Ricordando Gina
Sono passati 10
anni dalla scomparsa della scrittrice Gina Lagorio, ma chi l’ha amata ha la
memoria lunga. Accogliendo l’invito delle figlie Simonetta e Silvia, un nutrito
gruppo di amici di Gina si è dato appuntamento al Teatro Franco Parenti di
Milano, domenica 8 marzo, per ricordare, nella giornata della donna, una donna
che di impegno civile ne sapeva qualcosa. Da Vivian Lamarque a Lella Costa, da
Fulvio Scaparro, a Nando Dalla Chiesa, da Giulia Lazzarini a Lella Ravasi a
Mussapi, ecc, tante voci si sono alternate sul palco del teatro per la lettura
di quello che resta l’ultimo e il più struggente dei libri di Gina: Càpita. Benedetta Centovalli ha aperto l’incontro
leggendo il bellissimo testo che qui pubblichiamo. La ringraziamo sentitamente
per averne voluto fare dono ai lettori di “Odissea” .
Nel foyer del teatro una sezione di
splendide foto in bianco e nero scattate a Gina dall’amico fotografo Bruno
Murialdo. Le foto di Murialdo e un suo ricordo saranno pubblicate domani sulla
prima pagina di “Odissea” (a.g.)
LE
VERITÀ ELEMENTARI
di
Benedetta Centovalli
Gina Lagorio (foto:Bruno Murialdo) |
C’è una
paginetta di Càpita a cui non avevo
prestato attenzione. Quando Elza prepara Gina per il giorno di Natale e invece
dei pantaloni le fa indossare una gonna. Gina annota: “avevo delle gambe niente
male, dico con modestia, in realtà penso che erano ‘inappuntabili’. L’ho
scritto in un racconto che spiega tutto di me” (p.77).
Si intitola Felicità, ed è il racconto in prima
persona di una studentessa sfollata in un paese delle Langhe, Cherasco forse dove
Gina fu mandata per studiare durante la guerra. In questo paese la ragazza/Gina
prepara la sua tesi di laurea e intanto osserva la vita che la circonda. La
proprietaria della sua stanza in affitto, che si affaccia in un cortile, ha un
amatissimo cagnetto multirazza, Fido, un po’ volpino, un po’ chissà, ma che viene
preso in giro quando esce a spasso con la padrona perché oramai vecchio. La
giovane decide allora di sfidare il paese e di fare una passeggiata con Fido
sulla via principale mettendo alla prova tutta la sua “potenza di felicità” del
momento: la sua gioventù, la bellezza, la libertà e il gusto per l’avventura.
Così comincia l’insolita
passeggiata della ragazza vestita di tutto punto con gli abiti della festa e il
rossetto delle grandi occasioni insieme al cagnetto che la segue dubbioso.
“Eravamo sulla strada che
taglia il paese in lunghezza: camminavo consapevole di portare con me il mio
bagaglio di gioventù; Fido mi seguiva un po’ zoppino sulle gambette storte, io
pensavo alle mie, decise e INCENSURABILI, e procedevo, eretta, mentre dentro mi
scoppiettava un’impertinente allegria.”
Incensurabili, aveva
scritto Gina, non inappuntabili, come
ricorda in Càpita, con un senso
ancora più netto e più forte, qualcosa che non si può reprimere, contenere,
nascondere. Incensurabili. Le belle gambe incensurabili di Gina, ecco.
Superato il bar con tutti i
campioni del bel mondo locale, indenni da commenti, Gina e Fido cominciarono a
correre per il viale che sapeva di menta, lei gridando di felicità, il cagnetto
starnutendo per l’imprevista avventura. Corrono corrono felici e senza fiato fino
alla porta di casa.
Gina Lagorio (foto: Bruno Murialdo) |
Le
pagine ultime di Càpita (2005), fogli
di diario dei giorni bui della malattia legati insieme dalla musicale
ripetizione della parola “Càpita”, sono il personale congedo dalla vita di
Gina. Un vaso, quello della vita, andato in pezzi, dove il racconto si affida
solo a frammenti, perché l’intero non c’è più, e non si può ricostruire.
Càpita è un
bilancio dolceamaro, una scrittura tragicomica che affronta senza uscite di
sicurezza il punto maledetto dell’esistenza, dove il pensiero si guasta e il
senso si disfa: “Càpita che si viva tutta una vita senza imbattersi in una
malattia che invece a un certo punto prenderà per te la faccia del destino”. Quello
da cui si è soliti distogliere lo sguardo, quello che appartiene di norma al
rimosso, sono oggetto di una scrittura che sa di non poter contare sulla grazia
e neppure sulla giustizia. La malattia mortale resta uno scandalo senza
ragione, non addomesticabile, raccontarlo vuol dire restituire alla letteratura
il suo senso indicibile, la sua verità impossibile.
Càpita è
una lettura scomoda, orticante, non salva, non concilia, non offre
risarcimenti, ma resoconta l’inferno ad occhi aperti. E’ un diario di guerra
lucido, coraggioso, un diario anche sui diritti di chi è malato, sul diritto
alla dignità. Un testo dove la corda civile di Gina risuona e si tende fino
quasi a spezzarsi.
Gina Lagorio ha
rubato queste pagine alla sua infermità, gliele ha portate via di nascosto, le
ha ordinate con fatica e con ostinazione per una irrinunciabile “decenza
quotidiana”: l’ictus, l’ospedale, le terapie, la dipendenza, la disabilità, comode
e padelle, la vecchiaia. Libera da ideologie e retorica, si è occupata
soprattutto della tragedia della propria biologia (“mi viene da scrivere solo
partendo dalla piattaforma coatta del mio male”) e ha cercato con il
contrappunto di una vitalità infinita di contrastare la notte: l’amore delle
figlie e delle nipoti, le amicizie, un film o un libro goduto, la musica sempre
desiderata, o la dolcezza di alcuni ricordi come la lettura di Dante.
In un’inversione di
destini, Càpita raccoglie il
testimone di Approssimato per difetto (1971), dedicato alla prematura scomparsa
del marito Emilio Lagorio, romanzo bruciante sulla malattia e sull’amore, acuto
come una preghiera. Un modo di abitare la scrittura a cui Gina resterà fedele,
quell’approssimarsi per difetto a una verità necessaria che la morte rende più
urgente. Approssimato per difetto e Càpita formano un dittico, due poli entro i quali si compie la vita
e l’opera di una grande scrittrice.
E l’intatta magia
di queste pagine postume è quella di farci oltrepassare le leggi irrevocabili
dell’orologio biologico per introdurci in quella “camera del cuore” dove Gina,
eterna ragazza, continua a correre leggera con il cane Fido nella sua stellata
Cherasco.