Pagine

sabato 11 gennaio 2014

NOTA SUL SISTEMA ELETTORALE
di Paolo Maria Di Stefano

Che la questione del sistema elettorale si confermasse tormentone assoluto era facile profezia. Di più: una certezza. Ma che toccasse vette inusitate di surrealismo a un tempo becero e incoerente almeno per me è stata una sorpresa, anche se non proprio inattesa. Becero per i modi, ovviamente; incoerente perché dimostrazione che tutto quanto i nostri politici vanno dicendo sembra frutto più che di pensiero e di ragionamento diretti a meglio conoscere ed a valorizzare gli interessi dell’Italia e degli italiani, di improvvisazione e di egoismo personale.
Ma non abbiamo noi sempre proclamato la fantasia e la creatività degli italiani? E non ne abbiamo fatto segni distintivi tra gli umani? Nessuno sembra chiedersi di quale livello e qualità sia una creatività che, al massimo, si limita a proporre l’adozione di sistemi in uso in altri Paesi, magari con qualche cambiamento.
Tanto per personalizzarlo quel poco che basta…a renderlo meno funzionale dell’originale nel Paese di origine.
E non è di gran moda, tra i nostri politici, gridare a destra e a manca la priorità degli interessi del Paese di fronte a quelli – sia pur legittimi – delle persone e dei raggruppamenti i più vari? Ma quando si tratta di cambiare un sistema elettorale (peraltro, oltre che dichiarato illegittimo, riconosciuto come una porcheria dai suoi ideatori) l’obbiettivo primario si concreta nel “vincere” le elezioni, e dunque si guarda con sospetto ogni e qualsiasi proposta che in qualche modo metta in discussione le probabilità di vittoria di cui ciascuno crede di disporre.
Con buona pace degli interessi della Nazione.
E allora, ecco il contorcimento del metodo del cincischio. E neppure organizzato, il cincischio, se non perché basato sulla presunzione che ogni proposta sia elaborata nell’interesse del proponente, e quindi a scapito degli altri, e dunque meriti un’immediata valutazione negativa, al massimo accompagnata da un’altra proposta, appena diversa, comunque meno negativa per l’obbiettore.
Ed è qui che il cincischio si mescola all’improvvisazione.
Che è da sempre il metodo di lavoro della politica in Italia.

Comunque…!

Eppure, a mio parere una metodologia di lavoro esiste e la si potrebbe anche definire logica e praticabile.
Questa.
Partendo dalla considerazione -inoppugnabile- che compito della Politica è di soddisfare i bisogni della società organizzata in forma di Stato, e quindi della generalità; che questa soddisfazione la si ottiene attraverso la produzione di servizi e di beni dedicati; che “i prodotti” direttamente o indirettamente generati dallo Stato sono destinati ad essere oggetto di scambio e, infine, che ciascuno degli scambi deve avvenire nel modo migliore anche dal punto di vista economico, partendo da questi principi, dicevo, in una democrazia che si rispetti dovrebbe esser normale proporre agli elettori una serie di piani di gestione degli scambi ordinati secondo una scala di priorità.
Piani di gestione, e non dichiarazioni di intenti o “programmi” (termine, quest’ultimo, largamente abusato). La differenza sta nella non trascurabile circostanza che un piano di gestione contiene la risposta esauriente a ciascuno di quei famigerati “5 W e 1 H” atti, da noi, a riempire le bocche di troppi, così occupandoli a masticare tanto da impedire qualsiasi diversa attività.
La proposta di votare piani di gestione significa da un lato l’impegno “dello Stato” ad operare come il piano descrive; dall’altro, consentire ai cittadini il pieno controllo dell’attività dei politici e il potere di “licenziarli” se necessario ed opportuno.
E significa anche il dovere, da parte dei partiti, di utilizzare risorse umane professionalmente di altissimo livello sia per l’elaborazione delle pianificazioni che per la loro attuazione. E questo anche nell’interesse di ciascun partito o movimento.
Non è, ovviamente, necessario che nella tornata elettorale i partiti presentino un panorama completo di pianificazioni di gestione: a mio parere, sarebbe sufficiente proporre due o tre (o anche uno o quattro) piani, indicando a completamento eventuali “programmi futuri”.

Tra i non pochi – ma assolutamente risolvibili – problemi che la proposta solleva, uno troverebbe soluzione pressoché immediata. Quello delle “larghe intese”, aprioristicamente a mio parere criticato e rigettato.
In una qualsiasi struttura che si rispetti e che sia espressione di democrazia in una realtà democratica, l’approvazione di un piano di gestione impone la partecipazione leale alla sua realizzazione di tutti, ivi compresi gli oppositori (a loro volta, estensori di piani di gestione in qualche modo diversi da quello approvato). Con un vantaggio non trascurabile: dare un significato reale e corretto ad un’espressione (larghe intese, appunto) che così come è significa solo “compromesso non sempre coerente”. E il significato diventa: rispetto di tutti della volontà popolare espressa su quello o su quei piani di gestione, con in più la attuazione di una concreta funzione di controllo da parte di quella che oggi viene chiamata “opposizione”.

E poi, un ulteriore punto di forza: poiché da noi (in Italia, ma non solo) gli intenti, almeno quelli espressi, sono in gran parte comuni (lavoro, scuola, sistema fiscale, giustizia …) diverrebbe essenziale e preminente quel “come ( H)” che oggi nessuno disegna compiutamente, in stile di “progetto esecutivo”, al massimo limitandosi ad indicare un modo che sembra essere di per sé un progetto incompiuto e comunque nebuloso.
E il “come” è, invece, il più concreto indice di realismo e di professionalità.

Anche in Politica.

Ed è anzi probabile che proprio pensando professionalmente al “come” ci si renda conto che il problema dei posti di lavoro – meglio, del lavoro- lo si risolve e mai comunque totalmente soltanto modificando profondamente l’attuale sistema economico il quale, stranamente (ma non poi tanto!), in nome della libertà si è rivelato un sistema di rapina dei più deboli da parte di chi detiene il potere. E che, di conseguenza, farne oggetto di iniziative promozionali dirette a restituirlo ai fasti di un tempo è non soltanto irragionevole, ma addirittura criminale.