Pagine

venerdì 25 marzo 2016

LA SCRITTURA E LA SCENA
di Angelo Gaccione

Da sinistra: Gabriele Scaramuzza, Chiara Pasetti
Angelo Gaccione, Isabelle Rome al Teatro Filodrammatici di Milano
subito dopo l'incontro organizzato dall'Associazione Culturale
Le Reve e la Vie

Sono convinto che il rapporto tra scrittura e scena è destinato a rimanere conflittuale. Non sempre una scrittura teatrale è adatta per la scena, o quanto meno, non lo è per qualsiasi opera. Purtroppo questa pessima abitudine di “teatralizzare” tutto ciò su cui si posano gli occhi, è molto diffusa; soprattutto ad opera di registi giovani e poco avveduti che si improvvisano scrittori, e che “adattano” alle proprie esigenze sceniche e spettacolari, quanto da altri prodotto e che non era stato assolutamente concepito a questo scopo. Piuttosto che rendere irriconoscibile un testo altrui, basterebbe più semplicemente elaborarsene uno in proprio e su misura, rispondente a tutte quelle esigenze personali e spettacolari che si cercano. La marmorea fissità della parola mal si adatta a divenire cosa diversa dalla propria natura; dalle motivazioni che l’hanno fatta scaturire e dalle finalità che si propone. Se poi ci troviamo davanti ad un’opera nata per essere “rappresentata”, ma dove ogni parola, pausa, tono, ritmo è stato tuttavia organicamente definito dal suo autore e fissato in scrittura, ancora più rigidamente se ne deve rispettare l’ordito. Non si può, pena il suo snaturamento, operare interpolazioni, sostituzioni, o, peggio, aggiunte. E se anche autore e regista lavorassero assieme, la dicotomia non verrebbe comunque risolta: si potrebbero cercare assieme soluzioni “tecniche” condivise; escamotages legati specificatamente alla macchina teatrale, ma non vedo come si potrebbe risolvere il problema della sostanza (frasi, parole, tipo di recitazione, corpi da esporre allo sguardo degli spettatori), che per me autore hanno una valenza diversa da quella di chi quella sostanza deve rappresentare. Certo resta indispensabile il confronto: ma può darsi il caso che l’autore che ha concepito il testo non sia più vivente. Non si può, dunque, che fare affidamento sulla sensibilità e l’intelligenza di questo “animale” da palcoscenico; sperando che egli si documenti a fondo sulla personalità dell’autore, sul suo pensiero -non solamente estetico- che ne indaghi, fin dove gli sarà possibile, la sua visione di mondo, il suo sguardo sulla vita e sull’esistenza. Non tradirne il dettato resta in ogni caso fondamentale. Nel mio dramma corale “Pathos” ho chiuso il testo con questa raccomandazione: “In caso di applausi nessun attore deve uscire a raccoglierli”. Se si leggono attentamente le varie scansioni e se ne capisce il fondo, quella indicazione diventa fondamentale. Ci sono nei miei testi pubblicati in volume, indicazioni a volte minuziose e insistite. Non sono assolutamente trascurabili dal mio punto di vista, anzi. Se io fisso sulla pagina i contorni di una single (vedi l’omonimo monologo “Single”) cinica, fredda, analitica, razionale, colta; il personaggio deve essere così sulla scena. Non possono essere tagliati o modificati brani a piacimento che la rendono diversa da come l’ho immaginata. Il personaggio ne uscirebbe solo banalizzato. Se volevo renderla simpatica al pubblico avrei trovato altri modi per descriverla e farla parlare. Poiché tutto questo si è verificato in occasione di una messa in scena di “Single” diversi anni fa, posso comprendere come si sia sentita l’amica Chiara Pasetti al debutto del suo lavoro ispirato alle lettere e all’opera di un personaggio difficile e di grande fascino come l’artista francese Camille Claudel: “Moi”, avvenuto al Teatro Filodrammatici di Milano il 14 marzo scorso.
Ecco quanto mi scrive in una email del giorno dopo (15 marzo) da Novara:  “Ieri sera ho assistito a una cosa spinta in una direzione che io non le ho dato mai, né nel testo né nelle intenzioni. (…) sono molto amareggiata e delusa… ”.
Di queste delusioni un autore è destinato a provarne diverse se non potrà prendere in mano la propria opera gestendone direttamente la realizzazione scenica, o quanto meno a guidarla in accordo con un regista scrupoloso e disponibile.
Ma può un autore fare questo? Ne ha il tempo ed i mezzi? E soprattutto: è giusto che si trasformi in ciò che non gli compete?

Il tavolo delle relatrici durante l'incontro "Voci fuori dal coro" al
Teatro Filodrammatici prima del debutto di "Moi", di Chiara Pasetti
dedicato a tre donne speciali: Antonia Pozzi, Camille Claudel e Séverine
Nella foto da sin. Graziella Bernabò, Rosanna Massarenti,
Isabelle Rome, Chiara Pasetti