Je suis libre, pas
Charlie
di Paolo Maria Di
Stefano
Questo scritto di
Paolo Di Stefano apre diverse questioni
utili per una buona
riflessione senza pregiudizi
14 gennaio 2015. “Charlie Hebdo” esce in tutto il mondo con una
tiratura che -mi si dice- è pari a tre milioni di copie contro le tradizionali
sessantamila settimanali. Ed è certamente un caso: proprio mentre inizio, il
quinto programma della Rai trasmette la conclusione della sinfonia fantastica
di Berlioz. Il Dies Irae.
E solo qualche istante fa, ho
letto che il legale del settimanale francese, Richard Malka, ha ricordato che
lo spirito di “Je suis Charlie” significa anche “diritto alla blasfemia”.
E i miei pensieri hanno preso una
strada diversa da quella che avevo immaginato. Hanno scelto la libertà, anche a
costo di sbagliare.
Rimane intatta la premessa: il
settimanale satirico francese a me non è mai piaciuto in modo particolare. Al
contrario, le rare volte in cui mi è capitato tra le mani non ricordo mi abbia
suscitato neppure un sorriso. In altre parole, a me non piaceva. Ho sempre
pensato che le vignette dei nostri disegnatori, tra le quali quelle ogni giorno
destinate a commentare la cronaca sui quotidiani italiani siano di gran lunga
migliori. Cosa, questa, ovviamente priva di qualsiasi importanza, come ogni
giudizio assolutamente personale circa la “bellezza”- estetica e relativa al
contenuto- in senso ampio di una qualsiasi cosa.
Il che non mi ha impedito di
condannare immediatamente come assolutamente cretina -oltre che criminale- la
strage avvenuta nella redazione. Con annessi e connessi, ovviamente. Chiunque violi la legge è un delinquente, e i
due attentatori hanno violato la legge. E chi fa ricorso alla violenza (oltre
che al farsi ragione da sé) è certamente un cretino: perché la violenza può al
massimo illudere di una soluzione che presto o tardi si rivelerà tutto, meno
che una soluzione, appunto. È ben vero che la storia dell’umanità si fonda
sulla violenza (non necessariamente e non solo quella delle armi), ma è anche
vero che il progresso consiste proprio nel ridurre sempre di più l’uso della
forza, fino a raggiungere -forse- un’età dell’uomo che potrà fregiarsi del
titolo di “era dell’intelligenza e dell’accordo”.
Mi pare fosse Voltaire ad affermare più o meno (cito a memoria): “Non
sono d’accordo, ma darei la mia vita perché tu possa esprimere la tua opinione”.
Che appare tessera di quel mosaico complicato e complesso e soprattutto
assolutamente indefinito che chiamiamo libertà, e in nome della quale tentiamo
di giustificare qualsiasi nostro pensiero e qualsiasi nostro comportamento. Anche
quello (sembra, tenuto proprio da Voltaire) di superare la concorrenza pagando
il silenzio delle claque quando in
scena era il lavoro di un concorrente. Una cosa è consentire che una opinione
si esprima, altra e ben diversa è lasciare che vinca!
A me pare che il ricorrere al
valore chiamato libertà dovrebbe consigliare più di un motivo di attenzione o
almeno di prudenza. La libertà è sempre stato un problema di conoscenza dei
limiti espliciti o taciti esistenti nei rapporti tra gli uomini tra di loro e
tra gli esseri umani e il resto di quella che chiamiamo creazione.
E dunque, quando si afferma -come
pare abbia fatto l’avvocato Malka- che esiste un “diritto alla blasfemia” (che
è la stessa cosa che affermare che si è liberi di bestemmiare), bisognerebbe
ricordare che se la libertà consiste nel violare leggi, regolamenti, usi,
costumi, princìpi di educazione, perché non affermare anche che esiste un
diritto all’omicidio, e un altro allo stupro, e un altro ancora all’uso dei
bambini come bombe umane o come soldati, e un altro alla schiavitù?
Almeno da noi, in questa Italia
così tanto criticata e così vicina ad un grave analfabetismo di ritorno,
esisteva un vecchio adagio che consigliava “scherza coi fanti e lascia stare i
Santi”. Per due ragioni, io credo: la prima, perché non essendoci certezza
assoluta e assolutamente condivisa circa l’inesistenza dei Santi, meglio
sarebbe non scatenarne l’ira; la seconda, perché una regola elementare di
educazione e di buon vicinato consiglierebbe di non provocare la suscettibilità
di chi nei Santi crede.
Il diritto alla satira -che non esiste in quanto “diritto”, ma che certamente
è compreso nei contenuti che disegnano la libertà- ha a mio parere a sua volta
qualche confine. Intanto, dovrebbe essere assolutamente intelligente, e solamente
veri e propri geni della comunicazione sono in grado di fare una satira
intelligente. Perché la satira è una delle più difficili forme di
comunicazione. Non a caso tra i grandi autori si citano Orazio, Giovenale,
Parini, Jerome e Mark Twain: grandi autori che hanno dato vita a grande satira,
perché è l’essere scrittore e poeta di vaglia che consente di creare una satira
importante. E quando questa si manifesta sotto forma di vignetta, è ancora più
difficile, per la sintesi estrema che questa impone.
Satira e caricatura sembrano
andare di pari passo. La prima, è definita (Devoto – Oli) come “genere di
composizione poetica a carattere moralistico o comico consistente nel mettere
in risalto, con espressioni che vanno dall’ironia pacata e discorsiva fino allo
scherno e all’invettiva sferzante, costumi o atteggiamenti comuni alla
generalità degli uomini, o tipici di una categoria o di un solo individuo. In
senso estensivo, quanto rivesta un carattere di critica più o meno mordace (dal
sarcasmo alla caricatura) verso aspetti o personaggi tipici della vita contemporanea”.
La seconda, come (ivi) “l’accentuazione, nella immagine di una o più persone,
di atteggiamenti o tratti ridicoli cui si accompagnano sembianze alterate e
contraffatte, tali però da lasciar riconoscere l’originale, fornendo materia di
riso o di riflessione”.
Poi, come del resto tutti i comportamenti umani, la satira incontra
limiti diversi a seconda delle materie, così come li incontra nella cultura del
pubblico cui si rivolge.
Che è cosa ovvia, e non a caso
disegna differenze anche importanti tra popoli e persone. Chi non ha mai
sentito parlare del sense of humour
degli inglesi, diverso da quello degli italiani, per esempio, ai quali ultimi
spesso se ne attribuisce la mancanza? E chi non ha notato che il disporre di
senso dell’umorismo e la misura in cui se ne dispone disegna un possibile grado
di intelligenza? E non è forse vero che, da noi per esempio, si può
tranquillamente “far satira” sulle donne, purché non si tratti di nostra madre
o di nostra moglie o di nostra sorella? E che molte battute fanno ridere,
sempre che non ne siamo oggetto noi stessi in prima persona?
In quanto alla materia…beh, da
noi il sesso fa ridere (sempre nei limiti sopra indicati) e nessuno si
scandalizza; per altri, il sesso è argomento assolutamente da non toccare. Come
la religione e i suoi esponenti: noi cristiani sembriamo disposti a sorridere
sul nostro Paradiso e sul nostro Dio, oltre che, naturalmente, sulla gerarchia
ecclesiastica; probabilmente, per altre religioni la questione è talmente
diversa che il solo accennare ad un profeta, per esempio, o a Dio è ritenuto
intollerabile e suscita reazioni contro la blasfemia.
E credo non esista sentimento
che, come la fede, sia in grado di generare altrettanta violenza.
Forse anche perché chi crede in modo
cieco e assoluto è portato anche a pensare sia suo primo e più importante
dovere “difendere” il proprio Dio dagli attacchi degli “infedeli”, anche a
costo del sacrificio della vita.
Eppure, non c’è tra le grandi
religioni una che predichi il ricorso all’uso della violenza “a maggior gloria
di Dio”. Ma lo hanno fatto e lo fanno tutte, seppure in misura e con mezzi
diversi.
E allora, un pensiero in libertà.
Gli esseri umani si organizzano
in gruppi più o meno ampi, e si danno leggi e norme per regolare la convivenza
dei singoli tra di loro e con il gruppo, e del gruppo con gli altri con i quali
vengono a contatto. E in forza di quelle leggi e di quella normazione
organizzano la “formazione” dei singoli ad esser “cittadini” del gruppo.
Se questo è vero, e credo che lo
sia; se gli Stati hanno un problema di integrazione degli individui, e lo
hanno; se le diverse fedi diventano motivo di contrasti anche violenti, e lo
diventano; ebbene, se tutto questo e quanto non detto è vero, cosa si oppone ad
una scuola “pubblica”, nel senso di una scuola organizzata dalla struttura
territoriale pubblica di riferimento, che abbia tra le materie di insegnamento
i princìpi fondanti, i valori, delle tre grandi religioni monoteistiche, di
ciascuno dei quali si illustri a tutti la portata e l’importanza nella storia
così come nella vita contemporanea e di ciascuno dei quali si illustri il
rapporto con il sistema giuridico del Paese, con le sue leggi, con il suo modo
di essere?
Almeno in questo senso -di
conoscenza dei valori della fede di ciascuno- ad una maggiore cultura dovrebbe
rispondere una più ampia libertà.
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PER RIMANERE UMANI
TEATRO CANZONE
IL NUOVO SPETTACOLO DI MACIACCHINI
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