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lunedì 5 giugno 2017

AMERIKANA
di Paolo Maria Di Stefano

All’ambiente, ora, dobbiamo pensarci senza l’America
Il danno agli USA è gravissimo, e l’ha creato il suo Presidente.


Dunque ora, per quel che valgono le promesse e gli impegni in Politica, è certo: gli Stati Uniti escono dagli accordi di Parigi per il clima. Lo ha dichiarato il Presidente, dopo un periodo dedicato alla meditazione e all’approfondimento (forse)!
Si può pensare che oggetto primo della meditazione sia stato il mantenere o meno le promesse elettorali, questione alla quale il Presidente sembra tenere moltissimo, più che altro per differenziarsi dai Politici di professione, i quali a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale mai hanno pensato e mai pensano. E non solo in America. Quanto all’approfondimento, è lecito dubitare che il tempo dedicato sia stato sufficiente a decidere che quanto dicono gli scienziati di tutto il mondo – almeno quelli non di parte- sia una collezione di colossali errori quando non la prava volontà del resto del mondo di offrire una sponda a chi degli USA vuole la morte o almeno un ridimensionamento. Magari solo per invidia della ricchezza e della potenza conquistata.
Certo pare che il Presidente nel suo discorso abbia spiegato che il ritiro dall’accordo sul clima è un modo per riaffermare la sovranità americana e di smettere di distribuire ricchezza agli altri Paesi, come accade sobbarcandosi l’anticipo dei costi previsti.
E pare abbia anche fatto un tiepido accenno alla possibilità di rinegoziare, che significa anche – l’accenno – che la strada del “qui lo dico e qui lo nego” o anche al “uno spiraglio è comunque aperto” avvicina in qualche modo anche il Presidente agli usi e costumi dei politici di tutto il mondo.
Tutto in piena coerenza – almeno apparentemente- con il Verbo: “America first”, gli interessi degli Stati Uniti prima di tutto. Che se non è poi tanto diverso dal pensiero di tutti gli Stati del mondo quando pensano a se stessi, anche di quelli che in qualche modo partecipano alla costruzione dell’Europa, appare dirompente in un momento storico nel quale l’unità e la collaborazione sembrano indispensabili in economia come in politica, nelle grandi cose come nei piccoli problemi quotidiani. Non è diverso, dicevo, ma certamente dirompente e carico di conseguenze tanto più quando si abbiano a riferimento i destini dell’ambiente, che vuol dire i destini del mondo e dei suoi abitanti.
Italia, Germania e Francia hanno immediatamente sostenuto che rinegoziare l’accordo di Parigi non è neppure lontanamente immaginabile. La Gran Bretagna, ad ogni buon conto, si è astenuta, segno evidente dell’opportunismo e del servilismo nel quale si ritrova quello che è stato l’impero più forte e importante e civile (anche) del mondo negli ultimi tre secoli.
Di materiale di studio, di approfondimento, di analisi ce n’è quanto se ne vuole, anche troppo (il che sarà nell’immediato fonte di interpretazioni e di equivoci, come è sempre accaduto).
A me qui sembra opportuno accennare ad un argomento che negli ultimi tempi sembra aver avuto un certo successo, almeno da noi: la asserita imprevedibilità del Presidente degli Stati Uniti, formula abbastanza speciosa dietro la quale si nasconde, a mio parere, la realtà della incapacità dei nostri analisti di affrontare la questione in modo diverso.
Gli Stati Uniti d’America hanno, da qualche mese a questa parte, il Presidente forse più prevedibile di tutta la storia.


Perché si tratta di un imprenditore di successo che anche in Politica porta la cultura che gli è propria.
Significa: come pensano quasi tutti gli imprenditori che operano nel nostro tipo di economia, l’impresa che hanno fondata o ereditata e che gestiscono è strumento per arricchirsi, e per ottenere questo risultato tutti i mezzi sono buoni. Perché pensano, gli imprenditori, che l’economia si muova secondo direttrici che nulla hanno a che vedere con la morale ed il diritto, come del resto è stato loro insegnato. E quando l’impresa dovesse per qualsiasi ragione smettere di arrecare loro ricchezza o anche soltanto dovesse farlo in misura minore, sarebbe opportuno chiuderla. Ancora una volta, perché gli imprenditori operano per produrre profitto, ideologicamente “contro” l’utilità pubblica, concetto misconosciuto o sconosciuto ai più e, quand’anche noto, avversato almeno in quanto fattore di diminuzione del primo.  Con in più questo: che la gestione corrente tende a prescindere dalla “vita propria” che una impresa ha e che è o dovrebbe essere in buona parte indipendente da quella dell’imprenditore. Che è, forse, il vero problema degli investimenti. Perché se “morto io, che importa dell’impresa?” si traduce in “cercare di massimizzare il profitto nell’immediato”, anche a costo di mettere in forse la vita della struttura, questa è in pratica condannata a morte. Si dissolve l’azienda con tutte le sue risorse, materiali, immateriali ed umane.
E ancora: è bene forse ricordare come la stragrande maggioranza degli imprenditori abbia una sorta di fede religiosa nella “capacità innata dei familiari”: chi meglio di un figlio o di un parente prossimo il più possibile   può aiutare a gestire l’azienda quando non gestirla in proprio?
E infine: non esiste imprenditore al mondo che non si serva dei consulenti per trovare appoggio per le proprie idee, quasi a scarico di responsabilità. E infatti non è a caso che i consulenti tutti cercano di attaccare il carro là dove il padrone vuole. Anche per non perdere il posto, effetto pressoché immediato di ogni eventuale obbiezione.
In queste condizioni, se al posto della “impresa di famiglia” mettiamo lo Stato, almeno tre o quattro considerazioni vanno fatte.
La prima: intanto, lo Stato non occuperà gli spazi di interesse concretizzati nella impresa di famiglia, non sarà prioritario, ma è probabile venga affiancato ad essa in funzione più o meno chiaramente strumentale. E se non proprio a vantaggio dell’impresa di famiglia, almeno a favore di alcune delle altre in grado di recare giovamento ad essa.
La seconda: è prevedibile che l’attività legislativa dello Stato sia orientata a “creare ricchezza” per i settori di interesse del “gruppo che fa capo alla Presidenza” (e che ha voluto quelle persone a quella carica) o, se non proprio a crearla, a conservare quella in essere.
La terza: i tempi probabilmente non andranno molto oltre i due mandati di Presidenza, e si può essere certi che le leggi faranno il possibile per ottenere il massimo dei risultati entro quegli otto anni, anche a scapito del “dopo”, sia in Economia che in Politica, soprattutto internazionale.
La quarta: su di un qualsiasi mercato, un qualsiasi imprenditore opera in concorrenza. Significa che è suo interesse conquistare e mantenere le quote secondo lui soddisfacenti, e ciò farà inevitabilmente “contro” i concorrenti da lui ritenuti più pericolosi, utilizzando tutti i mezzi opportuni per metterli uno dopo l’altro in condizione di non nuocere.  La logica sarà quella di attaccare la concorrenza secondo le priorità ritenute opportune e con i mezzi più efficaci, comprese le momentanee alleanze con imprenditori concorrenti, sì, ma al momento meno pericolosi. A questi ultimi, prima di attaccarli quando lo riterrà opportuno, giungerà fino a fornire i mezzi “per andare avanti” e talvolta per ingrandirsi.


Forse che l’attuale Presidenza degli Stati Uniti d’America lascia intravedere una qualsiasi smentita a questi orizzonti?
Certo che no, ma questo è un vantaggio. Intanto, perché rende più che prevedibile proprio quel Presidente al quale si addebita proprio un alto grado di prevedibilità; poi, perché si sa contro cosa dobbiamo combattere, quali errori si commettono, come correre ai ripari.
E in questa questione del clima e del ritiro dai trattati di Parigi, gli Stati Uniti hanno subito un brusco calo di immagine al quale non riusciranno a porre rimedio né in tempi brevi e neppure a costi contenuti, come in tutti i casi in cui è in gioco l’immagine. E si tratta di una immagine di primazia, al cui calo corrisponde la creazione di spazi che saranno riempiti dalla Cina, probabilmente, e forse dall’India, già candidati credibili in un mondo nel quale l’immagine tende a surclassare i contenuti.
Ecco, allora, che l’Europa ha anch’essa occasioni da cogliere per cercare di divenire la struttura guida nella difesa del pianeta dai danni creati al clima. Occorre in proposito ricordare che non basta essere virtuosi in Europa: occorre costringere ad essere virtuosi tutti gli altri Paesi che contano. Così, non acquistare da parte degli europei prodotti realizzati in danno all’ambiente e al clima potrebbe rivelarsi tecnica vincente. Anche perché il non acquisto ci mette al riparo dalle accuse di eventuale protezionismo: non acquistiamo perché quei prodotti creano danno, cosa che non accade per i nostri, che dunque premiamo. E ci sono avvisaglie – oltre che speranza – che questo possa accadere anche negli Stati Uniti, a dispetto di eventuali misure protezionistiche caldeggiate dal Presidente: i prodotti “migliori” perché di alta qualità e perché non dannosi per l’ambiente valgono il sacrificio di un prezzo d’acquisto maggiore.
Sempre che la gestione di tutto questo da parte nostra sia scientificamente e praticamente corretta.