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mercoledì 7 settembre 2016

Artisti americani all’Art Master St. Moritz
di Claudio Zanini

Alexis Rockman "Biosfera e Oceano" 1994

Due cose subito colpiscono l’osservatore attento: una splendida opera di Rauschemberg della serie “Urban Bourbons” (1988/95), su sontuoso supporto d’acciaio (dunque, niente mirabili stracci, spazzatura e trielina!); e due piccoli autoritratti di Warhol, all’Hotel Kulm, letteralmente cancellati, soffocati entro lo sfarzoso arredo primi ‘900 dell’albergo, ricco di legni lustri, ottoni lucenti, tappeti preziosi, e tendaggi, velluti, fiori. Si ha, quasi, l’impressione che i piccoli Warhol (il suo viso, imperioso!) vengano privati dei famosi “quindici minuti di visibilità”, a cui ciascuno avrebbe diritto nella propria vita, a vantaggio del contesto smisurato e lussuoso, dal fascino decadente e rétro, dell’ambiente (Arthur Schnitzler vi avrebbe ambientato qualche storia di nevrosi). Una vendetta del vecchio ordine sopravvivente, ai danni dell’effimero anarchismo contemporaneo. Crimine che, in tal modo declinato, piacerebbe alla coppia d’artisti newyorkesi David McDermott e Peter McGough che, nonostante molto apprezzino l’icona Warhol, praticando un raffinato anacronismo, rifiutano il mondo contemporaneo e, ancor più, il futuro che prevedono disastroso. I due artisti lavorano insieme, a quattro mani; elaborando un linguaggio consapevolmente rétro, pervaso spesso d’elegante ironia, realizzano opere datate molto indietro nel tempo. Qui, presso la Andrea Caratsch Gallery, espongono una serie di cianotipie (1880/90), cioè delle foto che, evocando un lontano passato, sembrano estranee alla disgustosa realtà contemporanea; un bell’esempio dell’operazione è l’opera: Scioccato nel leggere che Gesù Cristo è associato ai poveri e agli umili (1989), chiaramente ispirata al dipinto, Goethe nella campagna romana (1786) di J.H.Wilhelm Tischbein.



Un futuro già devastato, indagato con visionarie vedute d’apocalisse, costituisce la tematica dell’artista newyorkese presentato da Robilant+Voena, Alexis Rockman. Sono paesaggi surreali, dipinti con minuziosa tecnica iperrealista; panorami devastati da una guerra atomica, popolati non da umani, forse estinti, ma pullulanti d’animali e insetti risultato di manipolazioni genetiche; un bestiario ispirato da Bosch ma anche dalla fantascienza e dall’illustrazione scientifica.
Uno sguardo che analizza con estrema lucidità corpi e volti (di cui molti, fortunatamente, per come qui appaiono, smentiscono le profezie catastrofiche riguardo al futuro dell’umanità) è quello di Albert Watson, notissimo fotografo le cui opere sono esposte al Kempinski Hotel. Per tutte, citiamo i ritratti di Steve Jobs, di Alfred Hitchcock e quello di Mick Jagger in sembiante di tigre. Sono foto che si distinguono sia per l’alta qualità, sia per l’immediata riconoscibilità dello stile, elemento principe, l’impaginazione sapiente del rapporto luce/ombra, qualunque siano i soggetti e i temi rappresentati; mentre colpisce l’introspezione psicologica, pervasa d’amorevole empatia nei confronti dei personaggi ritratti.








Su un altro versante si collocano le opere pop di Robert Indiana, molto colorate e di forte impatto, simili ai marchi pubblicitari, esposte alla Gmurzynska Gallery; mentre, alla Karsten Greve Gallery, Joel Shapiro, presenta le sue strutture minimaliste d’intensa presenza cromatica, sospese in geometrici e precari equilibri nello spazio; e Cy Twombly, una serie di scarni disegni.
Presso la Chiesa Protestante di St.Moritz, figurano artisti storici come Rauschenberg con un’opera della serie Urban Bourbons (1988/95) di cui s’è già detto, e Frank Stella, con dei grandi rilievi barocchi in alluminio policromo di forte impatto (1990).
Singolari gli interventi di alcuni artisti intorno al marchio Montblanc, alla Schoolhause Gym; tra tutti, ci sono rimasti impressi Tom Sachs e Robert Gratiot.
In un magnifico salone dell’Hotel Bernina, a Samaden, si può ammirare una serie di foto di Werner Blaser dedicate alle opere dell’architetto Mies van der Rohe, di cui Blaser è stato allievo; scatti accostati e sovrapposti alle foto di alcune realizzazioni del famoso architetto, che rendono evidente il concetto di spazio aperto nelle architetture di Mies, in rapporto con la tradizione e la natura circostante. L’interessante mostra, dal titolo: “Dio si trova nei particolari” (frase di Meister Eckhart, prediletta da van der Rohe), presenta anche opere recentissime di Sasha Berretz, ispirate dalle foto di Blaser, in cui geometria e natura interagiscono.
La galleria Vito Schnabel presenta, oltre a un breve video di Laurie Anderson, opere invero poco significative di artisti neo-Espressionisti e interessati alla Street-Art, come Haring, Basquiat, Schnabel, e una serigrafia di Warhol. Tutti lavori degli anni ’80.
Gli spazi suggestivi del Forum Paracelsus, al cui interno è illustrata la storia delle sorgenti termali di St. Moritz risalenti all’età del bronzo, ospitano fotografie di Richard Avedon; alcune sculture e un (discutibile) Guernica redacted (2016) di Robert Longo, assai più interessante come fotografo che, tuttavia, qui non compare.
In conclusione, parecchie opere di qualità, che conferiscono prestigio a una rassegna però assai poco esaustiva (l’Espressionismo Astratto è assente perché si parte dagli anni ’80?, ma la Pop Art, presente solo con Indiana e Warhol?), e in tono minore rispetto alle edizioni precedenti. Da una sede prestigiosa come St. Moritz ci si deve aspettare molto di più. Per esempio, abbiamo notato l’assenza di luoghi storici importanti che, gli anni scorsi davano lustro alla rassegna, come il Museo dell’Engadina di St. Moritz, dove i video dell’indiana Nalini Malani dialogavano sorprendentemente con l’ambiente tradizionale, o Chesa Planta di Samedan, dove la superba residenza patrizia accoglieva valorizzando le opere esposte, soprattutto, quelle di Melotti. Aumentare questo tipo di location! Inoltre abbiamo rilevato una certa incongruenza nelle presenze in mostra: una o un paio d’opere poco importanti, non rendono giustizia all’artista, valorizzano soltanto il gallerista che le possiede. Qui, il criterio di selezione, delle gallerie e degli artisti, dovrebbe essere d’esclusiva pertinenza del curatore; e, forse, un miglior coordinamento tra le gallerie sarebbe da auspicare.
Un ulteriore appunto: in questa edizione la comunicazione è stata molto carente; certo, sappiamo che è mancato il tempo, e si è fatto in fretta, tuttavia, fino a qualche giorno prima dell’apertura non si conosceva il programma. E last but not least, notavamo che la brochure ha l’aspetto, non se la prenda l’autore, d’un catalogo da supermercato di provincia.     
La metafora dello schiacciamento di Warhol nell’estremo lusso, citata all’inizio, ci porta a considerare l’interessante introduzione di Sam Board sul programma, dove si recita, con una sorta di luminosa intuizione, che “il vero lusso è il tempo, e sapere come investirlo è un’arte”, frase che ha ispirato la manifestazione. E, la condizione ideale da conseguire tale vero “lusso” consiste, dunque, nell’armonico convergere di tempo, spazio, silenzio. Stato ideale che non ha valore economico. Tuttavia il concetto di lusso che qui, talvolta, traspare, forse non coincide esattamente con quanto affermato sopra; c’è una contraddizione tra il mero fatturato e l’”essere altrove” rispetto al valore economico. Il lusso del profitto dovrebbe arretrare sullo sfondo, allentare le maglie del dominio; allora la figurina del bad boy Warhol si potrebbe liberare e, insieme a lui, rifiorire l’arte, l’artigianato per una produzione il cui fine è l’uomo. Questo è un auspicio e un augurio.