IL REFERNDUM È ALLE PORTE E C’È CHI ANCORA
LA BUTTA IN CINCISCHI E RISATE INUTILI
LA BUTTA IN CINCISCHI E RISATE INUTILI
di Paolo Maria Di Stefano
E dunque,
ci siamo. Pochi giorni ancora, e un referendum senza quorum porterà comunque -proprio
perché senza quorum- gli italiani a decidere se le modifiche alla Costituzione
ancora vigente dovranno essere applicate o meno. La campagna pro e contro l’approvazione
si è svolta martellante, senza esclusione di colpi. I fautori del SI come
quelli del NO si sono scatenati nella ricerca di argomentazioni a sostegno
della propria tesi, utilizzando tutte le armi possibili, in una tenzone
retorica scritta e orale, divenuta vieppiù aspra e insolente in questi ultimi
giorni, forse a imitazione della campagna per la elezione del Presidente degli
Stati Uniti, nella quale i colpi bassi e l’eloquio grossolano non sono certo
mancati. E dal momento che noi dell’America tendiamo a recepire tutto con
particolare riguardo al peggio, nessuno stupore che la gran parte dei freni e
delle buone maniere si siano volatilizzate. Tanto, pare che l’ineducazione, la
scortesia, l’insulto eccetera siano paganti. E di questa moneta l’Italia è
ricca, soprattutto in Politica, e proprio in quella con la "P".
Il problema, in vista del
traguardo, sembra essere che la vacuità delle argomentazioni abbiano raggiunto
un sostanziale pareggio, e dunque che i Si e i NO siano in posizione di stallo.
Io credo che in buona sostanza gli argomenti importanti possano ridursi a due o
tre al massimo.
Il primo e,
a mio parere, il più importante dal punto di vista del merito: la qualità del
prodotto “legge” non si migliora dedicando meno tempo alla discussione. Se il nostro
Parlamento legifera male non è certo perché dedica troppo tempo alla stesura ed
all’approvazione dei testi, bensì perché la maggioranza dei legislatori “non sa
scrivere le leggi”, non sa “produrre” ciò che è chiamato a fabbricare (le
leggi, appunto), oltre che a comunicare ed a distribuire per l’utilizzo. E che
sia così è anche dimostrato dalla pasticciata proposta di modifica di cui ci
stiamo occupando, che legge dovrebbe essere e, tra le leggi, la più importante.
A questo stato di cose, i
Padri Costituenti avevano a suo tempo cercato di porre rimedio proprio
attraverso quella “doppia lettura” oggi demonizzata, nel tentativo almeno di
ridurre le probabilità di una prodotto scadente. Il legislatore di oggi avrebbe
forse fatto un buon lavoro proponendo un “senato di giuristi” arricchito,
magari, da economisti, in entrambi i casi di chiara fama, di provata capacità e
professionalità e, forse anche per questo, pensabile composto di non più di un
centinaio di persone. Avremmo forse avuto a disposizione specialisti nella
produzione di prototipi di legge da sottoporre alla camera dei Deputati per
l’approvazione. E le leggi così prodotte avrebbero avuto più di una probabilità
di essere migliori di quelle approvate con i sistemi oggi in uso.
Il secondo:
non è vero che la modifica proposta -se approvata- realizzerebbe una pericolosa
deriva autoritaria. Certo, non v’è dubbio che in mano a disonesti e dilettanti
e improvvisatori tutto può divenire strumento di conquista del potere e di prevaricazione, ma è pur sempre vero che una sorta di analfabetismo di ritorno
porta a ritenere che la libertà coincida con l’anarchia e che gli interessi e
gli egoismi personali debbano vincere sulla tutela degli interessi “della
gente” e sulla soddisfazione dei bisogni della comunità. Da moltissimi anni
ormai, si insegna e si dà per scontato che democrazia e autorità siano
inconciliabili, salvo a lamentarsi, poi, perché ad esempio l’organizzazione
dello Stato e non solo mostra carenze anche gravi. Il principio di “autorità” coincide
con quello di organizzazione, di ordine e, alla fine, con quello di libertà. Se
è vero che l’Italia è un Paese ingovernabile, lo è anche perché sembra smarrito
quel concetto di “disciplina”, di “rispetto” di sé e degli altri che
costituiscono la gran parte di ciò che chiamiamo educazione e che -guarda
caso!- è sempre meno presente.
Il terzo:
probabilmente, se riferito a gli interessi della gente, la modifica della Costituzione è agli ultimi posti. E questo accade perché si è perduta la
nozione di Costituzione come “disegno dello Stato” e “suprema regolatrice delle
sue attività”, sopraffatto dal tentativo costante di piegare le leggi e
l’economia agli interessi più immediati e neppure dei cittadini nel loro
insieme. Ma non è agli ultimi posti il malcontento e il conseguente oscuro
desiderio di un qualsiasi miglioramento. Siamo scontenti di “come vanno le
cose”, di “cosa fanno i politici”, di “come è e cosa fa la burocrazia” e via
dicendo: tutta colpa di incapacità e disonestà, si dice, da parte di chi
dovrebbe cambiare le cose e da parte dei quali noi ci attendiamo che le cose effettivamente cambino. Che è contraddizione profonda. Ecco che, allora, preso
atto che i gestori della cosa pubblica sono in grado soltanto -non sempre e non per il meglio- di affrontare le questioni mano a mano che si presentano, senza
pianificazioni di sorta, con il solo scopo di risolvere come si può il
contingente, nasce la quarta questione: se tutto quello che sappiamo fare è
farci sorprendere dai problemi e solo una volta che ci cadono addosso tentare
una soluzione, non resta che approvare il cambiamento, nella speranza che a
furia di tentar di risolvere il particolare, anche il generale poco a poco si
aggiusti.
Come è sempre accaduto,
sotto ogni cielo.