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domenica 18 gennaio 2015

Je suis libre, pas Charlie
di Paolo Maria Di Stefano

Questo scritto di Paolo Di Stefano apre diverse questioni
utili per una buona riflessione senza pregiudizi


14 gennaio 2015. “Charlie Hebdo” esce in tutto il mondo con una tiratura che -mi si dice- è pari a tre milioni di copie contro le tradizionali sessantamila settimanali. Ed è certamente un caso: proprio mentre inizio, il quinto programma della Rai trasmette la conclusione della sinfonia fantastica di Berlioz. Il Dies Irae.
E solo qualche istante fa, ho letto che il legale del settimanale francese, Richard Malka, ha ricordato che lo spirito di “Je suis Charlie” significa anche “diritto alla blasfemia”.
E i miei pensieri hanno preso una strada diversa da quella che avevo immaginato. Hanno scelto la libertà, anche a costo di sbagliare.
Rimane intatta la premessa: il settimanale satirico francese a me non è mai piaciuto in modo particolare. Al contrario, le rare volte in cui mi è capitato tra le mani non ricordo mi abbia suscitato neppure un sorriso. In altre parole, a me non piaceva. Ho sempre pensato che le vignette dei nostri disegnatori, tra le quali quelle ogni giorno destinate a commentare la cronaca sui quotidiani italiani siano di gran lunga migliori. Cosa, questa, ovviamente priva di qualsiasi importanza, come ogni giudizio assolutamente personale circa la “bellezza”- estetica e relativa al contenuto- in senso ampio di una qualsiasi cosa.

Il che non mi ha impedito di condannare immediatamente come assolutamente cretina -oltre che criminale- la strage avvenuta nella redazione. Con annessi e connessi, ovviamente.  Chiunque violi la legge è un delinquente, e i due attentatori hanno violato la legge. E chi fa ricorso alla violenza (oltre che al farsi ragione da sé) è certamente un cretino: perché la violenza può al massimo illudere di una soluzione che presto o tardi si rivelerà tutto, meno che una soluzione, appunto. È ben vero che la storia dell’umanità si fonda sulla violenza (non necessariamente e non solo quella delle armi), ma è anche vero che il progresso consiste proprio nel ridurre sempre di più l’uso della forza, fino a raggiungere -forse- un’età dell’uomo che potrà fregiarsi del titolo di “era dell’intelligenza e dell’accordo”.
Mi pare fosse Voltaire ad affermare più o meno (cito a memoria): “Non sono d’accordo, ma darei la mia vita perché tu possa esprimere la tua opinione”. Che appare tessera di quel mosaico complicato e complesso e soprattutto assolutamente indefinito che chiamiamo libertà, e in nome della quale tentiamo di giustificare qualsiasi nostro pensiero e qualsiasi nostro comportamento. Anche quello (sembra, tenuto proprio da Voltaire) di superare la concorrenza pagando il silenzio delle claque quando in scena era il lavoro di un concorrente. Una cosa è consentire che una opinione si esprima, altra e ben diversa è lasciare che vinca!
A me pare che il ricorrere al valore chiamato libertà dovrebbe consigliare più di un motivo di attenzione o almeno di prudenza. La libertà è sempre stato un problema di conoscenza dei limiti espliciti o taciti esistenti nei rapporti tra gli uomini tra di loro e tra gli esseri umani e il resto di quella che chiamiamo creazione.
E dunque, quando si afferma -come pare abbia fatto l’avvocato Malka- che esiste un “diritto alla blasfemia” (che è la stessa cosa che affermare che si è liberi di bestemmiare), bisognerebbe ricordare che se la libertà consiste nel violare leggi, regolamenti, usi, costumi, princìpi di educazione, perché non affermare anche che esiste un diritto all’omicidio, e un altro allo stupro, e un altro ancora all’uso dei bambini come bombe umane o come soldati, e un altro alla schiavitù?
Almeno da noi, in questa Italia così tanto criticata e così vicina ad un grave analfabetismo di ritorno, esisteva un vecchio adagio che consigliava “scherza coi fanti e lascia stare i Santi”. Per due ragioni, io credo: la prima, perché non essendoci certezza assoluta e assolutamente condivisa circa l’inesistenza dei Santi, meglio sarebbe non scatenarne l’ira; la seconda, perché una regola elementare di educazione e di buon vicinato consiglierebbe di non provocare la suscettibilità di chi nei Santi crede.

Il diritto alla satira -che non esiste in quanto “diritto”, ma che certamente è compreso nei contenuti che disegnano la libertà- ha a mio parere a sua volta qualche confine. Intanto, dovrebbe essere assolutamente intelligente, e solamente veri e propri geni della comunicazione sono in grado di fare una satira intelligente. Perché la satira è una delle più difficili forme di comunicazione. Non a caso tra i grandi autori si citano Orazio, Giovenale, Parini, Jerome e Mark Twain: grandi autori che hanno dato vita a grande satira, perché è l’essere scrittore e poeta di vaglia che consente di creare una satira importante. E quando questa si manifesta sotto forma di vignetta, è ancora più difficile, per la sintesi estrema che questa impone.
Satira e caricatura sembrano andare di pari passo. La prima, è definita (Devoto – Oli) come “genere di composizione poetica a carattere moralistico o comico consistente nel mettere in risalto, con espressioni che vanno dall’ironia pacata e discorsiva fino allo scherno e all’invettiva sferzante, costumi o atteggiamenti comuni alla generalità degli uomini, o tipici di una categoria o di un solo individuo. In senso estensivo, quanto rivesta un carattere di critica più o meno mordace (dal sarcasmo alla caricatura) verso aspetti o personaggi tipici della vita contemporanea”. La seconda, come (ivi) “l’accentuazione, nella immagine di una o più persone, di atteggiamenti o tratti ridicoli cui si accompagnano sembianze alterate e contraffatte, tali però da lasciar riconoscere l’originale, fornendo materia di riso o di riflessione”.


Poi, come del resto tutti i comportamenti umani, la satira incontra limiti diversi a seconda delle materie, così come li incontra nella cultura del pubblico cui si rivolge.
Che è cosa ovvia, e non a caso disegna differenze anche importanti tra popoli e persone. Chi non ha mai sentito parlare del sense of humour degli inglesi, diverso da quello degli italiani, per esempio, ai quali ultimi spesso se ne attribuisce la mancanza? E chi non ha notato che il disporre di senso dell’umorismo e la misura in cui se ne dispone disegna un possibile grado di intelligenza? E non è forse vero che, da noi per esempio, si può tranquillamente “far satira” sulle donne, purché non si tratti di nostra madre o di nostra moglie o di nostra sorella? E che molte battute fanno ridere, sempre che non ne siamo oggetto noi stessi in prima persona?
In quanto alla materia…beh, da noi il sesso fa ridere (sempre nei limiti sopra indicati) e nessuno si scandalizza; per altri, il sesso è argomento assolutamente da non toccare. Come la religione e i suoi esponenti: noi cristiani sembriamo disposti a sorridere sul nostro Paradiso e sul nostro Dio, oltre che, naturalmente, sulla gerarchia ecclesiastica; probabilmente, per altre religioni la questione è talmente diversa che il solo accennare ad un profeta, per esempio, o a Dio è ritenuto intollerabile e suscita reazioni contro la blasfemia.
E credo non esista sentimento che, come la fede, sia in grado di generare altrettanta violenza.
Forse anche perché chi crede in modo cieco e assoluto è portato anche a pensare sia suo primo e più importante dovere “difendere” il proprio Dio dagli attacchi degli “infedeli”, anche a costo del sacrificio della vita.
Eppure, non c’è tra le grandi religioni una che predichi il ricorso all’uso della violenza “a maggior gloria di Dio”. Ma lo hanno fatto e lo fanno tutte, seppure in misura e con mezzi diversi.
E allora, un pensiero in libertà.
Gli esseri umani si organizzano in gruppi più o meno ampi, e si danno leggi e norme per regolare la convivenza dei singoli tra di loro e con il gruppo, e del gruppo con gli altri con i quali vengono a contatto. E in forza di quelle leggi e di quella normazione organizzano la “formazione” dei singoli ad esser “cittadini” del gruppo.
Se questo è vero, e credo che lo sia; se gli Stati hanno un problema di integrazione degli individui, e lo hanno; se le diverse fedi diventano motivo di contrasti anche violenti, e lo diventano; ebbene, se tutto questo e quanto non detto è vero, cosa si oppone ad una scuola “pubblica”, nel senso di una scuola organizzata dalla struttura territoriale pubblica di riferimento, che abbia tra le materie di insegnamento i princìpi fondanti, i valori, delle tre grandi religioni monoteistiche, di ciascuno dei quali si illustri a tutti la portata e l’importanza nella storia così come nella vita contemporanea e di ciascuno dei quali si illustri il rapporto con il sistema giuridico del Paese, con le sue leggi, con il suo modo di essere?
Almeno in questo senso -di conoscenza dei valori della fede di ciascuno- ad una maggiore cultura dovrebbe rispondere una più ampia libertà.


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