra lui e Violetta, anche in campagna, incontra difficoltà. Nell’ultimo
atto compare con pessimi fiori e improponibili dolcetti cremosi; orologio alla
mano attende la morte di Violetta. Infine perché la parrucca punk dell’attempata e inspiegabilmente onnipresente Annina, peraltro Mara Zampieri, nota cantante del passato ? Flora ha una bella figura ma ha travestimenti da squaw e modi scomposti, pari a quelli di altri danzatori e comparse.
Non convince insomma l’idea della regia, a suo modo coraggiosa, coerentemente realizzata anche nelle scelte interpretative dei cantanti, nelle scene, nel modo di gestire la musica; ma difficilmente condivisibile. La regia propone una sgradevole visione della Traviata; a questa tende a sottomettere i gesti, la mimica dei personaggi, le posizioni, e il tipo di vocalità. Anche qui si sente l’idea del regista.
Nel
programma di sala della Scala Antonio Rostagno parla di “regie azzardate,
che frenano quel coinvolgimento emotivo collettivo e che gettano lo spettatore
nella solitudine”. È il caso di questa Traviata,
che nei suoi toni grotteschi o superficiali più che umoristici, irride ogni
tensione drammatica. L’opera appare svaporata,
decostruita; spesso artificiosa nei tratti dei
cantanti: a volte scostanti, a volte duri, a volte surreali.
Alla
domanda se sia “possibile un ascolto non ironico del grande melodramma
ottocentesco, e cioè che empatizzi ‘ingenuamente’ con quelle grandi passioni
portate all’estremo”, Mengaldo risponde di essere, “per età e formazione”
quanto meno, “assolutamente incapace di un ascolto ironico”, e che anzi questo
tipo di ascolto decreterebbe “né più né meno che la fine del melodramma come
forma artistica viva”. Ma anche, aggiungerei, sancirebbe la crisi di un’intera
dimensione del sentire, la cui impossibilità è dichiarata quasi si trattasse di
una necessità storica inderogabile - come accade in questa Traviata. Questo vale anche per un modo, incoraggiato da non poca
neoavanguardia, di disporsi verso la musica, o verso tutta la musica (da
Monteverdi a Webern quanto meno) che per noi conserva un sapore di, si diceva
un tempo, “autenticità”.
Che senso hanno le scelte interpretative proposte? I
movimenti degli attori, come mi suggerisce Nicola Pedone, sembrano avere tratti
parossistici da commedia russa. Nelle feste compaiono gesti e abbigliamenti che
rasentano il kitsch. Nel saggio Il secolo
di Grete Samsa Karel Kosìk sostiene che il secolo di Kafka è al culmine del
“nefasto processo di trasformazione del senso del tragico”, distrutto dal
grottesco e dal caricaturale, e dal kitsch che spesso li accompagna. Grete
irride il lato tragico della vicenda del fratello, volgarizza tutto, banalizza la morte. Questa Traviata sembra darle
ragione.
Tcherniakov
persegue di fatto esprime quell’understatement dell’opera, e della figura di
Verdi, che è un luogo comune più diffuso di quanto si pensi - presumibilmente
sulla scia dell’immagine di Verdi attiva nell’era Lissner, non a caso (come
Barenboim) legato a Boulez, tra i più antiverdiani dei musicisti contemporanei.
Gli anni di Lissner hanno visto eccellenti rappresentazioni di Janàcek, di
Britten, di Strauss… Ma la regia di Traviata
suona per me come una sorta di decreto di morte per l’opera (e per Verdi), o
comunque ne denuncia l’assoluta inattualità, la perdita di senso ai tempi
nostri. Smozzicati il respiro dell’opera, il dolore, la denuncia, la tensione
drammatica, l’enorme ansia di riscatto, la spinta liberatoria che è di Verdi. E
che è testimoniata a livelli altissimi da Il
Requiem di Terezìn di Josef Bor, appena edito da Passigli.
Nel programma di sala Tcherniakov sostiene che la regia attualizza
l’opera, sposta l’amore nel nostro mondo. Resto convinto che un’attualizzazione
(spostare l’opera da un’oggettività fermata nel passato al suo “senso per noi”)
sia imprescindibile. Ma c’è attualizzazione e attualizzazione. Tcherniakov rende
attuale La Traviata, nel senso che la
destituisce di senso per noi, ne denuncia l’inattualità. La commisura a una
“sua” attualità, che non è affatto detto sia la nostra o quella di tutti, tanto
meno è la mia, che avverto invece la grande attualità del Requiem suonato a Terezìn. Perché sostenere che “tutto è relativo”,
“tutto è gioco, tutto è manipolazione” ? perché calcare la mano sul tema
dell’amore (e solo su quello), dandone però poi una visione così riduttiva
? Non
siamo capaci di amare, sappiamo solo “raccontarcelo”, abbiamo paura di amare,
come sintetizza giustamente Emilio Sala. Ma che obbligo c’è di sentire così
l’amore oggi? è davvero ridotto solo a questo? la crisi della coppia è vista in
suoi aspetti banali e astratti. A Tcherniakov
sfugge lo spessore etico ed esistenziale, la critica sociale al perbenismo
ipocrita, alla pressione della “morale” allora corrente; la presenza della malattia,
gli effetti di contrasto delle feste e del carnevale parigino. In proposito, Nicola
Pedone offre, in sue interviste a Gatti e ai principali responsabili dell’opera,
interessanti osservazioni su “sfondo e primo piano”: “una tipica modalità
drammaturgica verdiana, che è quella appunto di creare uno ‘sfondo’ (in
Traviata è spesso costituito da musica da ballo, ma c’è anche il carnevale
dell’ultimo atto), su cui far risaltare i ‘primi piani’, spesso di tutt’altro
orientamento affettivo, con effetti di potente contrasto drammatico”.
La
verità drammatica dell’opera è anche la sua eticità, che in nessun caso può
essere elusa, pena la perdita della sostanza dell’opera stessa.
LA MANO, L’ERRORE, IL TRIONFO
Verdi al
Conservatorio di Milano
Di Paolo Maria Di Stefano
Giuseppe Verdi non fu ammesso al Conservatorio di Milano – era il
1832 e Verdi aveva diciotto anni circa - anche per la sua “non corretta
posizione delle mani sul pianoforte”, oltre che per “la non sufficiente
cognizione delle regole del contrappunto” e per la scarsa disponibilità di
posti nel convitto. Che è bello e istruttivo, avrebbe scritto Giovannino
Guareschi che con Le Roncole e Busseto aveva più di qualche vicinanza, peraltro
perpetuata attraverso un ristorante e una fondazione museo voluti dai figli che
a Le Roncole hanno dapprima invaso, per poi dimensionarsi, lo spazio vissuto da
un Giuseppe Verdi giovanissimo, immagino arrampicato sulla tastiera della
spinetta donatagli dal padre, prima, e dell’armonium della Chiesa, poi, intento
più che ad eseguire disciplinatamente la musica da Chiesa richiestagli, a
cercar di capire cosa lo strumento fosse capace di dargli. Anche perché a Le
Roncole era molto ma molto più facile improvvisare alla tastiera che studiare
quella lingua difficile che è la musica.
E mi piace pensare che,
all’inizio, Giuseppe abbia precorso quella che io rivendo come una mia
personale teoria musicale: trovata la prima nota sulla tastiera, le altre sono
alla sua destra e alla sua sinistra, con qualche variazione verso l’alto. E,
sempre trovata la prima nota, le dita cercano spontaneamente le altre.
E se, come Verdi, hai una
naturale inclinazione alla musica, qualcosa accade.
Il problema, credo, nasce soprattutto
quando si vogliano eseguire composizioni di maestri, grandi o piccoli che
siano, ma comunque codificate sul pentagramma; oppure, o anche, quando si vuole
scrivere ciò che si è improvvisato. E si tratta di problemi non da poco, che
vanno dalla disponibilità finanziaria alla necessità di trasferirsi in luoghi
nei quali vivono gli insegnanti e sono strutturate e funzionanti le scuole di
musica.
Verdi trovò negozianti animati da spirito di mecenatismo:
una razza in Italia estinta da tempo, quella dei negozianti sensibili alla
cultura in genere e a quella musicale in particolare, ma che fece in tempo a
consentire la formazione di una “cultura musicale” elementare, da approfondire
e migliorare, e tale da spingere il giovane diciottenne a sperare di poter
essere ammesso al Conservatorio di Milano. Il quale ebbe a stabilire che
Giuseppe Verdi non aveva una buona posizione della mano sulla tastiera,
appunto. Che non è poco, essendo un sintomo chiarissimo di un atteggiamento
accademico senza troppe eccezioni: la ricerca della perfezione “formale” del
corpo di fronte allo strumento quale condizione (una delle condizioni)
essenziale per essere un buon pianista. Con il che, Glen Gould oppure anche
Horowitz o molti altri interpreti giudicati eccezionali non sarebbero stati che
il frutto di errori di valutazione e di insegnamento commessi dai Conservatori
di provenienza.
E il Conservatorio di Milano, il cui curioso destino ha
portato ad intitolarsi proprio a Giuseppe Verdi, assieme a Tomo Quarto di
Bologna ha dato vita ad una piccola mostra organizzata nel foyer della Sala
Grande sul tema “La mano, l’Errore, il Trionfo”: sintesi estremamente
significativa dei rapporti tra Verdi e il Conservatorio stesso. Ho avuto la
fortuna di esserci, accompagnato e guidato dal coordinatore, maestro Raffaele
Deluca, signore di straordinaria cortesia e preparazione.
Ed ecco, allora, una ricostruzione del dactylion, strumento
di tortura applicato alla tastiera, composto di dieci anelli destinati ad
accogliere le dita, bloccati in alto in modo da obbligare lo studente ad
eseguire quanto e come stabilito. Strumento di tortura, ma anche dimostrazione
di una creatività senza limiti. Poi, gli spartiti, da Oberto a Falstaff, e una
testimonianza per me assolutamente commovente: gli interventi di Verdi a
correzione delle bozze di stampa. Seduto alla Scala, armato di foglietti e di
matita, un lavoro da certosino.
E non a caso il Conservatorio ha collaborato con il Centro
Studi di Musica Sacra “Tomo Quarto” di Bologna. Padre Gianbattista Martini,
musicista e musicologo bolognese, ha lasciato incompiuta la sua grande Storia
della Musica, solo abbozzando quel “tomo quarto” che avrebbe narrato della
musica sacra e al quale Bologna ha voluto intitolare il suo Centro Studi di
musica sacra.
Io vedo in questo anche il significare la musica come
linguaggio immortale e realmente universale, in perpetuo divenire sulle solide fondamenta
di una storia che comunque affonda le sue radici nella nascita dell’uomo e che,
probabilmente, non avrà fine neppure quando il genere umano non ci sarà più. Perché
la musica è il linguaggio di Dio.
MINIMA VOLUPTAS
di Maurizio Meschia
Elogio di pane e pomodoro
Nella foto: Maurizio Meschia |
Lo spirito
che oggi pare stimolare una riappropriazione della cultura del gusto semplice e
naturale ci spinge a rivalorizzare alcune piccole, quasi banali preparazioni, che
tanta storia e suggestioni trasmettono e che forse le giovani generazioni non
comprendono, involontariamente diseducate ai sapori veri e disincentivate dalla
troppa “povertà” degli ingredienti. Una
di queste è pane e pomodoro.
Paradigma di frugalità, antica
colazione di contadini e braccianti del nostro Meridione, questo alimento
merita di essere riportato in auge, laddove non lo è già, con tutti i suoi valori
e colori da cui sprigionano i sapori del Mediterraneo. Pane e pomodoro: una soluzione rapida,
gustosa e sana per un leggero pranzo o una merenda, una semplice meraviglia per
il palato quanto più freschi e naturali sono gli ingredienti.
Su una fetta di pane
casereccio, meglio se del giorno prima, si schiacciano delicatamente e si
strofinano le due metà di un pomodoro di bel rosso vivo, maturo, possibilmente
un San Marzano o perino. Si cosparge di sale e si irrora di olio extravergine
di oliva. Si può arricchire con foglie di basilico fresco o con una spolverata
di origano. Se non ci si vuole ungere, un’alternativa è quella di tagliare un
panino morbido e imbottirlo di pomodoro tagliuzzato e condito con sale, olio e
le eventuali erbe. E qui ci starebbe anche qualche sottile fetta di cipolla
dolce di Tropea.
Come non condividere
infine le parole dello scrittore catalano Manuel Vàzquez Montalbàn nelle sue Ricette immorali (Feltrinelli, 1992): “ È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli
saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale
dell’alimentazione umana...”.
GIUSEPPE VENDITTELLI
Un tenore da riscoprire
Ritiratosi
dalle scene a metà degli anni novanta, abbiamo conosciuto personalmente il
tenore Vendittelli intorno al duemila. Non ha abiurato all’arte ma al teatro; ancora
nel pieno possesso delle sue facoltà canore, se ne è distaccato consapevolmente,
stanco dell’ambiente che non era come lui lo sognava. Il suo excursus artistico
è un caleidoscopio di interpretazioni in recite sostenute in giro per il Mondo
tra il 1974 e il 1995, che solo recentemente sono state raccolte in tre CD
pubblicati dall’editore bolognese Bongiovanni nella collezione “Il Mito
dell’Opera”, (che ha curato anche la registrazione dell’opera “La Parisina” di
Mascagni eseguita all’inaugurazione della stagione del 1978/1979 al Teatro dell’Opera
di Roma con Gianandrea Gavazzeni Direttore).
Si tratta dei più noti
brani operistici registrati direttamente dal vivo in teatro durante
l’esecuzione di opere e concerti , quindi con evidenti disturbi di fondo senza
possibilità di interventi correttivi. E proprio qui sta il valore delle
incisioni del nostro tenore che denota una preparazione di scuola vocale
all’antica; “una voce seconda a nessuno”, come gli diceva il grande Gavazzeni.
Non è soltanto la bellezza
della voce del Vendittelli che risalta in queste registrazioni, ma si evidenzia
anche l’espressività interpretativa di un canto sostenuto da una tecnica
respiratoria appoggiata sul diaframma, frutto di uno studio meticoloso che fa
apparire una emissione facile anche nelle tessiture più impervie per la bronzea
voce di tenore drammatico.
Per condividere le
emozioni del bel canto tra i tanti pezzi proposti, per l’omogeneità dei suoni e
la linea di canto, si ascolti la forza verista del messaggio espressivo ne I
Pagliacci piuttosto che nell’Otello e Andrea Chenier , o la morbidezza di canto
sul fiato che traspare nel “Cielo e Mar” dalla Gioconda (intenzionalmente
proposto in due versioni per valutarne i particolari musicali nel forte-piano o
le accattivanti smorzature: con orchestra e accompagnato da solo pianoforte) e
la Serenata “O Lola” dalla Cavalleria Rusticana, (“scoperta” perché a sostegno
della voce c’è solo il contrappunto dell’arpa).
Si riscopre così le sorprendenti
interpretazioni di oltre vent’anni di carriera assemblate in tre CD dal
Bongiovanni e in vendita presso i negozi musicali di tutto il mondo o via
internet, che segnaliamo all’attenzione degli appassionati che si sono persi
l’ascolto dal vero del tenore Vendittelli in teatro. Ed infine ne raccomandiamo l’attento e
meditato ascolto ai giovani che vogliono intraprendere la carriera di cantante
lirico nel registro di tenore, e non solo.
Per maggiori informazioni
sulla storia della vita artistica del Vendittelli, vi rimandiamo alla biografia pubblicata su Internet.
Giorgio Aleardo
Zentilomo
LA VOCE DEL TENORE FRANCO CORELLI
Una personale
testimonianza.
In questo scritto
di Giorgio Aleardo Zentilomo
Un doveroso
ricordo del tenore Franco Corelli
Al suo
funerale nell’ottobre 2003 presso la chiesa di San Carlo al Corso, alcuna
delegazione del Teatro alla Scala era presente. Tra gli artisti si era visto
solo Andrea Bocelli. A dieci anni dalla sua morte, qualche giorno fa, la Scala
ha dedicato un doveroso omaggio alla memoria di una delle più belle voci da
tenore del secolo scorso, quella di Franco Corelli. In attesa di accedere al
foyer del teatro, risultato troppo piccolo a fronte della numerosa affluenza,
già dal primo pomeriggio tanti erano gli appassionati in coda per poter
entrare. Molti capelli bianchi e volti che lasciavano trasparire trascorsi
artistici da comprimari e coristi, condivisi con anonimi spettatori di allora.
Dopo un’introduzione (in un italiano fastidioso) del Sovrintendente Stephane
Lissner (che finalmente se ne andrà ad ottobre), i commenti tecnici e le lodi
delle indubbie qualità vocali di Franco Corelli, sono state ricordate e
validamente commentate dal competente musicologo Giancarlo Landini. Affiancate
alle parole di encomio (tutte in positivo), delle caratteristiche del mezzo
vocale di Corelli, abbiamo riudito alcuni brani d’opera magistralmente
eseguiti, facendoci tornare alla memoria quelle straordinarie serate da tifo
calcistico vissute in loggione. E pensare che agli inizi alle sue prime
apparizioni (una disastrosa recita de I Pagliacci), i loggionisti, io tra
questi, stante l’accentuato tremolio dei suoi cantabili dove si evidenziavano
imbarazzanti difficoltà di sillabazione (un qualcosa di biascicato), lo avevano
“pizzicato” storpiandogli ingenerosamente il nome in “Pe-Corelli”; difetti poi
opportunamente risolti grazie all’attenta scuola del “vecchio” tenore Lauri
Volpi.
Al suo ritorno alla Scala, ricordando le non felici
serate, aleggiava più di qualche perplessità. Magicamente spariti i difetti
accennati, il suo canto sublime tacitò presto ogni dubbio offrendo memorabili
emozioni di bel canto a fianco di artisti quali la Callas, la Simionato e il
baritono Bastianini. Un’ampia estensione, (oltre al fatidico “do di petto” Lui
arrivava anche al “re bemolle” della romanza “a Te o cara” dei Puritani), il
corretto fraseggio, la sicurezza e la limpidezza degli acuti tenuti ad effetto
anche oltre il valore della nota scritta, suggellavano i personaggi di opere mai viste prima: La
Vestale, Il Pirata, Medea piuttosto che nelle più note: Fedora, Fanciulla del
West, Carmen, Andrea Chenier, Norma ecc. Pastosità vocale, un bel timbro
brunito e rotondità di suoni in una linearità di canto che attanagliava
l’attenzione degli esigenti critici e dei melomani che non smettevano di
applaudire fino a spellarsi le mani.
Padrone della tecnica dell’emissione “sul fiato”, di cui
abbondava nella disponibilità grazie alla controllata gestione del diaframma,
mostrava l’esigente rigore della preparazione musicale e la tensione emotiva
che lo avvolgeva prima di entrare in scena, dove finalmente cessava ogni
preoccupazione dopo i primi confortanti fraseggi. In breve, una delle
indimenticabili voci tenorili di fine anni ’50 fino al ’70 quando alla Scala si
alternavano strepitosi cantanti, offrendo serate magiche mai più riproposte.
Tra questi ricordiamo: Del Monaco: impressionava per la perentorietà del suo
canto cristallino e convincente. Di
Stefano: emozionava per il verismo interpretativo con la bellezza della sua
voce. Corelli: trascinava fino alle vette con lo squillo degli armonici in
tutta la gamma delle partiture più ardite.
Giorgio Aleardo
Zentilomo
PER CLAUDIO ABBADO
di Gabriele Scaramuzza
Non starò a ripercorrere la storia, nota, e ripetuta in
questi giorni su tutti i giornali, di Claudio Abbado. Mi soffermo piuttosto su
alcuni punti cardine della lezione che ci ha lasciato, ed è di valore duraturo.
Abbado lavora fino alla fine, inseguendo un sogno non di solo perfezionamento
professionale del suo lavoro, bensì soprattutto di testimonianza dell’alto
valore, culturale, esistenziale e civile insieme, della musica. Non a caso
Fulvio Papi, che lo conobbe, lo ricorda tuttora con ammirazione e affetto.
Non so più
quale è stata la prima volta che ho visto Abbado alla Scala; l’ultima volta fu
nel concerto del ritorno, nel novembre del 2012, in giorni in cui è mancata la
sorella Luciana Pestalozza, pure musicalmente assai impegnata: seguo ogni anno
Milano Musica, da lei fondata.
A chi ascolta
resta il senso che Abbado
imprime alle sue esecuzioni, e trascina dall’inizio alla fine; qualcosa di
simile mi accade con Furtwängler.
Pochissimi giorni fa ho potuto ascoltare il video della sua direzione
dell’ultimo tempo della Nona di
Mahler: l’intensità emotiva del suo volto si trasmetteva nei volti dei giovani
esecutori che lo attorniavano, con profonda gratitudine.
Tra Milano e
Pesaro ha contribuito alla rinascita di Rossini: hanno fatto epoca le sue
esecuzioni di Cenerentola,
di Il viaggio a Reims. Ma restano indimenticabili,
per citare le opere cui mi sento più intimamente legato, Mahler (a partire
dalla Seconda, con cui si è
presentato e ha preso congedo dalla Scala), Wozzeck.
E tanto Verdi: il Requiem, il Ballo
in maschera; il
Macbeth e il Simon Boccanegra con Strehler;
il Don Carlo con Ronconi; per tacere di Otello
e Falstaff. In anni più recenti rivisto
Abbado nel Simon Boccanegra a
Firenze, con l’orchestra che letteralmente volava, presa dall’unità di senso
che le sapeva imprimere. Indimenticabile anche l’attimo di silenzio finale, la
sospensione prima di abbassare la bacchetta e ricevere gli applausi. Un momento
di alto raccoglimento per non disperdere l’intensità dell’ascolto e lasciar
vibrare il dramma dentro di noi.
Quanto al suo modo di dirigere sono grato a Alice Cappagli
(violoncellista nell’Orchestra della Scala fin dai primi anni ’80, ha suonato
sotto la direzione di Abbado più volte) per avermi offerto una testimonianza di
prima mano, e competente, in proposito. La riporto qui sotto con le sue
parole:
“Non è affatto facile parlare di un personaggio
"simbolico" come Claudio Abbado, come non sarebbe comunque facile
parlare dei punti cardinali in base ai quali ci muoviamo come musicisti. L'ultima volta che vedemmo Abbado fu il 30
ottobre 2012, per la famosa seconda sinfonia di Mahler fatta alla Scala con la
Filarmonica in collaborazione con la Mozart. L'orchestra Mozart di Abbado, una
formazione da lui voluta e da lui plasmata con la stessa passione e la stessa
dedizione con cui nel 1982 aveva fondato la Filarmonica.In quell'occasione avevamo visto un uomo
fragile, fisicamente provatissimo, con una determinazione e una voglia di
lavorare intatte rispetto a quelle in cui aveva impiegato le sue energie negli
anni alla guida della Scala. Nell'orchestra, tutti coloro che l'hanno
conosciuto ricordano due aspetti : il metodo e la classe. Metodo che ha
permesso di raggiungere dei grandissimi risultati musicali la cui principale
prerogativa era l'infaticabilità, e la classe con cui si è sempre imposto senza
alzare la voce ma con una determinazione assoluta. Diremo che l'eleganza si è
rivelata sovranamente efficace nella costruzione del gesto e nella resa
dell'insieme, in un modo assolutamente unico e pertanto irripetibile. Tuttavia
paradigmatico.Forse sarebbe il caso di fare degli esempi,
tuttavia raccontare la musica è sempre stato e sempre sarà un compito arduo:
l'unica cosa che si può spiegare è dire che nel suo modo di comunicare era
presente anche una dose di "stupore" con cui l' autorevolezza sapeva
convivere con l'estemporaneità dell'esecuzione. Mai una vera costrizione, mai
un'imposizione assoluta laddove il valore di un'iniziativa, se contestualizzata,
avrebbe potuto aggiungere qualcosa alle sue scelte.Dovremmo forse parlare di una sorta di
"democratica collaborazione" sebbene il compito di un direttore
d'orchestra nulla abbia a che fare per sua natura con il concetto di
democrazia. Tutt' altro.Invece con Abbado era spontaneo assimilare il
suo pensiero e appropriarsene senza sforzo per lavorare insieme in forma
"corale". Quindi sì, un personaggio
"simbolico", un direttore con un gesto denso di idee ma anche di
possibilità, le stesse che hanno fatto di lui un pezzo della nostra storia
dell'interpretazione”.
In una recente intervista a Fournier-Facio Abbado difende un
senso “forte” (per dirla con Quirino Principe) della musica, per nulla
riducibile a efficienza, rendimento, tornaconto affaristico, fama. Obbiettivi
che purtroppo perseguono anche grandi istituzioni musicali, che sembrano
dimenticare l’ “alta destinazione”, per dirla con Hegel, della musica. Per lui
la musica, dichiara, è una ragione di vita, non divertimento. Nelle pagine
finali dell’Estetica di Hegel
leggiamo che nell’arte “non abbiamo a che fare con un congegno meramente
piacevole o utile”, bensì “con un dispiegarsi della verità”; nei modi
letteralmente estetici, cioè legati al “sentire”, che le sono propri. Questo
vale indubbiamente anche per la musica:
nel cap. XXI del Doktor Faustus (in
cui come noto è presente in controluce Schönberg) troviamo scritto che l’arte
non accetta più di essere “parvenza e il gioco”; vuole invece “diventare
conoscenza”
Vorremmo
insistere su questo, chiamando a testimone un'altra grande figura, tuttora
vivente, della nostra cultura: George Steiner (che ama Schönberg, e mostra
simpatia per Verdi, musicisti che certamente sono nelle corde di Abbado). In
uno dei suoi più noti libri, Nel castello
di Barbablù, si trovano passi che esprimono il senso profondo che la musica
assume per lui: “si conosce un buon numero di esistenze individuali e familiari
in cui l’esecuzione o il godimento della musica ha funzioni altrettanto
sottilmente indispensabili, altrettanto esaltanti e consolatorie, di quelle che
potrebbe avere, o può aver avuto in passato, la pratica religiosa. Ciò che
colpisce è questa indispensabilità, la sensazione (da me condivisa) che c’è una
musica di cui non si può fare a meno a lungo, che certi brani musicali sono il
talismano dell’ordine e della fiducia interiore”. “La musica sembra ricomporci,
raccoglierci, restituirci a noi stessi”. E “forse può farlo grazie al suo
particolare rapporto con la verità”.
Abbado confessa che la musica gli “salvò la vita”,
letteralmente, dopo il primo grave intervento chirurgico che subì. E capì
presto quanto potesse riscattare le vite altrui, incidendo profondamente sulla
qualità della la vita degli abitanti dei barrios venezuelani. Com’è ampiamente
noto Abbado ha stretto un forte legame con Abreu e l’orchestra giovanile “Simon
Bolivar”. Gustavo Dudamel lo ricorda con parole non meno toccanti di quelle con
cui ne parla, su un altro versante, Daniel Harding.
Potrà sembrare
utopia questo ideale di musica, i nostri anni sembrano averne decretato
l’illusorietà. Ma vorrei insistere su questo, perché le interpretazioni di
Abbado lo riflettono, ne è determinata la sua concezione del mondo, il senso di
un riscatto personale e sociale che annette alla musica. Questo è chiaro
soprattutto nella sua dedizione a diffondere la musica, di portare alla Scala
studenti e lavoratori, di allargare il pubblico degli ascoltatori suonando
nelle fabbriche. Ma è chiaro anche nell’alto impegno civile che accompagna il
suo far musica, e anche politico nel senso nobile del termine: generosamente
impegnato, non partiticamente compromesso, negli anni della guerra del VietNam,
dei colonnelli in Grecia, dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. In ciò
gli furono vicini Pollini e Nono; ma anche Benigni. Di Nono conservo come la
sua opera per me più preziosa Il canto
sospeso, diretto da Abbado. Sul lato della versatilità e
della finezza umoristica non passerei sotto silenzio Pierino e il lupo, con la voce recitante di Benigni.
Difende il valore
sociale della musica, esorta al “fare musica insieme”, come fattore di coesione
etica e sociale, di fratellanza. Questo si traduce anche nel suo impegno di
contribuire a far nascere organismi orchestrali giovanili, quali le ormai note
Mahler Chamber Orchestra, Chamber Orchestra of Europe, da ultimo l’Orchestra
Mozart. Colpisce la sua difesa della musica contemporanea tutta, da Schönberg a
Nono, e che si esprime anche nella fondazione del Wien Modern.
È
scontato ricordare il
suo impegno a Vienna, l’azione profonda che col suo stile ha impresso su una
grande orchestra quale i Berliner, la sua
collaborazione con altri famosi esecutori, orchestre, teatri. Per parte mia, da
appassionato ascoltatore e spettatore, mi sono limitato a ricordare quanto mi
rimane, e rimarrà per sempre, delle esecuzioni di Abbado, partendo naturalmente
dagli anni della sua direzione musicale della Scala, dove fonda la Filarmonica.
E vorrei concludere con un’altra testimonianza, di Tiziana Canfori, che
si è diplomata al Conservatorio di Bolzano e ora insegna al Conservatorio di
Genova.
“Non ha mai
suonato con Abbado,
l'ho ascoltato dal vivo cinque o sei volte in tutto. I miei ricordi più caldi
di lui sono sinfonici e sono legati alla nascita dell'Orchestra giovanile
europea, che è nata a Bolzano a inizio anni '80. Ricordo soprattutto Mahler (una
Quinta che faceva stare col fiato
sospeso). Era bellissimo vederlo sul podio:
il gesto non era teatrale, ma anticipava ogni colore.Ricordo
bene la ventata di novità e di energia che ha portato a Bolzano, quella
sensazione che ci faceva avvertire di essere al centro di uno sviluppo
importante. Ci sentivamo privilegiati di averlo lì da noi, ad inventare
un'orchestra. Il giornale ce lo raccontava nella sua vita bolzanina: il rigore
delle prove, ma anche le partite a tennis con la Mullova... E poi i concerti (i
primi li ha tenuti in Duomo), dove potevamo vederlo lavorare da vicino. Alcuni
di noi poi avevano avuto la fortuna di entrare nella Giovanile Europea, e ci
raccontavano del lavoro e delle tournée. Un
paio di anni fa Abbado era tornato a Bolzano per fondere in un concerto la
Haydn e la Mozart, conquistando tutti gli orchestrali con la sua profonda
gentilezza e le sue idee chiarissime. Ero presente quando Bolzano ha attribuito
la cittadinanza onoraria a Giulini (presente) e ad Abbado (assente per uno dei
suoi ricoveri; era presente il figlio Daniele). L'affetto della città
circondava questi due personaggi come aveva circondato a suo tempo Benedetti
Michelangeli (Bolzano è una città musicalmente fortunata...).Mi
rimane di lui l'emozione dello stile, quella capacità di farti sentire il
dolore con il sorriso, il profondo senso della morte, la consapevolezza del
mistero, la sobrietà e la cura delle sfumature.Se
penso che negli ultimi giorni si agitavano quelle storie sulla chiusura della
Mozart, mi pare che avremmo potuto fargli sentire che il suo lavoro ci premeva
di più, che avremmo potuto garantirlo anche dopo di lui....Ho
vissuto le sue proposte sempre come uno stimolo vitale, rivolto soprattutto ai
giovani. Ho amato sconfinatamente le sue interpretazioni "nordiche" e
"filosofiche", ma anche Mozart e Rossini per il perfetto equilibrio
fra testa e passione, per l'eleganza tragica e intima.L'anno
scorso l'ho rivisto a Genova con i Brandeburghesi
di Bach e ne ho avuto un'impressione contraddittoria: le sue scelte erano
perfette, ineccepibili, anche "barocche", ma non c'era l'energia che
avrei voluto. Era un Bach malato, distante... lui non si muoveva quasi (non che
sia necessario per uno col suo carisma, ma proprio la gioia sembrava
appannata). È stato un successo senza pari: il
teatro tutto in piedi, numerose chiamate, ovazioni a non finire... Ma a me è parso di fargli già un applauso
"alla memoria". Sembrava come dietro a un vetro, come una
registrazione. La sua personalità e il suo studio c'erano, ma non mi arrivava
la fusione e l'energia un po' scapigliata che i Brandeburghesi in fondo hanno in abbondanza. Mi è sembrato di
assistere a una Dämmerung, a un
distacco dalla materia musicale, a una specie di sublimazione. Perciò ne ho
tratto un presagio di morte”.
ANARCHIA E SURREALISMO
Iniziamo con un’osservazione di carattere semantico a proposito della parola Anarchia composta da due lemmi An-arcos. An: privativo, arché: comando potere. Il che implica, in primo luogo, il rifiuto del principio d’autorità, della delega del potere, delle condizioni associate al potere e a chi lo esercita: violenza e oppressione, arbitrio e distruzione – anche di questo nostro pianeta – come le recenti catastrofe ecologiche ben dimostrano. Anarchia non è quindi sinonimo di disordine e confusione – come molti dizionari invitano a credere – ma al contrario, questa filosofia della vita implica un ordine superiore fondato sulla conoscenza, l’aiuto reciproco e l’armonia.E’ opportuno – e l’ho sottolineato in un articolo recente per un numero speciale di A – che sia il poeta sia l’artista sono un modo d’essere dell’anarchico perché creare significa dare origine a qualcosa che non è esistito prima. Ogni creatore parte dalla tabula rasa, rifiuta il principio di autorità così come ogni modello anteriore. Ne consegue dunque che, coscientemente o meno, chiunque è impegnato in una attività creativa è un anarchico. Infatti, “poeta”, "artista" e "anarchico" sono, per me, termini intercambiabili, sinonimi perfetti. L'anarchia è la forma di esistenza del creatore, proprio come il movimento lo è della materia. Allo stesso modo in cui la materia è la dimensione del movimento, il creatore è la dimensione estetica dell'anarchico.
Alla domanda su cosa resta del surrealismo oggi, risponderei: tutto. Non ho in mente l’arte o la poesia, il cinema o il teatro, la fotografia o la scrittura; penso ad una filosofia di vita, a uno stato d’animo, a una morale, a una purezza, a un bisogno di libertà, alla necessità di riconoscere alla donna il suo giusto posto, il primo. Come dalla nozione di lotta di classe o di inconscio, dal surrealismo non si può tornare indietro. Col surrealismo, qualcosa è successo per sempre. La rivolta, per la sua stessa natura, rifiuta ogni filiazione; non ci si bagna due volte nello stesso fiume. Breton è il primo a ricordarlo: “A venti o venticinque anni la volontà di lotta si definisce in relazione a ciò che si trova attorno a sé di più offensivo, di più intollerabile”1.
Egli preciserà, “l’attività
d’interpretazione del mondo deve continuare ad essere legata
all’attività di trasformazione del mondo. Sta al poeta,
all’artista, approfondire il problema umano in tutte le sue forme,
il procedere illimitato del suo spirito in questo senso ha un valore
potenziale di mutamento del mondo […] ‘Trasformare il mondo’,
ha detto Marx, ‘cambiare la vita’, ha detto Rimbaud: per noi,
queste due parole d’ordine fanno tutt’uno”2.
Un luogo comune solidamente radicato
nella sinistra – rivoluzionaria e non – vuole che l’azione
politica di Breton e dei suoi amici fosse dilettantesca e
superficiale. Per confutare questo pregiudizio e documentare fino a
che punto l’attività del movimento fu ragionata e aderente alle
necessità di una prassi autenticamente rivoluzionaria basta seguire
la cronaca degli eventi. Si vede allora come il surrealismo, sin
dall’inizio del movimento nel 1924, sia stato autorevolmente
presente in tutti i momenti chiave – piccoli o grandi che fossero –
della storia contemporanea con prese di posizione, sia politiche sia
estetiche, altamente chiarificatrici. Nessun altro movimento
culturale può rivendicare una tale continuità d’interventi
politici, altrettanto lungimiranti e su un periodo di tempo così
lungo. Il sogno a occhi aperti dei surrealisti non fece mai perdere
loro di vista la realtà nella quale lottavano.
Il primo proclama del gruppo, nel 1925,
riprende una classica rivendicazione del pensiero anarchico: “Aprite
le prigioni. Sciogliete l’esercito. Non esistono reati di diritto
comune”. Vi si legge tra l’altro: “Le costrizioni sociali hanno
fatto il loro tempo. Niente, né la constatazione di un fatto
compiuto, né il contributo alla difesa nazionale potrebbero
costringere l’uomo a fare a meno della libertà. L’idea di
prigione, l’idea di caserma hanno oggi pieno corso; queste
mostruosità non vi sorprendono più... Non abbiamo paura di
confessare che noi attendiamo, che noi auspichiamo la catastrofe. La
catastrofe consisterebbe nel persistere di un mondo in cui l’uomo
ha dei diritti sull’uomo. L’unione sacra dinanzi ai coltelli o
alle mitragliatrici: come fare appello più a lungo a questo
argomento squalificato? Restituite ai campi i soldati e i galeotti.
La vostra libertà? Non c’è libertà per i nemici della libertà.
Non saremo complici dei carcerieri”3.
Questa prima presa di coscienza è di
carattere ancora generico. Più tardi, Breton preciserà, ancora
meglio: “il rifiuto surrealista è totale. […]. Tutte le
istituzioni sulle quali si fonda il mondo moderno e che hanno avuto
la loro risultante nella prima guerra mondiale sono considerate da
noi aberranti e scandalose. Per cominciare, ci scagliamo contro tutto
l’apparato di difesa della società: esercito, ‘giustizia’,
polizia, religione, medicina mentale e legale, scuola [...] Ma per
combattere con qualche speranza di successo è necessario attaccarne
la struttura portante, la quale, in ultima analisi, è di ordine
logico e morale: la pretesa ‘ragione’ di uso corrente, la quale
ricopre – con un’etichetta fraudolenta – il ‘buon senso’
più logoro, la ‘morale’ falsificata dal cristianesimo allo scopo
di scoraggiare ogni resistenza contro lo sfruttamento dell’uomo.”4
In un volantino del 21 settembre 1925,
intitolato La rivoluzione innanzitutto e sempre i surrealisti già
affermano “Ben consci della natura delle forze che attualmente
turbano il mondo […] vogliamo proclamare il nostro assoluto
distacco e in qualche modo la nostra purificazione dalle idee che
sono alla base della civiltà europea […] Dovunque regni la civiltà
occidentale, tutti i vincoli umani sono venuti meno, tranne quelli
che hanno una ragion d’essere nell’interesse, nel ‘duro
pagamento in contanti’. Da più di un secolo, la dignità umana è
ridotta al rango di un valore di scambio. È già ingiusto che chi
non possiede sia asservito da chi possiede, ma quando questa
oppressione supera il quadro di un semplice salario da pagare e
assume come esempio la forma di schiavitù che l’alta finanza
internazionale fa pesare sui popoli, è una iniquità che nessun
massacro riuscirà a espiare. Non accettiamo le leggi dell’Economia
e dello Scambio, non accettiamo la schiavitù del Lavoro e, su un
piano ancora più ampio, ci dichiariamo in stato di insurrezione
contro la Storia […] Noi siamo la rivolta dello spirito;
consideriamo la Rivoluzione sanguinosa come la vendetta ineluttabile
dello spirito umiliato dalle vostre opere. Non siamo degli utopisti:
questa Rivoluzione non la concepiamo che in forma sociale”.
Molto spesso, negli ambienti della sinistra, si esige dagli artisti di essere “i pifferi della rivoluzione”, come già condannava Elio Vittorini. In proposito la posizione dei surrealisti è molto decisa. Nel “Secondo manifesto” Breton afferma: “Non credo alla possibilità di esistenza attuale di una letteratura o un’arte che esprimano le aspirazioni della classe operaia. Se rifiuto di crederci, è perché in periodo pre-rivoluzionario lo scrittore o l’artista, di formazione necessariamente borghese, è per definizione inetto a tradurle”5. Infatti, come si potrebbero difendere una letteratura e un’arte cosiddette proletarie “in un’epoca in cui nessuno potrebbe vantarsi di appartenere alla cultura proletaria per l’ottima ragione che quella cultura non ha ancora potuto essere realizzata, nemmeno in regime proletario”6.
A partire dalla primavera del 1931 si
susseguono quattro documenti, i primi due con titoli che si
commentano da soli: “Non visitate l’esposizione coloniale”
(maggio) e “Primo bilancio dell’esposizione coloniale” (3
luglio). “Al fuoco” inneggia invece alla ripresa delle lotte in
Spagna: “A partire dal 10 maggio 1931, a Madrid, Cordova, Siviglia,
Bilbao, Alicante, Malaga, Granada, Valenza, Algeciras, San Roque, La
Linea, Cadice, Arcos de la Frontera, Huelva, Badajoz, Jerez, Almeria,
Murcia, Gijon, Teruel,
Santander, La Coruña, Santa Fé, ecc., la folla ha incendiato le
chiese, i conventi, le università religiose, distrutto le statue, i
quadri che questi edifici contenevano, devastato gli uffici dei
giornali cattolici, cacciato tra le urla i preti, i monaci, le suore,
che passano in fretta le frontiere. Cinquecento edifici distrutti per
cominciare non chiuderanno questo bilancio di fuoco. Opponendo a
tutti i roghi una volta innalzati dal clero di Spagna la grande luce
materialista delle chiese bruciate, le masse sapranno trovare nei
tesori di queste chiese l’oro necessario per armarsi, lottare, e
trasformare la Rivoluzione borghese in Rivoluzione proletaria”.
Nel febbraio 1933 i nazisti danno fuoco
al Reichstag accusando del rogo i comunisti e dando così un pretesto
a Hindenburg per abrogare i diritti fondamentali sanciti dalla
costituzione di Weimar. Il decreto che mette fine alla repubblica
prepara il terreno per la vittoria (truccata) dei nazisti, che in
marzo ottengono il 44 per cento dei seggi in Parlamento. Per
consolidarne il dominio Hindenburg firma un nuovo decreto che
autorizza Hitler a legiferare per quattro anni senza il controllo del
Reichstag.
L’Associazione degli artisti e
scrittori rivoluzionari (AEAR) e i surrealisti sono gli unici gruppi
di intellettuali che in Francia cercano di allertare l’opinione
pubblica. Nell’appello “Protestate!” essi avvertono che il
risultato elettorale in Germania è il prologo di un regresso della
civiltà, della messa fuori legge di ogni pensiero che non sia
retrogrado, del ritorno al più cupo e feroce antisemitismo da
medioevo. L’appello auspica un fronte unico di lavoratori e
intellettuali per lottare contro il terrore in Germania e contro il
Trattato di Versailles, le cui clausole inique hanno favorito, se non
provocato, l’ascesa del nazismo.
L’anno seguente, le giornate dal 6 al
10 febbraio 1934 segnano l’offensiva del fascismo francese. La
reazione di Breton e dei suoi amici è immediata: “È la sera
stessa del 6 febbraio 1934, cioè tre o quattro ore dopo il putsch
fascista di cui alcuni di noi erano stati a osservare il concreto
sviluppo, chi sui grandi boulevards, chi nelle vicinanze della Place
de la Madeleine, che, dietro mio suggerimento, si stabilì di
invitare a riunirsi subito il maggior numero possibile di
intellettuali dl tutte le tendenze decisi a far fronte alla
situazione. Si trattava di fissare immediatamente le misure di
resistenza che potevano essere prospettate. Questa riunione – che
doveva durare tutta la notte – si concluse con la redazione, [il 10
febbraio 1934] di un documento intitolato ‘Appello alla lotta’
che scongiurava le organizzazioni sindacali e politiche della classe
operaia di realizzare l’unità d’azione e si pronunciava per lo
sciopero generale”7.
Dal primo al secondo dopoguerra i
surrealisti sono stati quasi isolati nel denunciare la degenerazione
dello Stato Sovietico. Mi basti citare una sola dichiarazione
redatta nel 1935. “Limitiamoci a registrare il processo di rapido
regresso per cui dopo la
patria è la famiglia a uscire indenne dalla rivoluzione russa
agonizzante (che ne pensa Gide?). Laggiù non resta altro che
restaurare la religione e – perché no? – la proprietà privata
perché sia finita con le più belle
conquiste del socialismo. A costo di provocare il furore dei
loro turiferari, chiediamo
se vi sia bisogno di un altro bilancio per giudicare dalle loro opere
un regime, in particolare il regime attuale della Russia sovietica e
l’onnipossente capo sotto il quale quel regime sta volgendo alla
negazione radicale di ciò che dovrebbe essere e di ciò che è
stato. A quel regime, a quel capo, non possiamo che significare
formalmente la nostra sfiducia”8.
In questo convegno dominato dagli
stalinisti – nel quale si tentò perfino di impedire ai surrealisti
di leggere la loro relazione – le sole voci di dissenso furono
quelle di Waldo Frank, André Malraux, Boris Pasternak, Magdeleine
Paz, Charles Plisnier e Gaetano Salvemini.
Nel manifesto “Al tempo che i
surrealisti avevano ragione” (1935), Breton e i suoi amici tornando
sulla questione della difesa della cultura, affermano: “Il problema
non può essere quello della difesa e della conservazione della
cultura. La cultura, dicevamo, ci interessa solo nel suo divenire, e
questo divenire esige prima di tutto la trasformazione della società
mediante la rivoluzione proletaria”9.
Nel 1936 la congiuntura internazionale
diventa esplosiva. Il 18 luglio in Spagna il generale fellone
Franco si ammutina e aggredisce la Repubblica: è il prologo
della resa delle “democrazie” occidentali alla peste bruna. In
Francia la vittoria del Fronte popolare in giugno non frena la corsa
all’abisso. Lo stesso anno la Renania è rioccupata. Quando
l’eroica resistenza spagnola viene tradita dal governo francese del
Fronte popolare, sono ancora i surrealisti ad avvertire che
l’abbandono della Spagna repubblicana non può essere che il
preludio alla realizzazione del piano di egemonia mondiale dei
nazifascisti. Essi reclamano una decisa azione prima che sia troppo
tardi: “Fronte popolare! Organizza d’urgenza le masse!
Costituisci, esercita, arma le milizie proletarie senza le quali non
sei che una facciata! È venuto il momento di mettere a profitto il
vecchio argomento dei tuoi avversari: l’affermazione concreta della
forza è la prima garanzia di sicurezza! (Neutralité?
Non-sens, crime et trahison, 20 agosto 1936).
Il 3 settembre 1936 e il 26 gennaio
1937 André Breton prenderà posizione sui primi e sui secondi
processi di Mosca. Ne rimase così sconvolto che quindici anni dopo
la sua indignazione rimaneva intatta: “Non riesco a spiegarmi come
oggi, anche con quel minimo di coscienza che può sussistere, non ci
si ribelli dinanzi alla sfida impudente non dico a ogni sentimento di
giustizia, ma addirittura al più elementare buon senso, costituita
dalla messa in scena di quei processi e dalle motivazioni delle
sentenze”10.
Poco più di un anno dopo Breton parte
per il Messico per incontrare l’uomo il cui pensiero politico e il
cui rigore morale egli ha ammirato e difeso sin dal 1925, e cioè sin
dall’inizio del periodo “ragionante” del surrealismo. Gli
incontri con Trotsky permisero presto di “giungere a un accordo
circa le condizioni che, da un punto di vista rivoluzionario,
dovevano essere riservate all’arte e alla poesia, affinché queste
partecipassero alla lotta emancipatrice, pur rimanendo interamente
libere nelle loro ricerche”11.
Questa intesa si espresse in un testo, pubblicato il 25 luglio 1938,
con il titolo Per un’arte rivoluzionaria indipendente e si
concluse, l’anno seguente, con la fondazione di una ‘Federazione
internazionale dell’arte rivoluzionaria indipendente’ (FIARI)”.
È sintomatico che l’ultima presa di
posizione dei surrealisti, poco prima dello scoppio della guerra, nel
luglio del ‘39, sia una protesta contro l’arresto di tre
militanti rivoluzionari, nel quale i surrealisti vedono l’annuncio
della soppressione di tutte le libertà. “Stiamo bene attenti!
L’incarcerazione di questi tre nostri compagni è solo un piccolo
saggio. Se riesce, è la fine anche delle poche libertà che ancora
ci restano [...] Invitiamo tutti coloro che non sono stati ancora
colpiti da questo ignobile contagio sciovinistico, tutti coloro che
osano pensare liberamente, a unirsi a noi per protestare contro gli
scellerati decreti-legge che autorizzano lo stato maggiore a far
pesare fin da ora la sua dittatura facendo passare per un ‘attentato
alla difesa nazionale’, anzi per una operazione spionistica,
l’azione di uomini coraggiosi, dell’onestà e della lucidità dei
quali rispondiamo noi. C’è di mezzo non la loro libertà, ma la
libertà di tutti” (A bas les lettres de cachet”
(luglio 1939).
Nel 1941 Breton, rifugiato a Marsiglia
in zono non-occupato parte per New York, tornato a Parigi nella
primavera del 1946. Il suo primo intervento pubblico – un discorso,
il 7 giugno, in difesa di Antonin Artaud al Teatro Sarah Bernhardt –
gli dà l’occasione di chiarire il carattere irrisorio di “ogni
forma di engagement che stia al di qua di questo triplice e
indivisibile obiettivo: trasformare il mondo, cambiare la vita,
rifare da cima a fondo l’intelletto”12.
L’anno seguente tira altre stoccate contro l’engagement di molti
intellettuali, per la maggior parte stalinisti, spesso gli stessi che
durante l’occupazione nazista, e prima che il conflitto
coinvolgesse l’URSS, incitavano a fraternizzare con il soldato
tedesco e a collaborare con il regime di Pétain: “L’ignobile
parola impegno [engagement], che è diventata alla moda durante la
guerra, trasuda un servilismo che fa orrore alla poesia e all’arte”13.
Lo stesso anno ricorda il concetto base
del surrealismo: per trasformare il mondo bisogna prima conoscerlo. E
come possono trasformarlo coloro che tradiscono la verità e la
bellezza? Breton scrive: “Che aberrazione, che impudenza c’è nel
volere ‘trasformare’ un mondo quando si fa così poco caso della
necessità di interpretarlo in ciò che ha di più permanente!”14.
La prima dichiarazione collettiva del
gruppo va situata nel clima politico dell’immediato dopoguerra,
quando, conniventi i comunisti al governo, si abiuravano gli
ideali della Resistenza. Le forze del colonialismo francese
avevano represso con furore selvaggio le istanze nazionaliste in
Algeria (45.000 massacrati in seguito alla repressione di una
manifestazione dei braccianti del Setif), e in Madagascar (85.000
morti tra il 1947 e il ‘48). Ora si trattava di condannare il
tentativo di ridurre nuovamente a colonia la Repubblica Democratica
del Vietnam, la cui indipendenza era stata proclamata da Ho Chi-minh
il 29 agosto 1945. Con vigore e lucidità il gruppo riconferma le
proprie opzioni rivoluzionarie e internazionaliste, concludendo il
loro manifesto di condanna con queste parole, “il surrealismo
dichiara di non aver rinunciato a nessuna delle sue rivendicazioni e
meno che mai alla volontà di una trasformazione radicale della
società. Ma esso sa quanto siano illusori gli appelli alla
coscienza, all’intelligenza e persino agli interessi degli uomini,
quanto siano facili su questo piano la menzogna e l’errore e quanto
le divisioni siano inevitabili: per questo il campo che si è
prescelto è al tempo stesso il più ampio e il più profondo,
commisurato a una vera fraternità umana. Esso è dunque qualificato
per elevare la sua protesta veemente contro l’aggressione
imperialista e per rivolgere il suo saluto fraterno a coloro che in
questo stesso momento incarnano il divenire della libertà”15.
Questa dichiarazione e le due seguenti
(“Rottura inaugurale” e “A cuccia, i piagnoni di dio!”)
esplicitano – e il discorso è diretto in particolare alle nuove
leve – le direttive fondamentali che hanno caratterizzato la
riflessione poetica e ideologica nel periodo tra le due guerre, e
cioè: internazionalismo, antistalinismo e anticlericalismo. “Rottura
inaugurale” (giugno 1947) ribadisce l’autonomia del pensiero
surrealista dai partiti, in primo luogo da quello comunista, e
persino dal trotskista, e conclude: “È nella misura in cui chiede
alla rivoluzione di inglobare la totalità dell’uomo, di non
concepirne la liberazione da un angolo visuale particolare bensì
sotto tutti gli aspetti contemporaneamente che il surrealismo si
dichiara il solo qualificato a gettare sulla bilancia le forze di cui
si è fatto l’indagatore e poi il conduttore meravigliosamente
magnetico – dalla donna-bambina allo humour nero, dal caso
oggettivo alla volontà del mito. Queste forze hanno come luogo di
elezione l’amore incondizionato, sconvolgente e folle che solo
permette all’uomo di vivere in tutta la sua ampiezza, di evolvere
secondo dimensioni psicologiche nuove.
“Questa impresa è l’impresa
specifica del surrealismo. È il suo grande appuntamento con la
Storia. Il sogno e la rivoluzione sono fatti per conciliarsi, non per
escludersi. Sognare la Rivoluzione non significa rinunciarvi, ma
farla doppiamente e senza riserve mentali. Sventare l’invivibile
non significa fuggire la vita, ma precipitarvisi totalmente e senza
ritorno. “IL SURREALISMO È QUELLO CHE SARÀ”16.
In Arcane 1717,
uno scritto redatto durante gli anni dell’ultimo conflitto
mondiale, Breton per la prima volta esprime dubbi sulla via proposta
dai marxisti-leninisti per giungere alla liberazione dell’uomo.
Egli è scosso dalla sterile esperienza di quindici anni di lotta
accanto alla sinistra, sia pure non stalinista, ma comunque marxista.
Questi anni gli hanno fatto constatare quanto i militanti, non solo
di questa sinistra, siano sordi alle rivendicazioni che non siano
sociali. L’unico uomo politico – Trotsky – che aveva capito il
carattere insopprimibile delle rivendicazioni dell’uomo come
individuo, e non come un’entità astratta indissolubilmente legata
alla massa, era stato assassinato quattro anni prima.
Breton torna allora al suo primo amore,
torna alla grande corrente del pensiero libertario, alle fonti, al
socialismo utopico di Fourier18.
Rievoca l’emozione che provò, a diciassette anni, all’apparire
delle bandiere nere in una dimostrazione popolare: “Ritroverò
sempre per la bandiera rossa, spoglia di sigle e di emblemi, lo
sguardo che ho avuto a diciassette anni, quando, nel corso di una
manifestazione popolare, alla vigilia dell’altra guerra, l’ho
vista dispiegarsi a migliaia nel cielo basso di Pré Saint-Gervais. E
tuttavia – sento che, razionalmente non posso evitarlo –
continuerò a fremere ancora di più evocando il momento in cui, quel
mare fiammeggiante in punti poco numerosi e ben circoscritti, è
stato forato dal volo delle bandiere nere”19.
Poi il suo ricordo va ancora più
lontano, alla sua infanzia: “Non dimenticherò mai il sollievo,
l’esaltazione e l’intima soddisfazione suscitata in me, una delle
prime volte in cui da bambino fui accompagnato in un cimitero –
fra tanti monumenti funebri deprimenti o ridicoli – dalla scoperta
di una semplice lastra di granito dov’era inciso in lettere
maiuscole rosse il superbo motto: NÉ DIO NÉ PADRONE. La poesia e
l’arte avranno sempre un predilezione per tutto ciò che trasfigura
l’uomo in questa ingiunzione disperata, irriducibile che, di quando
come una sfida derisoria egli rivolge alla vita. Perché al di sopra
dell’arte e della poesia, lo si voglia o no, sventola una bandiera
rossa e nera di volta in volta”20.
“A cuccia, i piagnoni di dio!”
(giugno 1948) denuncia i vari tentativi di strumentalizzare, a
profitto del cristianesimo, il pensiero di Rimbaud, di Lautréamont e
persino di Sade. Vi si osserva che “i cristiani d’oggi dispongono
di argomenti presi in immondezzai teologici abbastanza eterocliti da
far fronte alle circostanze più diverse. In queste condizioni, non
essendovi la benché minima costanza nel linguaggio da essi
impiegato, a causa della loro fondamentale duplicità, ogni
discussione è impossibile. Del resto lo è sempre stata. E così,
anche se l’idea di dio, considerata in quanto tale, non riuscirebbe
che a strapparci degli sbadigli di noia, poiché le circostanze in
cui questa idea interviene sono tali da suscitare la nostra collera,
gli esegeti non siano sorpresi di vederci ricorrere ancora alle
‘grossolanità’ dell’anticlericalismo elementare dove il Merde
à dieu iscritto sugli edifici del culto a Charleville resta
l’esempio tipico. Il fatto che i politici tra loro rinuncino
all’anatema non basta perché noi rinunciamo a quelle che chiamano
bestemmie, apostrofi evidentemente prive ai nostri occhi di ogni
obiettivo sul piano divino, ma che continuano a esprimere la nostra
irriducibile avversione verso qualunque essere inginocchiato”21.
Dalla fine degli anni Quaranta in poi
le presi di posizioni surrealiste arrivano sempre puntuali per
condannare ogni involuzione reazionaria. Ma per concludere vorrei
ricordare la collaborazione dei surrealisti con Le Libertaire –
settimanale della Federazione anarchica in Francia – che, a partire
da 22 maggio del 1947 inizia ad ospitare testi surrealisti
pubblicando la prima dichiarazione collettiva del dopoguerra,
“Libertà è una parola vietnamita”. Tra il 17 giugno e il 20
novembre 1952 uscirono altri trentuno testi tra i quali due discorsi
di Breton: quello pronunciato alla Mutualité (21 ottobre 1949),
dove, dopo aver ribadito la profonda affinità tra surrealismo e
anarchia. viene commentato il programma del movimento “Cittadino
del mondo” lanciato da Gary Davis; e quello a Wagram (6 marzo 1952)
in difesa dei sindacalisti condannati a morte da Franco.
Con la “Dichiarazione preliminare”
(12 ottobre 1951) iniziava, sotto forma di “Billets surréalistes”,
la collaborazione regolare al già citato Le Libertaire:
“Surrealisti, noi non abbiamo mai cessato di riservare alla trinità
Stato-lavoro-religione un’esecrazione che ci ha spesso condotti a
incontrarci con i compagni della Fédération anarchiste. Questo
accostamento ci conduce oggi a esprimerci sul Libertaire. Ce ne
rallegriamo tanto più in quanto questa collaborazione ci consentirà,
pensiamo, di definire alcune delle grandi linee di forza comuni a
tutti gli spiriti rivoluzionari […]
Questa sovversione, il surrealismo è
stato e rimane il solo a intraprenderla sul terreno sensibile che gli
è proprio. Il suo sviluppo, la sua penetrazione negli spiriti hanno
messo in evidenza l’insuccesso di tutte le forme di espressione
tradizionali e hanno dimostrato che esse erano inadeguate alla
manifestazione di una rivolta cosciente dell’artista contro le
condizioni materiali e morali imposte all’uomo. La lotta per la
sostituzione delle strutture sociali e l’attività profusa dal
surrealismo per trasformare le strutture mentali, lungi
dall’escludersi, sono complementari. La loro unione dovrà
affrettare l’avvento di un’èra libera da ogni gerarchia e da
ogni costrizione”22.
Oggi, come ieri, il movimento
surrealista continua la stessa lotta su una scala internazionale più
estesa che mai. Si veda in proposito il mio Il Surrealismo, ieri e
oggi / Storia, filosofia, politica, in corso di stampa dove do la
parola a oltre 40 militanti sparsi in Europa, nell’America del Nord
e del Sud, in Africa, in Asia e in Australia dove il surrealismo è
tutt’ora, per dirla con un espressione inglese, alive and kicking,
e cioè, vivo e scalciante.
1
Breton, Entretiens
1913-1952 (interviste radiofoniche con André
Parinaud), trad. Livio Maitan e Tristan Sauvage [Arturo Schwarz],
Storia del Surrealismo,
Schwarz Editore, Milano 1960, p. 197
2
“Discorso al Congresso degli
scrittori”, giugno 1935 in Manifesti
del Surrealismo, Einaudi,
Torino 1966, p. 172.
3
La Révolution
Surréaliste (Paris), n. 2, 15 gennaio 1925,
p. 18, ripreso in André Breton, Storia del
surrealismo 1919-1945, cit. p. 211
4
“La claire tour”, in Le
Libertaire (Paris), 11 gennaio 1952,
p. 2, ripreso in La clé des champs,
Editions du Sagittaire, Paris 1953, pp. 272-73.
5
Seconde manifeste du surréalisme”
(1930), in Breton, Manifesti
del surrealismo,
cit., p. 90
6
ibid, p. 91
7
Breton, Storia
del surrealismo, cit.
pp. 157-58
8
Breton, “Posizione politica del
Surrealismo”, 1935 in Manifesti
del Surrealismo, cit.,
p. 183-84
9
“Du temps que les surréalistes avaient raison” (1935), ibid.,
p. 173.
10
Breton, Storia del Surrealismo,
cit., p. 161
11
idem, p. 172
12
Breton, “Hommage à Antonin Artaud” (7 giugno 1946), in La
clé des champs,
cit.,
p. 84.
13
Breton, “Seconde arche”, ibid., p. 109. Vedi anche, su
questo argomento, Benjamin Péret, Le déshonneur des poètes
(1945), Pauvert, Paris 1965, ripreso qui quasi integralmente alle
pp. 209-11.
14
Breton, “Signe ascendant” (30 dicembre 1947), in La
clé des champs,
cit.,
p. 113
15
“Liberté est un mot vietnamien” (aprile 1947), in Jean-Louis
Bédouin, Storia
del Surrealismo, dal 1945 ai nostri giorni,
Schwarz Editore, 1960, pp. 253-55.
16
“Rupture inaugurale” (21 giugno 1947), ibid.,
p. 263.
17
Breton, Arcane
17
(1944), Sagittaire, Paris 1947.
18
Breton, Ode
à Charles Fourier,
Fontaine, Paris 1947.
19
Breton, Arcane 17,
cit., p. 20.
20
Ibid., p. 21.
21
“A la niche les glapisseurs de dieu” (14 giugno 1948), in
Bédouin, Storia
del Surrealismo, dal 1945 ai nostri giorni,
cit., « Documenti » p. 269.
22
“Déclaration préalable”, in Le
Libertaire (Paris), 12 ottobre 1951, ripreso
in Arturo Schwarz, Breton Trotskij e
l’anarchia, Multhipla, Milano 1980 (I ed.,
Savelli, Roma 1974), pp. 177-78.
Giugno 2013
Nel Novecento, critici e storici
dell’arte accolsero come una rivoluzionaria novità la seguente
poesia che Tristan Tzara pubblicò nel 1921 nel Manifeste sur l’amour
faible et sur l’amour amère:
Per fare un poema dadaista
Prendete un giornale
Prendete delle forbici
Scegliete in questo giornale un
articolo che abbia la lunghezza che intendete dare al vostro poema
Ritagliate l’articolo
Ritagliate poi con cura le parole che
compongono questo articolo e mettetele in un sacco
Agitate dolcemente
Estraete poi i ritagli uno dopo l’altro
nell’ordine che hanno lasciato il sacco
Copiate coscienziosamente
Il poema vi assomiglierà
Ed ecco che siete uno scrittore
infinitamente originale e d’una sensibilità incantevole anche se
non capita dal volgo
Senza che sia necessario tornare a Platone che nel Simposio riconosce che vi è “una singola scienza che è la scienza della bellezza ovunque”, sin dall’Settecento il poeta Novalis anticipò lo spirito che mosse Tzara, mentre, Lewis Carroll propose, nel 1860, esattamente la stessa ricetta per comporre una poesia nelle 18 strofe del suo Poeta Fit, Non Nascitur del quale mi limito a tradurne un paio:
Senza che sia necessario tornare a Platone che nel Simposio riconosce che vi è “una singola scienza che è la scienza della bellezza ovunque”, sin dall’Settecento il poeta Novalis anticipò lo spirito che mosse Tzara, mentre, Lewis Carroll propose, nel 1860, esattamente la stessa ricetta per comporre una poesia nelle 18 strofe del suo Poeta Fit, Non Nascitur del quale mi limito a tradurne un paio:
Dapprima scrivi un periodo
E poi lo tagli a pezzetti;
Poi mescola i pezzi e li tiri fuori
Proprio come capitano:
L’ordine delle frasi
Non fa nessuna differenza
Allora, se siete stati emozionanti
Ricordate quello che dico,
Che le qualità astratte iniziano
Sempre con la maiuscola:
Il Vero, il Buono, il Bello –
Queste sono le cose che rendono!1
Ma, a proposito del ruolo del caso
quale fattore di un testo poetico o di un opera d’arte – e di
conseguenza, della valenza estetica di un oggetto comune –
ricordiamo alcuni precedenti oltremodo significativi. Senza che sia
necessario tornare a Platone – che nel Simposio riconosce che vi è
“una singola scienza che è la scienza della bellezza ovunque” –
per tornare al nostro tempo, iniziamo con Novalis e, a quando il
sublime romantico intuisce che, “La poesia è il reale, il reale
veramente assoluto” aggiungendo, “Ci sono momenti nei quali
perfino sillabari e dizionari ci sembrano poetici” e poi, come per
concludere, “Regno del poeta sia il mondo collocato nel centro
focale dl suo tempo” 2.
In altri termini, viene riconosciuto che la bellezza può essere
celata anche nell’oggetto più banale e/o essere il prodotto del
puro caso. In proposito Lautréamont, fra gli altri, scrive, “Bello
come l’incontro casuale sul tavolo anatomico di una macchina da
cucire con un ombrello”3.
Anche Baudelaire e Rimbaud battono lo stesso tasto. Per Baudelaire
non vi è nulla, “di più affascinante, di più fertile e di più
sicuramente eccitante del luogo comune” e aggiunge, “Immensa
profondità di pensiero nei comuni modi di dire”4.
Di rimando, Rimbaud ha spiegato, “Il vecchio materiale della poesia
ha avuto una parte importante nella mia alchimia della parola”,
precisando, “Io credevo in tutti gli incantesimi: amavo quadri
idioti, stipiti delle porte, scene teatrali, insegne dei tendoni dei
saltimbanchi, insegne dei negozi, oleografie popolari, ritornelli
idioti, ritmi ingenui”5.
Apollinaire chiede, “Leggete volantini, cataloghi, cartelli
cantando a voce spiegata/ Questa è la poesia stamattina, e per la
prosa ci sono i giornali”6.