NOTA SUL SISTEMA
ELETTORALE
di Paolo Maria Di Stefano
Che la questione del sistema elettorale si confermasse tormentone
assoluto era facile profezia. Di più: una certezza. Ma che toccasse vette
inusitate di surrealismo a un tempo becero e incoerente almeno per me è stata
una sorpresa, anche se non proprio inattesa. Becero per i modi, ovviamente;
incoerente perché dimostrazione che tutto quanto i nostri politici vanno
dicendo sembra frutto più che di pensiero e di ragionamento diretti a meglio
conoscere ed a valorizzare gli interessi dell’Italia e degli italiani, di
improvvisazione e di egoismo personale.
Ma non abbiamo noi sempre
proclamato la fantasia e la creatività degli italiani? E non ne abbiamo fatto
segni distintivi tra gli umani? Nessuno sembra chiedersi di quale livello e
qualità sia una creatività che, al massimo, si limita a proporre l’adozione di
sistemi in uso in altri Paesi, magari con qualche cambiamento.
Tanto per personalizzarlo quel
poco che basta…a renderlo meno funzionale dell’originale nel Paese di origine.
E non è di gran moda, tra i nostri politici, gridare a destra e a
manca la priorità degli interessi del Paese di fronte a quelli – sia pur
legittimi – delle persone e dei raggruppamenti i più vari? Ma quando si tratta
di cambiare un sistema elettorale (peraltro, oltre che dichiarato illegittimo,
riconosciuto come una porcheria dai suoi ideatori) l’obbiettivo primario si
concreta nel “vincere” le elezioni, e dunque si guarda con sospetto ogni e
qualsiasi proposta che in qualche modo metta in discussione le probabilità di
vittoria di cui ciascuno crede di disporre.
Con buona pace degli interessi
della Nazione.
E allora, ecco il contorcimento
del metodo del cincischio. E neppure organizzato, il cincischio, se non perché
basato sulla presunzione che ogni proposta sia elaborata nell’interesse del
proponente, e quindi a scapito degli altri, e dunque meriti un’immediata
valutazione negativa, al massimo accompagnata da un’altra proposta, appena
diversa, comunque meno negativa per l’obbiettore.
Ed è qui che il cincischio si
mescola all’improvvisazione.
Che è da sempre il metodo di
lavoro della politica in Italia.
Comunque…!
Eppure, a mio parere una metodologia di lavoro esiste e la si
potrebbe anche definire logica e praticabile.
Questa.
Partendo dalla considerazione -inoppugnabile-
che compito della Politica è di soddisfare i bisogni della società organizzata
in forma di Stato, e quindi della generalità; che questa soddisfazione la si
ottiene attraverso la produzione di servizi e di beni dedicati; che “i
prodotti” direttamente o indirettamente generati dallo Stato sono destinati ad
essere oggetto di scambio e, infine, che ciascuno degli scambi deve avvenire
nel modo migliore anche dal punto di vista economico, partendo da questi
principi, dicevo, in una democrazia che si rispetti dovrebbe esser normale
proporre agli elettori una serie di piani di gestione degli scambi ordinati
secondo una scala di priorità.
Piani di gestione, e non
dichiarazioni di intenti o “programmi” (termine, quest’ultimo, largamente
abusato). La differenza sta nella non trascurabile circostanza che un piano di
gestione contiene la risposta esauriente a ciascuno di quei famigerati “5 W e 1
H” atti, da noi, a riempire le bocche di troppi, così occupandoli a masticare
tanto da impedire qualsiasi diversa attività.
La proposta di votare piani di
gestione significa da un lato l’impegno “dello
Stato” ad operare come il piano descrive; dall’altro, consentire ai
cittadini il pieno controllo dell’attività dei politici e il potere di “licenziarli” se necessario ed
opportuno.
E significa anche il dovere, da parte dei partiti, di utilizzare
risorse umane professionalmente di altissimo livello sia per l’elaborazione
delle pianificazioni che per la loro attuazione. E questo anche nell’interesse
di ciascun partito o movimento.
Non è, ovviamente, necessario che
nella tornata elettorale i partiti presentino un panorama completo di
pianificazioni di gestione: a mio parere, sarebbe sufficiente proporre due o
tre (o anche uno o quattro) piani, indicando a completamento eventuali
“programmi futuri”.
Tra i non pochi – ma assolutamente risolvibili – problemi che la
proposta solleva, uno troverebbe soluzione pressoché immediata. Quello delle
“larghe intese”, aprioristicamente a mio parere criticato e rigettato.
In una qualsiasi struttura che si
rispetti e che sia espressione di democrazia in una realtà democratica, l’approvazione
di un piano di gestione impone la partecipazione leale alla sua realizzazione di
tutti, ivi compresi gli oppositori (a loro volta, estensori di piani di
gestione in qualche modo diversi da quello approvato). Con un vantaggio non
trascurabile: dare un significato reale e corretto ad un’espressione (larghe
intese, appunto) che così come è significa solo “compromesso non sempre coerente”.
E il significato diventa: rispetto di tutti della volontà popolare espressa su
quello o su quei piani di gestione, con in più la attuazione di una concreta
funzione di controllo da parte di quella che oggi viene chiamata “opposizione”.
E poi, un ulteriore punto di forza: poiché da noi (in Italia, ma
non solo) gli intenti, almeno quelli espressi, sono in gran parte comuni
(lavoro, scuola, sistema fiscale, giustizia …) diverrebbe essenziale e
preminente quel “come ( H)” che oggi nessuno disegna compiutamente, in stile di
“progetto esecutivo”, al massimo limitandosi ad indicare un modo che sembra
essere di per sé un progetto incompiuto e comunque nebuloso.
E il “come” è, invece, il più
concreto indice di realismo e di professionalità.
Anche in Politica.
Ed è anzi probabile che proprio pensando professionalmente al
“come” ci si renda conto che il problema dei posti di lavoro – meglio, del
lavoro- lo si risolve e mai comunque totalmente soltanto modificando
profondamente l’attuale sistema economico il quale, stranamente (ma non poi
tanto!), in nome della libertà si è rivelato un sistema di rapina dei più
deboli da parte di chi detiene il potere. E che, di conseguenza, farne oggetto
di iniziative promozionali dirette a restituirlo ai fasti di un tempo è non
soltanto irragionevole, ma addirittura criminale.