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sabato 22 luglio 2017

LETTERA AGLI AMICI
di Angelo Gaccione


Sono arrivato al punto di non avere più tempo per me stesso; mi accorgo di essere finito in un vortice infernale che mi stritola. In fondo tutta la mia vita è stata così, sono appartenuto poco a me stesso e quasi per intero allo spazio pubblico che per me ha rappresentato, fin dal principio, un obbligo morale. Ho vissuto due vite in una. Ero giovane e non me ne rendevo conto, ma ora che le forze cedono, e riflettendoci con distacco, in questa notte affannata, mi convinco che di questo eccesso si può prematuramente morire. Oggi penso davvero che Calvino sia morto di questo eccesso. Quando anni fa mi sono recato sulla sua tomba a Castiglione della Pescaia, non ne ero consapevole, e come lo scrittore olandese Cees Nooteboom mi dicevo quanto fossero più vivi dei vivi certi morti.
Condannato dunque a questo eccesso? Ma come uscirne?
Da me non ci si aspetta che questo eccesso, questa indomabile vitalità. Lo considerano come un dato della mia natura, un dato quasi perenne, come se ad essere innaturale fosse il contrario di questo eccesso. Un eccesso permanente in grado di opporsi al dato spietato del tempo e del suo divenire.
Mi vogliono così perché senza questo eccesso non mi riconoscerebbero, ma io sento di aver dato tutto quello che potevo e che devo contenere quell’eccesso.
Lo devo a quanto resta di me, ai pochi veri affetti che mi circondano, e dunque devo contenere questa dissipazione.
Ho detto contenere l’eccesso, non rinunciarvi, perché avverto seriamente per la prima volta, il rischio concreto di una morte precoce.
[Milano, notte del 17 maggio 2017]