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domenica 8 aprile 2018


A Gaza si muore e l’Onu tace.
di Patrizia Cecconi

Foto di Patrizia Cecconi

In questo momento, ora locale 2 del pomeriggio, si stanno svolgendo i funerali dell’ultima mattanza israeliana, regolarmente e impunemente annunciata, in risposta alla marcia pacifica del popolo di Gaza che chiede il rispetto delle Risoluzioni Onu. Ma l’Onu, al di là della ridondanza del nome e dei palazzi che occupa, è un’organizzazione timida, e di fronte a Israele si limita, quando lo fa, ad esprimere qualche rimprovero, e generalmente a posteriori! Chiunque conosca anche soltanto l’alfabeto del Diritto, sa che senza sanzioni non c’è efficacia della norma. Anche all’Onu lo sanno bene e infatti in molti casi le sanzioni scattano anche per una sola Risoluzione violata. Ma Israele no, Israele ne ha violate molte decine, praticamente tutte quelle che lo riguardano e questa continua violazione senza sanzioni è in parte la causa del discredito ormai evidente che ha reso l’Organizzazione delle Nazioni Unite simile a un orso addestrato, capace di mostrare la sua imponente figura, ma muovendo i passi decisi dal suo addestratore. Questo è il regalo che Israele ha fatto al mondo, mentre sua intenzione era soltanto quella di liberarsi dei palestinesi scomodi.
Ieri, secondo venerdì della “grande marcia del ritorno” l’esercito israeliano ha ferito ancora un migliaio di manifestanti pacifici e ne ha uccisi almeno sette. Il numero potrebbe crescere anche mentre noi scriviamo, perché pare che alcuni dei proiettili usati siano del tipo butterfly, vietati. Ma questo non è un problema per chi ha usato il fosforo bianco per bruciare vivi un bel numero di bambini nell’ultima aggressione militare. Pare che anche Yaser Muntaja, il giovane giornalista palestinese ucciso ieri mentre filmava la marcia a Khuza’a, nei pressi di Khan Younis, sia stato colpito all’addome da un proiettile butterfly. Così ci dicono dall’European Gaza Hospital in cui hanno provato a salvarlo, ma senza successo.
Yaser portava il giubbetto con la scritta PRESS e quindi era ben riconoscibile. Qui a Gaza molti avanzano l’ipotesi che proprio quella scritta l’abbia reso target per i cecchini. Non sappiamo se ciò sia vero, ma sappiamo quanto Israele tema il resoconto reale dei fatti, capace di interrompere la vulgata offerta dagli opinion makers internazionali tra cui, triste a dirsi, quelli italiani brillano.
L’Italia delle testate mediatiche importanti non ha nessun inviato nella Striscia di Gaza per cui le notizie fornite non sono testimonianze ma solo opinioni, opinioni acquisite sotto dettatura e contrastanti con quella realtà che Yaser Muntaja spandeva per il mondo attraverso i social. Con lui sono stati feriti altri giornalisti palestinesi col giubbetto ben in vista e questo rinforza l’ipotesi che quella scritta sia stata un target piuttosto che una protezione, visibile nonostante il fumo nero di migliaia di pneumatici bruciati come tattica difensiva dai manifestanti. Proprio due giorni fa testimoniavamo la determinazione a resistere verificata di persona a Khuza’a e osservata durante una delle normali serate del “popolo degli accampamenti” che partecipa alla grande marcia. E proprio a Khuza’a, cittadina massacrata oltre ogni dire durante l’aggressione del 2014, è stata spenta la voce di un testimone mediatico tanto bravo quanto scomodo. Questo venerdì la nostra testimonianza riguarda il concentramento di Al Breji, Nusseirat, nella zona centrale della Striscia, dove l’esercito occupante ha fatto 5 martiri la scorsa settimana e 2 ieri oltre a 118 feriti. Quel che abbiamo potuto osservare, e che è testimoniato da migliaia di foto che girano nei social oltre alle nostre, è stata  la tattica difensiva usata dai gazawi per limitare gli effetti micidiali dei tiratori scelti: un nutrito gruppo di giovani uomini e donne, facendosi scudo col fumo dei copertoni, si è avvicinato il più possibile al border, restando più o meno a cento metri,  sempre all’interno della linea d’assedio, e lì ha dato fuoco a centinaia di pneumatici. Dietro di loro e per una distanza di diverse centinaia di metri, si svolgeva il pacifico e quasi festaiolo concentramento di qualche migliaio di manifestanti. I lacrimogeni superavano comunque la cortina di fumo e arrivavano all’interno della pacifica manifestazione  colpendo anche chi stava semplicemente osservando. I nuovi gas usati da Israele sono micidiali e se inalati senza protezione provocano delle strane convulsioni che i medici dello Shifa Hospital stanno cercando di curare. Le maschere artigianali fatte indossare ai bambini hanno una loro efficacia ma solo se l’uso dei gas non è massiccio. Tra fumo nero dei copertoni, fumo bianco dei lacrimogeni, diversi colpi di fucile sparati dai cecchini, sirene delle ambulanze che raccoglievano i feriti,  tende con i nomi dei villaggi distrutti e solenne e commossa  commemorazione dei 5 martiri dello scorso venerdì, la manifestazione ha seguitato a svolgersi incredibilmente come una grande festa. Bancarelle con i falafel, i lupini e le nocciole, bancarelle e carretti con frutta fresca, musica, caffè e perfino un clown che mostrava ai bambini come indossare la maschera quasi-anti-gas e, infine, una cosa che forse in occidente sembrerà incredibile: il barbiere mobile. Sì, alla grande marcia per il diritto al ritorno ci si può anche sedere e far tagliare i capelli. Dietro la sedia, il cartello col prezzo e il nome del barbiere. Questa scena ci ha regalato un sorriso, anche se poco prima un candelotto israeliano ci aveva spaccato il parabrezza nonostante fossimo a notevole distanza dalla linea di fuoco. Mi sono chiesta come ci si possa illudere di sconfiggere un popolo così!  Passi per le bancarelle, l’offerta del caffè e pure il clown, ma il barbiere da manifestazione è il massimo. O li ammazzano tutti o non ce la potranno mai fare!


Dopo il tramonto, quando ormai si spera che l’esercito si ritiri, si va all’ospedale  Al Aqsa, dove le ambulanze della zona centrale portano i feriti. Da un’ambulanza è caduta una scarpa. E’ insanguinata. Quando si muore il piede si rattrappisce e si perdono le scarpe.  E’ la scarpa di uno dei due martiri che non ce l’hanno fatta. Vengono portati via correndo su una barella coperta da un telo diventato rosso di sangue. Corrono tutti, sia fuori che dentro l’ospedale. Molti sono volontari. Molti lo sono pur essendo dipendenti dell’ospedale, perché non prendono più lo stipendio in seguito ai tagli dell’UNRWA e alla politica punitiva di Ramallah che l’attentato-farsa del mese scorso ha ottusamente rilanciato.
Non prendono salario né alcuni infermieri né alcuni medici ma non fa niente, sono lì e cercano di ridurre il danno su corpi centrati dai cecchini israeliani. Centrati in modo che sembra scientifico: il bacino, con conseguente asportazione o riduzione della funzionalità dell’apparato genitale, e le gambe nei punti giusti per restare invalidi, come la rotula. Stentiamo a credere che sia voluto e quindi ci limitiamo a riferire quanto ci viene detto dal personale sanitario. Non obiettiamo. Ci troviamo di fronte a situazioni troppo tristi per farlo, come l’uomo cui hanno dovuto amputare entrambe le gambe, il giovane in coma farmaceutico operato al bacino e alla gamba e a rischio di sopravvivenza, l’uomo operato alla gamba che sa di restare invalido e ha 6 bambini, quello operato al fegato per un proiettile che gli ha attraversato il corpo lasciandolo vivo, e anche il ragazzo che non sa come uscirà dall’ospedale né quando né se, ma che riesce a fare un sorriso e a dire shukran, cioè grazie per il supporto dell’Italia.
Per pura umana comprensione non precisiamo che il nostro governo è complice di Israele, ma diciamo soltanto che il popolo italiano che conosce la situazione è con loro.  Anche i medici ci ringraziano, e chi scrive non ha il cuore di dirgli che non è l’Italia intesa come Stato né tanto meno come governo a mandare il suo saluto, ma solo quel pezzetto d’Italia che esce dalla narrazione israeliana ed è solidale con la loro lotta. Non possiamo dirglielo in questo momento. Le parole giuste da dire alle famiglie non ci sono, o almeno chi scrive non le trova, ma l’interprete è bravissima e riesce a trasmettere in arabo quello che in inglese suona solo come frase di circostanza. Usciamo e sappiamo che se la rete ce lo consentirà passeremo la notte a scaricare video e foto per testimoniare di un’altra giornata che poteva essere di festa se la legalità internazionale avesse vinto sulla legge del più forte.
Uscendo i nostri occhi cadono ancora su quella scarpa sporca di sangue. È una scarpa da ginnastica, è quasi nuova. Forse portava i passi di un altro sognatore oggi diventato martire. Come Yasser, il giornalista ucciso a Khuza’a, o come Mohammed, lo scultore ucciso lo scorso venerdì. O come tutti gli altri martiri di questa marcia che avendo vinto la paura seguitano ad andare a mani nude di fronte a un nemico armato e micidiale per chiedere al mondo di svegliarsi.