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domenica 18 gennaio 2015

Il coraggio della matita
di Giovanni Bianchi

Questo importantissimo saggio di Giovanni Bianchi
è una rigorosa messa a punto per riconsiderare i vari
corni del problema


Un approccio fuorviante
Trovo oziosa e fuorviante la discussione intorno alla opportunità o alla esagerazione delle caricature uscite dalla matita dei vignettisti di Charlie Hebdo. La scivolata interpretativa è del "Financial Times", spintosi ad additare l'ingenuità della redazione di rue Nicolas Appert, vicino a Bastille, una piccola strada a traffico limitato, fino a sostenere che si sarebbe comportata in modo "stupido".
Il minimo che si possa dire è che lo spirito british è cosa tutt'affatto diversa e antagonistica  rispetto allo sfrenato volterrianesimo di Charb, Cabu, Wolinski e Tignous. D'altra parte l'opinione pubblica mondiale e tutta Parigi hanno mostrato di pensarla in senso opposto.
Il livello della satira è indubbiamente servito ai terroristi per scegliere le vittime e ottenere il massimo dello shock macabro e pubblicitario. Non ha certamente costituito l'innesco della decisione di procedere ad un attentato, che ci sarebbe comunque stato.
Non si fossero esposti con le loro graffianti matite il direttore Stéphane Charbonnier e i suoi amici e collaboratori della redazione, Jean Cabut, Georges Wolinski, Philippe Honoré e Bernard Verlhac, il bersaglio sarebbe risultato probabilmente un altro, ma l’assassinio e la mattanza avrebbero comunque avuto luogo.
I fratelli franco-algerini avrebbero potuto abbattere l'arcivescovo di Notre-Dame, in compagnia di qualche monsignore, con il sacrista o i chierichetti, in quanto titolari di una confessione antagonista, oppure parte del corpo delle ballerine delle Folies Bergère, accusate di lascivia, nudismo e non sottomissione.


La ragione per la quale le matite della redazione di Charlie Hebdo vanno assolutamente difese (una volta tanto, anche per me, senza se e senza ma) è perché hanno rappresentato secondo il proprio genio e l'ispirazione un elemento essenziale della nostra cultura e della nostra etica di cittadinanza.
La Francia dei lumi, così come si è trasformata nei secoli, ma anche la religione cattolica e protestante, e lo stesso ateismo militante, non possono essere disgiunti dalla radice illuministica che li attraversa e che li ha progressivamente e positivamente contagiati. Quello che, con una qualche approssimazione di troppo, siamo abituati a definire "mondo libero" non può rinunciare a questo patrimonio comune.
Quindi, bene ha risposto un’opinione pubblica "globale" che ha generalizzato il mantra Je suis Charlie Hebdo.

La linea di separazione
La linea di separazione tra islam e terrorismo è la stessa che separa la religione dall'etica di cittadinanza. La stessa che indica la dissoluzione del politico nello spirito di fazione. La stessa che condanna insieme alla follia dei terroristi di Parigi le torture di Abu Ghraib e Guantanamo. Dal momento che la storica separazione tra etica e politica non deve significare che la politica annulla l'etica. Una società senza etica di cittadinanza infatti non si tiene insieme, ma si dissolve. È infatti l'etica di cittadinanza e di una cittadinanza democratica l'unica in grado di leggere il terrorista più come roso dal risentimento e dalla volontà di potenza che dalla devozione islamica. Questo infatti è l'identikit dei killer (non devoti) dei vignettisti di Charlie Hebdo. E trovo francamente irritante discutere sul tasso di aggressività delle caricature. Ribadisco che le vignette sul Profeta sono state utili per individuare un obiettivo da colpire con il massimo di risonanza pubblicitaria.



La cosa più inquietante?
Abbastanza oziose anche le disquisizioni intorno alle differenze tra guerra e terrorismo. Quel vecchio filonazista di Carl Schmitt ci aveva già avvertiti negli anni Sessanta che la terza guerra mondiale era già cominciata e che sarebbe stata una guerra civile globale combattuta da terroristi. Un'espressione recentemente ripresa, quanto meno nelle linee generali, da papa Francesco.  Chi pensa a una netta separazione tra guerra e terrorismo è fermo alle trincee e ai sacri confini della patria della prima guerra mondiale. Adesso sui campi di battaglia sono molti di più i contractors stipendiati da agenzie ad hoc che i soldati regolari.
Negli anni Settanta il celebre polemologo magiaro-americano Edward Luttwak scriveva che le democrazie s'erano fatte oramai così deboli da non riuscire a difendersi se non con i mercenari. Chi qualche decennio fa ha usato la parola "mercenari" nel nostro Paese è stato additato alla pubblica vergogna da organi di stampa afflitti insieme da disinformazione e ipocrisia.
Questo il quadro -consolidato nella dissoluzione incominciata con lo sfarinamento dei blocchi antagonistici della guerra fredda- dal quale emerge la novità più inquietante. I terroristi islamici di Parigi sono infatti figli della Francia moderna, non della Siria, non dello Yemen e neppure dell'attuale Algeria, pur risultando franco-algerini. Dire che i terroristi sono terza generazione significa esattamente questo: una connotazione che supera e travolge il dato generazionale. Questi terroristi non sono pii: si collocano nello spazio (quasi un "nonluogo" tragico) dove un'etica distorta e la politica del risentimento incontrano e subordinano la religione. Dove la donna è sottomessa e le studentesse che frequentano il liceo devono essere rapite, violentate, rese schiave. Per questo le comunità e le folle islamiche che definiamo "moderate", e che sono semplicemente normali nella quotidianità, hanno capito che devono anzitutto reagire per difendere se stesse dal terrore, prima ancora che i Paesi e i cittadini che le ospitano.


Difendere Voltaire
Il moderno Occidente ha concorso a produrre l'antimoderno fondamentalista. Un cortocircuito dal quale leggere e indagare un fondamentalismo che attiene non tanto all'islam come fede religiosa, quanto all'islam come cultura e concezione dei rapporti e della vita nello spazio pubblico come in quello privato.  Per questo è giusto difendere Voltaire anche se non lo ami. Perché dopo aver riflettuto sull'influenza della religione sulla democrazia e sulla cultura illuministica che l'ha prodotta (il dibattito di Monaco di Baviera del 2004 tra Ratzinger e Habermas) è venuto il tempo di riflettere sull'influenza benefica dell'illuminismo democratico sul cristianesimo in generale e sul cattolicesimo in particolare.
Il Papa e il Vaticano erano contrari all'unità dell'Italia in quanto Stato-Nazione. I cattolici illuminati (Alessandro Manzoni e il vescovo di Cremona Geremia Bonomelli si schierarono per l'unità nazionale contro la loro chiesa, e anche don Giovanni Bosco fu tenuto in sospetto per i rapporti cordiali con casa Savoia) con la loro azione controcorrente hanno consentito a papa Paolo VI di definire un secolo dopo la presa di Porta Pia come un "fatto provvidenziale".
Ma non bisogna dimenticare che il cattolicesimo ufficiale del tempo era attraversato dalla diceria che gli zuavi armati di chassepots avevano attraversato la breccia con gli zaini colmi di Bibbie, considerate uno strumento religiosamente aggressivo perché protestante.


La religione come tema
Ha scritto in poesia Ernesto Olivero:

Ho sempre pensato
che chi non ha fede
non è un ateo
ma qualcuno in attesa di testimonianza.

Le analisi ostinatamente economiciste -quelle che guardano alla religione soltanto come oppio dei popoli- corrono in questa fase il rischio di finire subalterne al pensiero unico, che ha al fondo la medesima matrice. Rischiano cioè di dimenticare la svolta "epocale" contenuta nel discorso di Bergamo di Togliatti negli anni Cinquanta: un’analisi improntata a una ricerca tematica e di rapporti, e non già furbescamente tattica ed elettorale.
Non hanno cioè compreso la tragedia della ex Jugoslavia (una guerra dove hanno perso tutti e dove le nuove repubbliche dei Balcani Occidentali si sono giocate lo sviluppo per i prossimi trent'anni), dove le ragioni economiche non si sono collocate certamente in primo piano. Queste analisi risultano riduttive perché incapaci di cogliere il nocciolo del problema: quest'uomo, anche l’ateo, non è riducibile a un essere senza dover essere.
Si tratta di un'opportunità anche per un'amicizia e una cittadinanza laica e una solidarietà il cui ritrarsi ha lasciato lo spazio non al vuoto, ma al dilagare dell'invidia sociale.
Non è mia intenzione ridurre il dover essere al fatto religioso. Dover essere è lo spirito rivoluzionario (Mandela, ma anche Che Guevara), il genio creatore (la Nona di Beethoven, ma anche il Concerto di Colonia di Keith Jarrett), Van Gogh, Chagall e Matisse, Leopardi e Wislawa Szymborska... Là dove l'uomo scopre di essere più grande di se stesso, irriducibile a una questione di stomaco.
Quel vecchio arnese di Bentham diceva non a caso di preferire essere un uomo insoddisfatto piuttosto che un maiale soddisfatto. La differenza? Il dover essere. L'uomo oltre se stesso, come esigenza insopprimibile. Il porco probabilmente no.
Arrivo anche a pensare che questo anelito umano contribuisca all'essere di Dio, che può essere pensato -pare a me- non soltanto con la classica staticità scolastica del Motore Immobile.  Anche questa è una delle caratteristiche possibili di un amore costitutivo di Dio e dantescamente diffusivum sui. Dove l'amicizia e anche l'amore passionale entrano nella visione e in un percorso il cui esito ci sfugge, senza cessare di inquietarci.
Quel che cerco di argomentare è che anche l'irrisione intrinseca all'umorismo di Charb e Wolinski si trova in questa dimensione.
Là dove la tradizione religiosa (al plurale) è devozione, i vignettisti di Charlie Hebdo sono irrisione. Ma la dimensione dell'uomo otre l'uomo è la medesima. Non riducibile quindi all'economicismo finanziario di un pensiero unico che ha condotto (la vicina Svizzera insegna) alcuni dei suoi vertici manageriali al suicidio.
La riduzione economicistica dell'essere alla fine uccide. È l'idolo che ogni volta uccide, e Walter Benjamin aveva per tempo individuato il rischio nel cuore del capitalismo, che non a caso definiva "una religione".
Il benessere materiale, ovviamente limitato a un settore dell'umanità nella società sempre più liquida, e il crescere delle disuguaglianze che lo accompagnano creano ribellione e anticorpi cui l'ordine disordinato dell'economia del potere finanziario non è in grado di rispondere.
Restano e si estendono una tensione, un bisogno e soprattutto un desiderio le cui valenze risultano tragicamente non saturate. Né Charb né Wolinski avrebbero altrimenti rischiato tanto e con tanta consapevole ostinazione.


Religione e libertà
Croce parlò in Italia più di mezzo secolo fa di "religione della libertà". Dubito che Croce e la sua espressione fossero di casa nella redazione di rue Nicolas Appert, ma non mi spiegherei la "militanza" dei vignettisti massacrati al di fuori di questa dimensione. Lungo una via francese ovviamente, e attenti a Voltaire più che al filosofo italiano. Non lo facevano per azzardo, al più per un gioco nel quale si giocavano la vita.
C'è un’espressione più acconcia di quella di "dover essere" che ho usato? Non ho problemi a mutare il nome purché si affronti la cosa. Per questo l'economicismo è miope di fronte all'abisso del terrore. Per questo inconsapevolmente tale miopia, anche quando nasce A sinistra, finisce inevitabilmente a destra. Subalterna del "pensiero unico" e dell’economicismo che lo ha originato per esserne legittimato.
Quando nel pomeriggio di domenica 11 gennaio i parigini occupano la loro inimitabile città con una manifestazione davvero oceanica pongono le basi, potenzialmente, di una rinascita e di una risurrezione non soltanto dello spirito dell'Ottantanove, ma di quel che di positivo l'Occidente storico ha prodotto in termini di civilizzazione.
Dopo la caduta del Muro di Berlino del 1989 è la vera seconda tappa. In questa prospettiva torna utile, ma anche potenzialmente fuorviante, l'icona coniata da "Le Monde" di "11 Settembre" francese.
C'è un salto di qualità rispetto a Ground Zero e bisogna prendere una rincorsa più lunga: perché il problema non è ricondurre la strage nella redazione della rivista francese al contesto, ma piuttosto mostrare le caratteristiche e, se possibile, le ragioni del "salto di qualità" rispetto al contesto. È chiaro che l'11 Settembre è a sua volta un punto di non ritorno -e quindi non vanno neppure dimenticate né Abu Ghraib né Guantanamo- ma la cosa da chiarire è l'orrida accelerazione di Parigi.
Alle spalle -e pure esse da non dimenticare- le antiche contrapposizioni della "guerra fredda", con a Washington una libertà senza uguaglianza e a Mosca un'uguaglianza senza libertà...
Più la memoria è lunga, più la rincorsa è agevole. Ma la rincorsa deve tendere a costituire un punto di vista dal quale guardare la "novità" tremenda. Tale da suggerire alla geopolitica di mettere nel mirino di una nuova grande "azione internazionale" i territori sui quali l’Isis, Al-Qaeda e Boco Haram insistono. Le basi cioè di questa spietata guerriglia che arruola nelle nostre metropoli e addestra nei campi militari del medio oriente.
Alcune preoccupazioni espresse dal nostro ministro degli Esteri Gentiloni muovono in questa direzione, a partire dalla Libia del post-Gheddafi.
Devo anche dire che l'assenza troppo vistosa di Barack Obama dalla domenica di Parigi ha aumentato le mie preoccupazioni e i dubbi sull'Amleto della Casa Bianca, angustiato dal problema spinosissimo delle alleanze e di un loro possibile rovesciamento. L'Iran degli ayatollah e il petrolio dei Sauditi, insieme al finanziamento dei fondamentalisti più duri, come lunga e duplice pietra d'inciampo. Come al solito, cominciare a capire, o almeno incominciare a costruire le condizioni per la comprensione è il primo passo. E il passo indispensabile.
Resta tutta la questione dell'immigrazione. Che non è altra cosa né giustapposta, ma "semplicemente" l'altra essenziale faccia della medaglia.
E comunque pensare politica dalle periferie quando il decisionismo dell'immagine impedisce di farla coralmente al centro non è probabilmente soltanto una disperata compensazione.