Pagine

domenica 27 novembre 2016

IL REFERNDUM È ALLE PORTE E C’È CHI ANCORA 
LA BUTTA IN CINCISCHI E RISATE INUTILI
di Paolo Maria Di Stefano


E dunque, ci siamo. Pochi giorni ancora, e un referendum senza quorum porterà comunque -proprio perché senza quorum- gli italiani a decidere se le modifiche alla Costituzione ancora vigente dovranno essere applicate o meno. La campagna pro e contro l’approvazione si è svolta martellante, senza esclusione di colpi. I fautori del SI come quelli del NO si sono scatenati nella ricerca di argomentazioni a sostegno della propria tesi, utilizzando tutte le armi possibili, in una tenzone retorica scritta e orale, divenuta vieppiù aspra e insolente in questi ultimi giorni, forse a imitazione della campagna per la elezione del Presidente degli Stati Uniti, nella quale i colpi bassi e l’eloquio grossolano non sono certo mancati. E dal momento che noi dell’America tendiamo a recepire tutto con particolare riguardo al peggio, nessuno stupore che la gran parte dei freni e delle buone maniere si siano volatilizzate. Tanto, pare che l’ineducazione, la scortesia, l’insulto eccetera siano paganti. E di questa moneta l’Italia è ricca, soprattutto in Politica, e proprio in quella con la "P".
Il problema, in vista del traguardo, sembra essere che la vacuità delle argomentazioni abbiano raggiunto un sostanziale pareggio, e dunque che i Si e i NO siano in posizione di stallo. Io credo che in buona sostanza gli argomenti importanti possano ridursi a due o tre al massimo.
Il primo e, a mio parere, il più importante dal punto di vista del merito: la qualità del prodotto “legge” non si migliora dedicando meno tempo alla discussione. Se il nostro Parlamento legifera male non è certo perché dedica troppo tempo alla stesura ed all’approvazione dei testi, bensì perché la maggioranza dei legislatori “non sa scrivere le leggi”, non sa “produrre” ciò che è chiamato a fabbricare (le leggi, appunto), oltre che a comunicare ed a distribuire per l’utilizzo. E che sia così è anche dimostrato dalla pasticciata proposta di modifica di cui ci stiamo occupando, che legge dovrebbe essere e, tra le leggi, la più importante.
A questo stato di cose, i Padri Costituenti avevano a suo tempo cercato di porre rimedio proprio attraverso quella “doppia lettura” oggi demonizzata, nel tentativo almeno di ridurre le probabilità di una prodotto scadente. Il legislatore di oggi avrebbe forse fatto un buon lavoro proponendo un “senato di giuristi” arricchito, magari, da economisti, in entrambi i casi di chiara fama, di provata capacità e professionalità e, forse anche per questo, pensabile composto di non più di un centinaio di persone. Avremmo forse avuto a disposizione specialisti nella produzione di prototipi di legge da sottoporre alla camera dei Deputati per l’approvazione. E le leggi così prodotte avrebbero avuto più di una probabilità di essere migliori di quelle approvate con i sistemi oggi in uso.
Il secondo: non è vero che la modifica proposta -se approvata- realizzerebbe una pericolosa deriva autoritaria. Certo, non v’è dubbio che in mano a disonesti e dilettanti e improvvisatori tutto può divenire strumento di conquista del potere e di prevaricazione, ma è pur sempre vero che una sorta di analfabetismo di ritorno porta a ritenere che la libertà coincida con l’anarchia e che gli interessi e gli egoismi personali debbano vincere sulla tutela degli interessi “della gente” e sulla soddisfazione dei bisogni della comunità. Da moltissimi anni ormai, si insegna e si dà per scontato che democrazia e autorità siano inconciliabili, salvo a lamentarsi, poi, perché ad esempio l’organizzazione dello Stato e non solo mostra carenze anche gravi. Il principio di “autorità” coincide con quello di organizzazione, di ordine e, alla fine, con quello di libertà. Se è vero che l’Italia è un Paese ingovernabile, lo è anche perché sembra smarrito quel concetto di “disciplina”, di “rispetto” di sé e degli altri che costituiscono la gran parte di ciò che chiamiamo educazione e che -guarda caso!- è sempre meno presente.
Il terzo: probabilmente, se riferito a gli interessi della gente, la modifica della Costituzione è agli ultimi posti. E questo accade perché si è perduta la nozione di Costituzione come “disegno dello Stato” e “suprema regolatrice delle sue attività”, sopraffatto dal tentativo costante di piegare le leggi e l’economia agli interessi più immediati e neppure dei cittadini nel loro insieme. Ma non è agli ultimi posti il malcontento e il conseguente oscuro desiderio di un qualsiasi miglioramento. Siamo scontenti di “come vanno le cose”, di “cosa fanno i politici”, di “come è e cosa fa la burocrazia” e via dicendo: tutta colpa di incapacità e disonestà, si dice, da parte di chi dovrebbe cambiare le cose e da parte dei quali noi ci attendiamo che le cose effettivamente cambino. Che è contraddizione profonda. Ecco che, allora, preso atto che i gestori della cosa pubblica sono in grado soltanto -non sempre e non per il meglio- di affrontare le questioni mano a mano che si presentano, senza pianificazioni di sorta, con il solo scopo di risolvere come si può il contingente, nasce la quarta questione: se tutto quello che sappiamo fare è farci sorprendere dai problemi e solo una volta che ci cadono addosso tentare una soluzione, non resta che approvare il cambiamento, nella speranza che a furia di tentar di risolvere il particolare, anche il generale poco a poco si aggiusti.
Come è sempre accaduto, sotto ogni cielo.