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venerdì 29 gennaio 2016

Le chiavi di Gerico
di Giovanni Bianchi

Le chiavi di casa
Si chiama Samir la guida turistica che ci ha accompagnato per nove giorni nel pellegrinaggio in terra santa. È un palestinese cristiano e cittadino israeliano. Fa parte cioè di quell’1,2% di cristiani che compongono residualmente il popolo palestinese confinato a Gaza e nei territori occupati. Quando ai miei tempi intrattenevo rapporti politici e d’amicizia con Arafat i cristiani tra i palestinesi arrivavano al 12%.  Samir è laureato in medicina ed archeologia ed ha scelto di fare l’imprenditore locale di viaggi. Attrezzatissimo dal punto di vista tecnologico ed altrettanto equilibrato nei giudizi.  È la mattina dell’ultimo giorno, quello della partenza. Santa messa a Gerico, poi ancora Gerusalemme, un bel museo, e il ritorno in Italia.
Si dice che Gerico sia la più antica città del mondo e campeggia nella Bibbia per il crollo delle mura. Qualcuno dal pullman nota una raffigurazione delle chiavi e ne resta incuriosito. La risposta di Samir è puntuale e inattesamente autobiografica.
Quando nel 1948 gli eserciti di Egitto, Siria e Giordania fecero guerra a Israele, gli ufficiali arabi dissero ai palestinesi di entrambe le religioni di recarsi nei campi profughi giordani portando con sé le chiavi di casa. L’armata araba avrebbe sbaragliato e sloggiato gli ebrei di Ben Gurion, e loro nel giro di quindici giorni sarebbero potuti tornare, chiavi in mano, nei propri appartamenti. L’idea e le bandiere che muovevano gli eserciti arabi erano allora quelle del panarabismo, e non a caso tra gli ufficiali più brillanti di quella armata vi era anche un colonnello di nome Nasser. Le cose andarono diversamente e le icone delle chiavi stanno a ricordare un patto e una struggente nostalgia.
Vi fu una replica (dopo altre) del tentativo arabo di sloggiare gli ebrei da Israele, ed è la guerra dei sei giorni del 1967 che vide Moshe Dayan giungere  vincitore con il mitra in spalla a pregare al muro del pianto. Tutti questi tentativi avevano come ragione di fondo quella del panarabismo. Con un brusco salto, non soltanto storico, dobbiamo adesso osservare che la bandiera nera alzata dall’Isis, dai suoi combattenti, dai terroristi, dai foreign faithers e dai kamikaze è quella invece del panislamismo: un approccio ideologico che complica e incrudelisce le cose. E che, come ogni soggetto politico, ha scelto la sua generazione core da promuovere e sviluppare sul proprio terreno e senza confini, come il panislamismo chiede.


Quale evoluzione?
Interrogarsi sull’evoluzione di un popolo e di un problema significa da subito mettere nel conto la possibilità di imbattersi anche in una involuzione. Ma la prospettiva di indagine non cambia: si tratta pur sempre di scoprire le trasformazioni della storia e di interrogarsi sul perché degli esiti raggiunti. Credo sia diventato chiaro che i palestinesi sono stati progressivamente abbandonati dagli altri paesi arabi. Gli israeliani, memori dell’olocausto europeo, hanno fin dagli inizi preferito contare duramente sulle proprie forze, trasformandosi in esercito permanente, e continuare a chiedere aiuti finanziari alle facoltose comunità ebraiche sparse per il mondo, soprattutto quella newyorkese.
L’assassinio di Rabin ha interrotto una via promettente di pacificazione, ma non ha messo in discussione la stabilità dello Stato d’Israele. Per questo le chiavi di Gerico sono diventate con il passare dei decenni un inno all’ironia. Resto tuttora convinto che non vi sia strada alternativa a quella dei “due Popoli e due Stati”, anche se Netanyahu da una parte e non pochi dei suoi avversari palestinesi dall’altra dicono all’unisono di non crederci più.
Lo dice anche il vivacissimo sacerdote che presiede la Caritas palestinese e che incontriamo una sera in un hotel di Gerusalemme. Da giovane il prete che parla un italiano perfetto tirava le Molotov ai tanks israeliani. Adesso aiuta il suo popolo con tutte le forze, assicura che i palestinesi non abbandoneranno mai la propria terra e si definisce “non ottimista ma realista”. Esplicitando che il termine realismo deve includere anche la guerra.
Come comporre tutto ciò con la speranza cristiana? Padre Raed ha dimestichezza, oltre che con le opere caritative, con La Scrittura. E l’Apocalisse non a caso apre alla speranza escatologica, quella di Isaia e dei tempi ultimi che vedranno il lupo e l’agnello pascolare insieme e il leone cibarsi di erba. Per i suoi interlocutori, me compreso, il progetto politico diventa arduo: come rendere vegetariano il leone. Una scommessa non so se più entusiasmante o difficile.


L’Europa dell’accoglienza
Tutti i pellegrinaggi prima o poi finiscono, anche i più riusciti e i più rischiosi e interessanti. E quando quindi torni in Europa ti confronti dall’altro lato con il problema dell’accoglienza.
Il terrorismo islamico è entrato a far parte da dopo le Torri Gemelle del nostro quotidiano e del suo immaginario. Facciamo bene a ripetere che il terrorismo islamico esiste e va combattuto, anche in casa nostra, ma che non tutti gli islamici sono terroristi.
Dopo la tragedia parigina di Charlie Hebdo il problema non è mediterraneo o d’oltremare, ma delle nostre metropoli e delle nostre periferie. Lo abbiamo già in casa. L’Europa è scossa prima nella sua quotidianità che premuta alle frontiere.
Giovani terroristi e foreign faithers sono cresciuti nella banlieu parigina. Quel che si dice il terrorista della porta accanto. E le nostre città, Parigi e Bruxelles, ma poi anche Berlino, Monaco di Baviera e Colonia hanno visto praticamente instaurarsi il coprifuoco.
Il turismo si diluisce e arranca. Si evita di uscire al ristorante, di recarsi al concerto e nei bistrot. La nostra vita quotidiana si è fatta più paurosa e ritirata perché è assediata dalla paura.
Ovviamente vi sono movimenti, come la Lega italiana e il lepenismo francese, che cavalcano le paure. Ma il problema non è chiedersi se gli xenofobi prenderanno più voti degli altri partiti, ma perché un italiano, che ha fin qui pensato che Salvini le sparasse grosse per eccessiva rozzezza intellettuale e politica, sia oggi tentato di pensare che proprio quella rozzezza abbia consentito al leader leghista di cogliere prima di altri la difficoltà del problema e i suoi pericoli. È questa suggestione che lo sollecita a votarlo.
Una pietra miliare in tal senso è il Capodanno di Colonia. Colonia è la città più progressista e cosmopolita di tutta la federazione tedesca. La città di Einrich Böll tra l’altro.
Quella notte di Capodanno un migliaio di facinorosi nordafricani s’è dato convegno con la parola d’ordine di attaccare le donne tedesche in festa come selvaggina sessuale meritevole di furto e di stupro. Al netto di tutti problemi di ordine pubblico e della sorprendente faciloneria di una polizia germanica tutt’altro che teutonica, resta l’assalto alla persona e in particolare a quelle donne che tante vittoriose battaglie per i diritti hanno condotto in Occidente negli ultimi decenni. Le nostre odierne democrazie sarebbero illeggibili nella loro quotidianità a prescindere dal protagonismo femminile e dai diritti conquistati sul campo dalle nostre compagne. Perché la scelta di questo affronto?
Si è detto di un’azione criminale organizzata, ma il problema non è certamente in primo luogo di polizia e di ordine pubblico. Il problema rimanda più all’ethos che alle leggi. Tanto più grave in un Paese leader d’Europa, nel quale la cancelliera Merkel ha favorevolmente stupito per il coraggio dell’apertura all’accoglienza dei profughi siriani.


Come capire
Cosa sta dietro a una notte di stupidità e di nefandezze? Perché quei giovani maghrebini derubavano, malmenavano, inseguivano e talvolta stupravano le donne tedesche?
Il problema è il costume, le abitudini. Il formarsi di una mentalità e comportamenti che ne conseguono. Si sono ricordati gli stupri di piazza Tahrir e le molestie di Tripoli. Lì dove cioè la donna non è stata raggiunta dal deposito benefico dell’illuminismo e della cittadinanza democratica. Una disparità e una discriminazione che fanno a pugni con le nostre convivenze quotidiane. E pare assodato che le ragioni e gli itinerari dell’accoglienza, l’atmosfera umanitaria e di civismo dei cittadini europei che si sono precipitati in più di una occasione in quanto privati e con le proprie automobili ad accogliere i profughi, non siano sufficienti a cambiare una mentalità ed abitudini consolidate. Fa meditare la circostanza che l’Austria    
-pur teatro qualche mese fa degli atti di accoglienza di suoi privati cittadini- sia oggi tra le nazioni che chiedono la sospensione di Schengen.
Il problema non è il Corano né tantomeno il Profeta. Il problema è il permanere di discriminazioni sulle quali la religione pone il proprio sigillo e che il fondamentalismo religioso ulteriormente esaspera.
È inutile cercare nel Vangelo di Gesù di Nazareth le ragioni dell’Inquisizione cattolica. Ma l’Inquisizione c’è stata, ha dominato la Chiesa cattolica, ha visto al suo interno teologi della levatura del cardinale Bellarmino, della stessa Compagnia di Gesù della quale fa parte papa Francesco, a tutti noto per il coraggio e la mitezza con cui proclama e pratica il perdono e raccomanda l’accoglienza dei fratelli di religione differente.
Vedo un grande imbarazzo nella tradizione marxista (per quel che resta) nell’affrontare il problema. Qui le ragioni economiche non sono centrali. Si tratta di leggere con strumenti quantomeno ermeneutici che sappiano distinguere -dopo Bonhoeffer- tra fede e religione. Il Corano è un libro bellissimo, ma questo non cambia nulla rispetto ai comportamenti notturni di Colonia.
Anche il Vangelo è un libro bellissimo, ma oltre all’Inquisizione dobbiamo anche rammentare nella storia della cristianità le crociate e più recentemente gli scandali finanziari dello Ior vaticano e le abitudini pedofile di troppi sacerdoti non soltanto statunitensi. La purezza della fede finisce talvolta per essere travolta e sconciata da un impasto idolatrico tra etica e religione. Ed è proprio La Scrittura a insegnarci che l’idolo uccide.
Ovviamente non sto proponendo la generalizzazione dell’etica cattolica o cristiana. Sarebbe contraddittorio rispetto alla laicità sulla quale è fondata la nostra Repubblica e la stessa Europa. Ma un’etica di cittadinanza deve essere valutata e costruita. Deve saper riconoscere i pericoli e i nemici che la insidiano, all’interno e da fuori. Deve trovare gli antidoti e le proposte in grado di umanizzare chi si colloca da una parte e dall’altra della barricata prima etica e poi ideologica. Perché la globalizzazione dominata dalla logica della crescita disuguale e dal potere finanziario mobilita le masse, ma non accoglie e non insegna ad accogliere.
Perché se non vale “l’aiutiamoli a casa loro” -dal momento che è in faticosa costruzione nel pianeta una casa comune- è altresì vero che la nostra quotidianità di cittadini europei non deve essere lasciata alla mercé dei nuovi arrivi, ma proposta nei suoi valori di convivenza, di civiltà del diritto e di eguaglianza sociale: tutto quanto la rende appetibile per chi sfida la morte nel Mediterraneo pur di raggiungerla e farne parte.
E lo stesso discorso va riproposto per il welfare europeo, senza il quale i diritti sanciti dalle diverse carte costituzionali del Vecchio Continente risulterebbero una tragica beffa. (Da qui discende l’obbligo, umano, civile e democratico, dell’assistenza e della cura dei profughi che raggiungono le nostre spiagge e le nostre frontiere, e non soltanto dei rifugiati politici.)
Non è mai ozioso ricordare che la democrazia non è un guadagno fatto una volta per tutte. Luigi Sturzo lo sapeva, e proprio per questo era un prete del Sud che tante difficoltà incontrò nel contribuire alla costruzione di una laicità degli italiani anche all’interno della sua Chiesa.
Come a dire che l’accoglienza è doverosa, ma non facile e priva di costi. E tantomeno facilona.


In casa
E poi bisogna fare i conti con i problemi di casa, che non sempre attraversano una congiuntura favorevole. La casa italiana, la casa tedesca, la casa francese.
In Italia qualcuno dovrebbe misurarsi con quello che è stato definito “il mistero del 2015”. Infatti secondo l’Istat i decessi sono aumentati nel nostro Paese dell’11%. Siamo cioè tornati ai livelli di mortalità degli anni Quaranta. E non si tratta soltanto di un problema per gli esperti i quali si interrogano sulla circostanza se ci ammaliamo di più o ci curiamo peggio. La vita media o speranza di vita resta l’indicatore più antropologicamente concreto di come un Paese ha cura dei suoi cittadini. Quanto li fa campare è un indice tutto sommato complessivo e preciso.
In Germania si è già detto dei problemi emersi. Un parere perplesso ed inquietante ha espresso un intellettuale di centrodestra, già consigliere di Helmut Kohl, il quale ha osservato che vi è un elemento di inevitabilità nei fatti accaduti a Colonia -troppo distanti le etiche e il modo di concepire il ruolo della donna- concludendo che Angela Merkel ha compiuto un errore aprendo in quel modo ai migranti.
Sulla Francia le analisi sono molto più accurate e molto concedono all’indagine delle sociologie. Si parla di un Islam radicale come risposta violenta all’esclusione sociale: le periferie di Parigi sono teatro di identità che si esprimono come antagonismo verso la società degli “inclusi”. E si aggiunge che questi giovani trasformano il disprezzo di se stessi in odio verso gli altri.
Il male di cui più soffrono è il vittimismo, insieme alla convinzione che delinquere sia l’unica strada possibile per uscire dall’esclusione.
Dicono ancora le sociologie transalpine che l’islamismo radicale opera un’inversione magica: trasformando il disprezzo di sé nel disprezzo per l’altro. Da qui i viaggi iniziatici in Siria come in Iraq. Il viaggio-pellegrinaggio conferma il giovane jihadista nella sua nuova identità, rinviandolo in modo mitico alla società musulmana.
In questa condizione, oltre imparare a usare le armi e a diventare crudele, si scopre man mano straniero rispetto alla propria società. Alla fine del processo (saltando per brevità tutta una serie di passaggi) il giovane jihadista avverte un bisogno irrefrenabile di diventare tutt’uno con la “nuova umma” del califfato di Daesh, abbandonando e aggredendo la propria società poco amata. Non a caso, secondo le statistiche disponibili, il numero di giovani europei andati in Siria è tra i 2 mila e i 4 mila.
Non tanto un problema di frontiere, quanto piuttosto un problema sempre più interno e intestino per le società europee medesime. Si aggiunga che la scomparsa del senso del religioso istituzionalizzato spinge a cercare nuovi orizzonti di sacro nello sconosciuto.
Così pure la ricerca di una nuova utopia e il sentimento di profonda ingiustizia si combinano con la ricerca della felicità individuale e del gusto dell’avventura. Alla fine, con un cortocircuito micidiale, il desiderio di morire si lega a quello di uccidere l’altro.
Fin qui le analisi sociologiche. Cui va aggiunto la distanza di comportamenti e di costumi – soprattutto per quel che riguarda il ruolo della donna – che rendono differenti e distanti i due universi culturali e valoriali.
Ce n’è per continuare gli studi all’infinito, ma soprattutto per sollecitare le politiche (il compito delle politiche è occuparsi del contingente e del definito) a cercare soluzioni, o almeno a progettarle con cognizione di causa.
Fermiamoci qui per adesso. Tanto il trend è destinato a continuare e ad ingrossarsi. Ma intanto dovrebbe essere chiaro che il problema cruciale non è quanto gli immigrati siano diversi da noi, ma come ci costringono a confrontarci con le nostre abitudini, le nostre certezze, i nostri standard di vita e di pensiero.
È la pena, l’opportunità, il bello e il brutto, ma soprattutto il destino di ogni meticciato.