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mercoledì 28 dicembre 2016

DOVE SIAMO CAPITATI?
di Fulvio Papi



Dove siamo capitati? Ci si può domandare ripetendo il titolo di un celebre saggio di Enzensberger che descriveva il mondo di qualche tempo fa. La risposta è elementare: in una dimensione di storia globale che è sempre presente, ma non determina direttamente ogni evento. Sempre che si usi il concetto di causa con la necessaria intelligenza critica. In ogni caso (a proposito di critica) sono finiti i tempi in cui una metodologia empirista poteva dare scacco alle costruzioni interpretative della storia mondiale alla Splenger. Oggi, l’universale, per continuare questo parlare filosofico, non è una figura simbolica, ma una realtà materiale che condiziona i continenti, e sollecita forti trasformazioni dell’esistente sociale.
Noi siamo in un mercato mondiale dove i cosiddetti paesi emergenti hanno uno sviluppo tecnologico pari al nostro (ancora poco tempo fa veniva pensato come la nostra differenza), e un costo economico del lavoro notevolmente inferiore. Da un punto di vista genealogico l’analisi di Marx è stata esatta: mancava il “soggetto”, ma questo era ovvio per chi non fosse malato di fantasmi filosofici. La situazione attuale ha naturalmente i suoi effetti differenziati sulle economie nazionali che sono stati calcolati dagli esperti, e, rispetto ai quali, nell’area europea, noi italiani stiamo peggio degli altri. Si possono adattare misure che contraddicono l’effetto disoccupazione che è quello socialmente più rilevante. Queste misure, in una prospettiva sostanzialmente keynesiana, si possono prendere in maniera più rigorosa e più efficace, in proporzione dell’assetto economico e sociale di ogni paese. Nel caso dei paesi del Nord la loro situazione strutturale li mette in condizioni migliori e più efficienti, nel caso nostro invece nelle maggiori difficoltà, che, temo, non potranno recedere in una condizione europea dove ogni stato deve risolvere i propri problemi con le proprie risorse. Né credo che per il futuro la situazione sarà differente.
È da questo quadro realisticamente complesso che dovrebbe partire l’azione politica con provvedimenti rigorosi che “aggiustino” un paese per molte ragioni (che andrebbero conosciute) cresciuto male, al punto che oggi abbiamo, per esempio, una scarsa compatibilità tra una prassi materiale e un costume istituzionale che, proprio per la sua formazione culturale, non riesce a corrispondervi; spesso a un umanesimo ideale corrispondono sentimenti sociali di furia e di vendetta. Non sono problemi da poco che si aggiungono alla necessità di limitare l’espansione di profitti privati (più o meno leciti) e alla esigenza di contrastare la caduta economica di ceti sociali già impoveriti progressivamente  in questi ultimi anni. Il tutto senza demagogie comunicative che sempre abbassano il livello di civiltà in modo incontrollabile. I discorri che corrono sono purtroppo lontani da questa consapevolezza molto sgradevole. Inoltre ho la sensazione (ma qui gli esperti dovrebbero intervenire) che per mantenere un livello di consumo che consenta una veloce rotazione del capitale, in una situazione di impoverimento, vi sia un peggioramento della qualità dei consumi, tramite una diminuzione dei prezzi di produzione attraverso una pluralità di strategie. L’opinione comune ormai è del tutto persuasa che non tornano gli “anni felici”, ma forse non sa bene che anch’essi furono devastanti da parte di un consumismo insensato, dallo spreco, dalla incuria pubblica e privata di tutti i problemi ecologici che investono sia il continente biologico che quello artificiale come si è storicamente costituito in relazione al primo. A mio avviso non c’è “paradiso perduto”. L’ignoranza, o, meglio, la costruzione sociale dell’ignoranza, è un’atroce ideologia che impedisce di considerare realisticamente noi stessi nel contesto in cui viviamo, e, al contrario, favorisce un individualismo cieco che, quando è frustrato nei suoi desideri, deve trovare il famoso “capro” per esportare la propria delusione, il proprio risentimento, e magari costruire, in una immaginazione malata, la propria icona di salvezza. I vuoti politici in queste circostanze sono fatali.
In un articolo molto pregevole di Francesco Ciafaloni su “La Città” (che utilizza informazioni internazionali dell’ottimo giornalista Federico Rampini) si legge che la caduta permanente del reddito delle classi sociali più basse non può essere tollerata “ senza sorprese”. Non c’è un solo modo per evitare le “sorprese”. Se consideriamo in Italia i modi positivi, si può ricordare il lungo dopoguerra, quando fu il lavoro operaio a basso salario, a consentire la “ripresa”, dopo la difesa che i lavoratori fecero delle loro fabbriche come strumenti essenziali della vita collettiva. Ma allora (senza enfatizzare nulla, e ignorare l’insieme di fattori che consentirono quella situazione) vi fu una forte educazione etico-politica dei grandi partiti di massa. Risorse perdute da tempo. Nella situazione attuale le sorprese maggiori si hanno laddove il privato, cullato da quali che siano i suoi fantasmi, segretamente, può diventare pubblico, cioè nel voto che, del resto, è sollecitato dalle forze socio-politiche che ci sono. È un gioco elementare mostrare la loro insufficienza (o anche molto peggio), ma è un lusso facilissimo, purtroppo inutile. Tutto è contingente, e molto poco è al caso. Il partito laburista, a suo tempo, non nacque nel vuoto, e così la socialdemocrazia tedesca o il partito di Turati e di Matteotti. Così la disseminazione di sigle politiche, la proliferazione di telegrafiche scemenze, derivano dalle forme prevalenti di comunicazione che rendono impossibile qualsiasi analisi obiettiva, e fanno precipitare il ragionare politico a quota zero. Esiste anche qualcuno che sostiene che questa è la democrazia realizzata, ma perché non si studia le forme plurali, storiche e intellettuali, che hanno portato alla democrazia moderna? Scoprirà che vi sono condizioni sociali e anche conformazioni individuali che la rendono più efficace o meno, più conforme ai compiti politici che appartengono a un bene collettivo, oppure meno. La democrazia non è solo un insieme di regole che la rendono possibile, ma soprattutto una finalità che appartenga o meno a chi segretamente affida a un gruppo dirigente la sua attuazione in un contesto sociale conosciuto e valutato. E se questa condizione non c’è, e viene trasformata in un contesto totalmente differente o addirittura opposto a quello che storicamente ha consentito l’affermazione della democrazia? Mi fermo sull’interrogativo perché l’analisi dei fatti sarebbe penosa: ho visto persone di indubbia classe intellettuale precipitare, per conservarsi, in questo gorgo comunicativo, citrulli cui il vecchio Caprotti non avrebbe affidato un supermercato, parlare come profeti, piccoli barbari di paese mimare lessici napoleonici. Riconosco che questi non sono che esercizi lessicali, perché il grandissimo Hegel mi ha insegnato da sempre che “così va il mondo”. E se in cosiffatto spazio avessi la presunzione di essere presente, allora sarei costretto a condividere l’opinione di un illustre politologo, le cui scelte in passato non ho mai condiviso, che consiglia, oggi, sulla scena politica , di scegliere il “meno peggio”. Anche perché, senza ricorrere alla tragedia di Weimar, l’alleanza di fascisti e comunisti, anche oggi, nel loro piccolo, è, in ogni caso, uno sbaglio. Il “meno peggio” non ha nulla di trionfale, proprio no, ma chi ha la mia lunga storia sa che ne abbiamo fatto uso altre volte. E il peggio non è proprio del tutto invisibile, se non dai soliti, comprensibile nel loro sospetto, che di principio (Gemonini era un vero filosofo) non desiderano avere a che fare con il cannocchiale galileiano.