Il
coraggio della matita
di Giovanni Bianchi
Questo importantissimo
saggio di Giovanni Bianchi
è una rigorosa messa a
punto per riconsiderare i vari
corni del problema
Un approccio fuorviante
Trovo
oziosa e fuorviante la discussione intorno alla opportunità o alla esagerazione
delle caricature uscite dalla matita dei vignettisti di Charlie Hebdo. La scivolata interpretativa è del "Financial Times", spintosi ad
additare l'ingenuità della redazione di rue Nicolas Appert, vicino a Bastille,
una piccola strada a traffico limitato, fino a sostenere che si sarebbe
comportata in modo "stupido".
Il
minimo che si possa dire è che lo spirito british
è cosa tutt'affatto diversa e antagonistica
rispetto allo sfrenato volterrianesimo di Charb, Cabu, Wolinski e Tignous.
D'altra parte l'opinione pubblica mondiale e tutta Parigi hanno mostrato di
pensarla in senso opposto.
Il
livello della satira è indubbiamente servito ai terroristi per scegliere le
vittime e ottenere il massimo dello shock macabro e pubblicitario. Non ha
certamente costituito l'innesco della decisione di procedere ad un attentato,
che ci sarebbe comunque stato.
Non
si fossero esposti con le loro graffianti matite il direttore Stéphane
Charbonnier e i suoi amici e collaboratori della redazione, Jean Cabut, Georges
Wolinski, Philippe Honoré e Bernard Verlhac, il bersaglio sarebbe risultato
probabilmente un altro, ma l’assassinio e la mattanza avrebbero comunque avuto
luogo.
I
fratelli franco-algerini avrebbero potuto abbattere l'arcivescovo di Notre-Dame,
in compagnia di qualche monsignore, con il sacrista o i chierichetti, in quanto
titolari di una confessione antagonista, oppure parte del corpo delle ballerine
delle Folies Bergère, accusate di lascivia, nudismo e non sottomissione.
La
ragione per la quale le matite della redazione di Charlie Hebdo vanno
assolutamente difese (una volta tanto, anche per me, senza se e senza ma) è
perché hanno rappresentato secondo il proprio genio e l'ispirazione un elemento
essenziale della nostra cultura e della nostra etica di cittadinanza.
La
Francia dei lumi, così come si è trasformata nei secoli, ma anche la religione
cattolica e protestante, e lo stesso ateismo militante, non possono essere disgiunti
dalla radice illuministica che li attraversa e che li ha progressivamente e
positivamente contagiati. Quello che, con una qualche approssimazione di
troppo, siamo abituati a definire "mondo libero" non può rinunciare a
questo patrimonio comune.
Quindi,
bene ha risposto un’opinione pubblica "globale" che ha generalizzato
il mantra Je suis Charlie Hebdo.
La linea di separazione
La
linea di separazione tra islam e terrorismo è la stessa che separa la religione
dall'etica di cittadinanza. La stessa che indica la dissoluzione del politico
nello spirito di fazione. La stessa che condanna insieme alla follia dei
terroristi di Parigi le torture di Abu Ghraib e Guantanamo. Dal momento che la
storica separazione tra etica e politica non deve significare che la politica
annulla l'etica. Una società senza etica di cittadinanza infatti non si tiene
insieme, ma si dissolve. È infatti l'etica di cittadinanza e di una
cittadinanza democratica l'unica in grado di leggere il terrorista più come
roso dal risentimento e dalla volontà di potenza che dalla devozione islamica.
Questo infatti è l'identikit dei killer (non devoti) dei vignettisti di Charlie
Hebdo. E trovo francamente irritante discutere sul tasso di aggressività delle
caricature. Ribadisco che le vignette sul Profeta sono state utili per
individuare un obiettivo da colpire con il massimo di risonanza pubblicitaria.
La cosa più inquietante?
Abbastanza
oziose anche le disquisizioni intorno alle differenze tra guerra e terrorismo.
Quel vecchio filonazista di Carl Schmitt ci aveva già avvertiti negli anni
Sessanta che la terza guerra mondiale era già cominciata e che sarebbe stata
una guerra civile globale combattuta da terroristi. Un'espressione recentemente
ripresa, quanto meno nelle linee generali, da papa Francesco. Chi pensa a una netta separazione tra guerra
e terrorismo è fermo alle trincee e ai sacri confini della patria della prima
guerra mondiale. Adesso sui campi di battaglia sono molti di più i contractors stipendiati da agenzie ad
hoc che i soldati regolari.
Negli
anni Settanta il celebre polemologo magiaro-americano Edward Luttwak scriveva
che le democrazie s'erano fatte oramai così deboli da non riuscire a difendersi
se non con i mercenari. Chi qualche decennio fa ha usato la parola
"mercenari" nel nostro Paese è stato additato alla pubblica vergogna
da organi di stampa afflitti insieme da disinformazione e ipocrisia.
Questo
il quadro -consolidato nella dissoluzione incominciata con lo sfarinamento dei
blocchi antagonistici della guerra fredda- dal quale emerge la novità più
inquietante. I terroristi islamici di Parigi sono infatti figli della Francia
moderna, non della Siria, non dello Yemen e neppure dell'attuale Algeria, pur
risultando franco-algerini. Dire che i terroristi sono terza generazione
significa esattamente questo: una connotazione che supera e travolge il dato
generazionale. Questi terroristi non sono pii: si collocano nello spazio (quasi
un "nonluogo" tragico) dove un'etica distorta e la politica del
risentimento incontrano e subordinano la religione. Dove la donna è sottomessa
e le studentesse che frequentano il liceo devono essere rapite, violentate,
rese schiave. Per questo le comunità e le folle islamiche che definiamo
"moderate", e che sono semplicemente normali nella quotidianità,
hanno capito che devono anzitutto reagire per difendere se stesse dal terrore,
prima ancora che i Paesi e i cittadini che le ospitano.
Difendere Voltaire
Il
moderno Occidente ha concorso a produrre l'antimoderno fondamentalista. Un
cortocircuito dal quale leggere e indagare un fondamentalismo che attiene non
tanto all'islam come fede religiosa, quanto all'islam come cultura e concezione
dei rapporti e della vita nello spazio pubblico come in quello privato. Per questo è giusto difendere Voltaire anche
se non lo ami. Perché dopo aver riflettuto sull'influenza della religione sulla
democrazia e sulla cultura illuministica che l'ha prodotta (il dibattito di
Monaco di Baviera del 2004 tra Ratzinger e Habermas) è venuto il tempo di
riflettere sull'influenza benefica dell'illuminismo democratico sul
cristianesimo in generale e sul cattolicesimo in particolare.
Il
Papa e il Vaticano erano contrari all'unità dell'Italia in quanto
Stato-Nazione. I cattolici illuminati (Alessandro Manzoni e il vescovo di
Cremona Geremia Bonomelli si schierarono per l'unità nazionale contro la loro
chiesa, e anche don Giovanni Bosco fu tenuto in sospetto per i rapporti
cordiali con casa Savoia) con la loro azione controcorrente hanno consentito a papa
Paolo VI di definire un secolo dopo la presa di Porta Pia come un "fatto
provvidenziale".
Ma
non bisogna dimenticare che il cattolicesimo ufficiale del tempo era
attraversato dalla diceria che gli zuavi armati di chassepots avevano
attraversato la breccia con gli zaini colmi di Bibbie, considerate uno
strumento religiosamente aggressivo perché protestante.
La religione come tema
Ha
scritto in poesia Ernesto Olivero:
Ho sempre pensato
che chi non ha fede
non è un ateo
ma qualcuno in attesa di
testimonianza.
Le
analisi ostinatamente economiciste -quelle che guardano alla religione soltanto
come oppio dei popoli- corrono in questa fase il rischio di finire subalterne
al pensiero unico, che ha al fondo la medesima matrice. Rischiano cioè di
dimenticare la svolta "epocale" contenuta nel discorso di Bergamo di
Togliatti negli anni Cinquanta: un’analisi improntata a una ricerca tematica e
di rapporti, e non già furbescamente tattica ed elettorale.
Non
hanno cioè compreso la tragedia della ex Jugoslavia (una guerra dove hanno
perso tutti e dove le nuove repubbliche dei Balcani Occidentali si sono giocate
lo sviluppo per i prossimi trent'anni), dove le ragioni economiche non si sono
collocate certamente in primo piano. Queste analisi risultano riduttive perché
incapaci di cogliere il nocciolo del problema: quest'uomo, anche l’ateo, non è
riducibile a un essere senza dover essere.
Si
tratta di un'opportunità anche per un'amicizia e una cittadinanza laica e una
solidarietà il cui ritrarsi ha lasciato lo spazio non al vuoto, ma al dilagare
dell'invidia sociale.
Non
è mia intenzione ridurre il dover essere al fatto religioso. Dover essere è lo
spirito rivoluzionario (Mandela, ma anche Che Guevara), il genio creatore (la Nona di Beethoven, ma anche il Concerto di Colonia di Keith Jarrett),
Van Gogh, Chagall e Matisse, Leopardi e Wislawa Szymborska... Là dove l'uomo
scopre di essere più grande di se stesso, irriducibile a una questione di
stomaco.
Quel
vecchio arnese di Bentham diceva non a caso di preferire essere un uomo
insoddisfatto piuttosto che un maiale soddisfatto. La differenza? Il dover
essere. L'uomo oltre se stesso, come esigenza insopprimibile. Il porco
probabilmente no.
Arrivo
anche a pensare che questo anelito umano contribuisca all'essere di Dio, che
può essere pensato -pare a me- non soltanto con la classica staticità
scolastica del Motore Immobile. Anche
questa è una delle caratteristiche possibili di un amore costitutivo di Dio e
dantescamente diffusivum sui. Dove
l'amicizia e anche l'amore passionale entrano nella visione e in un percorso il
cui esito ci sfugge, senza cessare di inquietarci.
Quel
che cerco di argomentare è che anche l'irrisione intrinseca all'umorismo di
Charb e Wolinski si trova in questa dimensione.
Là
dove la tradizione religiosa (al plurale) è devozione, i vignettisti di Charlie
Hebdo sono irrisione. Ma la dimensione dell'uomo otre l'uomo è la medesima. Non
riducibile quindi all'economicismo finanziario di un pensiero unico che ha
condotto (la vicina Svizzera insegna) alcuni dei suoi vertici manageriali al
suicidio.
La
riduzione economicistica dell'essere alla fine uccide. È l'idolo che ogni volta
uccide, e Walter Benjamin aveva per tempo individuato il rischio nel cuore del
capitalismo, che non a caso definiva "una religione".
Il
benessere materiale, ovviamente limitato a un settore dell'umanità nella
società sempre più liquida, e il crescere delle disuguaglianze che lo
accompagnano creano ribellione e anticorpi cui l'ordine disordinato
dell'economia del potere finanziario non è in grado di rispondere.
Restano
e si estendono una tensione, un bisogno e soprattutto un desiderio le cui
valenze risultano tragicamente non saturate. Né Charb né Wolinski avrebbero
altrimenti rischiato tanto e con tanta consapevole ostinazione.
Religione e libertà
Croce
parlò in Italia più di mezzo secolo fa di "religione della libertà".
Dubito che Croce e la sua espressione fossero di casa nella redazione di rue
Nicolas Appert, ma non mi spiegherei la "militanza" dei vignettisti
massacrati al di fuori di questa dimensione. Lungo una via francese ovviamente,
e attenti a Voltaire più che al filosofo italiano. Non lo facevano per azzardo,
al più per un gioco nel quale si giocavano la vita.
C'è
un’espressione più acconcia di quella di "dover essere" che ho usato?
Non ho problemi a mutare il nome purché si affronti la cosa. Per questo
l'economicismo è miope di fronte all'abisso del terrore. Per questo
inconsapevolmente tale miopia, anche quando nasce A sinistra, finisce inevitabilmente
a destra. Subalterna del "pensiero unico" e dell’economicismo che lo
ha originato per esserne legittimato.
Quando
nel pomeriggio di domenica 11 gennaio i parigini occupano la loro inimitabile
città con una manifestazione davvero oceanica pongono le basi, potenzialmente,
di una rinascita e di una risurrezione non soltanto dello spirito
dell'Ottantanove, ma di quel che di positivo l'Occidente storico ha prodotto in
termini di civilizzazione.
Dopo
la caduta del Muro di Berlino del 1989 è la vera seconda tappa. In questa
prospettiva torna utile, ma anche potenzialmente fuorviante, l'icona coniata da
"Le Monde" di "11 Settembre" francese.
C'è
un salto di qualità rispetto a Ground Zero e bisogna prendere una rincorsa più
lunga: perché il problema non è ricondurre la strage nella redazione della
rivista francese al contesto, ma piuttosto mostrare le caratteristiche e, se possibile,
le ragioni del "salto di qualità" rispetto al contesto. È chiaro che
l'11 Settembre è a sua volta un punto di non ritorno -e quindi non vanno
neppure dimenticate né Abu Ghraib né Guantanamo- ma la cosa da chiarire è
l'orrida accelerazione di Parigi.
Alle
spalle -e pure esse da non dimenticare- le antiche contrapposizioni della
"guerra fredda", con a Washington una libertà senza uguaglianza e a
Mosca un'uguaglianza senza libertà...
Più
la memoria è lunga, più la rincorsa è agevole. Ma la rincorsa deve tendere a
costituire un punto di vista dal quale guardare la "novità" tremenda.
Tale da suggerire alla geopolitica di mettere nel mirino di una nuova grande
"azione internazionale" i territori sui quali l’Isis, Al-Qaeda e Boco
Haram insistono. Le basi cioè di questa spietata guerriglia che arruola nelle
nostre metropoli e addestra nei campi militari del medio oriente.
Alcune
preoccupazioni espresse dal nostro ministro degli Esteri Gentiloni muovono in
questa direzione, a partire dalla Libia del post-Gheddafi.
Devo
anche dire che l'assenza troppo vistosa di Barack Obama dalla domenica di
Parigi ha aumentato le mie preoccupazioni e i dubbi sull'Amleto della Casa
Bianca, angustiato dal problema spinosissimo delle alleanze e di un loro
possibile rovesciamento. L'Iran degli ayatollah e il petrolio dei Sauditi,
insieme al finanziamento dei fondamentalisti più duri, come lunga e duplice
pietra d'inciampo. Come al solito, cominciare a capire, o almeno incominciare a
costruire le condizioni per la comprensione è il primo passo. E il passo
indispensabile.
Resta
tutta la questione dell'immigrazione. Che non è altra cosa né giustapposta, ma
"semplicemente" l'altra essenziale faccia della medaglia.
E
comunque pensare politica dalle periferie quando il decisionismo dell'immagine
impedisce di farla coralmente al centro non è probabilmente soltanto una
disperata compensazione.