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sabato 26 marzo 2016

DEMOCRAZIA E VERITÀ PUBBLICA
di Fulvio Papi

I filosofi Fulvio Papi e Roberta De Monticelli
a destra con in mano "Odissea" il sociologo Nando Dalla Chiesa


La crisi della democrazia, almeno in Italia, è in atto da almeno vent’anni. Capisco tuttavia che gli elementi della crisi che sono evidenti a livello teorico, possano essere tenuti in ombra dalla pratica politica che continua ad agire secondo gli spazi storici e istituzionali che pure ormai fragili continuano ad esistere perché non hanno alternative serie e accettabili. Non mi piace disprezzare il lavoro di chiunque, ma non riesco a superare l’idea che la riforma del Senato sia un pasticcio, e, in generale, sia un sintomo ovvio che un ceto politico, strutturato com’è strutturato, non può riformare se stesso. Lo può fare un ipotetico potere esterno, come per esempio l’ottimo Tito Boeri sul tema delle pensioni, subito bloccato dalle considerazioni che le decisioni toccano al governo, il quale deve tener conto dei poteri diffusi, di potenti corporazioni privilegiate di cui non può (e non vuole) perdere il consenso. Il cambio generazionale, oltre a mutare le apparizioni televisive, non ha cambiato e non poteva cambiare quasi nulla perché, magari in forma critica molto in superficie, era all’interno del medesimo modello di cultura. Poteva dire il contrario di un costume, ma il negativo è nella stessa relazione del positivo, è solo la differenza che si costruisce materialmente a cambiare la scena. Ma questa è un’impresa difficile, spesso drammatica, e comunque tale che nessuna istituzione può progettare per se stessa, dato che, insegna la sociologia, ogni istituzione ha nella sua stessa natura, il presupposto della sua sopravvivenza. Così accade che si sopravvive con la decadenza culturale rovinosa del ceto politico (dove il discorso approda rapporto tra gravidanza e incarico di sindaco, a livello di chiacchiera domenicale, laddove è ovvio che ciascuno è misura di se stesso). Si considera il malaffare che ormai è intrinseco alla riproduzione sociale come una serie di episodi circoscritti. Si può parlare di innovazione tecnologica, di investimenti, di occupazione, di consumo come fosse un discorso di una evidenza lineare, come se fosse la lettura di un manuale, e non l’analisi, molto più difficile, di una situazione sociale. E capisco anche perché questo accada. Nel primo caso si riesce a mantenere un rapporto “persuasivo” con la dimensione del consumo, cioè della fiducia e della speranza che latitano non poco, ma di cui vi è bisogno. La seconda situazione è in direzione, almeno intenzionale, della verità, che qui è una moneta fuori corso. Non c’è nessuno che, politicamente, possa evadere del tutto da questa condizione. La politica della verità pubblica (che tanto piaceva a Kant) o è teoria, oppure si manifesta in condizioni del tutto particolari, quando non si può evadere dal peso della verità. Noi non siamo in una situazione del genere, quindi proseguirà il nostro ascolto della retorica d’occasione, delle scelte non ben ponderate, dell’apparire e del credere. La realtà effettuale è anche questo. E tuttavia, anche in questa situazione, vi è il peggio e il meglio che si possono riconoscere, ad esempio, con elementari criteri di giustizia e con la misura del possibile. Direi che è il sistema della piccola verità che è stato selezionato dalla nostra storia. Ma almeno su queste cose, ogni politica verrà giudicata per quello che è, non per quello che dice.