DOVE SIAMO
CAPITATI?
di Fulvio Papi
Dove siamo capitati? Ci
si può domandare ripetendo il titolo di un celebre saggio di Enzensberger che
descriveva il mondo di qualche tempo fa. La risposta è elementare: in una
dimensione di storia globale che è sempre presente, ma non determina
direttamente ogni evento. Sempre che si usi il concetto di causa con la
necessaria intelligenza critica. In ogni caso (a proposito di critica) sono
finiti i tempi in cui una metodologia empirista poteva dare scacco alle
costruzioni interpretative della storia mondiale alla Splenger. Oggi, l’universale,
per continuare questo parlare filosofico, non è una figura simbolica, ma una
realtà materiale che condiziona i continenti, e sollecita forti trasformazioni
dell’esistente sociale.
Noi
siamo in un mercato mondiale dove i cosiddetti paesi emergenti hanno uno
sviluppo tecnologico pari al nostro (ancora poco tempo fa veniva pensato come
la nostra differenza), e un costo economico del lavoro notevolmente inferiore.
Da un punto di vista genealogico l’analisi di Marx è stata esatta: mancava il “soggetto”,
ma questo era ovvio per chi non fosse malato di fantasmi filosofici. La
situazione attuale ha naturalmente i suoi effetti differenziati sulle economie
nazionali che sono stati calcolati dagli esperti, e, rispetto ai quali, nell’area
europea, noi italiani stiamo peggio degli altri. Si possono adattare misure che
contraddicono l’effetto disoccupazione che è quello socialmente più rilevante.
Queste misure, in una prospettiva sostanzialmente keynesiana, si possono
prendere in maniera più rigorosa e più efficace, in proporzione dell’assetto
economico e sociale di ogni paese. Nel caso dei paesi del Nord la loro
situazione strutturale li mette in condizioni migliori e più efficienti, nel
caso nostro invece nelle maggiori difficoltà, che, temo, non potranno recedere
in una condizione europea dove ogni stato deve risolvere i propri problemi con
le proprie risorse. Né credo che per il futuro la situazione sarà differente.
È da questo quadro
realisticamente complesso che dovrebbe partire l’azione politica con
provvedimenti rigorosi che “aggiustino” un paese per molte ragioni (che
andrebbero conosciute) cresciuto male, al punto che oggi abbiamo, per esempio,
una scarsa compatibilità tra una prassi materiale e un costume istituzionale
che, proprio per la sua formazione culturale, non riesce a corrispondervi;
spesso a un umanesimo ideale corrispondono sentimenti sociali di furia e di
vendetta. Non sono problemi da poco che si aggiungono alla necessità di
limitare l’espansione di profitti privati (più o meno leciti) e alla esigenza
di contrastare la caduta economica di ceti sociali già impoveriti
progressivamente in questi ultimi anni. Il
tutto senza demagogie comunicative che sempre abbassano il livello di civiltà
in modo incontrollabile. I discorri che corrono sono purtroppo lontani da
questa consapevolezza molto sgradevole. Inoltre ho la sensazione (ma qui gli
esperti dovrebbero intervenire) che per mantenere un livello di consumo che
consenta una veloce rotazione del capitale, in una situazione di impoverimento,
vi sia un peggioramento della qualità dei consumi, tramite una diminuzione dei
prezzi di produzione attraverso una pluralità di strategie. L’opinione comune
ormai è del tutto persuasa che non tornano gli “anni felici”, ma forse non sa
bene che anch’essi furono devastanti da parte di un consumismo insensato, dallo
spreco, dalla incuria pubblica e privata di tutti i problemi ecologici che
investono sia il continente biologico che quello artificiale come si è
storicamente costituito in relazione al primo. A mio avviso non c’è “paradiso
perduto”. L’ignoranza, o, meglio, la costruzione sociale dell’ignoranza, è un’atroce
ideologia che impedisce di considerare realisticamente noi stessi nel contesto
in cui viviamo, e, al contrario, favorisce un individualismo cieco che, quando
è frustrato nei suoi desideri, deve trovare il famoso “capro” per esportare la
propria delusione, il proprio risentimento, e magari costruire, in una
immaginazione malata, la propria icona di salvezza. I vuoti politici in queste
circostanze sono fatali.
In un articolo molto
pregevole di Francesco Ciafaloni su “La Città” (che utilizza informazioni
internazionali dell’ottimo giornalista Federico Rampini) si legge che la caduta
permanente del reddito delle classi sociali più basse non può essere tollerata “
senza sorprese”. Non c’è un solo modo per evitare le “sorprese”. Se
consideriamo in Italia i modi positivi, si può ricordare il lungo dopoguerra,
quando fu il lavoro operaio a basso salario, a consentire la “ripresa”, dopo la
difesa che i lavoratori fecero delle loro fabbriche come strumenti essenziali
della vita collettiva. Ma allora (senza enfatizzare nulla, e ignorare l’insieme
di fattori che consentirono quella situazione) vi fu una forte educazione
etico-politica dei grandi partiti di massa. Risorse perdute da tempo. Nella
situazione attuale le sorprese maggiori si hanno laddove il privato, cullato da
quali che siano i suoi fantasmi, segretamente, può diventare pubblico, cioè nel
voto che, del resto, è sollecitato dalle forze socio-politiche che ci sono. È
un gioco elementare mostrare la loro insufficienza (o anche molto peggio), ma è
un lusso facilissimo, purtroppo inutile. Tutto è contingente, e molto poco è al
caso. Il partito laburista, a suo tempo, non nacque nel vuoto, e così la
socialdemocrazia tedesca o il partito di Turati e di Matteotti. Così la
disseminazione di sigle politiche, la proliferazione di telegrafiche scemenze,
derivano dalle forme prevalenti di comunicazione che rendono impossibile
qualsiasi analisi obiettiva, e fanno precipitare il ragionare politico a quota
zero. Esiste anche qualcuno che sostiene che questa è la democrazia realizzata,
ma perché non si studia le forme plurali, storiche e intellettuali, che hanno
portato alla democrazia moderna? Scoprirà che vi sono condizioni sociali e
anche conformazioni individuali che la rendono più efficace o meno, più
conforme ai compiti politici che appartengono a un bene collettivo, oppure
meno. La democrazia non è solo un insieme di regole che la rendono possibile,
ma soprattutto una finalità che appartenga o meno a chi segretamente affida a
un gruppo dirigente la sua attuazione in un contesto sociale conosciuto e
valutato. E se questa condizione non c’è, e viene trasformata in un contesto
totalmente differente o addirittura opposto a quello che storicamente ha
consentito l’affermazione della democrazia? Mi fermo sull’interrogativo perché
l’analisi dei fatti sarebbe penosa: ho visto persone di indubbia classe
intellettuale precipitare, per conservarsi, in questo gorgo comunicativo,
citrulli cui il vecchio Caprotti non avrebbe affidato un supermercato, parlare
come profeti, piccoli barbari di paese mimare lessici napoleonici. Riconosco
che questi non sono che esercizi lessicali, perché il grandissimo Hegel mi ha
insegnato da sempre che “così va il mondo”. E se in cosiffatto spazio avessi la
presunzione di essere presente, allora sarei costretto a condividere l’opinione
di un illustre politologo, le cui scelte in passato non ho mai condiviso, che
consiglia, oggi, sulla scena politica , di scegliere il “meno peggio”. Anche
perché, senza ricorrere alla tragedia di Weimar, l’alleanza di fascisti e
comunisti, anche oggi, nel loro piccolo, è, in ogni caso, uno sbaglio. Il “meno
peggio” non ha nulla di trionfale, proprio no, ma chi ha la mia lunga storia sa
che ne abbiamo fatto uso altre volte. E il peggio non è proprio del tutto
invisibile, se non dai soliti, comprensibile nel loro sospetto, che di
principio (Gemonini era un vero filosofo) non desiderano avere a che fare con
il cannocchiale galileiano.