AMERIKANA
di Paolo Maria Di Stefano
All’ambiente, ora,
dobbiamo pensarci senza l’America
Il danno agli USA
è gravissimo, e l’ha creato il suo Presidente.
Dunque
ora, per quel che valgono le promesse e gli impegni in Politica, è certo: gli
Stati Uniti escono dagli accordi di Parigi per il clima. Lo ha dichiarato il
Presidente, dopo un periodo dedicato alla meditazione e all’approfondimento
(forse)!
Si può pensare che oggetto
primo della meditazione sia stato il mantenere o meno le promesse elettorali, questione
alla quale il Presidente sembra tenere moltissimo, più che altro per
differenziarsi dai Politici di professione, i quali a mantenere le promesse
fatte in campagna elettorale mai hanno pensato e mai pensano. E non solo in
America. Quanto all’approfondimento, è lecito dubitare che il tempo dedicato
sia stato sufficiente a decidere che quanto dicono gli scienziati di tutto il
mondo – almeno quelli non di parte- sia una collezione di colossali errori
quando non la prava volontà del resto del mondo di offrire una sponda a chi
degli USA vuole la morte o almeno un ridimensionamento. Magari solo per invidia
della ricchezza e della potenza conquistata.
Certo pare che il
Presidente nel suo discorso abbia spiegato che il ritiro dall’accordo sul clima
è un modo per riaffermare la sovranità americana e di smettere di distribuire
ricchezza agli altri Paesi, come accade sobbarcandosi l’anticipo dei costi
previsti.
E pare abbia anche fatto
un tiepido accenno alla possibilità di rinegoziare, che significa anche – l’accenno
– che la strada del “qui lo dico e qui lo nego” o anche al “uno spiraglio è
comunque aperto” avvicina in qualche modo anche il Presidente agli usi e
costumi dei politici di tutto il mondo.
Tutto in piena coerenza –
almeno apparentemente- con il Verbo: “America first”, gli interessi degli Stati
Uniti prima di tutto. Che se non è poi tanto diverso dal pensiero di tutti gli
Stati del mondo quando pensano a se stessi, anche di quelli che in qualche modo
partecipano alla costruzione dell’Europa, appare dirompente in un momento
storico nel quale l’unità e la collaborazione sembrano indispensabili in
economia come in politica, nelle grandi cose come nei piccoli problemi
quotidiani. Non è diverso, dicevo, ma certamente dirompente e carico di
conseguenze tanto più quando si abbiano a riferimento i destini dell’ambiente,
che vuol dire i destini del mondo e dei suoi abitanti.
Italia, Germania e Francia
hanno immediatamente sostenuto che rinegoziare l’accordo di Parigi non è
neppure lontanamente immaginabile. La Gran Bretagna, ad ogni buon conto, si è
astenuta, segno evidente dell’opportunismo e del servilismo nel quale si
ritrova quello che è stato l’impero più forte e importante e civile (anche) del
mondo negli ultimi tre secoli.
Di materiale di studio, di
approfondimento, di analisi ce n’è quanto se ne vuole, anche troppo (il che
sarà nell’immediato fonte di interpretazioni e di equivoci, come è sempre
accaduto).
A me qui sembra opportuno
accennare ad un argomento che negli ultimi tempi sembra aver avuto un certo
successo, almeno da noi: la asserita imprevedibilità del Presidente degli Stati
Uniti, formula abbastanza speciosa dietro la quale si nasconde, a mio parere,
la realtà della incapacità dei nostri analisti di affrontare la questione in
modo diverso.
Gli Stati Uniti d’America
hanno, da qualche mese a questa parte, il Presidente forse più prevedibile di
tutta la storia.
Perché si tratta di un
imprenditore di successo che anche in Politica porta la cultura che gli è
propria.
Significa: come pensano
quasi tutti gli imprenditori che operano nel nostro tipo di economia, l’impresa
che hanno fondata o ereditata e che gestiscono è strumento per arricchirsi, e
per ottenere questo risultato tutti i mezzi sono buoni. Perché pensano, gli
imprenditori, che l’economia si muova secondo direttrici che nulla hanno a che
vedere con la morale ed il diritto, come del resto è stato loro insegnato. E
quando l’impresa dovesse per qualsiasi ragione smettere di arrecare loro
ricchezza o anche soltanto dovesse farlo in misura minore, sarebbe opportuno
chiuderla. Ancora una volta, perché gli imprenditori operano per produrre
profitto, ideologicamente “contro” l’utilità pubblica, concetto misconosciuto o
sconosciuto ai più e, quand’anche noto, avversato almeno in quanto fattore di
diminuzione del primo. Con in più
questo: che la gestione corrente tende a prescindere dalla “vita propria” che
una impresa ha e che è o dovrebbe essere in buona parte indipendente da quella
dell’imprenditore. Che è, forse, il vero problema degli investimenti. Perché se
“morto io, che importa dell’impresa?” si traduce in “cercare di massimizzare il
profitto nell’immediato”, anche a costo di mettere in forse la vita della
struttura, questa è in pratica condannata a morte. Si dissolve l’azienda con
tutte le sue risorse, materiali, immateriali ed umane.
E ancora: è bene forse
ricordare come la stragrande maggioranza degli imprenditori abbia una sorta di
fede religiosa nella “capacità innata dei familiari”: chi meglio di un figlio o
di un parente prossimo il più possibile
può aiutare a gestire l’azienda quando non gestirla in proprio?
E infine: non esiste
imprenditore al mondo che non si serva dei consulenti per trovare appoggio per
le proprie idee, quasi a scarico di responsabilità. E infatti non è a caso che
i consulenti tutti cercano di attaccare il carro là dove il padrone vuole.
Anche per non perdere il posto, effetto pressoché immediato di ogni eventuale
obbiezione.
In queste condizioni, se
al posto della “impresa di famiglia” mettiamo lo Stato, almeno tre o quattro
considerazioni vanno fatte.
La prima: intanto, lo
Stato non occuperà gli spazi di interesse concretizzati nella impresa di
famiglia, non sarà prioritario, ma è probabile venga affiancato ad essa in
funzione più o meno chiaramente strumentale. E se non proprio a vantaggio
dell’impresa di famiglia, almeno a favore di alcune delle altre in grado di
recare giovamento ad essa.
La seconda: è prevedibile
che l’attività legislativa dello Stato sia orientata a “creare ricchezza” per i
settori di interesse del “gruppo che fa capo alla Presidenza” (e che ha voluto
quelle persone a quella carica) o, se non proprio a crearla, a conservare
quella in essere.
La terza: i tempi
probabilmente non andranno molto oltre i due mandati di Presidenza, e si può
essere certi che le leggi faranno il possibile per ottenere il massimo dei
risultati entro quegli otto anni, anche a scapito del “dopo”, sia in Economia
che in Politica, soprattutto internazionale.
La quarta: su di un
qualsiasi mercato, un qualsiasi imprenditore opera in concorrenza. Significa
che è suo interesse conquistare e mantenere le quote secondo lui soddisfacenti,
e ciò farà inevitabilmente “contro” i concorrenti da lui ritenuti più
pericolosi, utilizzando tutti i mezzi opportuni per metterli uno dopo l’altro in
condizione di non nuocere. La logica
sarà quella di attaccare la concorrenza secondo le priorità ritenute opportune
e con i mezzi più efficaci, comprese le momentanee alleanze con imprenditori
concorrenti, sì, ma al momento meno pericolosi. A questi ultimi, prima di
attaccarli quando lo riterrà opportuno, giungerà fino a fornire i mezzi “per
andare avanti” e talvolta per ingrandirsi.
Forse che l’attuale
Presidenza degli Stati Uniti d’America lascia intravedere una qualsiasi
smentita a questi orizzonti?
Certo che no, ma questo è
un vantaggio. Intanto, perché rende più che prevedibile proprio quel Presidente
al quale si addebita proprio un alto grado di prevedibilità; poi, perché si sa
contro cosa dobbiamo combattere, quali errori si commettono, come correre ai
ripari.
E in questa questione del
clima e del ritiro dai trattati di Parigi, gli Stati Uniti hanno subito un
brusco calo di immagine al quale non riusciranno a porre rimedio né in tempi
brevi e neppure a costi contenuti, come in tutti i casi in cui è in gioco
l’immagine. E si tratta di una immagine di primazia, al cui calo corrisponde la
creazione di spazi che saranno riempiti dalla Cina, probabilmente, e forse
dall’India, già candidati credibili in un mondo nel quale l’immagine tende a
surclassare i contenuti.
Ecco, allora, che l’Europa
ha anch’essa occasioni da cogliere per cercare di divenire la struttura guida
nella difesa del pianeta dai danni creati al clima. Occorre in proposito
ricordare che non basta essere virtuosi in Europa: occorre costringere ad
essere virtuosi tutti gli altri Paesi che contano. Così, non acquistare da
parte degli europei prodotti realizzati in danno all’ambiente e al clima
potrebbe rivelarsi tecnica vincente. Anche perché il non acquisto ci mette al
riparo dalle accuse di eventuale protezionismo: non acquistiamo perché quei
prodotti creano danno, cosa che non accade per i nostri, che dunque premiamo. E
ci sono avvisaglie – oltre che speranza – che questo possa accadere anche negli
Stati Uniti, a dispetto di eventuali misure protezionistiche caldeggiate dal
Presidente: i prodotti “migliori” perché di alta qualità e perché non dannosi
per l’ambiente valgono il sacrificio di un prezzo d’acquisto maggiore.
Sempre che la gestione di
tutto questo da parte nostra sia scientificamente e praticamente corretta.