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sabato 19 dicembre 2015

L'ANTROPOLOGIA CULTURALE E IL SOGNO
DELL'UNIVERSALITA' UMANA CONCRETA  
di Franco Toscani


La storia del mondo sta attraversando un periodo denso di violenza, terrorismo, guerre e venti di guerra, conflittualità e veleni d'ogni tipo, disorientamento, confusione, diffidenza. Una delle questioni che sempre di nuovo si ripropone è quella del male, della sua ostinazione e persistenza, banalità e stupidità, crudeltà e tragicità.
Da molti secoli la filosofia e la teologia si sono interrogate e continuano a interrogarsi sulla questione del male, senza poter giungere a conclusioni certe e definitive. Il male resta per noi un grande enigma, possiamo esser certi soltanto della sua tenace presenza nella storia e nel mondo umano, delle sue varie forme, della sua diffusione e delle continue, incessanti difficoltà che incontra la necessaria, sacrosanta, sempre rinnovata lotta contro di esso. Ha perciò ragione Liliana Segre (deportata quattordicenne nel 1944 e tra i 25 sopravvissuti dei 776 bambini di età inferiore ai 14 anni deportati nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau) quando, in una recente intervista sugli attentati terroristici parigini del 13 novembre ("Corriere della Sera", 16 novembre 2015, a cura di Paolo Conti), invita gli adulti, in particolare i genitori e gli insegnanti ad avere il coraggio di "non girare la faccia dall'altra parte", di dire la verità ai nostri ragazzi, di spiegare che cosa è realmente accaduto a Parigi, cercando di non "ripararli" troppo dal dolore, dal pericolo e raccomandando pure di non odiare mai, perché l'odio genera sempre altro odio.
Le nuove generazioni, infatti, sono state sin troppo "protette" da quel male e quel dolore  che invece fanno sempre parte della vita reale di ciascuno di noi e che, se vengono ignorati, sottovalutati e non riconosciuti in tutto il loro spessore, rischiano di annichilire e distruggere le personalità più fragili o comunque di renderci incapaci di affrontare la vita in tutti i suoi aspetti e dimensioni. L'eccesso di protezione e le troppo facili "caramelle di consolazione" non aiutano a vivere, a crescere e ad assumersi responsabilità. Occorre cercare sempre di fare i conti - anche se non è facile come dirlo - col male e col dolore che sono presenti non solo negli altri e nel mondo, ma anche in noi, in ciascuno di noi.
Solo così, con lucidità e coscienza, possiamo andare avanti, affrontare la vita con coraggio e responsabilità, partendo sempre da noi stessi, dalle situazioni concrete, cominciando quindi a vivere quotidianamente nelle nostre aule scolastiche e universitarie, in tutti i luoghi di lavoro e di vita rapporti umani caratterizzati dal rispetto, dall'attenzione, dall'ascolto reciproco, dal dialogo, dall'ospitalità culturale fra diversi. Solo così, trovando la vera forza in noi e negli altri, nel meglio di noi stessi, possiamo uscire dal tunnel della paura e del terrore, dall'isolamento nelle nostre case, tornare ad aprirci al mondo e vivere più pienamente il mondo.


Per vivere meglio, occorre fra l'altro che riscopriamo e rimeditiamo gli insegnamenti dell'antropologia culturale, che si studia o, dati i tempi che corrono, si dovrebbe studiare nelle nostre scuole. Per Bronislaw Malinowski, l'antropologia, in virtù dell'attenzione posta sulle differenze culturali e sulla comparazione tra culture, ci ispira il senso delle  prospettive e delle proporzioni, un più fine umorismo e consente una conoscenza globale dell'umanità. Dopo aver studiato le altre culture e civiltà, l'antropologo ritorna alla propria con una nuova prospettiva, più ampia e lucida. La presa di coscienza dei diversi modi di vivere dell'umanità, dell'irriducibile ricchezza delle civiltà e culture umane getta una nuova luce anche sulla nostra civiltà e cultura. Diveniamo capaci di spirito critico e autocritico, di distanza critica dalla nostra stessa cultura, contribuendo così a rifondarla e a  rinnovarla efficacemente. I Nambikwara del Mato Grosso, in Brasile, su cui riflette Claude Lévi-Strauss in Tristes Tropiques (Tristi Tropici,1955) sono molto poveri e indifesi, ma la loro gentilezza e tenerezza risultano per noi commoventi, oltre che evidente la ricchezza della loro umanità. L'antropologia culturale ci libera dai pregiudizi dell'etnocentrismo, consistente nella tendenza a considerare superiori le regole e i valori del proprio gruppo di appartenenza rispetto a tutti gli altri gruppi; l'etnocentrismo è un vero e proprio cancro, che in tutti i tempi e in tutte le latitudini ha seminato violenza, odio, disprezzo, guerre, paura.
Secondo Lévi-Strauss, i veri barbari sono coloro che credono nella barbarie e l'attribuiscono agli altri. Per questa mentalità, mentre "noi" siamo i soli veri esseri umani, gli "altri" sono sottouomini, barbari, selvaggi, primitivi, esseri inferiori.
Già Michel de Montaigne (si veda il saggio Des Cannibales, negli Essais) aveva compreso nel XVI secolo, con straordinaria lucidità e preveggenza, che "ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo".
La cultura occidentale ha cominciato da tempo a fare i conti con il colonialismo, l'eurocentrismo e l'imperialismo che l'hanno a lungo caratterizzata. Questi conti non sono ancora terminati, ma abbiamo iniziato a capire che l'uomo occidentale può comprendere meglio sé stesso soltanto se dismette l'attitudine e lo sguardo del dominio, se l'altro non viene più considerato e ridotto a oggetto, se lo sfruttamento, l'asservimento e l'oppressione non sono più il suo orizzonte. Da questo punto di vista l'antropologia può davvero essere intesa come figlia del rimorso dell'uomo bianco, europeo, occidentale e come una via di riscatto e di espiazione dalle colpe del colonialismo e dell'imperialismo.
Vi è un universalismo falso, che nasconde e ricopre i propri interessi particolaristici col richiamo ai valori universali dell'uomo. Lo studio dell'antropologia culturale può consentirci la riconciliazione dell'uomo con la natura e dell'uomo con l'uomo, c'insegna che l'umanità intera è composta da tutti i suoi esempi particolari e non può prescindere da essi, che davvero nulla di umano può essere estraneo all'uomo. E' il senso di una universalità umana concreta, non astratta, spiritualistica o retorica, ma frutto del riconoscimento, della valorizzazione e della ricchezza delle differenze.
Tale universalità concreta cerca di salvaguardare insieme i valori della diversità, della pluralità e dell'eguaglianza, dell'equità, della dignità di tutti gli esseri umani. Essa consente di muoverci nella direzione di una nuova civiltà planetaria, di una nuova cultura, etica e politica dell'uomo planetario, secondo la felice intuizione di Ernesto Balducci.
Ora, però, proprio questa possibile universalità umana concreta (diciamo possibile, perché non si dà nella forma odierna della cosiddetta globalizzazione, anzi appare ancora come un sogno) viene seriamente minacciata e compromessa nella difficile e delicata situazione mondiale del presente.



Per noi si tratta non solo di reagire e di lottare contro il terrorismo, ma anche di contrastare qualsivoglia tipo di fondamentalismo, integralismo, fanatismo politico, ideologico e religioso. Qui le risposte in termini meramente militari o di repressione non bastano. Occorre sì lottare in termini netti e duri contro il terrorismo islamico e il "Califfato del terrore", ma occorre fare pure molta attenzione a non criminalizzare l'intero Islam, come invece tendono a fare i fondamentalisti dell'occidentalismo, gli intolleranti e razzisti di casa nostra. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che le sūre del Corano si aprono con l'invocazione al Dio clemente e compassionevole oppure quanto leggiamo nel Corano (sūra 5, 28): "se stenderai la mano contro di me per uccidermi, io non stenderò la mano su di te per ucciderti, perché ho paura di Dio, il Signore dei mondi".
Sappiamo bene che del Corano, come di tutti i testi sacri, si possono fare diverse letture e che vi è pure l'interpretazione dei fanatici, degli intolleranti, dei violenti. Pure noi occidentali ne sappiamo qualcosa, perché anche in nome del Dio cristiano e della Croce si sono compiuti nel corso dei secoli innumerevoli e ben noti misfatti, le Crociate, guerre spaventose, si sono arsi vivi gli "eretici" e le "streghe", si è sparso a piene mani sangue innocente, etc. . Molti sono anche i nostri peccati e scheletri nell'armadio.
Nel proporre la propria identità, tutte le religioni -nessuna esclusa- sono poste davanti a un bivio, a un aut-aut: o alimentare una cultura (e un'etica) della pace, della convivenza, della solidarietà, dell'amore e del dialogo oppure rafforzare lo spirito settario, erigere muri dottrinali, inseguire i propri fantasmi idolatrici, contrastare qualunque forma di contaminazione e di cooperazione. Non possiamo più permetterci questa seconda strada, peraltro già ampiamente praticata in modo fallimentare. Senza ciò che Hans Küng ha chiamato Weltethos, ossia senza un'etica mondiale fondata sulla condivisione a livello planetario di un minimo comune denominatore di tipo etico, non vi sarà un futuro per il pianeta. Tutte le religioni possono dare un grande contributo in questa direzione, se e soltanto se torneranno a riconoscere come essenziale la legge dell'amore.
Noi oggi dobbiamo favorire in tutti i modi possibili coloro che, all'interno del mondo islamico, mirano alla convivenza, vogliono vivere nella pace, puntano a un'integrazione fruttuosa, non vogliono innalzare muri di odio e di disprezzo.
So che non è facile, ma è necessario provarci, se non vogliamo lasciare l'ultima parola agli intolleranti e ai violenti di tutte le risme.
So anche che nelle riviste di propaganda di Daesh, del "Califfato del terrore", di questi ignobili tagliagole che non si vergognano di richiamarsi al nome di Allāh, tutto ciò che proviene dai "miscredenti", dal mondo occidentale è soltanto fonte di peccato, corruzione e  male; persino le nostre scuole sono soltanto, ai loro occhi, "scuole della perdizione", caratterizzate dalla tolleranza e dalla secolarizzazione, dall'ateismo e dal pluralismo religioso. Lo stato islamico insiste molto sulla carenza valoriale dell'Occidente, vuole conquistare anche le menti e i cuori delle persone che vivono tra i "miscredenti", propone un'alternativa complessiva di sistema.



A questo proposito è bene essere molto chiari sull'ambivalenza della cultura occidentale, che ritrova in sé stessa da un lato il consumismo, il neoliberismo, il trionfo del Dio-mercato, del capitale, della tecnica e delle merci, profonde diseguaglianze economico-sociali, la desertificazione del senso, il nichilismo dell'ultracapitalismo vincente e dall'altro i valori essenziali della democrazia e dei diritti umani, del dialogo e della libertà di espressione in tutte le sue forme, della dignità umana, del pluralismo.
Noi dovremmo ovviamente far leva su questi ultimi aspetti, ma vanno rimessi in questione un sistema che, in nome del primato del profitto economico, produce ingiustizia all'interno degli stessi paesi ricchi e la violenza di un mondo che si regge sullo squilibrio abissale di ricchezza e di potere fra Nord e Sud del pianeta. Questo è oggi il brodo di coltura del terrorismo, soprattutto per i giovani musulmani di seconda generazione, senza lavoro, riconoscimenti e opportunità, spesso stigmatizzati e privati della loro dignità.
Se non avvertiremo dolorosamente sulla pelle la mancanza di un'etica e di una cultura dell'uomo planetario, se non mediteremo sulla desertificazione del senso che riguarda anche noi occidentali, sulle molteplici, inedite forme dell'odierno nichilismo e della barbarie, sulla mancanza di progetti di futuro e di nuovi assetti di civiltà che ci assilla, la decadenza e il tramonto dell'Occidente saranno inevitabili.
[Piacenza, dicembre 2015]