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giovedì 12 marzo 2015

Ricordando Gina
Sono passati 10 anni dalla scomparsa della scrittrice Gina Lagorio, ma chi l’ha amata ha la memoria lunga. Accogliendo l’invito delle figlie Simonetta e Silvia, un nutrito gruppo di amici di Gina si è dato appuntamento al Teatro Franco Parenti di Milano, domenica 8 marzo, per ricordare, nella giornata della donna, una donna che di impegno civile ne sapeva qualcosa. Da Vivian Lamarque a Lella Costa, da Fulvio Scaparro, a Nando Dalla Chiesa, da Giulia Lazzarini a Lella Ravasi a Mussapi, ecc, tante voci si sono alternate sul palco del teatro per la lettura di quello che resta l’ultimo e il più struggente dei libri di Gina: Càpita. Benedetta Centovalli ha aperto l’incontro leggendo il bellissimo testo che qui pubblichiamo. La ringraziamo sentitamente per averne voluto fare dono ai lettori di “Odissea” .
Nel foyer del teatro una sezione di splendide foto in bianco e nero scattate a Gina dall’amico fotografo Bruno Murialdo. Le foto di Murialdo e un suo ricordo saranno pubblicate domani sulla prima pagina di “Odissea” (a.g.)

 LE VERITÀ ELEMENTARI
 di Benedetta Centovalli

Gina Lagorio (foto:Bruno Murialdo)

C’è una paginetta di Càpita a cui non avevo prestato attenzione. Quando Elza prepara Gina per il giorno di Natale e invece dei pantaloni le fa indossare una gonna. Gina annota: “avevo delle gambe niente male, dico con modestia, in realtà penso che erano ‘inappuntabili’. L’ho scritto in un racconto che spiega tutto di me” (p.77).
Si intitola Felicità, ed è il racconto in prima persona di una studentessa sfollata in un paese delle Langhe, Cherasco forse dove Gina fu mandata per studiare durante la guerra. In questo paese la ragazza/Gina prepara la sua tesi di laurea e intanto osserva la vita che la circonda. La proprietaria della sua stanza in affitto, che si affaccia in un cortile, ha un amatissimo cagnetto multirazza, Fido, un po’ volpino, un po’ chissà, ma che viene preso in giro quando esce a spasso con la padrona perché oramai vecchio. La giovane decide allora di sfidare il paese e di fare una passeggiata con Fido sulla via principale mettendo alla prova tutta la sua “potenza di felicità” del momento: la sua gioventù, la bellezza, la libertà e il gusto per l’avventura.
Così comincia l’insolita passeggiata della ragazza vestita di tutto punto con gli abiti della festa e il rossetto delle grandi occasioni insieme al cagnetto che la segue dubbioso.
“Eravamo sulla strada che taglia il paese in lunghezza: camminavo consapevole di portare con me il mio bagaglio di gioventù; Fido mi seguiva un po’ zoppino sulle gambette storte, io pensavo alle mie, decise e INCENSURABILI, e procedevo, eretta, mentre dentro mi scoppiettava un’impertinente allegria.”
Incensurabili, aveva scritto Gina, non inappuntabili, come ricorda in Càpita, con un senso ancora più netto e più forte, qualcosa che non si può reprimere, contenere, nascondere. Incensurabili. Le belle gambe incensurabili di Gina, ecco.
Superato il bar con tutti i campioni del bel mondo locale, indenni da commenti, Gina e Fido cominciarono a correre per il viale che sapeva di menta, lei gridando di felicità, il cagnetto starnutendo per l’imprevista avventura. Corrono corrono felici e senza fiato fino alla porta di casa.

Gina Lagorio (foto: Bruno Murialdo)

Le pagine ultime di Càpita (2005), fogli di diario dei giorni bui della malattia legati insieme dalla musicale ripetizione della parola “Càpita”, sono il personale congedo dalla vita di Gina. Un vaso, quello della vita, andato in pezzi, dove il racconto si affida solo a frammenti, perché l’intero non c’è più, e non si può ricostruire.
Càpita è un bilancio dolceamaro, una scrittura tragicomica che affronta senza uscite di sicurezza il punto maledetto dell’esistenza, dove il pensiero si guasta e il senso si disfa: “Càpita che si viva tutta una vita senza imbattersi in una malattia che invece a un certo punto prenderà per te la faccia del destino”. Quello da cui si è soliti distogliere lo sguardo, quello che appartiene di norma al rimosso, sono oggetto di una scrittura che sa di non poter contare sulla grazia e neppure sulla giustizia. La malattia mortale resta uno scandalo senza ragione, non addomesticabile, raccontarlo vuol dire restituire alla letteratura il suo senso indicibile, la sua verità impossibile.
Càpita è una lettura scomoda, orticante, non salva, non concilia, non offre risarcimenti, ma resoconta l’inferno ad occhi aperti. E’ un diario di guerra lucido, coraggioso, un diario anche sui diritti di chi è malato, sul diritto alla dignità. Un testo dove la corda civile di Gina risuona e si tende fino quasi a spezzarsi.
Gina Lagorio ha rubato queste pagine alla sua infermità, gliele ha portate via di nascosto, le ha ordinate con fatica e con ostinazione per una irrinunciabile “decenza quotidiana”: l’ictus, l’ospedale, le terapie, la dipendenza, la disabilità, comode e padelle, la vecchiaia. Libera da ideologie e retorica, si è occupata soprattutto della tragedia della propria biologia (“mi viene da scrivere solo partendo dalla piattaforma coatta del mio male”) e ha cercato con il contrappunto di una vitalità infinita di contrastare la notte: l’amore delle figlie e delle nipoti, le amicizie, un film o un libro goduto, la musica sempre desiderata, o la dolcezza di alcuni ricordi come la lettura di Dante.
In un’inversione di destini, Càpita raccoglie il testimone di Approssimato per difetto (1971), dedicato alla prematura scomparsa del marito Emilio Lagorio, romanzo bruciante sulla malattia e sull’amore, acuto come una preghiera. Un modo di abitare la scrittura a cui Gina resterà fedele, quell’approssimarsi per difetto a una verità necessaria che la morte rende più urgente. Approssimato per difetto e Càpita formano un dittico, due poli entro i quali si compie la vita e l’opera di una grande scrittrice.
E l’intatta magia di queste pagine postume è quella di farci oltrepassare le leggi irrevocabili dell’orologio biologico per introdurci in quella “camera del cuore” dove Gina, eterna ragazza, continua a correre leggera con il cane Fido nella sua stellata Cherasco.