L'ANTROPOLOGIA CULTURALE E IL SOGNO
DELL'UNIVERSALITA' UMANA CONCRETA
DELL'UNIVERSALITA' UMANA CONCRETA
di Franco Toscani
La storia
del mondo sta attraversando un periodo denso di violenza, terrorismo, guerre e
venti di guerra, conflittualità e veleni d'ogni tipo, disorientamento,
confusione, diffidenza. Una delle questioni che sempre di nuovo si ripropone è
quella del male, della sua ostinazione e persistenza, banalità e stupidità,
crudeltà e tragicità.
Da molti secoli la filosofia e la teologia si
sono interrogate e continuano a interrogarsi sulla questione del male, senza
poter giungere a conclusioni certe e definitive. Il male resta per noi un
grande enigma, possiamo esser certi soltanto della sua tenace presenza nella
storia e nel mondo umano, delle sue varie forme, della sua diffusione e delle
continue, incessanti difficoltà che incontra la necessaria, sacrosanta, sempre
rinnovata lotta contro di esso. Ha perciò ragione Liliana Segre (deportata
quattordicenne nel 1944 e tra i 25 sopravvissuti dei 776 bambini di età
inferiore ai 14 anni deportati nel campo di concentramento di
Auschwitz-Birkenau) quando, in una recente intervista sugli attentati
terroristici parigini del 13 novembre ("Corriere della Sera", 16 novembre
2015, a cura di Paolo Conti), invita gli adulti, in particolare i genitori e
gli insegnanti ad avere il coraggio di "non girare la faccia dall'altra
parte", di dire la verità ai nostri ragazzi, di spiegare che cosa è
realmente accaduto a Parigi, cercando di non "ripararli" troppo dal
dolore, dal pericolo e raccomandando pure di non odiare mai, perché l'odio
genera sempre altro odio.
Le nuove generazioni, infatti, sono state sin
troppo "protette" da quel male e quel dolore che invece fanno sempre parte della vita
reale di ciascuno di noi e che, se vengono ignorati, sottovalutati e non
riconosciuti in tutto il loro spessore, rischiano di annichilire e distruggere
le personalità più fragili o comunque di renderci incapaci di affrontare la
vita in tutti i suoi aspetti e dimensioni. L'eccesso di protezione e le troppo
facili "caramelle di consolazione" non aiutano a vivere, a crescere e
ad assumersi responsabilità. Occorre cercare sempre di fare i conti - anche se
non è facile come dirlo - col male e col dolore che sono presenti non solo
negli altri e nel mondo, ma anche in noi, in ciascuno di noi.
Solo così, con lucidità e coscienza, possiamo
andare avanti, affrontare la vita con coraggio e responsabilità, partendo
sempre da noi stessi, dalle situazioni concrete, cominciando quindi a vivere
quotidianamente nelle nostre aule scolastiche e universitarie, in tutti i
luoghi di lavoro e di vita rapporti umani caratterizzati dal rispetto,
dall'attenzione, dall'ascolto reciproco, dal dialogo, dall'ospitalità culturale
fra diversi. Solo così, trovando la vera forza in noi e negli altri, nel meglio
di noi stessi, possiamo uscire dal tunnel della paura e del terrore, dall'isolamento
nelle nostre case, tornare ad aprirci al mondo e vivere più pienamente il
mondo.
Per vivere meglio, occorre fra l'altro che
riscopriamo e rimeditiamo gli insegnamenti dell'antropologia culturale, che si
studia o, dati i tempi che corrono, si dovrebbe studiare nelle nostre scuole.
Per Bronislaw Malinowski, l'antropologia, in virtù dell'attenzione posta sulle
differenze culturali e sulla comparazione tra culture, ci ispira il senso
delle prospettive e delle proporzioni,
un più fine umorismo e consente una conoscenza globale dell'umanità. Dopo aver
studiato le altre culture e civiltà, l'antropologo ritorna alla propria con una
nuova prospettiva, più ampia e lucida. La presa di coscienza dei diversi modi
di vivere dell'umanità, dell'irriducibile ricchezza delle civiltà e culture
umane getta una nuova luce anche sulla nostra civiltà e cultura. Diveniamo
capaci di spirito critico e autocritico, di distanza critica dalla nostra
stessa cultura, contribuendo così a rifondarla e a rinnovarla efficacemente. I Nambikwara del
Mato Grosso, in Brasile, su cui riflette Claude Lévi-Strauss in Tristes Tropiques (Tristi Tropici,1955) sono molto poveri e indifesi, ma la loro
gentilezza e tenerezza risultano per noi commoventi, oltre che evidente la
ricchezza della loro umanità. L'antropologia culturale ci libera dai pregiudizi
dell'etnocentrismo, consistente nella tendenza a considerare superiori le
regole e i valori del proprio gruppo di appartenenza rispetto a tutti gli altri
gruppi; l'etnocentrismo è un vero e proprio cancro, che in tutti i tempi e in
tutte le latitudini ha seminato violenza, odio, disprezzo, guerre, paura.
Secondo Lévi-Strauss, i veri barbari sono
coloro che credono nella barbarie e l'attribuiscono agli altri. Per questa
mentalità, mentre "noi" siamo i soli veri esseri umani, gli
"altri" sono sottouomini, barbari, selvaggi, primitivi, esseri
inferiori.
Già Michel de Montaigne (si veda il saggio Des Cannibales, negli Essais) aveva compreso nel XVI secolo,
con straordinaria lucidità e preveggenza, che "ognuno chiama barbarie
quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto
di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni
e degli usi del paese in cui siamo".
La cultura occidentale ha cominciato da tempo a
fare i conti con il colonialismo, l'eurocentrismo e l'imperialismo che l'hanno
a lungo caratterizzata. Questi conti non sono ancora terminati, ma abbiamo iniziato
a capire che l'uomo occidentale può comprendere meglio sé stesso soltanto se
dismette l'attitudine e lo sguardo del dominio, se l'altro non viene più
considerato e ridotto a oggetto, se lo sfruttamento, l'asservimento e
l'oppressione non sono più il suo orizzonte. Da questo punto di vista
l'antropologia può davvero essere intesa come figlia del rimorso dell'uomo
bianco, europeo, occidentale e come una via di riscatto e di espiazione dalle
colpe del colonialismo e dell'imperialismo.
Vi è un universalismo falso, che nasconde e
ricopre i propri interessi particolaristici col richiamo ai valori universali
dell'uomo. Lo studio dell'antropologia culturale può consentirci la
riconciliazione dell'uomo con la natura e dell'uomo con l'uomo, c'insegna che
l'umanità intera è composta da tutti i suoi esempi particolari e non può
prescindere da essi, che davvero nulla di umano può essere estraneo all'uomo.
E' il senso di una universalità umana concreta, non astratta, spiritualistica o
retorica, ma frutto del riconoscimento, della valorizzazione e della ricchezza
delle differenze.
Tale universalità concreta cerca di
salvaguardare insieme i valori della
diversità, della pluralità e dell'eguaglianza, dell'equità, della dignità di
tutti gli esseri umani. Essa consente di muoverci nella direzione di una nuova
civiltà planetaria, di una nuova cultura, etica e politica dell'uomo
planetario, secondo la felice intuizione di Ernesto Balducci.
Ora, però, proprio questa possibile universalità
umana concreta (diciamo possibile, perché non si dà nella forma odierna della
cosiddetta globalizzazione, anzi appare ancora come un sogno) viene seriamente
minacciata e compromessa nella difficile e delicata situazione mondiale del
presente.
Per noi si tratta non solo di reagire e di
lottare contro il terrorismo, ma anche di contrastare qualsivoglia tipo di
fondamentalismo, integralismo, fanatismo politico, ideologico e religioso. Qui
le risposte in termini meramente militari o di repressione non bastano. Occorre
sì lottare in termini netti e duri contro il terrorismo islamico e il
"Califfato del terrore", ma occorre fare pure molta attenzione a non
criminalizzare l'intero Islam, come invece tendono a fare i fondamentalisti
dell'occidentalismo, gli intolleranti e razzisti di casa nostra. Non possiamo
dimenticare, ad esempio, che le sūre del Corano
si aprono con l'invocazione al Dio clemente e compassionevole oppure quanto
leggiamo nel Corano (sūra 5, 28):
"se stenderai la mano contro di me per uccidermi, io non stenderò la mano
su di te per ucciderti, perché ho paura di Dio, il Signore dei mondi".
Sappiamo bene che del Corano, come di tutti i testi sacri, si possono fare diverse
letture e che vi è pure l'interpretazione dei fanatici, degli intolleranti, dei
violenti. Pure noi occidentali ne sappiamo qualcosa, perché anche in nome del
Dio cristiano e della Croce si sono compiuti nel corso dei secoli innumerevoli
e ben noti misfatti, le Crociate, guerre spaventose, si sono arsi vivi gli "eretici"
e le "streghe", si è sparso a piene mani sangue innocente, etc. .
Molti sono anche i nostri peccati e scheletri nell'armadio.
Nel proporre la propria identità, tutte le
religioni -nessuna esclusa- sono poste davanti a un bivio, a un aut-aut: o alimentare una cultura (e
un'etica) della pace, della convivenza, della solidarietà, dell'amore e del dialogo
oppure rafforzare lo spirito settario, erigere muri dottrinali, inseguire i
propri fantasmi idolatrici, contrastare qualunque forma di contaminazione e di
cooperazione. Non possiamo più permetterci questa seconda strada, peraltro già
ampiamente praticata in modo fallimentare. Senza ciò che Hans Küng ha chiamato Weltethos, ossia senza un'etica mondiale fondata sulla
condivisione a livello planetario di un minimo comune denominatore di tipo
etico, non vi sarà un futuro per il pianeta. Tutte le religioni possono dare un
grande contributo in questa direzione, se e soltanto se torneranno a
riconoscere come essenziale la legge dell'amore.
Noi oggi dobbiamo favorire in tutti i modi
possibili coloro che, all'interno del mondo islamico, mirano alla convivenza,
vogliono vivere nella pace, puntano a un'integrazione fruttuosa, non vogliono
innalzare muri di odio e di disprezzo.
So che non è facile, ma è necessario provarci,
se non vogliamo lasciare l'ultima parola agli intolleranti e ai violenti di
tutte le risme.
So anche che nelle riviste di propaganda di
Daesh, del "Califfato del terrore", di questi ignobili tagliagole che
non si vergognano di richiamarsi al nome di Allāh, tutto ciò che proviene dai
"miscredenti", dal mondo occidentale è soltanto fonte di peccato,
corruzione e male; persino le nostre
scuole sono soltanto, ai loro occhi, "scuole della perdizione",
caratterizzate dalla tolleranza e dalla secolarizzazione, dall'ateismo e dal
pluralismo religioso. Lo stato islamico insiste molto sulla carenza valoriale
dell'Occidente, vuole conquistare anche le menti e i cuori delle persone che
vivono tra i "miscredenti", propone un'alternativa complessiva di
sistema.
A questo proposito è bene essere molto chiari
sull'ambivalenza della cultura occidentale, che ritrova in sé stessa da un lato
il consumismo, il neoliberismo, il trionfo del Dio-mercato, del capitale, della
tecnica e delle merci, profonde diseguaglianze economico-sociali, la
desertificazione del senso, il nichilismo dell'ultracapitalismo vincente e
dall'altro i valori essenziali della democrazia e dei diritti umani, del
dialogo e della libertà di espressione in tutte le sue forme, della dignità
umana, del pluralismo.
Noi dovremmo ovviamente far leva su questi
ultimi aspetti, ma vanno rimessi in questione un sistema che, in nome del
primato del profitto economico, produce ingiustizia all'interno degli stessi
paesi ricchi e la violenza di un mondo che si regge sullo squilibrio abissale
di ricchezza e di potere fra Nord e Sud del pianeta. Questo è oggi il brodo di
coltura del terrorismo, soprattutto per i giovani musulmani di seconda
generazione, senza lavoro, riconoscimenti e opportunità, spesso stigmatizzati e
privati della loro dignità.
Se non avvertiremo dolorosamente sulla pelle la
mancanza di un'etica e di una cultura dell'uomo planetario, se non mediteremo
sulla desertificazione del senso che riguarda anche noi occidentali, sulle
molteplici, inedite forme dell'odierno nichilismo e della barbarie, sulla
mancanza di progetti di futuro e di nuovi assetti di civiltà che ci assilla, la
decadenza e il tramonto dell'Occidente saranno inevitabili.
[Piacenza, dicembre 2015]